L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno IV. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...
Un film al giorno
TIGRE REALE (La tigresse royale, Koningstijger, O tigre real, Tigre real. Italia, 1916), regia Piero Fosco (Giovanni Pastrone). Soggetto dal romanzo omonimo di Giovanni Verga. Sceneggiatura: Giovanni Pastrone. Fotografia: Giovanni Tomatis, Segundo de Chomón. Cast: Pina Menichelli (la Contessa Natka), Alberto Nepoti (l’ambasciatore Giorgio La Ferlita), Febo Mari (Doski), Valentina Frascaroli (Erminia), Gabriel Moreau (il Conte de Rancy), Ernesto Vaser (il droghiere), Enrico Gemelli, Bonaventura Ibañez.
Parigi. La contessa russa Natka, durante un ricevimento, incontra il diplomatico Giorgio La Ferlita, ed è causa di un duello fra questi e un ufficiale che esige da lei un ballo già promesso. Durante un incontro con Giorgio, che si è innamorato di lei, Natka gli racconta la sua vita avventurosa. "In Russia ero l'amante del mio guardiacaccia, il rivoluzionario Dolski, ma mio marito, venuto a conoscenza della relazione, lo fece esiliare in Siberia. Disperata per il distacco, ero andata a raggiungerlo, ma solo per scoprire che viveva con un'altra donna. Addolorata fuggii, delirando senza meta, finché non venni accolta e assistita da alcuni contadini. Poi non volli più saperne di Dolski, il quale, disperato per essere stato respinto, si uccise con una revolverata sotto i miei occhi". La contessa Natka rimane per lungo tempo lontana da Giorgio, il quale, pur sempre innamorato di lei, si lega nel frattempo a una ricca ereditiera. Dopo qualche mese Natka, malata di tisi, ritorna e invita il diplomatico a un ultimo appuntamento in un albergo. Durante l'incontro scoppia un incendio e sopraggiunge anche il marito di Natka, il quale, furioso di gelosia, chiude a chiave nella camera i due amanti, nell'intento di farli morire. Essi riescono però a salvarsi, mentre è il marito a perire tra le fiamme.
“Subito dopo il successo di Il fuoco (1915) e avendo sotto contratto una Pina Menichelli che affascinava le platee con la sua silhouette serpentina e il suo porsi da maliarda, Giovanni Pastrone decise di tirar fuori dal cassetto un soggetto che vi dormiva dal 1912, quando l'aveva acquistato dalla contessa Dina Castellazzi di Sordevolo come sua opera originale. In realtà, Tigre reale era la sceneggiatura cinematografica di una novella di Giovanni Verga, che l'autore siciliano aveva ceduto per interposta persona alla Itala per la somma di seicento lire.
La vicenda di Tigre reale, rispetto al precedente Il fuoco, compatto nella sua struttura narrativa imperniata sul trittico 'favilla-vampa-cenere', ha uno sviluppo diseguale poiché incastra nel racconto il lungo flashback relativo al drammatico passato della contessa russa, che, seppure splendidamente realizzato, appare come autonomo rispetto al contesto dominante della vicenda. Pastrone si attiene al giovanile racconto di Verga solo nelle linee essenziali, ma nelle didascalie riporta alla lettera il dialogato della novella che risulta cinematograficamente inappropriato e talvolta francamente risibile.
Eppure - come rileva acutamente Gian Piero Brunetta - la struttura espressiva di Tigre reale "già rivela un maturo dominio dei procedimenti cinematografici […]. Il montaggio, specie nel finale, è costruito mediante parallelismi molto marcati (l'albergo sta andando a fuoco mentre la folla, nel teatro, applaude la 'danza del fuoco'), l'assunzione del punto di vista dei personaggi produce effetti di visione nettamente cinematografici (lo specchio retrovisore in primo piano attraverso cui, dalla macchina in corsa, Natka osserva Giorgio che corre nella strada). Ma ciò che più importa è il sovvertimento dei codici morali. L'adulterio è legittimato, Natka spinge il suo amante a suicidarsi, i valori borghesi appaiono completamente cancellati".
