“L’amico del popolo”, 10 gennaio 2018

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno II. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

METROPOLIS (Germania, 1927), diretto e montato da Fritz Lang. Sceneggiatura: Fritz Lang, Thea von Harbou. Fotografia: Karl Freund, Günther Rittau; effetti speciali: Eugen Schüfftan; scenografia: Otto Hunte, Erich Kettelhut, Karl Vollbrecht; costumi: Aenne Willkomm; musica: Gottfried Huppertz. Con: Brigitte Helm (Maria/il robot), Alfred Abel (Johann Fredersen), Gustav Fröhlich (Freder), Rudolf Klein-Rogge (Rotwang), Heinrich George (Grot), Fritz Rasp (uomo magro), Theodor Loos (Josaphat), Erwin Biswanger (Georg), Olaf Storm (Jan), Hanns Leo Reich (Marinus), Heinrich Gotho (maestro di cerimonie), Margarete Lanner.

Nella città di Metropolis la società è divisa in due classi: un'elite oziosa che vive nei grattacieli e gli operai schiavizzati che faticano nel sottosuolo. A capo della città è Joh Fredersen, che dall'alto della grande torre di Babele controlla le attività produttive. Suo figlio Freder vede casualmente emergere dalle profondità di Metropolis un gruppo di bambini poveri accompagnati da una giovane donna, Maria. Colpito dalla miseria dei ragazzi e dalla bellezza di Maria, Freder li segue nel sottosuolo. Qui scopre lo spazio della fabbrica e assiste a un'esplosione che uccide un gran numero di operai. Dopo un drammatico confronto con il padre, decide di scambiare la propria vita con quella di un operaio.
Intanto Joh Fredersen viene a sapere di misteriosi documenti trovati nelle tasche degli operai morti. Allarmato, fa visita al suo antico rivale, lo scienziato Rotwang, che gli mostra un robot di sua produzione. Gli rivela che i documenti sono in realtà le mappe di antiche catacombe scavate nel livello più profondo della città. I due scendono nelle catacombe dove spiano Maria mentre predica agli operai annunciando il prossimo arrivo di un "Mediatore" in grado di unire le classi. Fra gli operai, camuffato, c'è Freder. Dopo il sermone rivela a Maria di essere lui il predestinato.
Fredersen chiede a Rotwang di dare al robot le sembianze di Maria in modo da seminare discordia fra lei e gli operai. Rotwang cattura Maria trasformando l'automa in un suo doppio. Ma Rotwang cova nei confronti del tiranno di Metropolis un'antica vendetta, da quando questi molti anni prima gli aveva sottratto l'amata.
Per vendicarsi, programma il robot per distruggere la città. Quest'ultimo aizza la rivolta operaia: i lavoratori distruggono il generatore energetico, provocando l'inondazione della città e rischiando di far affogare i loro stessi figli. Freder e la vera Maria, finalmente libera, salvano i bambini dall'inondazione. Resisi conto di quanto fatto, gli operai catturano il robot e lo bruciano sul rogo.
Rotwang insegue la vera Maria sul tetto della cattedrale, Freder viene in suo soccorso e Rotwang viene ucciso. Riconciliatosi con il padre, Freder riesce a pacificare le classi della città.

