L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno III. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...
Un film al giorno
THE TRIAL (Il processo, Francia, Italia, Germania, 1962), regia di Orson Welles. Prodotto da Alexander Salkind. Sceneggiatura di Orson Welles da “Il processo” di Franz Kafka. Musica: Jean Ledrut. Fotografia: Edmond Richard. Cast: Anthony Perkins - Josef K. Jeanne Moreau - Marika Burstner. Romy Schneider - Leni. Elsa Martinelli - Hilda. Suzanne Flon - Miss Pittl. Orson Welles - Albert Hastler, The Advocate. Akim Tamiroff - Bloch. Madeleine Robinson - Mrs. Grubach. Paola Mori - Court archivist. Arnoldo Foà - Inspector A, Fernand Ledoux - Chief Clerk of the Law Court. Michael Lonsdale - Priest. Max Buchsbaum - Examining Magistrate. Max Haufler - Uncle Max. Maurice Teynac - Deputy Manager. Wolfgang Reichmann - Courtroom Guard. Thomas Holtzmann - Bert the law student. Billy Kearns - First Assistant Inspector. Jess Hahn - Second Assistant Inspector. Naydra Shore- Irmie, Joseph K's cousin. Carl Studer - Man in Leather. Jean-Claude Rémoleux - Policeman #1. Raoul Delfosse - Policeman #2. William Chappell - Titorelli.
“Josef K., un impiegato che conduce un'esistenza tranquilla e rispettabile, una mattina viene svegliato dalla polizia che gli annuncia di essere in arresto sebbene non in stato di detenzione. K. non comprende la ragione dell'arresto, proclama la sua innocenza e si professa vittima di una palese ingiustizia. Condotto davanti alla corte suprema, pronuncia un vibrante discorso accusando tutti i giudici di ordire un complotto contro le persone comuni, arrestate casualmente e senza nessuna prova.
Negli ambienti giudiziari, K. ha a che fare con personaggi oscuri, con donne usate come merce di scambio e con altri accusati, succubi, ma forse anche complici, di una giustizia del tutto incomprensibile. Spinto dallo zio, si affida a un avvocato (interpretato dallo stesso Welles), venerato dai clienti e rispettato dalla corte, che però sembra interessato a tutto fuorché alla sorte dei suoi clienti.
Nel suo girovagare nei meandri del tribunale in cerca di una via d'uscita dalla sua odissea giudiziaria, K. fa incontri bizzarri come il pittore della corte suprema (il cui atelier è una sorta di voliera nella quale vive tormentato dagli sguardi dei bambini), e a poco a poco viene scoraggiato dal proseguire la sua battaglia ed è costretto a rassegnarsi. Il destino di Josef K. è segnato: due funzionari lo prelevano, lo portano nella brughiera e lo giustiziano con della dinamite.
Nel 1960, Welles, mentre sta partecipando con un cameo al film Napoleone ad Austerlitz di Abel Gance, viene contattato dal produttore Alexander Salkind che gli propone di trasporre sullo schermo cinematografico il soggetto del romanzo Il processo di Franz Kafka. Il film verrà girato nel 1962 tra Italia, Francia e Jugoslavia. Welles, da sempre interessato al progetto, si getta a capofitto nella regia interpretando anche la parte dell'avvocato Hastler (sebbene più per necessità che per volontà, in quanto Charles Laughton, cui avrebbe voluto assegnare il ruolo, era molto malato e impossibilitato ad accettare l'ingaggio).
Come altri film di Welles, Il processo venne girato al di fuori del sistema degli studios hollywoodiani con un costo ridotto. A dispetto della difficoltà produttiva, e forse proprio per questo, insieme a Quarto potere è uno dei pochi film aderenti alla volontà realizzativa del regista.