Presentato in première di gala nei maggiori cinematografi italiani, Tigre reale vi tenne il cartello per settimane a sale esaurite a ogni spettacolo. Le recensioni furono dei veri e propri peana al lavoro di Pastrone. Ma soprattutto è per la protagonista che vennero spese le maggiori lodi. In effetti Pina Menichelli, sinuosa e smaniante, trasognata e irreale, sembra animarsi da un quadro di Giovanni Boldini; avvolta in favolose toilettes impellicciate e piumate, ha estenuazioni di spasimo e rapide riprese, morde voluttuosamente una rosa o tormenta una collana di perle che le arriva fino ai piedi.
Poteva la censura non fare le sue riserve? La parte finale del film subì il maggior vilipendio con il taglio di varie scene in cui la protagonista è tra le braccia dell'amante (e relative didascalie).”
(Vittorio Martinelli - Enciclopedia del Cinema (2004) in www.treccani.it)
“Nella copia di Tigre reale che oggi conosciamo la contessa Natka, al secolo Pina Menichelli, dopo aver seminato passione e morte sul suo estenuato cammino di diva, si redime in un frettoloso happy end: il grande incendio dell’albergo in cui si era recata per morire accanto all’amante le offre occasione di rinascita simbolica dalle fiamme del peccato e la libera provvidenzialmente del legittimo marito. Non solo la dark lady fedifraga non viene punita dal destino, ma guarisce dal suo male e può godersi alla luce del sole le gioie della passione ricambiata.
Questa chiusa può sorprendere chi ha famigliarità con la mentalità italiana dell’epoca, solitamente tesa a celebrare la funzione sacrificale della donna, sia essa sposa o ‘traviata’. Un altro piccolo mistero, apparentemente di tutt’altra natura, riguarda la presenza nel film di Valentina Frascaroli, annunciata dai titoli di testa e celebrata nelle recensioni ma della quale nella copia non appare traccia. Qualcosa non torna?
Lo studio dei documenti di produzione e delle recensioni d’epoca ci rivelano che è proprio così. Il finale sopravvissuto è quello di una speciale versione inglese, evidentemente adattata per il gusto di un pubblico ritenuto di mentalità più aperta. In origine ben altro era il destino dei personaggi: in linea con la novella di Verga da cui il film è tratto, quando Natka ritorna da lui, Giorgio non è impegnato con una sacrificabile fidanzata, bensì sposato con Erminia e padre di un bimbo piccolo. L’alternativa tra passione e famiglia si traduce in un montaggio che alterna l’incontro notturno tra gli amanti con la disperazione della moglie/madre che veglia sulla culla del figlio improvvisamente ammalatosi di difterite. A interpretare la difficile parte di Erminia, contraltare alla presenza magnetica della diva Menichelli, Pastrone chiamò proprio Valentina Frascaroli. Della sua interpretazione rimane una traccia preziosa nei fotogrammi cuciti sul ‘campionario colore’, un documento di produzione utile ai tecnici di laboratorio addetti al montaggio e alla tintura.”
(Stella Dagna in festival.ilcinemaritrovato.it)
“Viene considerato il secondo episodio di un “dittico dannunziano” composto da Il fuoco (1915) e Tigre reale, entrambi diretti da Giovanni Pastrone e interpretati da Pina Menichelli. Giovanni Pastrone firmò il film con lo pseudonimo di Piero Fosco; per alcuni anni vennero avanzate diverse ipotesi sulla reale identità del “misterioso” regista che si celava dietro tale nome d’arte. In alcune fonti il personaggio Doski viene indicato come Dolskij; a seconda delle fonti, si tratta di uno studente di idee rivoluzionarie o di un guardiacaccia.
Distribuito in Francia, Olanda e Spagna. Venne proiettato ad Amsterdam nel marzo 1917, con un lancio pubblicitario che poneva l’accento sulla fama di Giovanni Verga; venne distribuito in Portogallo nel 1919.
