“L’amico del popolo”, 11 gennaio 2018

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno II. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

A WOMAN OF PARIS (La donna di Parigi, USA, 1923). Scritto, diretto e prodotto da Charlie Chaplin. Fotografia: Roland Totheroh. Montaggio: Monta Bell. Con: Edna Purviance (Marie St. Clair), Clarence Geldart (padre di Maria), Carl Miller (Jean Millet), Lydia Knott (madre di Jean), Charles K. French (padre di Jean), Adolphe Menjou (Pierre Revel), Betty Morrissey (Fifi), Malvina Polo (Paulette).

Marie aspetta Jean alla stazione, ma lui non può raggiungerla poiché suo padre è morto proprio in quelle ore. Così, credendosi abbandonata, Marie parte per Parigi dove diventa l'amante del ricco Pierre Ravel. Quando Jean la ritrova, Marie si vergogna della sua nuova vita e non accetta di tornare con lui. Jean, disperato, si uccide e Marie torna in provincia.

“(...) A Woman of Paris è soprattutto la risposta a tutti coloro che continuano a considerarlo legato esclusivamente alla figura comica di Charlot, a coloro che lo vedono solo come attore: niente di più polemico quindi che l'esclusione del personaggio Charlot e la scelta d'un ambiente e d'un modo narrativamente diversi come il «dramma borghese».
Primo carattere del film è la sua forma sobria e contenuta, che continua le scelte estetiche del periodo precedente, sia pure in assenza di quell'elemento unificante che era Charlot (Chaplin compare infatti nel film solo in un rapido gag con delle valigie). Chaplin rifiuta la consequenzialità logica dei gag nel momento in cui rifiuta Charlot; sceglie invece una costruzione narrativa dimessa, quasi convenzionale, priva di sviluppi enfatici. (...)
C'è in A Woman of Paris la continua volontà di spegnere il tono del racconto, di esprimersi più attraverso atmosfere che attraverso la drammaticità della recitazione come degli eventi. La felicità possibile dei protagonisti è semplicemente «rovinata da un gran numero di piccoli fatti», che «paiono essere nell'ordine delle cose (...). Una moltitudine di fatti ordinari, pazzamente fraintesi, chiacchiere d'ogni giorno, pregiudizi ammessi, piccole crudeltà, si accumulano e portano al tragico sbocco» (Pudovkin). La sobrietà della forma coincide così con la sobrietà fatta quasi di sottintesi del narrato. Chaplin non vuole qui, come in passato, mostrare cose straordinarie, ma rivela lo straordinario potere significante delle cose banali (equivalenti, per esempio, agli oggetti di One A. M.). Nel momento in cui si rifà (e dichiaratamente) ad un modello narrativo, quale il «dramma borghese», ne elude e ne appiattisce tutte le punte drammatiche, trasformandolo nel proprio rovescio e cioè smitizzandolo. (...)
Ma tra le pieghe della "rappresentazione", fedele, mimetica, tutta attenta ai dettagli e alle sfumature, l'impronta di Chaplin è continuamente riconoscibile, soprattutto nel risvolto ironico che ogni momento rivela: è lo sguardo freddo, distaccato, implacabile di chi esamina un qualsiasi reperto - lo sguardo che meglio d'ogni altro, al pari del distacco della massaggiatrice nella sequenza citata, esprime un profondo senso di vuoto nelle cose narrate. Esso è la traduzione metaforica dell'aggressività che Chaplin aveva sempre mostrato nella propria concezione del comico. Grazie a questa coerenza, che va oltre i fatti più epidermici dello stile, A Woman of Paris è tutto nel ritratto critico dell'altro, non più degradato internamente dalla presenza incongrua e aggressiva del disturbatore Charlot, ma velatamente aggredito dallo stesso farsi del linguaggio. Tutto il senso del film viene rimandato a ciò che la narratività tenta di nascondere trasformandolo in mito: il ritratto di questa idle class si sviluppa allora egualmente nei toni di quel moralismo radicale che sono tipici a tutto Chaplin e che rifiutano una precisa collocazione politica. Ciò è del resto chiaramente anticipato dalla didascalia posta in apertura al film: «Il genere umano non si divide in eroi e traditori, ma semplicemente in uomini e donne. Le loro passioni, buone o cattive, sono state date loro da Dio. Essi peccano soltanto per cecità: gli ignoranti condannano i loro errori, ma i saggi li compiangono».
È un moralismo feroce, non quello edulcorato e innocuo del cinema americano; dietro di esso l'ironia, per quanto sottile e controllata, scava il solco profondo d'una condanna che non è generica e nel cui obiettivo tanta parte dell'opinione pubblica americana si riconosce, con inevitabile fastidio. Tutto ciò porta all'insuccesso del film, la cui proiezione è addirittura proibita, per immoralità, in ben tredici degli Stati Uniti. Un'altra giustificazione di questo insuccesso e delle preclusioni che l'hanno determinato, una giustificazione che riaffiorerà a più riprese negli anni seguenti, è l'abbandono di Charlot. Non si perdona a Chaplin di liberarsi del suo mito, di voler essere diverso, ma, soprattutto, di non accontentarsi di far ridere. In un cinema dominato, come quello americano, dai clichés e dagli stereotipi, Chaplin occupa un posto scomodo. (...)”.

