“L’amico del popolo”, 1 novembre 2017

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

THE DEAD (Gente di Dublino, USA, 1987), regia di John Huston. Sceneggiatura: Tony Huston. Fotografia: Fred Murphy. Montaggio: Roberto Silvi. Musiche: Alex North. Con: Anjelica Huston, Donal McCann, Dan O'Herlihy, Donal Donnelly, Helena Carroll, Cathleen Delaney, Ingrid Craigie, Marie Kean, Frank Patterson, Sean McClory, Kate O'Toole, Maria Hayden.

A Dublino nel 1904 in una serata in prossimità del Natale, si svolge la tradizionale festa, che tre signorine della buona borghesia, due anziane sorelle, Kate e Julia Morkan, e la loro nipote Mary Jane, offrono ogni anno per amici e parenti. Si fa musica, si balla e si partecipa ad un ottimo pranzo, preparato completamente dalle padrone di casa. Gabriel Conroy, nipote prediletto delle signorine Morkan, e sua moglie Gretta sono gli ospiti principali e aiutano a ricevere gli invitati. Soprattutto è insostituibile Gabriel, incaricato dalle zie di svolgere incarichi delicati, come sorvegliare Freddy Matines, un caro amico troppo spesso ubriaco, o tagliare al momento opportuno l'oca arrosto, e, infine, pronunciare il discorsetto ufficiale. Egli è un uomo mediocre e tranquillo e fa tutto questo con la solita gentilezza e premura, mentre guarda ogni tanto soddisfatto la sua bella moglie, che partecipa alla riunione con un certo distacco. La conversazione è vivace e si parla molto di musica, essendo le padrone di casa delle appassionate musiciste. C'è anche un noto tenore, fra gli ospiti, ma sembra non voglia esibirsi, mentre la vecchia zia Julia, con voce molto flebile, canta una celebre aria in modo patetico. Tutti lodano l'ospitalità squisita delle tre signorine e il successo della festa. Poi viene l'ora di andarsene: Gabriel e Gretta sono rimasti fra gli ultimi e, poiché abitano lontano, per quella notte andranno all'albergo. Il marito è già pronto ad uscire e aspetta nell'ingresso la moglie, ma la vede fermarsi sulla scala all'improvviso, a poca distanza da lui: in quel momento il tenore, in una stanza al piano di sopra, ha iniziato a cantare una vecchia e triste canzone irlandese, e Gabriel scorge chiaramente che, ascoltandola, Gretta è commossa fino alle lacrime. Poi i due coniugi raggiungono in carrozza l'albergo, mentre nevica abbondantemente. Gabriel, vedendo la moglie sempre assorta e triste, le chiede il perché del suo turbamento, e Gretta gli racconta, piangendo, che la canzone ascoltata le veniva cantata un tempo da un giovane che l'amava, quando lei, fanciulla, abitava con la nonna in un piccolo paese, e questo tenero e puro legame aveva dovuto interrompersi, quando lei era stata costretta a partire per venire in collegio a Dublino. Disperato per un addio, che prevedeva definitivo, Michael (così si chiamava il ragazzo), pur essendo ammalato molto gravemente, aveva passato un'intera giornata sotto la pioggia per rivederla un'ultima volta, e in quel colloquio le aveva confessato che non desiderava più vivere. Infatti, pochi giorni dopo l'arrivo in collegio, Gretta aveva saputo che egli era morto. Mentre Gabriel, sempre più turbato, ascolta il racconto, la moglie continua a piangere disperata. Finalmente, poi, si addormenta. Gabriel, invece, rimane a lungo sveglio, guardando la neve cadere e pensando a questo idillio di cui non sapeva nulla. Evidentemente c'è un lato di Gretta che lui non conosce e che lo preoccupa: questo amore lontano, questo Michael, che è morto, è in realtà più vivo di lui e Gretta ne è ancora affascinata. Il marito guarda con tenerezza il viso della moglie, che sarà stato certo bellissimo quando ha ispirato un sentimento così profondo, ma ora comincia già a sfiorire un poco. E intanto nevica, nevica su tutta l'Irlanda, anche sul piccolo cimitero in collina, dove Michael è seppellito.

"Questo film è uno struggente e romantico saggio sul morire, pieno di sottile malinconia. Bravi tutti gli interpreti. La musica è assai suggestiva ed è lodevole la cura nel rendere l'ambientazione nella Dublino primi '900."

