“L’amico del popolo”, 9 gennaio 2018

L'amico del popolo
Grandezza Carattere

L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno II. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

FLESH AND THE DEVIL (La carne e il diavolo, USA, 1926), regia di Clarence Brown. Basato sul romanzo del 1894 Es war dello scrittore tedesco Hermann Sudermann. Sceneggiatura: Hermann Sudermann, Hanns Kräly, Benjamin Glazer. Fotografia: William H. Daniels. Montaggio: Lloyd Nosler. Con: Greta Garbo (Felicitas), John Gilbert (tenente Leo von Harden), Lars Hanson (Ulrich von Heltz), Marc MacDermott (conte von Rhaden), Barbara Kent (Herta Prochvitz), George Fawcett (pastore Brenckenburg), William Orlamond (zio Kutowski), Eugenie Besserer (madre di Leo), Marcelle Corday (Minna).

Leo e Ulrich si giurano eterna amicizia con un patto di sangue. Dopo aver frequentato la scuola militare una sera, a un ballo, Leo incontra Felicitas. Ma il marito di lei sfida il giovane a duello e ne rimane ucciso. Costretto a fuggire all'estero, Leo chiede all'amico di consolare la donna. Ma quando Leo torna in patria trova Felicitas sposata con Ulrich. Dopo aver tentato di resistere alle avances della donna, Leo sfida a duello l'amico. Incapaci di spararsi contro Leo e Ulrich si riuniranno dopo la morte di Felicitas, caduta su una lastra di ghiaccio mentre accorreva sul luogo del duello.