(Giorgio Cremonini, in Charlie Chaplin, Il Castoro Cinema)

“Una delle più dolorose e crudeli storie della vita contemporanea” (Pudovkin). Marie Saint-Clair (Edna Purviance), che ama Jean (Carl Miller) non può fuggire con lui. Diventata la mantenuta di Revel (Adolphe Menjou), lo ritrova poi a Parigi, e riprende i rapporti con lui, ma l’opposizione di sua madre alle nozze lo porta al suicidio. Chaplin compare solo un momento come comparsa. Episodi celebri: il treno che arriva e che riparte e di cui non si vedono che le luci; le cucine del ristorante in cui il lavoro febbrile contrasta con l’ozio dei clienti; il colletto duro che, cadendo da un cassetto, rivela a Jean che Marie è una mantenuta; la scena con Revel che suona il sassofono; la collana di perle ch’ella getta dalla finestra e riprende poi a un vagabondo; le chiacchiere di un’amica con Marie che viene massaggiata da una donna dal viso indignato, severo, assente; il suicidio di Jean che cade, tragicamente grottesco, nella vasca d’una grande sala da ballo; il finale, con Marie tornata al villaggio ad occuparsi di opere benefiche, e Pierre che passa in automobile senza vederla.”

(Georges Sadoul)

L’11 gennaio 1958 muore Edna Purviance, attrice americana (nata nel 1895).

 

Una poesia al giorno

La Scoperta, di Oswald de Andrade

Abbiamo proseguito il nostro cammino lungo questo mare
Fino all'ottava di Pasqua
Ci siamo imbattuti in uccelli
E abbiamo avvistato la terra
i selvaggi
Gli abbiamo mostrato una gallina
Hanno quasi avuto paura
E non volevano accostare la mano
E dopo l'hanno presa spaventati
primo tè
Dopo aver danzato
Diogo Dias
Ha fatto il salto reale
Le meninas da gare*
Erano tre o quattro ragazzine molto femminili e gentili
Con dei capelli molto neri lungo le spalle
E le loro vergogne cosi nobili e curate
Che noi che le abbiamo osservate molto bene
Non abbiamo avuto nessuna vergogna.

(*) de Andrade allude ironicamente alle prostitute che erano ferme alle stazioni

A Descoberta

Seguimos nosso caminho por este mar de longo
Até a oitava da Páscoa
Topamos aves
E houvemos vista de terra
os selvagens
Mostraram-lhes uma galinha
Quase haviam medo dela
E não queriam por a mão
E depois a tomaram como espantados
primeiro chá
Depois de dançarem
Diogo Dias
Fez o salto real
as meninas da gare
Eram três ou quatro moças bem moças e bem gentis
Com cabelos mui pretos pelas espáduas
E suas vergonhas tão altas e tão saradinhas
Que de nós as muito bem olharmos
Não tínhamos nenhuma vergonha.

José Oswald de Andrade Souza (San Paolo, 11 gennaio 1890 - San Paolo, 22 ottobre 1954) è stato un poeta brasiliano, uno dei fondatori del modernismo brasiliano.