(Segnalazioni Cinematografiche, vol. 104, 1988)

"Curiosamente, fin da quando fu presentato a Venezia, nel 1987, alla presenza, possente e struggente, di John Huston in sedia a rotelle (sarebbe morto qualche mese dopo), 'The Dead. Gente di Dublino' è stato riconosciuto da tutti come la forma perfetta di trascrizione letteraria. Per molte ragioni: a partire dal fatto che la sua durata (82 minuti) coincide quasi con il tempo di lettura del racconto lungo di James Joyce 'I dublinesi' (1914) a cui Huston si è ispirato. E suo figlio Tony, quello che ora conosciamo come attore, scrivendo la sceneggiatura, non ha dovuto esercitare la compressione che così spesso snatura il testo letterario e si è potuto abbandonare al flusso narrativo di Joyce, ai suoi tempi alla sua voce. Ma, ovviamente, c'è assai di più: c'è il sentimento così forte della morte, che John Huston viveva in maniera stoica e laica, c'è il senso del ricordo, c'è l'importanza di quello che lasciamo attraverso la memoria. E c'è, ricostruita in studio ma poetica e mirabile, la vecchia Dublino, una cena di Natale, i parenti, le vecchiezze, le chiacchiere, l'irruzione dei ricordi di Gretta, una meravigliosa Angelica Huston, che rievoca per se stessa e poi per il marito un amore giovanile finito drammaticamente, facendogli capire l'essenza della vera passione. Un film semplice, toccante, un atto d'amore per la patria adottiva di John Huston, un capolavoro di atmosfera."

(Irene Bignardi, "Il Venerdì", 5 gennaio 2007)

“Benché sia difficile immaginare Huston come David Lean, attentissimo allo scrutinio degli aggettivi nel testo e alla loro riduzione cinematografica, capace di ripetere più volte una stessa inquadratura se la sciarpa di Miss Adela in Passaggio in India non svetta dall'automobile così come la descrive Forster, benché, insomma, la mitologia del vecchio leone della macchina da presa lo voglia essenziale ed economico nelle riprese, amante delle buone sceneggiature ma disponibilissimo a farle scrivere agli altri senza sentirsi menomato nella sua dignità d'autore, malgrado ciò, The Dead è un capolavoro di fedeltà al testo, o meglio uno straordinario modello di lucidità e strategie nel passaggio dalla letteratura al cinema. In realtà il testo di Joyce (accarezzato anche da progetti di Antonioni) sembra a prima vista quasi un testo ideale per riduzioni cinematografiche-teatrali: si svolge in una rigorosa unità di spazi e l'uso del discorso libero indiretto, alternato al ricorso calibrato ma continuo ai dialoghi, non sembra presentare drammatici problemi di trasposizione come spesso invece accade alla letteratura contemporanea. A questo aspetto formale di superficie fa da contraltare però una sostanziale esilità dell'azione (lo stesso Huston diceva che l'azione più rilevante del racconto è il passaggio di bicchieri di porto per la tavola), l'obbligo di un montaggio lineare per semplice accumulo di microeventi che si alternano e si modificano nel medesimo ambiente, oltre alla difficoltà di dover riempire i vuoti del “traliccio” della scrittura (...), ovvero di risolvere cinematograficamente le digressioni e quanto di indeterminato e indefinito appartiene alla scrittura. Benché The Dead sia fondamentalmente un racconto di descrizioni, costantemente si avverte il peso del punto di vista del protagonista, Gabriel, i cui ricordi e le cui valutazioni sono un impercettibile contrappunto dell'azione, fino a diventare completamente protagonisti nel finale. Per usare la terminologia di Genette (...) ampiamente adottata nella critica e nella teoria cinematografica, The Dead ha perlopiù una narrazione a focalizzazione fissa e interna (per quanto l'applicazione di tale nozione al film non è priva di legittime problematizzazioni (...), ovvero tutto ciò che sappiamo e vediamo passa attraverso gli occhi e la coscienza di Gabriel. Per certi versi la gradualità di questa focalizzazione che cresce nella parte finale, è un po' il cuore del film, nel senso che solo alla fine scopriamo che la sua drammaticità è generata dal fraintendimento che porta Gabriel a immaginare una errata corrispondenza di stati d'animo con la moglie Gretta e a scoprire (sapere, sentire) qualcosa che riguarda la vita di questa e che è destinato a modificare profondamente il suo punto di vista su di lei. La scoperta di non aver mai visto davvero Gretta, il desiderio di vedere qualcuno come ormai non è più possibile farlo, di vedere un volto che non si può più vedere.