“Quando la Garbo ricevette il copione de La carne e il diavolo, andò a parlare con Mayer: “Signor Mayer, sono stanca morta, non sto bene, non posso fare un altro film così a precipizio, inoltre di questo qui non sono soddisfatta”. Disse che non capiva il senso di mettersi in costume e continuamente sedurre uomini, pellicola dopo pellicola. Le fu risposto: “Oh, proprio un peccato! Però continua a provare i costumi e va avanti a prepararti”. E quando tentò, pressata da Stiller, di scegliersi costumi meno da vamp, Mayer fu pronto nel disapprovare, e minacciò sospensioni del contratto. La Garbo ubbidì alle istruzioni, e fu così che incontrò John Gilbert. Allora John Gilbert era l’idolo più sentimentale di Hollywood e, con tutta probabilità, anche il divo più pagato. La patente di Grande Amatore detenuta da Rodolfo Valentino - che doveva morire due settimane dopo l’inizio delle riprese de La carne e il diavolo, il 9 agosto 1926 - venne degnamente ereditata da John Gilbert. A quell’epoca, egli aveva ventinove anni - otto, cioè, più della Garbo - e due matrimoni alle spalle. Era inoltre un inguaribile romantico, nella vita come nell’arte. “Qualsiasi ruolo recitasse,” disse di lui King Vidor che lo aveva diretto nella parte di galante fantaccino nel suo più grande successo, La grande parata (The Big Parade, 1925), “trovava il modo di riviverlo fuori dello schermo”. Per Gilbert l’atmosfera romantica era come l’alcool: gli dava uno stato d’ebbrezza continuo e stimolante. Nella gente “comune” un simile tratto verrebbe giudicato di instabilità, nel caso di un divo cinematografico, era un mezzo di proiezione e di protezione. Per la Garbo, quest’incontro con un riconosciuto e affermato Grande Amatore non avrebbe potuto essere più provvidenziale o più determinante. La sua sicurezza nel sapere chi fosse e il suo impegno nel non venir mai meno a ciò che rappresentava ebbero un effetto stabilizzante sulla Garbo, in un momento altrimenti solitario della sua carriera: il mentore [Mauritz Stiller] era stato costretto a cercarsi lavoro lontano da lei, inoltre, il salario che le pagavano o i ruoli che le offrivano non potevano esser per lei fonte di soddisfazione. Per di più Gilbert era, in effetti, il primo vero americano che la Garbo incontrasse. Gli americani che aveva avuto modo di vedere a New York, durante quelle deprimenti ansiose settimane, mentre con Stiller attendeva d’essere chiamata sulla Costa, erano stati uno dei pochi elementi consolanti: seppur da una certa distanza, quella razza sconosciuta li aveva affascinati entrambi. Ora, per la prima volta, la Garbo si trovava a lavorare a distanza ravvicinata con un esemplare di quella razza. Fino ad allora, tutti gli altri suoi partner erano stati svedesi, oppure americani al modo di Moreno o di Cortez che si proponevano come ardenti latini. Gilbert aveva la foga e il brio del prodotto genuino; la sua energia che pareva ricaricarsi da sola ebbe una potente influenza su una donna le cui batterie, invece, si scaricavano in fretta. Prima che il regista Clarence Brown li presentasse, sul set de La carne e il diavolo, Gilbert e la Garbo si conoscevano solo di vista, ma ella seppe, con una frase estemporanea, cogliere tutte le qualità che Gilbert aveva e che a lei mancavano: “È così vitale, così vivace, così acceso! Tutte le mattine, alle nove in punto, si cominciava a lavorare insieme, ed era così cortese che mi sentivo meglio, sentivo un po’ più amica quella terra straniera”. Nel film le scene d’amore recitate dalla Garbo e da Gilbert erano il genere di cose per cui gli agenti pubblicitari andavano matti; ma sarebbe sbagliato ridurle solo a questo. È facile comprendere come quell’inguaribile romantico e quella intuitiva pasionaria si stimolassero a vicenda fino a raggiungere il massimo. “È un attore così squisito,” diceva la Garbo, “mi solleva e mi porta via con sé. Non sto più semplicemente recitando una scena, la sto vivendo”. E viveva in un mondo così romantico che la mezza età di Mauritz Stiller non avrebbe consentito d’eguagliare. Nelle scene d’amore, la Garbo ha ciò che sarebbe poi divenuto suo di diritto: la posizione dominante; la testa di Gilbert è appoggiata sul suo grembo, ed ella con le braccia la cinge, un’attitudine del corpo che lascia intuire come l’uomo sia schiavizzato dalla propria passione. La passionalità della Garbo possiede una forza d’urto fisica cui il suo aspetto femminile non ci aveva preparati: strofina la sua guancia contro quella di Gilbert, come creando fra loro un flusso d’energia statica. Poche sono le scene di film americani, muti o parlati, in cui due persone vestite da capo a piedi arrivano a generare un così grande desiderio sessuale attraverso la semplice contiguità fisica. Quei due liberavano una tale carica carnale che la MGM dovette escogitare un lieto fine - “morale” - per il film. Clarence Brown intendeva terminare con le inquadrature della Garbo che muore fra i ghiacci, lasciando liberi Gilbert e Hanson di riprendere l’amicizia platonica che il distruttivo amore di lei aveva interrotto; la MGM vi appiccicò invece un finale più felice che giustificato, mostrando un allegro Gilbert che corteggia una nuova ragazza. Ma l’intero studio fu sbalordito e deliziato dalla dimostrazione di straordinaria recitazione fornita dalla Garbo. Nella scena in cui ella rigira il calice della comunione - e lo tiene in mano come Salomè la testa di Giovanni Battista - per poggiare le labbra sullo stesso punto appena toccato dal suo amante, la Garbo fu magicamente capace di trasformare il rito sacro in un atto sessuale e, al tempo stesso, di allontanare ogni possibile obiezione della censura rendendo quel peccato pressoché impalpabile. Una donna capace di peccare e contemporaneamente di soffrire era una vera fortuna in un mondo in cui la censura prevedeva che i misfatti morali venissero bilanciati da resipiscenza o da inevitabile distruzione. William Daniels, il direttore della fotografia, giocò la sua parte nell’illusione magica creata da Gilbert e dalla Garbo: aveva illuminato il giardino che costituiva lo scenario del loro primo incontro in modo che ogni foglia emanasse un diffuso tremito di simpatia. Appena Gilbert strofina un fiammifero per accendere la sigaretta che ha spostato dalle sue labbra secche (e si sente la tensione che gli serra la gola) a quelle bramose di lei, l’estremità incandescente della sigaretta vibra come fosse un indice delle loro emozioni: Daniels, in effetti, aveva nascosto una minuscola lampadina elettrica nella mano di Gilbert. E, considerando il modo in cui molti scrittori parlano della “divinità” della Garbo, è utile rammentarsi quanto spesso, nei suoi film, venisse coadiuvata da elementi umani, e persino da torce elettriche.”