METROPOLIS (Germania, 1927), diretto e montato da Fritz Lang

Le fonti
Sia nel libro di Thea von Harbou (all'epoca moglie di Fritz Lang autrice del romanzo Metropolis e della sceneggiatura del film, n.d.r.), sia nell'intera trama del film, si possono rilevare diversi tipi d'impronta, che collegano l'intrigo alla fantascienza ma anche, in maniera contraddittoria, a diversi racconti di tipo mitico o arcaizzante.
Sul piano delle nuove tecnologie e delle reazioni che esse suscitano, tra fascinazione e paura, particolarmente significativo è il modo in cui l'inventore Rotwang crea un robot androide al quale infonde la vita attribuendogli i tratti verginali di Maria.
Oltre ai "robot" del drammaturgo ceco Karel Čapek (che aveva da poco coniato il termine, nel 1921), come ascendente possibile dell'androide è stata spesso citata l'Eva futura (1886), in cui lo scrittore Villiers de L'Isle Adam immagina la creazione di un essere di questo tipo (che egli definisce un'Andréide) da parte dell'inventore americano Edison; da qui si può risalire alla creazione del mostro di Frankenstein (nel romanzo di Mary Shelley, 1818), così come ai racconti ispirati al magico o al miracoloso più che alla scienza, come quello della creazione del Golem, o alla metamorfosi di Galatea da statua di marmo a donna in carne e ossa.
Altra fonte spesso evocata, i romanzi d'anticipazione dell'inglese H. G. Wells, La macchina del tempo (1895) e Il risveglio del dormiente (1897), che tratteggiavano come Metropolis una società duale, rigidamente divisa in una classe dirigente inattiva e decadente e un proletariato ridotto alla stregua di un animale e di una macchina.
Menzioniamo un'ultima fonte letteraria debitamente identificata dal critico tedesco Roland Schacht all'uscita del film, ma un po' sbiadita dai tagli della versione americana: Notre-Dame de Paris di Victor Hugo. La cattedrale di Metropolis (la cui collocazione rimane tuttavia imprecisata), l'opposizione tra la sua architettura gotica e il modernismo della città, il personaggio di Rotwang e i suoi ambigui rapporti con le due Maria, la massa triangolare degli operai che avanzano verso la cattedrale: sono tutti elementi che richiamano l'opera di Hugo, la sua cattedrale medioevale, la massima dell'arcidiacono Frollo, il desiderio di Frollo per Esmeralda, i mendicanti di Clopin che, disposti 'a triangolo romano', danno l'assalto a Notre Dame... Talune di queste immagini possono essere state suggerite a Thea von Harbou e Lang dall'allora recente adattamento del romanzo di Hugo firmato da Wallace Worsley per la Universal.
I riferimenti letterari più espliciti di Metropolis non hanno nulla a che vedere con la fantascienza, essendo piuttosto improntati alla Bibbia: il racconto, liberamente ispirato alla Genesi, della costruzione della torre di Babele e della confusione linguistica che ne deriva; quello della fine dei tempi, illustrato dalle citazioni dall'Apocalisse di San Giovanni; la falsa Maria che appare come l'incarnazione della meretrice di Babilonia seduta su una bestia dalle sette teste e dalle dieci corna”.

(Jean-Loup Bourget, articolo completo in METROPOLIS, Il Cinema Ritrovato)