Copie conservate presso: Cineteca Nazionale (Roma); Museo Nazionale del Cinema (Torino); Nederlands Filmmuseum (Amsterdam).
I nulla osta e alcuni quaderni di produzione relativi al film e alla produzione dell’Itala Film sono conservati presso il Museo Nazionale del Cinema di Torino.
Il film è stato proiettato durante la XI edizione del Festival Internazionale Cinema Giovani (ora Torino Film Festival, 13-20 novembre 1993) nella sezione Il centenario - Cinema e critica. Gli anni del muto in una copia colorata e restaurata dal Museo Nazionale del Cinema di Torino in collaborazione con la Cineteca del Comune di Bologna. I colori usati rispecchiano quelli usati abitualmente all’epoca dall’Itala Film e sono arancio, rosso, giallo, verde, verde speciale, rosa e blu.
Una copia restaurata del film della durata di 80 minuti (35mm, 1.742 metri) è stata proiettata nel 1994 al Festival del Cinema Ritrovato di Bologna, con didascalie in italiano e accompagnamento al pianoforte del Maestro Stefano Maccagno (velocità: 18 f/s). Provenienza: Museo Nazionale del Cinema (Torino).
«Condotto con senso della misura, il film avrebbe comunque raggiunto una toccante drammaticità, ma l’enfasi che ne sottolinea tutti gli episodi gli toglie il respiro e ne annulla le sensazioni emotive!»
(“Le Cinéma et l’Echo du cinéma réunis” n. 234, 1.12.1916).
«Qualcuno volle forse troppo leggermente accusare l’Itala di imperfezione nella riduzione di Tigre reale, il romanzo di G. Verga. Anche qui nulla di più errato. Ridurre non vuol dire ridurre pedestremente tutto quanto può esservi di stampato nelle trecento pagine di un volume. Ridurre in cinematografo vuole dire (e vorrei che lo sentissero certi ignobili riduttori che non hanno l’anima di chi ridusse Tigre reale) semplicemente adattare arrivando poi a dare allo spettatore non importa con quali mezzi, la stessa impressione che il libro od il copione possono dare sia attraverso alle righe che alle battute. Ecco il grande ed eterno equivoco! Troppi ancora ignorano che cosa sia ridurre, o meglio adattare l’opera teatrale o letteraria al cinematografo senza travisarne la sostanza, l’essenza, il concetto fondamentale ed inspiratore. Quante opere meravigliose non sono già state barbaramente rovinate da certi sedicenti riduttori? Chi conosce il dramma del Verga sa bene quanta prolissità esso contenga. Nell’opera del Verga il romanzo finisce di originarne due e uno vive ai danni dell’altro. [...] Io vorrei che tutti intendessero la riduzione come seppe intenderla Piero Fosco, il poeta del cinematografo, un francescano di questa arte alla quale egli ha aperto nuove vie buone. Fuoco e Tigre reale! Due simboli di nuovo. Il primo della rivelazione di un campo inesplorato, di una miniera preziosissima, l’altro la enunciazione del vero modello d’adattamento cinematografico»
(A.o Menini, “Film”, a. III, n. 33, 3.11.1916).
«Già altra volta parlammo di “Tigre Reale” e di Pina Menichelli e, se non andiamo errati, furono parole del più alto elogio quelle che ci servirono ad illustrare quel “film”. Tanto di elogio che pure oggi, benché si tratti di una ripresa, ci siamo sentiti spinti a soffermarcisi ancora un po’. Niente diremo degli interpreti (Pina Menichelli, Alberto Nepoti) i quali, naturalmente, sono a posto, come lo erano nel passato, ma ci domandiamo solamente perché qualcuno s’è scomodato a cambiare il finale del lavoro. Domanda questa che non è priva di interesse in quanto ci è sembrato di assistere ad un rinnovamento privo d’interesse e di nessun effetto pratico»
(Marfa, “L’Arte del Silenzio”, a. III, n. 24/6, 15.3.1922).