(Alexander Walker, Greta Garbo: fascino e solitudine di una diva, Milano, Fabbri, 1982)

Greta Garbo e Flesh and the Devil: testimonianza di Clarence Brown
Flesh and the Devil è stato il mio primo film per la Metro-Goldwyn-Mayer ed anche quello che ha effettivamente creato la Garbo. Ed è pure all’origine del legame Garbo-Gilbert. Greta Garbo aveva qualcosa che nessun altro aveva sullo schermo. Nessuno. Non so se ne fosse consapevole, ma era proprio così. E posso spiegarlo in poche parole. Giravo una scena con lei e ottenevo un risultato discreto. La rifacevo un tre-quattro volte: veniva discretamente, ma io non ero mai soddisfatto per davvero. Quando però vedevo quella stessa scena sullo schermo, c’era qualcosa che sul set mancava. La Garbo nascondeva nello sguardo qualcosa che non si riusciva a vedere finché non lo si riprendeva in primo piano. Si poteva vedere il suo pensiero. Se doveva guardare una persona con gelosia, ed un’altra con amore, non doveva cambiare espressione. Si poteva cogliere il cambiamento nei suoi occhi mentre spostava lo sguardo da una persona all’altra. Nessun altro è mai stato capace di farlo sullo schermo. La Garbo lo era e senza neanche la padronanza della lingua inglese. Per me, lei comincia dove tutti gli altri finiscono. Era una persona timida: le sue difficoltà con l’inglese le procuravano un leggero complesso d’inferiorità. Io la dirigevo molto pacatamente. Non mi rivolgevo a lei se non con dei sussurri. Nessuno sul set ha mai saputo cosa le dicessi e lei ne era contenta. Odiava provare. Avrebbe preferito tenersi alla larga finché tutti gli altri non finivano di provare, per poi arrivare e fare la sua scena. Ma le cose non funzionano così, specie nel cinema sonoro. Non siamo mai riusciti a farle vedere i giornalieri e non credo che abbia mai visto un suo film se non molti anni dopo...Tuttavia, prendeva seriamente il suo lavoro. Si comportava così: arrivava sul set alle nove, truccata e pronta per girare. Lavorava sodo. Alle cinque e mezzo-sei, quando finiva la giornata di lavoro, chiudeva veramente con tutto. Sul set c’era sempre un segnale: la sua cameriera arrivava e le porgeva un bicchier d’acqua. Allora lei augurava la buonasera e se ne andava a casa. Fuori dallo studio voleva che la sua vita restasse affar suo. Non riteneva che la sua privacy appartenesse al pubblico. Diceva: “Do tutto quello che ho sullo schermo, perché devono invadere la mia privacy?”

Flesh and the Devil è stato a lungo uno dei miei film preferiti... C’era una sequenza con John Gilbert che lasciava il Sudafrica per tornare in Germania. Il montage iniziava con un’inquadratura di Gilbert a cavallo; io sincronizzai il calpestio degli zoccoli con Felicitas, il nome del personaggio interpretato dalla Garbo. Fe-li-ci-tas... Fe-li-ci-tas... Montai in sovrimpressione sull’immagine brevi frammenti della didascalia, un po’ come si fa oggi con i film in lingua straniera. Dagli zoccoli che toccavano il suolo passavamo ad una nave a vapore, ed i pistoni sembravano dire “Fe-li-ci-tas... Fe-li-ci-tas...” Una doppia esposizione mostrava poi in primo piano il viso della Garbo. Sul treno, lui è sempre più impaziente di vederla; clic-clac, clic-clac - Fe-li-ci-tas... Fe-li-ci-tas. Gli stacchi diventano via via più veloci ed altrettanto i mezzi di trasporto. Flesh and the Devil presentava una scena d’amore in orizzontale, una delle prime. Verso la fine della scena Gilbert, che interpretava l’amante della Garbo, getta una sigaretta dalla finestra. Marc MacDermott, nella parte del marito, scende dal taxi proprio quando la sigaretta gli cade ai piedi. Guarda verso la finestra ed il pubblico capisce che si sta preparando a qualcosa. Quando irrompe nella stanza e li trova in quella compromettente posizione sul sofà, ho abbassato la macchina da presa giù fino alla mano di MacDermott e, attraverso le sue dita, che si serrano in un pugno rabbioso, ho ripreso i due amanti. MacDermott sfida Gilbert a duello. Ho girato questa scena in controluce. I due partono schiena contro schiena, poi escono di campo. Compaiono due sbuffi di fumo su ciascun lato dello schermo. Si passa in dissolvenza all’inquadratura della Garbo ripresa in una modisteria mentre prova allo specchio un cappello nero. In mano ha un fazzoletto listato a lutto e sul volto un leggero sorriso. Ecco come abbiamo fatto capire chi è stato ucciso, senza didascalie o altre spiegazioni. Al film è stato appiccicato un lieto fine: ho dovuto girarlo e per me è stato un colpo mortale. Ma quando hanno dato il film a Parigi, l’ho fatto togliere”.