“Metropolis non è un film unico: sono due film uniti per il ventre, ma con necessità spirituali divergenti, assolutamente antagonistiche. Quelli che considerano il cinema in quanto valido narratore di storie, patiranno con Metropolis una profonda delusione. Ciò che lì ci viene narrato è triviale, ampolloso, pedantesco, di un vieto romanticismo. Ma se all'aneddoto preferiamo lo sfondo plastico-fotogenico del film, allora Metropolis colmerà tutte le misure, ci stupirà come il più meraviglioso libro d'immagini che sia mai stato composto. Presenta, dunque, due elementi antitetici, detentori dello stesso segno nelle zone della nostra sensibilità. Il primo, che potremmo chiamare lirico-puro, è eccellente; l'altro, l'aneddotico o umano, finisce per essere irritante. Entrambi, ora simultaneamente, ora in successione, compongono l'ultima creazione di Fritz Lang. Non è la prima volta che notiamo un dualismo così sconcertante nelle opere di Lang. Esempio: nell'ineffabile poema Destino erano state interpolate delle scene disastrose, di un raffinato cattivo gusto. Se a Fritz Lang tocca il ruolo di complice, è sua moglie, la sceneggiatrice Thea von Harbou, che denunciamo come presunta autrice di questi esperimenti eclettici, di un pericoloso sincretismo.
Il film, come la cattedrale, doveva essere anonimo. Gente di ogni ordine, artisti d'ogni grado sono intervenuti per innalzare questa formidabile cattedrale del cinema moderno. Tutte le industrie, tutti gli ingegneri, folle, attori, addetti alle scene; Karl Freund, l'asso degli operatori tedeschi, con una pleiade di colleghi; scultori; (...). Lo scenografo, ultimo vestigio che il cinema ha ereditato dal teatro, qui interviene appena. Lo si indovina nelle parti peggiori di Metropolis, in quelli che vengono enfaticamente chiamati "giardini eterni", di un barocchismo delirante, di un cattivo gusto senza precedenti. Ormai lo scenografo sarà sostituito, per sempre, dall'architetto. Il cinema sarà l'interprete fedele dei più audaci sogni dell'Architettura.
L'orologio, in Metropolis, non ha che dieci ore: quelle del lavoro; e in questo ritmo a due tempi si muove la vita della città intera. Gli uomini liberi di Metropolis tiranneggiano i servi, Nibelunghi della città, che lavorano in un eterno giorno elettrico, nelle profondità della terra. Nel semplice ingranaggio della Repubblica, manca soltanto il cuore, il sentimento capace di conciliare degli estremi così incompatibili. E nel finale vedremo il figlio del direttore (cuore) unire in un abbraccio fraterno suo padre (cervello) con il capo-fabbrica (braccio). Si mescolino questi ingredienti simbolici con una buona dose di scene terrificanti, con una recitazione smisurata e teatrale, si agiti bene il composto ed avremo ottenuto l'argomento di Metropolis.
Eppure... che travolgente sinfonia del movimento! Come cantano le macchine in mezzo a incredibili trasparenze, arcotrionfate dalle scariche elettriche! Tutte le cristallerie del mondo romanticamente dissolte in riflessi riuscirono ad annidarsi nel canone moderno dello schermo. Ogni acerrimo guizzo degli acciai, la ritmica successione di ruote, di pistoni, di forme meccaniche increate, sono un'ode mirabile, una poesia nuovissima per i nostri occhi. La Fisica e la Chimica si trasformano miracolosamente in Ritmica. Non un momento di stasi. Perfino le insegne, che salgono e scendono girovaghe, poi dissolte in luci o svanite in ombre, si uniscono al movimento generale: anch'esse si fanno immagine.
A nostro giudizio, il difetto del film sta nel fatto che il regista non ha seguito l'idea realizzata da Ejzenstejn nel suo Potemkin: vale a dire che non ci ha presentato quell'attore unico, eppure pieno di novità, di possibilità, che è la folla. L'argomento di Metropolis vi si prestava. Ci siamo sorbiti, invece, una serie di personaggi devastati da passioni arbitrarie e volgari, carichi di un simbolismo a cui non corrispondevano neppur lontanamente. Con ciò non si vuol dire che in Metropolis non ci siano folle; ma sembra, però, che rispondano a una necessità decorativa, di balletto gigantesco; esse vogliono ammaliarci con le loro stupende ed equilibrate evoluzioni piuttosto che farci capire la loro anima, la loro precisa ubbidienza a stimoli più umani, più oggettivi. Malgrado ciò ci sono dei momenti - Babele, rivoluzione operaia, inseguimento finale dell'androide - in cui si realizzano perfettamente le due opposte istanze. Otto Hunte ci annichilisce con la sua colossale visione della città del 2.000. Sarà magari sbagliata, e perfino arretrata rispetto alle ultime teorie sulla città del futuro, ma, da un punto di vista fotogenico, è innegabile la sua forza emotiva, la sua inedita e sorprendente bellezza, che si avvale di una tecnica così perfetta da potersi sottoporre ad un esame prolungato senza che neppure per un istante se ne riesca a scoprire il modello plastico”.

(Luis Buñuel, in "La Gaceta Literaria", n. 9 del 1 maggio 1927. Trad. italiana in "Scritti letterari e cinematografici", Marsilio, Venezia 1984. Citato in "Fritz Lang", di Autori Vari, Edizioni Carte Segrete, 1990)