Il film visivamente è ricchissimo e tecnicamente si segnala per virtuosismi davvero inusitati per l'epoca. Il montaggio al principio è piuttosto lento per velocizzarsi man mano che la storia procede. Girato in uno scintillante bianco e nero dai contrasti molto forti e con il frequente uso del grandangolo (il 18.5 mm) per deformare le immagini e accentuare il senso di minaccia latente e la claustrofobia delle atmosfere, il film fa sfoggio di scenografie imponenti e allucinanti al tempo stesso (il palazzo di giustizia, l'ufficio di K., lo studio di Hastler, ecc.) che rendono in pieno il pesante senso di soffocamento presente nel romanzo originario.
La fotografia e le scenografie ci proiettano in un mondo allucinato, il bianco e nero taglia le figure in modo netto, esalta ogni contorno, conferisce agli ambienti un'aura spettrale, espressionista, metallica. Gli ambienti in cui si muove K. sembrano ripresi direttamente da Metropolis di Lang, una città fredda, di ferro e vetro, in questo caso disabitata. L'unica rappresentazione di folla mostrataci da Welles sono gli accusati in tribunale, persone in attesa da anni, come anime di un surreale purgatorio. Le altre persone o non hanno un volto, come i giudici della corte suprema, oppure sono persone sfigurate dalla bruttezza interiore.
Solamente le donne offrono a K. un aiuto, seppure talvolta inconsistente, ma anch'esse sono le vittime di un sistema che permette loro di esistere solamente a causa dei loro corpi.
Un elemento molto particolare di questo lungometraggio è la sequenza di apertura, giudicata da alcuni critici la parte migliore del film. L'intera sequenza è stata realizzata da Alexandre Alexeieff usando il suo celebre schermo di spilli: uno schermo in cui erano infissi perpendicolarmente migliaia di spilli retrattili, che proiettavano un'ombra a seconda del modo in cui venivano spostati; grazie quindi al gioco di chiaroscuri prodotto dalle ombre degli spilli, si potevano realizzare immagini in movimento.
Le reazioni al film furono contrastanti. Parte della critica rimproverò a Welles una certa "freddezza" nell'esposizione del racconto, l'incapacità di coinvolgere lo spettatore nella vicenda narrata. La critica più frequente che venne mossa al regista fu quella di non essersi attenuto rigorosamente all'opera di Kafka. In effetti, Il processo di Orson Welles differisce notevolmente dall'originale kafkiano. Il protagonista Josef K. è molto più aggressivo, spavaldo e ironico che nel libro; manca inoltre il cosiddetto "monologo interiore" che sottintende tutto lo svolgersi della storia. Sparisce la passività del K. letterario e il finale viene significativamente modificato rispetto al romanzo. Anche la scelta di Anthony Perkins come protagonista venne criticata, ritenuto l'attore statunitense troppo poco espressivo e "caricato" nella recitazione, i personaggi senza spessore e gli attori generalmente mal diretti.
Non tutte le critiche furono negative però, alcuni critici lodarono la maestria di Welles nel rendere sullo schermo le atmosfere allucinate simili a un incubo del romanzo di Kafka, e l'immaginifico talento visivo del regista. Il critico Sandro Studer, sul n° 3 di Metropolis (maggio 1979) arrivò a definire il film "il vero capolavoro di Welles, degno di stare alla pari con Quarto Potere". Anche lo stesso Welles era soddisfatto dell'opera e così si espresse, durante un'intervista pubblicata ai Cahiers du cinéma, nei confronti di essa: «Dite quel che volete, ma Il processo è il miglior film che abbia fatto».
In definitiva, Orson Welles mostra con grande lucidità un universo in cui la follia è una miscela di freddezza, perversione e carnalità, dove tutti sono colpevoli e dove molti sono solo pedine in un gioco a loro incomprensibile, come i poliziotti incaricati dell'arresto di K., torturati perché questi aveva detto davanti alla corte di essere stato derubato da loro.