(Kevin Brownlow, The Parade’s Gone By..., Londra, Secker & Warburg, 1968, Catalogo Giornate del Cinema Muto)

“In un'atmosfera "Europa centrale" abbastanza ben ricostruita, un bel tenente (John Gilbert) ama la Garbo, donna fatale che finisce per morire tra i ghiacci dopo aver provocato l'odio tra il giovane e suo marito (Lars Hanson), un tempo buoni amici. Film di mestiere, di cui sono però rimasti celebri la scena della comunione (l'amante gira il calice portogli dal prete per posare le labbra dove la donna ha posato le sue), due duelli girati in esterni, e soprattutto il volto meraviglioso della Garbo illuminato improvvisamente dalla luce di un accendino”.

(Georges Sadoul)

“Nella Germania di fine Ottocento, Felicitas, bellezza fatale, s'innamora del giovane tenente Leo von Harden, a sua volta folgorato dalla passione per lei. Ma Felicitas è sposata, e convince l'amato a sfidare a duello il marito; Leo uccide il rivale ed è costretto a fuggire, nella speranza che Felicitas sappia aspettare il suo ritorno. Lei però, per quanto innamorata, non accetta la solitudine e si fa consolare da Ulrich, compagno d'armi e miglior amico di Leo. Si sposano - Ulrich è all'oscuro del passato di Felicitas, del suo legame con von Harden; quindi Leo ritorna, prende atto della nuova situazione, ma la passione divampa di nuovo e s'arriva alle soglie d'un altro duello. Questa volta però gli antichi amici si guardano negli occhi, e rinunciano a battersi. L'amicizia virile trionfa sull'amore mentre Felicitas, ormai sola, si lascia morire tra i ghiacci.
Il più celebre dei film muti di Greta Garbo, l'unico che ancora appartenga a una memoria cinematografica diffusa, è perlomeno all'apparenza la storia di un'amicizia tra due uomini, carica di tutta l'ambiguità che il cinema americano prima del codice Hays sapeva ancora permettersi. Così stabilisce la pesante cornice della vicenda (da un ponderoso romanzo di serie B del tedesco Herman Sudermann); ma il cuore e la sostanza di Flesh and the Devil stanno tutte nel personaggio d'una Garbo ventunenne e alla sua terza apparizione nel cinema americano (dopo The Torrent - Il torrente, Monta Bell, 1926 e dopo The Temptress - La tentatrice, 1926, che lo sfortunato pigmalione Mauritz Stiller, ricusato dalla MGM, deve cedere a Fred Niblo).
Il film segna il primo incontro tra Garbo e Clarence Brown, forse non in assoluto il miglior regista a dirigerla (ci sono Cukor e Lubitsch), ma certo quello che più contribuisce a creare intorno all'attrice svedese quell'aura di dissipazione amorosa e languida solitudine che resterà cifra irripetibile della sua 'persona' cinematografica e reale (dopo Flesh and the Devil, gireranno insieme altri sei film, fino al 1937 di Conquest - Maria Walewska). Così, dopo una prima parte di gioiose schermaglie virili, nelle quali John Gilbert traccia un personaggio più energico e canagliesco e Lars Hanson mostra un carattere più saggio e devoto, è come se il centro dell'attenzione e l'asse della storia venissero piegati a forza. Garbo scende da un treno (lo stesso Brown le offrirà identica entrata in scena in Anna Karenina, 1935): per il tenente von Harden è un'epifania, per lei il segno che il suo destino è arrivato. Si ritrovano nell'inquadratura sinuosa e animata di un ballo, si riconoscono oltre una cortina di schiene danzanti; il loro ballo è già quasi un bacio, e in un'unica, ardita sequenza ci troviamo nell'oscurità di un giardino notturno, nell'intimità di un primo piano rischiarato solo da un fiammifero acceso, quindi dalla brace di una sigaretta che passa da una bocca all'altra. È l'apoteosi romantica e sensuale, è la fluida continuità d'una seduzione reciproca come il cinema americano non aveva mai mostrato prima, meravigliosamente fotografata da William Daniels.
Flesh and the Devil, melodramma d'amore e perdizione sullo sfondo d'una Mitteleuropa stilizzata secondo canone hollywoodiano, è soprattutto questo: un trionfo fotogenico sulla cattiva letteratura. Per questo il viso di Garbo ("questo viso non disegnato ma scolpito in una materia liscia e friabile, cioè perfetto ed effimero a un tempo... occhi di triste vegetale, viso di totem", nelle parole famose di Roland Barthes) ne diventa il senso e la ragion d'essere. Tra i ripetuti abbracci virili che scandiscono i vari momenti di passaggio, ribadiscono la sacralità dell'amicizia e cercano invano di arginare la catena di catastrofi innescata da Felicitas, Garbo procede sorretta da una forza allucinata di cui solo lei sembra conoscere direzione ed esito. Quando John Gilbert torna, lo sprofondare nel desiderio è solo un labbro morso in un viso di mortale pallore, su fondo nero. Come una versione premoderna e passiva (ma è passività capace d'ogni audacia) della Lulu di Pabst e Louise Brooks (Die Büchse der Pandora), anche Felicitas si consegna alla consunzione erotica, sfiora la violenza, affronta il degrado, cerca le cerimonie dell'umiliazione (rincorrere, implorare nella neve l'amante che le sfugge, e che forse potrà commuoversi allo spettacolo delle sue scarpe fradice di bambina). Poi muore, forse per espiazione (in un finale giudicato da molti commentatori sommario e misogino), forse perché esclusa dal gioco dei desideri che ha infine ricongiunto la coppia maschile: quella che in fondo, nonostante l'ormai prossimo statuto divistico di Greta Garbo, nei credits di Flesh and the Devil ha ancora i nomi sopra il titolo.
Resta, di questo film antico dalla luministica preziosa (ovvero, uno dei tanti film d'epoca muta di cui solo la perfezione delle copie può far cogliere il senso), soprattutto la mirabile sequenza blasfema: Garbo, non potendo avere alcun altro contatto con Gilbert, si inginocchia accanto a lui ai piedi dell'altare e gira tra le mani la coppa del vino eucaristico, fino a poter posare le labbra nel punto esatto in cui l'amante ha posato le sue. I surrealisti esultarono, il pubblico d'epoca s'eccitò all'idea molto ben veicolata dagli studios che Garbo e Gilbert avessero un vero love affair, e ancora oggi la scena non ha perso la sua equivoca suggestione”.