“Massimo sforzo produttivo dell'industria cinematografica tedesca, Metropolis affronta un nodo storico essenziale, gli effetti disumani dell'industrializzazione, proponendo una ricomposizione simbolica del conflitto tra tecnologia e lavoro, tra padroni e operai. Ma soprattutto si tratta di una grande esperienza di messa in scena, che punta a sviluppare e a valorizzare tutte le potenzialità tecniche, formali ed emozionali del cinema. Fritz Lang realizza uno spazio complesso e spettacolare che garantisce una sorta di monumentalizzazione degli scenari, delle situazioni e degli eventi. Le scenografie non solo disegnano la metropoli del futuro, con riferimenti a New York e all'architettura utopica del futurismo e dell'espressionismo, ma costituiscono a volte sintesi di particolare suggestione con l'architettura e l'arte europea, da Bruegel al Jugendstil, dall'arte meccanomorfa al Bauhaus. Lo spazio di Lang, realizzato anche grazie a una tecnica di effetti speciali inventata da Schüfftan, costituisce una figurazione intensiva della modernità e delle sue contraddizioni. Il regista delinea il mondo delle macchine con una forza espressiva nuova e, al tempo stesso, sviluppa le potenzialità comunicative e formali della messa in scena cinematografica, lavorando sulla composizione visiva e sui ritmi.
Le configurazioni visive puntano a costruire strutture geometriche, in cui la varietà degli elementi è ricondotta a un principio formale. Dove è possibile, inoltre, Lang tende a ricondurre gli spazi e le inquadrature a una struttura simmetrica. La distribuzione degli operai, in particolare, assume configurazioni che riflettono il modo d'essere dei lavoratori e la loro funzione sociale e politica. All'inizio essi sono disposti a rettangolo e procedono con grande lentezza, attestando così la durezza del lavoro cui sono costretti; durante la rivolta si dispongono in maniera caotica e magmatica, per sottolineare la mancanza di finalità costruttive della ribellione; infine, mentre si apprestano ad un accordo con l'industriale, si sistemano ordinatamente a cuneo, come una struttura geometrica definita e operante, capace di svolgere un ruolo sociale attivo e produttivo. Sono questi modelli di forte figurazione del visibile che distaccano nettamente Lang dall'espressionismo e sottolineano la sua intenzione di inscrivere le idee nella composizione visiva. Tali scelte registiche riflettono non solo un'affermazione della centralità della messa in scena come processo figurativo forte, ma anche una volontà di stile e un'idea di forma filmica estremamente rigorose. Come hanno detto variamente critici e cineasti legati alla Nouvelle vague, da Truffaut a Rivette, Lang rappresenta l'idea stessa di regia al massimo grado.
Al contrario la struttura narrativa e l'orizzonte immaginario del film sono stati spesso criticati in quanto semplicistici. Ma se l'assunto ideologico appare approssimativo e superficiale, altri elementi invece attivano un percorso semantico complesso e una serie di interrelazioni latenti molteplici, che aprono alla ricchezza delle significazioni. L'assunto ideologico del film, di impianto cristiano-conservatore, è invero attraversato da una serie di riferimenti che rinviano all'orizzonte della mitologia, della magia e dell'esoterismo, costituendo un tessuto simbolico di indubbia complessità.

La storia di Metropolis è anche l'avventura di una distruzione e di un importante restauro. La prima versione del film, infatti, venne ritirata dall'UFA e sostituita con una accorciata di circa 900 metri (poi ulteriormente ridotta), mentre le copie del film sparivano durante le catastrofi storiche della Germania. Il lavoro di restauro del Münchner Filmmuseum, sotto la guida di Enno Patalas, ha consentito la ricostruzione di una copia di circa 3.200 metri, che ha reintegrato molte delle procedure compositive più complesse elaborate da Lang”.

(Paolo Bertetto - Enciclopedia del Cinema, 2004, Treccani)

10 gennaio 1927: Il film di Fritz Lang Metropolis viene proiettato per la prima volta, in Germania.

METROPOLIS (Germania, 1927), diretto e montato da Fritz Lang

 
Una poesia al giorno

Ballata del sobborgo (Balada iz predgradja), di Dobriša Cesarić (Požega, 10 gennaio 1902 - Zagabria, 18 dicembre 1980)

...E versa all’angolo un fanale
Luce rossastra e gialla
Sul fango denso presso un vecchio recinto
E qualche mattone per strada.
È povera la gente che entra
In quella luce dal buio,
Con i soliti pensieri sul viso,
E in fretta l’attraversa.
Però una sera qualcuno non c’è,
E doveva passare;
Il fanale arde,
Arde nella nebbia,
Ed è notte già.
Non c’è domani, né dopodomani,
Dicono che malato giace,
Non c’è per un mese, per due mesi,
Ed è inverno,
E nevica...
Passa la gente come finora,
Già maggio odora -
Solo lui non c’è, non c’è, non c’è,
Più non ci sarà.
E versa all’angolo un fanale
Luce rossastra e gialla
Sul fango presso un vecchio recinto
E qualche mattone per strada.