Il film racconta la discesa di un cittadino nel claustrofobico ambiente giudiziario, in una carrellata di ambienti che vanno via via restringendosi, dalla ampiezza dell'aula della corte suprema agli spazi angusti dei corridoi e dell'atelier del pittore. Questo effetto trasmette allo spettatore il crescere dell'angoscia di K., che si placa solo nel momento in cui accetta la condanna e il suo destino, momento in cui ci è mostrato nuovamente un ambiente aperto. In più, la scelta delle inquadrature fa chiaramente vedere al pubblico come sia piccolo e insignificante il comune cittadino di fronte all'imponenza della legge; questo è palese ad esempio nella sequenza in cui Josef e la cugina si trovano davanti al palazzo di giustizia e i loro corpi si perdono tra la maestosità delle statue che adornano la scalinata.
Le differenze fondamentali tra la trama de Il processo e quella del film riguardano soprattutto la seconda metà della pellicola e il finale. Nel romanzo il signor K. si reca al duomo per far da cicerone ad un cliente della banca in cui lavora, mentre nel film si ritrova improvvisamente nella cattedrale dopo la fuga dallo studio del pittore Tintorelli. Inoltre, nello studio di costui, mentre nel film viene visivamente spiato dalle ragazzine che si trovano sulle scale, nel romanzo ciò non avviene, per quanto queste assedino lo studio del pittore quotidianamente.
La scena nel duomo è cruciale tanto nel film quanto nel romanzo: in entrambi infatti è lì che al signor K. viene raccontata la storia de Davanti alla legge (Kafka). Nel film è l'avvocato - misteriosamente ivi comparso - a raccontarla, mentre nel libro è il sacerdote a enunciarla. Nel film il signor K. già conosce la storia, mentre nel romanzo no. Questa potrebbe essere un'allusione al fatto che Kafka avesse effettivamente pubblicato la storia molto prima della pubblicazione postuma del romanzo. Inoltre nel libro il prete e K. discutono poi del contenuto della leggenda, lasciando ad intendere che non si possa giungere ad un'interpretazione univoca. Tale passaggio è in realtà fondamentale nel romanzo in quanto allusione metaletteraria alla macchina di metafore messa in moto da Kafka ne Il processo (e in altre sue opere): la scrittura di Kafka metaforizza situazioni psicologiche e storiche fino al punto di rendere il significato della metafora irriconoscibile. Così, mentre solitamente la metafora è significante di un significato, le metafore di Kafka diventano significato e tutte le interpretazioni possibili diventano significante. Tale passaggio è completamente omesso nell'opera cinematografica di Welles.
Il finale inoltre è completamente stravolto. Nel libro K. viene ucciso per sgozzamento dai due uomini che lo trascinano alla miniera per mettere in atto, presumibilmente, la condanna di morte emessa dal tribunale; nel film K. ha invece una reazione di aggressiva derisione nei confronti dei due strani individui, che fuggono in preda al terrore e lo eliminano lanciando una bomba nella conca della cava in cui lo hanno lasciato. La scena si conclude con K. che sembra afferrare la bomba, ma che abbia tentato di lanciarla via per salvarsi oppure no è lasciato alla libera interpretazione dello spettatore.
Nonostante queste differenze, lo snellimento di alcune scene operato da Welles lascia comunque completamente intatta la simbologia religiosa presente nell'opera originaria: il baciamano da parte del commerciante Bloch nei confronti dell'avvocato, la riverenza irrazionale per La Legge e i suoi rappresentanti tipica delle religione (e molto meno dell'ambito della legge civile), la presenza degli uffici del tribunale nei solai, i posti più vicini al cielo, la ritualità testimoniata da alcuni passaggi delle funzioni del tribunale, come il misterioso suono della campanella avvenuto nel processo del suddetto Bloch e La Legge prima di tutto come istigatrice del senso di colpa.”
(In it.wikipedia.org)
“Processo e condanna a morte di Joseph K., la cui esecuzione è accompagnata dall’esplodere di una bomba atomica. Fra i maggiori film di Orson Welles. La traduzione da Kafka fu costantemente assistita da un’invenzione insieme rispettosa e geniale di personaggi, luoghi, ambienti ricreati con vigore espressionistico e classica nitidezza. Welles, infatti, non smentì neppure in questo caso la propria tendenza al barocco e all’enfasi, ma gli riuscì di utilizzarla in modo perfettamente funzionale nella solida e meditata struttura del racconto.”