«Secondo momento del dittico dannunziano, realizzato subito dopo Il fuoco, Tigre Reale è un poema sulla forza dell’amore e sulla distruttività della memoria, sulla femme fatale e sulla ossessione della colpa. Radicato in una rappresentazione fittizia del mondo dell’aristocrazia e intessuto di passioni folgoranti, di lacerazioni e di perdite improvvise, Tigre Reale legge insieme come dramma e come empito di riscatto l’amore totale di origine romantica. L’amore tra Natka, la contessa russa sregolata e tormentata, e l’elegante diplomatico Giorgio La Ferlita è reso drammatico dal ricordo di un’avventura trasgressiva e amorale della contessa con un giovane studente rivoluzionario polacco (come attestano i quaderni di produzione dell’Itala Film, smentendo un luogo comune della critica).
Ridisegnato sui rituali e le simbologie del mondo dorato della nobiltà, Tigre Reale è poi un’interpretazione dell’infinito possibile dell’amore e del suo tragico intrecciarsi con il destino. Nel film tutto è per un verso rarefatto, condotto alle pure vibrazioni del sentimento, e per un altro verso eccessivo, quasi enfatico nella sacralizzazione della passione. Come Il Fuoco, Tigre Reale celebra l’immaginario irragionevole di un universo di cerimonie, di passioni e di morte che ripetono l’assunto dannunziano del “vivere di vita inimitabile”. [...] Tutto il lavoro di messa in scena è funzionale alla dimensione del pathos come forza spettacolare e valorizza sia le sorprese e i veri e propri coups de théâtre dello sviluppo narrativo, sia le componenti visive e scenografiche. Dopo la fondamentale esperienza di Cabiria, Pastrone sa organizzare lo spazio del film come uno spazio dinamico in cui i personaggi muovono liberamente nella scena e si intrecciano pienamente agli oggetti e agli ambienti. Pastrone costruisce sequenze elaborate, segnate anche da una cauta differenziazione della scala dei piani. È consapevole che la rappresentazione è strutturazione dello spazio, mentre usa forse con minore maestria l’articolazione del tempo e dunque il ritmo attraverso il montaggio. Negli ambienti, spesso arredati con lusso, muove come una ammaliatrice Pina Menichelli, forse l’attrice che più ha contribuito a creare e a sancire i modi, i gesti e le figurazioni della Diva italiana. La sua recitazione è palesemente artificiale, eccessiva. I gesti, gli sguardi, la mimica del volto puntano a delineare un universo inimitabile, riservato a personaggi dannunziani dai grandi destini. Pastrone insieme segue e dilata l’interpretazione della Menichelli, costringendola a volte a ripetizioni e prove defatiganti. Il risultato è la creazione di un personaggio vibrante e del tutto fittizio, in conformità alle caratteristiche dell’eroina dannunziana una figura che racchiude come una metafora non conchiusa gli aspetti essenziali di uno stile»
(P. Bertetto, Catalogo del Festival Internazionale Cinema Giovani, Lindau, Torino, 1993).
«Tigre reale, che Verga aveva scritto nel 1873, era stato offerto alla Itala Film dalla contessa Dina Castellazzi di Sordevolo come proprio: in realtà, lo scrittore siciliano voleva evitare di firmare con il proprio nome una sceneggiatura tratta da una sua novella. Acquistato dalla casa torinese per seicento lire nel settembre del 1912, il soggetto era rimasto nel cassetto fino al 1916, quando Pastrone, in questa vicenda che riflette le raffinatezze del dannunzianesimo in tutto il suo decorativo splendore, pensò di utilizzarlo per la Menichelli, rivelatasi dopo il successo de Il fuoco, l'interprete ideale. [...] Pastrone si attiene al giovanile racconto di Verga solo nelle linee essenziali, ma nelle didascalie riporta alla lettera il dialogato della novella, che risulta cinematograficamente inappropriato e talvolta risibile. [...] Presentato in premières di gala nei maggiori cinematografi italiani, Tigre reale vi tenne il cartello per settimane a sale esaurite ad ogni spettacolo. Le recensioni furono dei veri e propri peana al lavoro di Pastrone [...]. Se il documento essenziale della letteratura del decadentismo è Il piacere di D'Annunzio, Il fuoco e Tigre reale ne sono il corrispondente cinematografico. Poteva la censura non fare le sue riserve? Purtroppo, anche in questo caso intervenne con le sue inesorabili forbici. La parte finale del film subì il maggior vilipendio, con il taglio di varie scene in cui la protagonista è tra le braccia dell'amante (e relative didascalie)» (V. Martinelli, Pina Menichelli. Le sfumature del fascino, Roma, Bulzoni, 2002).