(Paola Cristalli, Enciclopedia del Cinema (2004), Treccani)

All'anagrafe Greta Lovisa Gustafsson, nacque a Stoccolma il 18 settembre 1905. Questo è un estratto del profilo che ne tracciò Pietro Bianchi: “Si sapeva benissimo, naturalmente, che da ragazza aveva spennellato con schiuma densa di sapone il viso dei clienti di un piccolo barbiere di cui era commessa; si sapeva pure che aveva cominciato a lavorare per il cinema prestandosi, in costume da bagno, a far la pubblicità per certi prodotti. Ma che importa? Greta era soprattutto la donna fatale de La carne e il diavolo; colei la cui sola apparizione era bastata per far dimenticare subito le ‘vamp’ del cinema muto italiano, Lyda Borelli e Francesca Bertini, Italia Almirante e Pina Menichelli. Senza contare le ‘dive locali’, Mae Murray e Pola Negri, Gloria Swanson e Wilma Banky.
Ricordiamo come se fosse ieri - e sono passati quasi trent’anni - il pomeriggio in cui ci accadde di vedere per la prima volta il patetico volto di Greta. Aveva un abito bianco con luccichini argentei e una scollatura favolosa: l’alto collo dell’abito da sera alla Maria Stuarda accentuava l’incanto del profilo languido, degli occhi appassionati. Gli adolescenti della nostra generazione vennero scossi dal lungo bacio tra lei e John Gilbert ne La carne e il diavolo come da una scarica di elettrochoc, e la faccenda non fu più dimenticata.
Di rincalzo vennero i film europei della ‘divina’, anteriori nel tempo ma presentati in Italia dopo il successo de La carne e il diavolo: La leggenda di Gösta Berling e La via senza gioia. La sorpresa era tale infatti soltanto per noi. Amica e allieva di un geniale, sregolato e infelice regista del suo paese, Mauritz Stiller, Greta era un tipico prodotto della vecchia Europa. Greta Garbo si presenta infatti nel cinema europeo con due artisti molto dotati, il già ricordato Mauritz Stiller e G. W. Pabst, e ne esce per cadere, a Hollywood, nelle mani di registi abili ma privi di mordente, di originalità, di poesia. [...]
Greta è restata sempre, a Hollywood, una straniera, un’attrice di passaggio che si tiene finché fa incassare dollari e che si licenzia come una cameriera quando non ‘rende’. In verità essa è sempre rimasta la Greta di Stiller e di Pabst, la Greta ‘europea’. Abbiamo un ricordo non troppo limpido del primo film importante di Greta Garbo, La leggenda di Gösta Berling, diretto da Mauritz Stiller. Soltanto alcuni anni dopo abbiamo saputo che il film era giunto mutilato nelle sale delle vecchie città d’Occidente, da pochi anni tolte al loro sonno profondo per merito di uno spettacolo curioso, che si svolgeva al buio, mentre qualcuno suonava al pianoforte valzer di Strauss e notturni di Chopin. [...] Ne La via senza gioia Greta è già l’attrice che tutti celebreranno più tardi nei film famosi d’America. Essa ha appreso sin troppo bene la lezione impartitale da Stiller (ardente maestro che brucerà la sua vita alla gloria dell’allieva); s’è dimenticata con la naturalezza di una ‘comica’ vera le modeste origini, le avvilenti esperienze, l’umile prova d’inizio del film comico Pietro il vagabondo. Ha già quell’incedere regale, quello sguardo profondo, carico di significati patetici, cui nessun maschio civilizzato resiste. Dopo il film di Pabst carico di realtà, di malinconia, dove si esprime un giudizio su certi fenomeni sociali, Greta, chiamata a Hollywood, scivolerà fatalmente, incoraggiata dal filisteismo dei produttori, sul piano inclinato del divismo. Lo scotto verrà pagato molti anni più tardi, dopo il tentativo di liberazione di Ninotchka, con Non tradirmi con me, restato fino ad oggi senza resurrezione”.