(Gian Piero dell'Acqua in www.mymovies.it)
“Strano destino quello de Il Processo. Il film più amato e difeso da Welles, sicuramente quello a cui è più affezionato - forse perché finalmente realizzato senza le leggendarie manomissioni dei produttori -, ma nel contempo il film più discusso dai suoi più grandi ammiratori. Bogdanovich e Truffaut in primis. Welles incontra Kafka, allora, e potremmo fermarci qui. Tante parole sono state scritte a partire da due personalità così diverse, a tratti opposte, differenze che si sentono nella figura di un Joseph K. passivo e spettrale in Kafka, arrabbiato e indisponente in Welles, ecc. Tutte analisi inevitabili, ma sicuramente già fatte, già digerite dal tempo. Il Processo, del resto, è uno dei romanzi cardine del secolo scorso, una delle più alte vette della letteratura di tutti i tempi. Di cosa vogliamo parlare, quindi?
Meglio partire da qui. Quello che mi affascinò la prima volta che vidi il film qualche anno fa (da grande ammiratore del romanzo e quindi con immensa curiosità) fu il piglio così autobiografico che Welles (in)consapevolmente mi comunicava. Perché se c’è un piccolo Joseph K. in ognuno di noi, ossia se il genio purissimo di Kafka è riuscito a scoperchiare un universo ossessivo e intimamente “novecentesco” che sarebbe entrato come un virus nelle nostre esistenze... beh, allora Welles “il primo cineasta della modernità” (Bazin docet) non poteva non cogliere la grandezza di tutto quel potenziale cinematografico.
Lo straniamento e le sconfitte, la rabbia repressa e gli scoppi d’ira, l’impossibilità amorosa e lavorativa, la burocrazia e la brama di libertà, sono tutti tratti del Welles della maturità: quello impossibilitato a esprimersi nella giungla hollywoodiana e quindi costretto a errare perché marchiato da una “colpa”. Citizen Kane. La parabola della porta della Legge, allora, non poteva che diventare l’incipit meraviglioso del film - frutto di due geniali artisti come Alexandre Alexeieff e Claire Parker che lavoravano con l’ombra degli spilli, producendo tavole animate dalle ombre, quindi la porta della Legge è già di per sé cinema fatto di fantasmi riflessi nel buio... - dettando il tempo onirico di ogni successiva inquadratura. Questo è lo smarcamento decisivo e più evidente rispetto a Kafka: se lo scrittore praghese opera a inizio Novecento immaginando un futuro abissale che pian piano entra nella carne del lettore come uno spillo; Welles opera invece negli anni ’60 a macerie compiute (la seconda guerra mondiale) e la materia su cui operare diventa solo il sogno, l’ombra dello spillo, il fantasma che ci portiamo dentro come fardello nella modernità. Dalla porta della Legge in poi, pertanto, Il Processo diventa un film dominato da porte comunicanti, tutto confinato in interni, trionfo del piano sequenza e della profondità di campo mutata di segno: l’immagine è un carcere che imprigiona K. e gli nega il fuori-campo. E non è certo un caso che il film, rivisto oggi, catalizzi una babele di umori cinematografici: dall’Anthony Perkins hithchcokiano che è già (stato) Psycho alla Jeanne Moreau sensuale dei primi Truffaut; dalla schiera di scrivanie ne la Folla di Vidor a tutte le ombre dei noir anni ’40; dai sogni felliniani di Otto e Mezzo a molti surrealismi bunueliani, dai sotterranei ripresi in grandangolo dal futuro universo di Gilliam all’ironia edipica che ispirerà molto David Lynch. E potremmo continuare ancora: questo è il film “cinefilo” per eccellenza di Orson Welles. Eccola l’illusione: il film sul piccolo impiegatuccio schiacciato dalla burocrazia del nuovo-mondo, diventa imponente nella nostra percezione spettatoriale. Forse perché il “racconto” non è mai veramente di Joseph K. (abbastanza sminuito da Welles rispetto al romanzo) che qui diventa solo un testimone e mai un agente di senso, defraudato anche del “suo” monologo interiore. Chi è allora il protagonista del film? Il protagonista diventa l’istanza narrante, il Cinema: sono le luci, il setting, le innumerevoli comparse, insomma è il processo di costruzione l’unico fuori-campo dell’immagine wellesiana. Un’immagine che ingabbia e mozza il fiato, perturba e lascia scarti, si smarca da ogni aderenza al testo ma usa i nostri occhi come l’ennesima porta sul mondo. Questo film è una vertigine senza fine ma anche un freddo film-cervello: Welles è mago e avvocato nel contempo, scrivendo l’ennesimo saggio registico di una modernità sconvolgente. Il vero K. è infine Welles, allora, che combatte davanti alla porta del Cinema e crea nuove Leggi dalle sue sconfitte.