(Scheda a cura di Azzurra Camoglio in www.torinocittadelcinema.it)
- Il film: Tigre reale (Giovanni Pastrone, 1916)
L’attrice Pina Menichelli: “Giuseppa Iolanda Menichelli nasce a Castroreale, (ME) il 10 gennaio 1890 da Francesca Malvica e Cesare Menichelli, entrambi attori. Il padre discende da una famiglia di teatranti il cui capostipite è Nicola, importante capocomico a Venezia nella seconda metà del Settecento. Secondogenita di quattro figli, Lilla, Dora e Alfredo, tutti poi avviati alla carriera drammatica, Pina viene mandata, con Dora, a studiare a Bologna presso il collegio delle suore del Sacro Cuore, ma prende presto la via del palcoscenico, seguendo le orme dei genitori e della sorella maggiore Lilla, così come farà la sorella Dora, che diventerà anche cantante.
(Articolo completo in: www.ilcinemamuto.it)
Una poesia al giorno
Lily of the Valley, di Charles G. D. Roberts
Did Winter, letting fall in vain regret
A tear among the tender leaves of May,
Embalm the tribute, lest she might forget,
In this elect, imperishable way?
Or did the virgin Spring sweet vigil keep
In the white radiance of the midnight hour,
And whisper to the unwondering ear of Sleep
Some shy desire that turned into flower?
Mughetti, di Charles G. D. Roberts (libera traduzione dall'inglese in www.flickr.com)
Fu l’inverno, che lasciò cadere con vano rammarico
una lacrima tra le tenere foglie di maggio,
in questo modo indelebile,
nel timore che lei possa dimenticare?
O fu la virginale primavera,
in premurosa veglia
nel pallido chiarore dell’ora notturna,
a confidare all’insensibile orecchio dei sogni
alcuni timidi desideri tramutatisi in fiore?
“Sir Charles George Douglas Roberts (10 gennaio 1860 - 26 novembre 1943) fu un poeta canadese e scrittore di prosa. Fu uno dei primi autori canadesi ad essere conosciuto a livello internazionale. Ha pubblicato vari lavori sull'esplorazione canadese e la storia naturale, versi, libri di viaggio e narrativa. Ha continuato a essere un noto uomo di lettere fino alla sua morte.
Oltre al suo corpus di opere, Roberts è stato anche chiamato il "padre della poesia canadese" perché è stato fonte d'ispirazione e fonte di assistenza per altri poeti canadesi del suo tempo.
Un fatto al giorno
10 gennaio 1929: Tintin, un personaggio dei fumetti creato da Hergé, fa il suo debutto. Sarà pubblicato in oltre 200 milioni di copie in 40 lingue.
“Tintin è un personaggio immaginario protagonista della serie a fumetti belga Le avventure di Tintin ideata e disegnata da Hergé comunemente ritenuto antesignano e modello di riferimento dello stile della linea chiara della scuola franco-belga. Tintin è un giovane reporter belga, protagonista di avventure in ogni parte del mondo insieme all'inseparabile cagnolino Milù (Milou). A partire dal nono albo della serie Il granchio d'oro è affiancato dal collerico capitano Haddock, e a partire dal dodicesimo albo Il tesoro di Rackam il Rosso, dallo scienziato Trifone Girasole.