(Pietro Bianchi, Greta Garbo, in L’occhio del cinema, Garzanti, Milano 1957)

Flesh and the Devil è il film che ha fatto di Greta Garbo una leggenda.

Il 9 gennaio 1936 muore John Gilbert, American actor, director, and screenwriter (nato nel 1899) Grande John, indimenticabile!

 

Una poesia al giorno

1929, di Heiner Müller (poeta, drammaturgo e regista tedesco, morto nel 1995), in Le parole e le cose, Letteratura e realtà.

Im Spiegel mein zerschnittener Körper
In der Mitte geteilt von der Operation
die mein Leben gerettet hat Wozu
Frage ich mich beim Blick in den Spiegel
Für ein Kind eine Frau ein Spätwerk
Leben lernen mit der halben Maschine
Atmen essen Verboten die frage Wozu
Die zu leicht von den Lippen geht Der Tod
Ist das Einfache sterben kann ein Idiot

Nello specchio il mio corpo tagliuzzato
Diviso nel centro dall’operazione
che mi ha salvato la vita Per cosa
Mi chiedo guardandomi allo specchio
Per un bambino una donna un’opera tarda
Imparare a vivere con metà macchina
Vietato respirare mangiare la domanda Per cosa
Che esce troppo facilmente dalle labbra La morte
È cosa semplice di morire è capace un idiota

 

Un fatto al giorno

9 gennaio 1878: muore Vittorio Emanuele II, re d’Italia (era nato il 14 marzo 1820).

La Treccani lo spiega così ai ragazzi: “Il re galantuomo Re di Sardegna dal 1849, dopo l’abdicazione di Carlo Alberto, Vittorio Emanuele II fu il protagonista, con Cavour e Garibaldi, dell’unificazione nazionale e divenne il primo re d’Italia dal 1861 al 1878. Conservatore e cattolico, assumeva personalmente il comando supremo dell’esercito. Dopo la fine del potere temporale dei papi (1870), trasferì a Roma la capitale del regno.

Un re nella battaglia risorgimentale
Nato a Torino nel 1820, figlio di Carlo Alberto e Maria Teresa d’Asburgo Lorena, nel 1842 sposò Maria Adelaide, figlia di Ranieri d’Asburgo. Aveva la passione della caccia e della vita militare, preferiva la vita semplice e la compagnia del popolo alla vita mondana della corte e dei nobili. Nella Prima guerra d’indipendenza combatté a Goito e Custoza. Dopo la sconfitta di Novara e l’abdicazione di suo padre (1849) divenne re di Sardegna e firmò l’armistizio di Vignale con l’Austria. Pur essendo di idee conservatrici, non abolì lo Statuto albertino e ne rispettò le istituzioni, tanto che venne definito dal patriota e uomo politico piemontese Massimo d’Azeglio «re galantuomo». Poiché il parlamento, a maggioranza democratica, non voleva ratificare la pace con gli Austriaci, lo sciolse, indisse nuove elezioni e con il proclama di Moncalieri invitò gli elettori a votare per i candidati vicini alla corona. Il proclama ebbe successo e il nuovo parlamento approvò la pace. Nonostante fosse molto religioso, nel 1850 accettò le leggi Siccardi, che abolivano i privilegi della Chiesa. Nel 1852 affidò il governo a Camillo Benso, conte di Cavour, un politico laico e liberale, lontano dalla sua mentalità cattolica e conservatrice. Non mancarono però i contrasti. Quando Cavour sostenne un progetto di legge che eliminava numerosi ordini religiosi, il vescovo di Casale, Nazari di Calabiana, protestò presso il re, che si dimostrò sensibile alle ragioni della Chiesa. Cavour rassegnò le dimissioni, ma il re dovette invitarlo a ritirarle per le pressioni dell’opinione pubblica.