José Oswald de Sousa Andrade nacque a San Paolo nel 1890. Fu poeta, romanziere, drammaturgo. Studiava diritto e nel 1912 fece richiesta per andare in Europa. A Parigi, prese confidenza con il Futurismo e lì conobbe Komia, madre del suo primo figlio. Quando tornò in Brasile, lavorò presso una rivista letteraria. Convisse con Maria Lourdes Olzani e conobbe Mario de Andrade. Con gli altri intellettuali organizzò nel 1922 la famosissima Semana de Arte Moderna che cambiò le sorti dell'arte in Brasile. Nel 1926, Oswald sposando Tarsilia Amaral, diede vita al matrimonio più importante dell'arte brasiliana. I due, infatti, 2 anni dopo fondarono il Movimento Antropofagico e la rivista Antropofagia. La principale proposta di questo movimento era che il Brasile divorasse la cultura straniera e favore della valorizzazione di quella brasiliana. Il 1929 fu un anno di crisi per il letterato: oltre alla crisi finanziaria, vi fu la crisi con Mario de Andrade e la separazione con Tarsilia de Amaral. Si innamorò successivamente di Patricia Galvao che gli trasmise le idee comuniste: Oswald prese parte attivamente al Partito Comunista Brasileiro. Dal matrimonio nacque il giornale o Homen do Povo che durò fino al 1945 quando l'autore ruppe con il partito comunista. Dal matrimonio con Patricia Galvao nacque anche Ruda, il suo secondo figlio. Dopo essersi separato da Patricia Galvao, si sposò con la poetessa Julieta Barbosa nel 1936. Nel 1944 si sposò con Antonieta D'Aikmin con la quale rimase fino alla morte che lo colse nel 1954.
Nessun altro scrittore brasiliano fu conosciuto così per il suo spirito ribelle e combattivo. Aveva una conoscenza sterminata e una grande voglia di apprendere che lo portò ad ampliare le proprie conoscenze in tutti i campi. L'opera letteraria di Oswald de Andrade rappresentò in maniera esemplare il Modernismo del primo periodo. La sua poesia è precursora del movimento che marcherà la cultura brasiliana degli anni '60 con il Concretismo. Le sue idee saranno riprese anche dal Tropicalismo.
In Pau-Brasil pone in pratica le proposte dell'omologo manifesto. Nella prima parte del libro, Historia do Brasil, Oswald recupera documenti della storia brasiliana dandole un vigore poetico sorprendente.
Nella seconda parte di Pau-brasil, Poemas da Colonizaçao, lo scrittore rivive alcuni momenti dell'epoca coloniale. Ciò che sorprende è il potere di sintesi dell'autore. Ci sono descrizioni del paesaggio brasiliano, di scene del quotidiano.
Il romanzo è caratterizzato da una tecnica di composizione rivoluzionaria, comparato ai romanzi tradizionali: sono 163 episodi numerati e intitolati che costituiscono capitoli, tutti molto influenzati dal linguaggio del cinema o, più precisamente, è come se i frammenti fossero disposti in un album fotografico. Ogni episodio narra, con ironia ed umore, un frammento di vita di Miramar.
La trama segue quest'ordine: Infanzia di Miramar, adolescenza e viaggio in Europa a bordo della nave Marta; ritorno al Brasile, motivato dalla morte della madre; Matrimonio con Celia, e una relazione parallela con l'attrice Rocambola; nascita della figlia; divorzio e morte di Celia; morte di Miramar.
Nel 1937 pubblicò O rei da vela, che focalizza la società brasiliana degli anni 30. Per il carattere poco convenzionale, fu portata in scena 20 anni dopo, essendo assorbita dal movimento Tropicalista”.

 

Un fatto al giorno

11 gennaio 1944: fucilazione di Galeazzo Ciano (politico italiano, ministro degli esteri italiano, nato nel 1903)
“La Repubblica sociale, appena nata, vive fra l'ebbrezza di un potere effimero e il presagio della morte. Mussolini è un fantasma, l'ombra dell'uomo che fu. Una sola forza sostiene i fedelissimi: la lotta ai traditori, la vendetta. Catalizzatore degli odi è Ciano. E Ciano deve morire.

La scarica fatale
La mattina dell'11 gennaio 1944 vento e morte si danno appuntamento a Verona. Galeazzo Ciano lascia il carcere degli Scalzi: la sua vita sta per coniugarsi all'imperfetto. Le colline attorno alla città sono bianche di neve, l'aria che si leva spazza via la cortina opaca delle nuvole e quel filo di nebbia che filtrava le immagini in dissolvenza. I capelli arruffati, l'impermeabile beige di Caraceni gonfio di un'insolente tramontana, Ciano va a morire. La vita che gli ha dato tutto sta per togliergli tutto. Poco dopo, al Poligono di Porta Catena, l'esecuzione: una scarica rabbiosa di fucileria, il colpo di grazia, il corpo disteso a braccia larghe come un crocefisso, il riscatto di una morte coraggiosa. Il "più bello del reame" muore meglio di come era vissuto.