Ma procediamo con ordine. Ad un primo e immediato esame quelle di Huston e del figlio Tony, cui si deve la sceneggiatura, appaiono scelte obbligate e naturali. Entrambi sembrano risolvere la trasposizione su un piano quasi esclusivamente denotativo: la successione delle azioni corrisponde perlopiù al montaggio del racconto, la ricostruzione dell'ambiente è perfettamente verosimile, la sostanza e spesso la letteralità dei dialoghi è quasi sempre conservata. Se devono tradurre in immagini l'ansia di Gabriel per il discorso finale, gli fanno leggere e rileggere il fogliettino con gli appunti e per descrivere la tavolata è d'obbligo un breve carrello. Così come ampiamente rispettata è la prevalenza di campi medi, l'uso molto ridotto dei dettagli che è già nel testo o il ricorso mirato a movimenti ravvicinati e primi piani (la commozione delle signorine Morkan, alcuni momenti del protagonista).

Tuttavia ad una analisi in profondità l'adattamento rivela un'intelligenza ed un progetto decisamente più interessanti. I criteri di fedeltà allo “spirito” del racconto vengono individuati con grande pertinenza. Innanzitutto c'è un lavoro molto raffinato di vero e proprio “trattamento”: le “gaffes” di Freddy Malins, i suoi battibecchi con Mr. Browne sono considerevolmente aumentati di numero rispetto all'originale, nel quale non troverete ad esempio la scena di Freddy nel bagno e neanche il breve e stizzito dialogo con la madre. Così come non troverete l'accenno che la madre di Freddy fa a Gabriel riguardo alla sua delusione nel vederli ora così diversi dopo averli visti crescere insieme. Nel racconto originale non c'è neanche il vetturino che viene da fuori Dublino o il battibecco tra Browne e Freddy, che il primo chiama ripetutamente “Teddy” (come nel racconto).

Sono particolari che compongono il disegno di una trasposizione che agisce direttamente sul piacere del testo e sulla memoria che ne ha il lettore. Si tratta semplicemente di aggiungere qualcosa all'originale, di prolungarne i tratti creando la fittizia soddisfazione di scoprire ancora qualcosa di nuovo nel racconto. Anche per chi conosce piuttosto bene il racconto, è molto difficile notare le aggiunte, le dilatazioni, i prestiti illeciti, perché essi sono praticati in quella sfera intermedia che potremmo chiamare “immaginario” del testo che non appartiene più semplicemente al testo ma al lavoro che il lettore vi ha prodotto con la sua lettura e il deposito di scena che esso ha generato nella memoria del lettore stesso.

È come se Huston padre e figlio si fossero posti di fronte al racconto come ad una topografia narrativa, la piantina di una abitazione, decidendo di trasformarne la fisionomia abbattendo un muro qui, aggiungendo lì una nuova camera, allestendovi nuovi angoli e modificando senza stravolgerlo l'arredamento interno. Lo spettatore più esigente, in simili operazioni, è sempre lo spettatore che ha amato e letto il testo, ed è proprio a questi che l'adattamento sembra aver pensato prima di tutto (anche perché gli autori sono essi stessi i primi rappresentanti di questo tipo di lettore). Dopo aver visto il film a Venezia ero sicuro di aver goduto del rispetto di alcuni particolari (il vetturino che non sa la strada, Mr. Browne ubriaco su di un pianerottolo, alcune battute di Miss Malins) che invece, con grande sorpresa, non ho ritrovato leggendo il racconto per l'ennesima volta.

Ma non meno interessante ed efficace appare l'interpretazione del testo, il rafforzamento delle, linee fondamentali che ne costituiscono il senso.