Non ha scritto più di un centinaio di poesie in poco più di mezzo secolo (la maggior parte dei quali si inserisce su una sola pagina). Dobriša Cesarić era un poeta e traduttore croato, nato a Požega. Può essere considerato il fondatore della moderna poesia croata. “Con un’estetica che è cresciuta nel tempo, per perfezionare il proprio stile, è diventato un poeta che scrive sulla bellezza della vita, dell’amore e della simpatia umana. La sua prima collezione di poesie, era stata premiata come la migliore collezione di poesie dell’anno. È considerato uno dei più grandi poeti croati del XX secolo, nonostante la sua limitata produzione. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, aveva lavorato come redattore presso una casa editrice”.

(In Dobriša Cesarić - Meeting Benches)

 

Un fatto al giorno

10 gennaio 1985: il sandinista Daniel Ortega diventa presidente del Nicaragua e promette di continuare la trasformazione verso il socialismo e l'alleanza con l'Unione Sovietica e Cuba; La politica americana continua a sostenere i Contras nella loro rivolta contro il governo del Nicaragua. Daniel José Ortega Saavedra (La Libertad, 11 novembre 1945) è un politico e guerrigliero nicaraguense. È l'attuale presidente della repubblica del Nicaragua, dopo esserlo già stato dal 10 gennaio 1985 al 25 aprile 1990, durante la rivoluzione sandinista; è entrato in carica il 10 gennaio 2007. Sposato con la poetessa Rosario Murillo, politicamente è vicino alle posizioni di Hugo Chávez e Fidel Castro. Dirigente del partito sandinista Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale, è stato deputato all'Assemblea Nazionale del Nicaragua.

Parole e immagini:

 

Una frase al giorno

"Il dovere di dimenticare"

(Pina Menichelli, attrice italiana)

Pina Menichelli, attrice italiana (Castroreale, 10 gennaio 1890 - Milano, 29 agosto 1984)

“Nel 1924, la Menichelli si ritirò da ogni attività artistica per dedicarsi ai suoi doveri di madre e moglie serena, e il "dovere di dimenticare" divenne la sua parola d'ordine. Anche la morte di questa conturbante e bravissima diva dalla bella figura (non alta, ma slanciata, capelli biondissimi, grandi occhi azzurri, bocca sensuale, naso un po' aquilino), avvenuta a Milano all'età di 94 anni, passò inosservata”.

Pina Menichelli, all'anagrafe Giuseppa Iolanda Menichelli (Castroreale, 10 gennaio 1890 - Milano, 29 agosto 1984), è stata un'attrice italiana del cinema muto, figura di primo piano nel sistema divistico assieme a Lyda Borelli e Francesca Bertini. Appartenente ad un'importante dinastia di attori teatrali, il cui capostipite fu Nicola Menichelli, apprezzato comico della metà del Settecento, e della quale ignota rimane l'origine geografica precisa, Pina Menichelli, nacque da Cesare e Francesca Malvica, attori girovaghi, a Castroreale, antico comune della provincia di Messina, il 10 gennaio 1890. Essendo figlia d'arte, la Menichelli incominciò a recitare fin da bambina, ma la sua vera carriera artistica ebbe inizio nel 1907 quando fu scritturata come giovane amorosa nella compagnia teatrale di Irma Gramatica e Flavio Andò. Dopo alcune esperienze in varie compagnie teatrali, intraprese un cammino cinematografico grazie alla casa Cines di Roma, una delle più importanti dell'epoca, dove, fra il 1913 e il 1914, recitò in numerosi film. Fra essi spicca Scuola d'eroi, in cui venne notata dal regista e produttore cinematografico Giovanni Pastrone (autore del celebre Cabiria), che la chiamò poi all'Itala Film di Torino, dando così inizio alla sfolgorante "avventura cinematografica" dell'attrice”.