Di Tintin non si conosce nulla, né famiglia né l'età; si sa che è un reporter, anche se non lo vediamo mai al lavoro. Per giustificare i suoi impegni in giro per il mondo senza un’evidente fonte di reddito, l'autore Hergé lo fa partecipare a una fortunata caccia al tesoro, che (evidentemente) permette a lui e ai suoi amici, il Capitano Haddock e il bizzarro Professor Girasole di vivere di rendita. In molti episodi vi sono anche due poliziotti non molto capaci, amici di Tintin, con i nomi simili Dupont e Dupond. Sono gemelli, tutti e due vestiti con bombetta e bastone, e appaiono come personaggi la prima volta nell'episodio I sigari del faraone con i nomi X-33 e X-33bis.
I personaggi antagonisti con cui Tintin si confronta sono in genere spie, falsari, trafficanti di droga e schiavisti.”
(In it.wikipedia.org)
“Le avventure di Tintin (Les Aventures de Tintin) è una serie a fumetti belga ideata e disegnata dal 1929 al 1983 da Hergé incentrata sull'omonimo personaggio immaginario di Tintin. Le storie della serie sono contestualizzate con la realtà storica del XX secolo a partire già dal primo episodio - ambientato nella Russia bolscevica del 1929 e nella repubblica di Weimar - e anche i successivi si svolgono in contesti realistici - come il Congo del 1930, il nord America del 1933, la Cina occupata dai giapponesi nel 1934, l'Inghilterra, il Belgio e la Scozia nel 1937, in uno stato immaginario situato nell'Europa dell'Est identificabile con l'ex Jugoslavia nel 1940, e poi l'Austria invasa dai tedeschi e arrivando poi, storia dopo storia, fin sulla Luna, ai dirottamenti aerei e ai dittatori sudamericani - il tutto frutto di un approfondito lavoro di ricerca dell'autore. Lo stile che ne caratterizza le tavole a fumetti - un tratto limpido e netto, con vignette pulite, senza altri segni oltre a quelli essenziali denominato poi ligne claire - fanno della serie un'antesignana e un modello di riferimento per la scuola franco-belga. La serie, esordita nel 1929, è ancora molto popolare e continua a essere riproposta e a vendere milioni di copie in tutto il mondo oltre ad avere ispirato trasposizioni radiofoniche, televisive, cinematografiche e un vasto merchandising. La serie è costituita da 24 storie in lingua francese delle quali l'ultima è rimasta incompiuta. Le prime otto vennero pubblicate tra il 1929 e il 1941 in bianco e nero con tavole a sei vignette e negli anni Quaranta e Cinquanta vennero tutte ridisegnate - tranne la prima - per renderle omogenee con le successive che venivano pubblicate in albi a colori di 48 pagine con tavole a dodici vignette; l'ultima storia risale al 1983, anno di morte dell'autore. La serie esordì in francese il 10 gennaio 1929 sul settimanale belga Le Petit Vingtième, supplemento del quotidiano Le vingtième siècle, dove viene pubblicato fino al 1942 quando la serie continua la pubblicazione su Le Soir Jeunesse, supplemento al quotidiano Le Soir, fino al 1946 quando debutta su una testata propria, Le Journal de Tintin (Kuifje nella versione fiamminga).
Le storie vennero illustrate da Hergé dopo un lavoro di documentazione che comprendeva le fotografie dei luoghi e degli oggetti da disegnare. Il suo tratto, originale e personale, caratterizzato da un segno sottile, pulito ed elegante venne poi imitato da molti suoi colleghi belgi e francesi e denominato linea chiara. Prima della morte, avvenuta nel 1983, Hergé aveva chiesto che la sua serie non venisse continuata da altri. …. La geografia e la storia del 1900 creano per Hergé la sceneggiatura e le ambientazioni mentre le trame sono fatte di comicità e storie avvincenti, legate da personaggi strambi e speciali a volte surreali. Tintin è un eroe acculturato, dotato di spirito di avventura ma anche di osservazione e sete di conoscenza che lo porta a capire e apprendere la cultura di ciascun popolo con cui entra in contatto.