Nel testo originale non troveremo neanche l'accenno a Verdi, nella discussione a tavola, non troveremo - più ovviamente - il testo della canzone che canta zia Julia, Azzimiamoci per lo sposalizio, e non troveremo neanche la poesia (“false promesse”), recitata da Mr. Grace. Quest'ultima è la prima di tre apparizioni vocali che imprimono all'intero film quel ritmo semplice ma straordinario basato sull'alternanza di azione (dialogo, musica, descrizione dei vari personaggi), e voce che si staglia sul silenzio (prima la poesia di Mr. Grace, poi l'esibizione di zia Giulia, poi il discorso di Gabriel; in realtà il ritmo è ancora più complesso poiché si basa sulla successione di voce recitante - Mr. Grace, Gabriel - e canto - zia Giulia, il tenore Bartell d'Arcy che accenna il motivo che scatena in Gretta la nostalgia e la colpa per l'amante defunto). Per certi versi questo ritmo si spezza proprio nel finale - se si considera il semplice accenno del tenore, una frantumazione di questo ritmo stesso poiché l'ultima apparizione, la più tragica, è quella del ricordo che riporta alla memoria l'immagine del ragazzo che canta sotto la pioggia, e che il film non farà mai vedere (e che il protagonista, come lo spettatore, non ha mai visto). Il motivo del canto, abbinato alla scomparsa, alla perdita definitiva e alla morte, compare in realtà in più punti del racconto, quando zia Julia accenna alla sua voce da giovane, ma soprattutto a tavola, quando si parla - nel film non di meno che nel racconto - della qualità della voce dei tenori del passato, e soprattutto della figura di Georgina Burns, eccelsa cantante morta in gioventù (che è una chiara prefigurazione del ricordo tragico che emerge nel finale). Gli Huston rafforzano questo motivo con un consapevole rafforzamento dell'elemento della voce, sottolineato dal montaggio narrativo del film e dalla sua alternanza di irruzioni vocali e quadri descrittivi in cui si fanno largo, con misteriosa intensità, l'impatto suggestivo della voce che risuona nel silenzio e nell'assenza di rumore dell'esterno dove nevica senza suoni, il ritorno ossessivo e straziante del canto (con una citazione dotta dall'Ulisse, sulle immagini che accompagnano la canzone di Zia Julia, “vecchi ventagli di piume, carnet di ballo, con le nappe, incipriati di muschio, un fronzolo di chicchi d'ambra nel cassetto chiuso a chiave”, sono le reliquie della madre scomparsa come le immagina il giovane Dedalus dell'Ulisse), e soprattutto il monologo finale in fuori campo, in cui la scena è ridotta a paesaggi che si accumulano come neve dissolvendo l'uno sull'altro, e il suono della voce interiore di Gabriel [il ritorno della voce recitante che chiude il discorso vocale: la poesia di Mr. Grace (A), la canzone di zia Julia (B), il discorso di Gabriel (A), il motivo accennato da d'Arcy (B), e quindi di nuovo la voce di Gabriel nel finale (A)], che si sostituisce all'assenza di quella voce che non si può più sentire (il ricordo del giovane amante sotto la pioggia), di quel volto che non si potrà più vedere. Ciò che fa del racconto di Joyce qualcosa di più cruciale di un colto esercizio naturalistico che trascolora in quella drammaturgia dell'ambiguità dello scacco, del fraintendimento, nella cui costellazione potrebbero essere sistemati Pirandello o Cechov, è il punto di partenza, il principio di cui si alimenta: un sentimento banale e irresistibile che rende ciò che accade oggi sempre più piatto e incolore di ciò che è accaduto ieri, l'amore angoscioso per ciò che si è dissolto e consumato e la sensazione che un giorno gli stessi che provano questo sentimento ne diverranno oggetto. The Dead è il canto attonito della perdita e della bellezza di ciò che è morto, la potenza e il dolore della sua voce”.

(Mario Sesti, Cineforum n. 270, 12/1987)

 

Una poesia al giorno

Matrimonio, di Gregory Corso (Traduzione di Fernanda Pivano)

Devo sposarmi? Devo essere buono?
Far colpo vestito di velluto e cappuccio da Faust sulla ragazza che abita accanto?
Portarla a cimitero invece che al cinema
dirle tutto su lupi mannari vasche da bagno e clarinetti biforcuti
poi desiderarla e baciarla e tutti i preliminari
e lei che arriva solo fino a un certo punto e io capisco perché
e non mi arrabbio dicendo Devi sentire! È bello sentire!
Invece la prendo tra le braccia mi appoggio a una vecchia tomba contorta
E corteggio lei la notte intera le costellazioni nel cielo –