Le scelte in politica estera
Maggiore fu la sintonia in politica estera. Vittorio Emanuele potenziò l’esercito, quindi promosse la partecipazione del Piemonte alla guerra di Crimea (1855), che Cavour sfruttò per attirare l’attenzione di Francia e Inghilterra sulla situazione italiana. Poi furono firmati gli accordi segreti di Plombières con Napoleone III, che preparavano la guerra con l’Austria e prevedevano che Vittorio Emanuele diventasse re dell’Alta Italia. Nel gennaio del 1859 il re affermò in un celebre discorso di «non essere insensibile al grido di dolore che da tanta parte d’Italia si alza verso di noi».
Scoppiata la guerra, guidò personalmente le truppe piemontesi, entrò a Milano al fianco di Napoleone III e ottenne la vittoria di San Martino. Nonostante l’opposizione di Cavour, accettò l’armistizio di Villafranca, firmato da Napoleone III con l’imperatore austriaco, che assegnava al regno sabaudo soltanto la Lombardia. Grazie all’abilità diplomatica di Cavour, ottenne da Napoleone III l’autorizzazione ad annettere la Toscana e l’Emilia in cambio del passaggio alla Francia di Nizza e della Savoia.

L’unità d’Italia
Nel 1860 sostenne segretamente la spedizione dei Mille di Garibaldi, che portò alla conquista della Sicilia e dell’Italia meridionale. Le truppe piemontesi scesero quindi nello Stato pontificio, conquistando Marche e Umbria. Il re incontrò a Teano, presso Caserta, Garibaldi che gli consegnò i territori conquistati. Il 17 marzo 1861 il «padre della patria» fu proclamato a Torino re d’Italia. Non cambiò il nome in Vittorio Emanuele I: conservando la vecchia numerazione, volle sottolineare la continuità tra il Regno d’Italia e quello di Sardegna. Alla morte di Cavour (1861) affidò il governo ai politici della destra storica. Trasferì la capitale da Torino a Firenze, stabilendosi a Palazzo Pitti (1865) e, dopo la presa di Roma, nella nuova capitale, nel palazzo del Quirinale (1871).
Rimasto vedovo nel 1855, nel 1869 sposò morganaticamente - cioè privatamente e senza effetti sulla successione - una popolana, Rosa Vercellana, la «bella Rosina», che nominò contessa di Mirafiori. Negli ultimi anni si avvicinò alle potenze centrali (Austria e Germania), gettando le basi di una futura alleanza. Morì a Roma nel 1878”.

(Sergio Parmentola, Enciclopedia dei ragazzi, 2006)

 

Gli sconcertanti particolari sulla vita e le follie di Vittorio Emanuele II", scoperti dallo storico inglese Mack Smith.