Tintin è un giovane reporter in giro per il mondo; si trova a vivere avventure nelle quali sventa le trame di malvagi personaggi offrendo aiuto a chi ne ha bisogno. Insieme a lui c'è l’irascibile capitano Haddock, un vecchio marinaio; il professor Girasole, uno scienziato geniale quanto distratto; la cantante d’opera Bianca Castafiore, invaghita del capitano; due poliziotti, Dupont e Dupond, e il cane Milù.”
(In it.wikipedia.org)
Una frase al giorno
“Il pensiero è una cosa che ti dà le vertigini”
(Dashiell Hammett da “Il bacio della violenza”)
Il 10 gennaio 1961 muore Dashiell Hammett, scrittore e romanziere poliziesco americano.
Dashiell Hammett, che era nato nel 1894, pubblicò il suo primo romanzo nel 1929: era Raccolto rosso; nello stesso anno uscirono Il bacio della violenza (The Dain Curse) e Il falcone maltese; nel 1930 La chiave di vetro e nel 1934 L’uomo ombra. Poi smise di scrivere.
Un brano musicale al giorno
Benjamin Godard, Dante - Dante in Hell - La nuit!
Benjamin Louis Paul Godard fu un violinista francese e compositore. La sua opera Dante, dramma lirico in quattro atti, libretto di Édouard Blau, ebbe la prima rappresentazione il 13 maggio 1890, a Parigi.
Orchestra: Münchner Rundfunkorchester, Direttore: Ulf Schirmer
“Benjamin Louis Paul Godard (Parigi, 18 agosto 1849 - Cannes, 10 gennaio 1895) fu violinista e compositore francese, di estrazione ebraica di epoca romantica, noto soprattutto per la sua opera Jocelyn. Studiò musica con il maestro Reber al Conservatorio di Parigi per la composizione e poi di Vieuxtemps per il violino. Fu grande compositore di musica da camera, dotato di una straordinaria perizia tecnica nell'esecuzione, oltre alla piacevolezza melodica, unita all'eleganza armonica e alla proprietà di scrittura. In effetti, la sua tematica si rivelò, talvolta, accostabile alla corrente tardo-romantica, e anche i suoi passi più originali son forse un po' appesantiti da una certa verbosità.
Scrisse tuttavia anche varie sinfonie per orchestra, tra cui la Sinfonia orientale (1884) e la Sinfonia leggendaria (1886). Fu inoltre autore di varie opere teatrali, tra cui si ricordano l'ottima Jocelyn (1888) e l'infelice Dante e Beatrice (1890).”
(In wikipedia.org)
Ugo Brusaporco
Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.
INFORMAZIONI
Ugo Brusaporco
e-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.
È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.
Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.
“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”
(Wikipedia)
“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”
(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)
“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.
(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)
“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”
(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)
“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”
(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)
“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.
(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)
Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/
Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0
https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs
https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4
https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk
Una poesia al giorno
Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].
Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi
che certo guarderanno male la nostra gioia,
talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?
Andremo allegri e lenti sulla strada modesta
che la speranza addita, senza badare affatto
che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?
Nell'amore isolati come in un bosco nero,
i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,
saranno due usignoli che cantan nella sera.
Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,
non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene
accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.
Uniti dal più forte, dal più caro legame,
e inoltre ricoperti di una dura corazza,
sorrideremo a tutti senza paura alcuna.
Noi ci preoccuperemo di quello che il destino
per noi ha stabilito, cammineremo insieme
la mano nella mano, con l'anima infantile
di quelli che si amano in modo puro, vero?
Nous serons
N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants
Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,
Nous serons fiers parfois et toujours indulgents
N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie
Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,
Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.
Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,
Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,
Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.
Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible
Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,
S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.
Unis par le plus fort et le plus cher lien,
Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,
Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.
Sans nous préoccuper de ce que nous destine
Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,
Et la main dans la main, avec l'âme enfantine
De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?
Un fatto al giorno
17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.
(da Focus)
Una frase al giorno
“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”
(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)
Un brano al giorno
Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k