(Wikipedia)

Da vedere in:Il padrone delle ferriere”, (Italia, 1919). Regia: Eugenio Perego. Fotografia: Antonio Cufaro. Interpreti e personaggi: Pina Menichelli (Clara di Beaulieu), Amleto Novelli (Filippo Derblay), Luigi Serventi (Duca di Bligny), Lina Millefleurs (Atenaide Moulinet), Maria Caserini Gasparini (Marchesa di/ Marchioness of Beaulieu) Filippo Derblay.

Un uomo di umili origini, è divenuto, grazie al suo lavoro, padrone di ferriere. Egli è segretamente innamorato di Clara, la figlia del Marchese di Beaulieu, che dopo la morte del padre ha perduto tutta la sua fortuna. Clara è fidanzata col Duca di Bligny, un suo cugino vanesio. Dopo aver saputo che la cugina è improvvisamente caduta in disgrazia, il Duca preferisce fidanzarsi con Atenaide Moulinet, un’arrampicatrice sociale e figlia dell’industriale Moulinet detto il “Re del Cacao”. Per vendicarsi, Clara accetta di sposare Filippo Derblay, nonostante lo consideri un parvenu e lo disprezza. Ma Filippo, che pur amandola profondamente, non tollera di essere umiliato, riesce a dimostrarle quanto sia sbagliato il suo preconcetto e a conquistarne, alla fine, il cuore.
Tra gli aspetti più coinvolgenti del film, da un lato l’interpretazione intensa dell’ormai grande diva Pina Menichelli e dall’altro una fotografia di altissimo livello anche nel catturare spazi dal vero, come le notevoli immagini della fabbrica e degli operai alle macchine.

 

Un brano musicale al giorno

Jim Croce, Bad Bad Leroy Brown

James Joseph Croce (Filadelfia, 10 gennaio 1943 - Natchitoches, 20 settembre 1973) è stato un cantautore statunitense, specializzatosi nel genere folk rock. I suoi singoli Bad, Bad Leroy Brown e poi Time in a Bottle (disco d'oro) nel 1973 sono stati in vetta alla classifica Billboard Hot 100 per due settimane. Jim Croce resta uno degli ultimi menestrelli vagabondi che, come Woody Guthrie prima di lui, racconta storie di gente e di emozioni e sa dividersi tra una melodica vena di malinconia e il vecchio sogno americano.

Jim Croce

Testo di Bad Bad Leroy Brown

Well the South side of Chicago
Is the baddest part of town
And if you go down there
You better just beware
Of a man named Leroy Brown
Now Leroy more than trouble
You see he stand 'bout six foot four
All the downtown ladies call him "Treetop Lover"
All the men just call him "Sir"
And it's bad, bad Leroy Brown
The baddest man in the whole damned town
Badder than old King Kong
And meaner than a junkyard dog
Now Leroy he a gambler
And he like his fancy clothes
And he like to wave his diamond rings
In front of everybody's nose
He got a custom Continental
He got an Eldorado too
He got a thirty two gun in his pocket for fun
He got a razor in his shoe
And it's bad, bad Leroy Brown
The baddest man in the whole damned town
Badder than old King Kong
And meaner than a junkyard dog
Now Friday 'bout a week ago
Leroy shootin' dice
And at the edge of the bar
Sat a girl named Doris
And oo that girl looked nice
Well he cast his eyes upon her
And the trouble soon began
And Leroy Brown learned a lesson
'Bout messin' with the wife of a jealous man
And it's bad, bad Leroy Brown
The baddest man in the whole damned town
Badder than old King Kong
And meaner than a junkyard dog
Well the two men took to fighting
And when they pulled them off the floor
Leroy looked like a jigsaw puzzle
With a couple of pieces gone
And it's bad, bad Leroy Brown
The baddest man in the whole damned town
Badder than old King Kong
And meaner than a junkyard dog
And it's bad, bad Leroy Brown
The baddest man in the whole damned town
Badder than old King Kong
And meaner than a junkyard dog
Badder than old King Kong
And meaner than a junkyard dog”


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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web www.brusaporco.org

 

 

 

 

 

UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k