Quando il pubblico italiano avrà letto la nuova biografia appena ultimata da Denis Mack Smith, l'effigie di Vittorio Emanuele II, padre della patria e anima del Risorgimento non combacerà più con quella che maestri di scuola e storici ossequienti hanno impiantato nell'immaginazione nazionale. La sua reputazione storica, Vittorio Emanuele II costruita e preservata per più di un secolo a fini politici, sarà frantumata. Al posto del "re galantuomo" vedremo un "roi fainéant", fanfarone, scurrile, vanitoso, incompetente, ottuso, smanierato, pusillanime, autoritario, egoista, ignorante e probabilmente anche capace di scorrettezze finanziarie. Unico tratto accattivante, la sua liberalità nei confronti delle amanti e dei figli illegittimi, una folla: anche troppo egli si meritò l'appellativo di "padre della patria".
La biografia sarà anche divertente perché il monarca sardo risulta alla fine un personaggio comico. Il libro sarà anche carico di suspense sin dal principio: le origini del sovrano sono infatti misteriose. Mack Smith riferisce doverosamente una congettura ripetuta spesso, nella sua vecchiaia, da Massimo D'Azeglio, uomo onesto, insospettabile di lasciarsi influenzare da risentimenti personali: nelle vene di Vittorio Emanuele II non scorreva nemmeno una stilla del sangue dei Savoia.
Era convinzione del d'Azeglio che il primogenito di Carlo Alberto fosse perito a due anni in un incendio a Poggio Imperiale. Ora, secondo la versione ufficiale del fatto, tra le fiamme perì soltanto la bambinaia, che si sacrificò eroicamente per salvare l'erede al trono. Ma per D'Azeglio questa versione non era plausibile: anche il figlio di Carlo Alberto era morto, ed era stato sostituito con quello di un "beccaio di Firenze".
Guardategli le mani, sono quelle di un macellaio, esclamava lo statista, uno dei pochi italiani che ebbero dimestichezza sia con Carlo Alberto che col suo successore. Effettivamente, la diversità tra i due non poteva essere più grande: alto, elegante, attraente, racé il primo; grossolano, tracagnotto, brutto il secondo.
All'anomalia dell'origine di Vittorio Emanuele II Denis Mack Smith non vuole attribuire un peso eccessivo, ma riconosce che l'ipotesi darebbe la chiave di molti aspetti del carattere e della vicenda del re.
Per fare un esempio, l'avversione di Carlo Alberto nei suoi confronti, che gli avrebbe di gran lunga preferito il figlio cadetto, il duca di Genova: l'antipatia di Vittorio Emanuele II per la nobiltà, il suo disagio in società (tutti gli osservatori stranieri concordano sulla sua "sauvagerie" e sulla sua timidezza estrema) e, per converso, le sue pose da popolano a suo agio solo in caserma, a caccia e con vivandiere. Insomma, l'ipotesi della sostituzione spiegherebbe tutta una conformazione psichica dominata da un profondo sentimento d'inferiorità personale.
Anche sulla sua fortuna sessuale si deve avere esagerato: le sue avventure galanti paiono piuttosto il risultato automatico di una posizione sociale che di una forza di seduzione fuor del comune. Non c'è dubbio che, fatta l'Italia, si adoperò intensamente a "fare gli italiani": la signora Rattazzi, che probabilmente fu la sua amante, non esita a definirlo nelle sue memorie, come «molto corrotto».
In Inghilterra, poi, non fu precisamente fortunato. Ai suoi amici era solito raccontare una storia poco credibile: una figlia della regina Vittoria si era innamorata di lui, ma conosceva troppo bene il greco e il latino per i suoi gusti. In realtà le cose erano andate diversamente.
Rimasto vedovo, Vittorio Emanuele II si recò in Inghilterra con lo scopo segreto di trovare una principessa inglese da sposare.
I diplomatici italiani fecero sforzi affannosi perché il sovrano si comportasse decentemente nell'ambiente puritano di Windsor, ma non poterono impedire che il suo arrivo fosse preceduto da un rapporto poco lusinghiero dell'ambasciatore inglese in Francia, il quale riferì che a Parigi Vittorio Emanuele II aveva creduto di divertire l'imperatrice francese e la sua corte esprimendo la propria piacevole sorpresa nel constatare che le signore francesi non usavano mutande.
Comunque, a Windsor Vittorio Emanuele II non scandalizzò, ma sconcertò per la studiata fierezza dei suoi atteggiamenti, e per le frottole che snocciolava: si vantava di aver reciso la testa a un toro con una sciabolata e di esser così occupato nelle cure dello Stato da poter dormire solo due ore per notte (mentre si sapeva che era di un'oziosità incredibile)...”

(Articolo completo in: www.gazzettadisanta.eu)

 

Esistono anche le Reginette di Vittorio Emanuele II: 1 cipolla, olio, 200 g di prosciutto cotto, 200 g di funghi porcini surgelati, sale, vino bianco qb, 300 g di reginette, 3 uova, parmigiano qb, pepe, prezzemolo qb.
Affettare la cipolla e rosolarla in padella con il prosciutto cotto. Aggiungere i porcini, salare e sfumare con il vino. Mettere a cuocere la pasta. Quando è pronta, scolare la pasta e saltarla con il sugo ai funghi. A fuoco spento aggiungere le uova, precedentemente sbattute con il parmigiano, e mescolare bene. Completare con pepe e prezzemolo.

 

Una frase al giorno

“Chiedo scusa per quello che il governo del mio paese sta facendo al mondo”.

(Joan Baez, cantautrice, chitarrista e attivista americana, nata il 9 gennaio 1941)

 

Un brano musicale al giorno

Barbara Buczek, Anekumena: Concerto For 89 Instruments (1974)

 


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

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Ugo Brusaporco

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