Quando mi presenta ai suoi genitori
schiena ritta, capelli finalmente ravviati, strangolato da una cravatta,
devo sedere a ginocchia unite sul loro sofà da 3º grado
e non domandare Dov’è il bagno?
Come sentirmi se non come sono,
pensando spesso al sapone Flash Gordon –
O come dev’essere orribile per un giovanotto
seduto davanti a una famiglia e la famiglia che pensa
Non l’abbiamo mai visto! Vuole la nostra Mery Lou!
Dopo il tè e i dolci fatti in casa mi chiedono Come ti guadagni la vita?
Devo dirglielo? Gli sarei simpatico, dopo?
Direbbero Va bene sposatevi, perdiamo una figlia
ma guadagniamo un figlio –
E devo domandare allora Dov’è il bagno?

Dio, e il matrimonio! Tutta la famiglia e i suoi amici
e solo un pugno dei miei, tutti scrocconi e barbuti
che aspettano soltanto cibi e bevande –
E il prete! Mi guarda quasi mi masturbassi
nel chiedermi Vuoi questa donna per tua legittima sposa?
E io tremante che dire direi Torta Colla!
Bacio la sposa tutti quegli arrapati giù manate sulla schiena
È tutta tua, ragazzo! Ah-ah-ah!
E nei loro occhi si vede qualche oscena luna di miele in atto –
Poi tutto quell’assurdo riso e lattine che sbattono e scarpe
Cascate del Niagara! Orde di noi! Mariti! Mogli! Cioccolatini!
Tutti che affollano alberghi accoglienti
Tutti a fare la stessa cosa stanotte
L’impiegato indifferente che sa cosa sta per succedere
Gli idioti nella hall che lo sanno
Il fattorino dell’ascensore che lo sa fischiettando
Il portiere ammiccante che lo sa
Tutti lo sanno! Mi vien quasi voglia di non fare niente!
Stare alzato tutta la notte! Fissare negli occhi quell’impiegato d’albergo!
Gridando: Io nego la luna di miele! Io nego la luna di miele!
correndo aggressivo in quegli appartamenti quasi eccitati
urlando Pancia Radio! Zappa gatto!
Oh vivrei a Niagara per sempre! in una buia caverna sotto le Cascate
mi siederei il pazzo Lunatoredimiele
e escogitar modi per rompere matrimoni, fustigatore di bigamia
santo del divorzio –

Ma devo sposarmi essere buono
Che bello sarebbe tornare a casa da lei
e sedermi vicino al fuoco mentre lei in cuicna
col grembiule giovane e bella vuole un mio figlio
e così felice per me da far bruciare il roast-beef
e viene a piangere da me e io mi alzo dalla grande sedia di padre
e dico Denti Natale! Cervelli radiosi! Mela sorda!
Dio che marito sarei! Sì, devo sposarmi!
Tanto da fare! per esempio entrare in casa di Mr. Jones a tarda notte
e coprirgli le mazze da golf di libri norvegesi 1920
o appendere una foto di Rimbaud alla falciatrice
o incollare francobolli di Tannu Tuva su tutto lo steccato di cinta
o quando viene la Signota Kindhead per la colletta del Fondo della Comunità
afferrarla e dirle Ci sono presagi sinistri nel cielo!
E quando il sindaco viene a chiedermi il voto dirgli
Quando li farai smettere di uccidere balene!
E quando viene il lattaio lasciargli un appunto nella bottiglia
Polvere di pinguino, portami polvere di pinguino, voglio polvere di pinguino –

Eppure se dovessi sposarmi e fosse il Connecticut e la neve
e lei partorisse un bambino e io non potessi dormire, esausto,
in piedi la notte, il capo su una muta finestra, il passato alle spalle,
trovandomi tremante nella situazione più solita
consapevole di responsabilità non rametto sporco né minestra di moneta Romana
O cosa sarebbe!
Certo gli darei per capezzolo un Tacito di gomma
Per sonaglio un sacco di dischi rotti di Bach
Attaccherei Della Francesca intorno alla culla
Cucirei l’alfabeto greco sul suo bavaglino
E per il suo passaggino costruirei un Partenone senza tetto

No, non credo che sarei quel tipo di padre
niente campagna niente neve niente muta finestra
ma rovente puzzolente isterica New York City
sette piani di scale, scarafaggi e topi sui muri
una grassa moglie reichiana che strilla da sulle patate Trovati un posto!