Il “delfino” del Duce
Era stato il “delfino” di Mussolini, il secondo uomo più potente del fascismo, ministro degli Esteri, marito di Edda, grande seduttore, la stella mondana del regime, uno Scott Fitzgerald senza gin, tutto spalmato di snobismo, protagonista indiscusso di una corte da basso impero. Aveva fatto il portaborse di lusso del duce, poi, tardivamente, si era opposto ai nazisti, anche se a modo suo, con buone intenzioni e modesti risultati; si era esposto, aveva votato contro Mussolini al Gran Consiglio del 25 luglio 1943, si era messo contro la Germania e Hitler, che lo odiava di un tenace odio austrico, aveva giurato di saldargli il conto.

In carcere
Ospite-prigioniero dei tedeschi, Galeazzo è consegnato alla Repubblica sociale il 19 ottobre 1943. Incarcerato a Verona, è un uomo che vive a prestito. Il processo è una farsa, la condanna a morte un copione già scritto. Edda si batte per lui, gioca la carta dei Diari, ma tutto è inutile. Mussolini, che potrebbe salvargli la vita, non lo fa: non vuole (né può) contrastare Hitler e gli estremisti "neri". E l'11 gennaio 1944 l'ex ministro degli Esteri fascista viene fucilato dai fascisti. “Muoio senza odiare nessuno”, sono le sue ultime parole. Un anno dopo, nell'anticamera della fine, rievocando la morte del genero, Mussolini scaricherà il suo dolore represso: “Quel giorno - dirà - con Galeazzo sono morto anch'io”.

Il vino della Mosella
Battuto dalle agenzie di stampa, l'annuncio della fucilazione di Verona scavalca le frontiere e si ferma sulle scrivanie di ambasciatori, ministri e capi di governo alleati e nemici. Molti, fra i notabili della politica, avevano avuto il conte Ciano come gradito commensale alla loro tavola e ricordavano i capelli pettinati con cura, le unghie impeccabilmente tagliate, la predilezione per i vini della Mosella, il fazzoletto di seta profumato nel taschino e il vezzo di portare il bicchiere alle labbra rizzando il mignolo per poi forbirsele delicatamente con il pizzo del tovagliolo ripiegato: un tocco di classe di un uomo che aveva lasciato una scia profumata nei salotti e nelle alcove, per poi finire disteso come un sacco di stracci sull'erba ghiacciata, nell'odore pesante di un terrapieno di periferia”.

(In Il Sole 24 ORE, 11 gennaio 1944 / La fucilazione di Galeazzo Ciano)

Immagini:

 

Una frase al giorno

“A chi non ama, niuna cosa piace”.

(Pietro Bembo, Venezia, 20 maggio 1470 - Roma, 18 gennaio 1547. Fu un letterato, filologo, umanista, poeta ed ecclesiastico. Pietro Bembo ebbe un importante ruolo per quanto riguarda la questione della lingua. Regolò per primo in modo sicuro e coerente la lingua italiana fondandola sull'uso dei massimi scrittori toscani trecenteschi. Contribuì potentemente alla diffusione in Italia e all'estero del modello poetico petrarchista. Pietro Bembo nacque a Venezia nel 1470, figlio primogenito di uno dei più autorevoli senatori della Serenissima; era quindi destinato, secondo la tradizione, a intraprendere la carriera politica, ma presto la abbandonò per dedicarsi esclusivamente all'impegno letterario.

 

Un brano musicale al giorno

Domenico Cimarosa, La vergine del sole, Aria di Idalide - Agitata in tante pene
La vergine del sole, dramma serio in tre atti, prima rappresentazione nel 1788, Hermitage Theatre, San Pietroburgo.
Libretto: Ferdinando Moretti. Aria di Idalide: Agitata in tante pene
Idalide: Cecilia Bartoli, Clarinet: Corrado Giuffredi, Orchestra: I Barocchisti, Direttore: Diego Fasolis

Agitata in tante pene, più riposo, oh Dio, non spero,
ed il Ciel con me severo mi condanna a palpitar.
Oggi a voi m'unisce il fato, che fatal momento é questo?
Sol m'affanna, oh padre amato, il doverti abbandonar.

Domenico Cimarosa (Aversa, 18 dicembre 1749 - Venezia, 11 gennaio 1801) è stato un compositore italiano, uno degli ultimi grandi rappresentanti della Scuola musicale napoletana. Fu una delle figure centrali dell'opera, in particolare di quella buffa, del tardo Settecento.


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

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Ugo Brusaporco

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