E cinque bambini mocciosi innamorati di Batman
E i vicini sdentati e forforosi
come quelle masse stracciate del 18º secolo
tutti che vogliono entrare e guardare la TV
Il padrone vuole l’affitto
Drogheria Gas Blue Cross & Electric Knights of Columbus
Impossibile sdraiarsi a sognare neve del Telefono, parcheggio fantasma –

No! Non devo sposarmi non devo sposarmi mai!
Ma – e Se fossi sposato a una bella donna sofisticata
alta a pallida in un vestito nero elegante e lunghi guanti neri
con un bocchino in mano e un bicchiere nell’altra
e vivessimo in una penthouse con un’enorme finestra
da cui vedere tutta New York e anche oltre nelle giornate serene
Non non riesco ad immaginarmi sposato a quel piacevole sogno prigione –

Ma e l’amore? Dimentico l’amore
non che sia incapace di amore
è solo che l’amore per me è strano come portare scarpe –
non ho mai voluto sposare una ragazza che somigliasse a mia madre
E Ingrid Bergman mi è sempre stata impossibile
E forse adesso c’è una ragazza ma è già sposata
E non mi piacciono gli uomini e...
ma ci deve essere qualcuno!
Perché e se a 60 anni non sono sposato,
tutto solo in una camera ammobiliata con macchie di piscio nelle mutande
e tutti gli altri sposati! Tutto l’universo sposato all’infuori di me!

Ah, eppure so bene che se ci fosse una donna possibile come io sono possibile
allora il matrimonio sarebbe possibile –
Come LEI nel suo solitario fasto esotico aspetta l’amante egiziano
così come aspetto io – privo di 2000 anni e del bagno della vita.

 

Un fatto al giorno

1° novembre 1604: La tragedia di William Shakespeare "Othello" viene eseguita per la prima volta al Whitehall Palace di Londra. “La tragedia di Shakespeare, in prosa e versi, fu rappresentata per la prima volta nel 1604 davanti a Giacomo I re d’Inghilterra. La fonte era una novella del 1564 di uno scrittore italiano, Giovan Battista Giraldi Cinzio.
L’amore e la gelosia del moro Otello per la bianca Desdemona e il tradimento del falso amico Iago sono presentati in un intreccio così coinvolgente e così amato dal pubblico da aver in seguito più volte suggerito ad altri autori il desiderio di raccontare ancora questa storia in rifacimenti, in altre opere teatrali o in drammi musicali, da Jean-François Ducis (1733) a Giuseppe Verdi (1887), con infinite varianti, tra cui perfino il lieto fine (Francesco Maria Berio di Salza librettista dell’opera di Gioacchino Rossini del 1816). Come se ognuno di loro avesse pensato di migliorare il materiale misteriosamente avvincente di Shakespeare”.

Otello - Gioachino Rossini, 1988: www.youtube.com

Otello - Chris Merritt
Desdemona - June Anderson
Iago - Ezio Di Cesare
Rodrigo - Rockwell Blake
Emilia - Raquel Pierotti
Elmiro - Giorgio Surjan
Lucio - Eugenio Favano
Doge - Francesco Piccoli
Gondoliero - Enrico Facini
Direttore- John Pritchard
Orchestra - RAI Torino
Coro

 

Una frase al giorno

“Nei linguaggi del suono e della musica non vedo grandi differenze. A volte la canzonetta, che viene banalmente presentata come una cosa minore, è in realtà assai più bella e riuscita di tante pretenziose opere della grande musica. Lo capì perfettamente Proust che a proposito della musica popolare disse: è la grazia e il pensiero per milioni di persone”.

(Silvano Bussotti, detto Sylvano, Firenze, 1º ottobre 1931, è un compositore e artista italiano. Figura decisamente poliedrica, Bussotti è anche conosciuto come pittore, poeta, romanziere, regista teatrale e di film, attore, cantante, scenografo e costumista. E' Accademico Effettivo dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia)

 

Un brano al giorno

Pierre Baillot, "Variaciones sobre un Aria rusa, Op. 11". Russian Baroque Ensemble. Olga Khomenka, direttore.

Pierre Marie François de Sales Baillot (Passy, 1 ottobre 1771 - Parigi, 15 settembre 1842) è stato un violinista e compositore francese.

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

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Ugo Brusaporco

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