Ecco. Rivedere oggi Il processo va oltre l’ovvia curiosità di assistere all’incontro tra due dei più grossi geni novecenteschi. Perché il film che immagina il vuoto nelle macerie, configura anche la resistenza di uno sguardo al di là di ogni limite. Configurazione (im)perfetta di come l’idea pura e ferina (dalle parole di Kafka alle inquadrature di Welles) possa sgomitare e farsi sguardo sul mondo (il Novecento) travalicando il tempo e i giudizi, la Legge e il denaro, la colpa e l’innocenza, la letteratura e il cinema, così da produrre ancora senso nell’immagine intimamente umana che lascia in eredità. Oltre la morte. Questo film ingiustamente dimenticato, insomma, è di per se una preziosa Rosebaud sepolta nell’archivio immaginario delle “nostre” vite.”
(Pietro Masciullo in www.sentieriselvaggi.it)
- Il film: Orson Welles's The Trial (1962) Spanish Subtitles
Una poesia al giorno
Il premio nobel, di Nicanor Parra in L’ultimo spegne la luce (Bompiani, 2019), a cura di Matteo Lefèvre
Il Premio Nobel per la Lettura
lo dovrebbero dare a me
che sono il lettore ideale
e leggo tutto ciò che trovo:
leggo i nomi delle strade
e le insegne luminose
e le pareti dei bagni
e i nuovi elenchi dei prezzi
e la cronaca nera
e i pronostici del Derby
e le targhe delle auto
per un tipo come me
la parola è una cosa sacra
signori membri della giuria
che ci guadagno a mentirvi
sono un lettore incallito
leggo tutto - non salto
neppure gli annunci economici
certo che ora leggo poco
non dispongo di molto tempo
ma cavolo se ho letto
per questo chiedo che mi diate
il Premio Nobel per la Lettura
al più presto impossibile
“Nicanor Segundo Parra Sandoval (San Fabián de Alico, 5 settembre 1914 – La Reina, 23 gennaio 2018) è stato un poeta, matematico e fisico cileno. Le sue opere hanno avuto una profonda influenza nella letteratura ispano-americana. Considerato il creatore dell'"antipoesia", è considerato da numerosi critici tra cui Harold Bloom, Niall Binns e Roberto Bolaño uno dei più grandi poeti dei suoi tempi. Figlio maggiore del musicista e maestro elementare Nicanor Parra e di Rosa Clara Sandoval Navarrete, sarta e tessitrice di origini contadine, nasce nella provincia cilena di Chillán. È inoltre fratello della celebre cantautrice Violeta Parra.
Nel 1932 si trasferisce a Santiago. Esordisce nel 1937 con Cancionero sin nombre, con un linguaggio colloquiale e prevalenza di temi popolari.
Parra si situa in una posizione antitetica rispetto alla consolidata tradizione poetica cilena, quella di Pablo Neruda, Vicente Huidobro e Gabriela Mistral. Con il termine "antipoesia", da lui coniato, respinge ogni registro alto e situa la poesia nel quotidiano, inserendovi il lessico dei mass media, facendo uso dell'ironia e della parodia, e aprendo così una strada nuova, che si diffonde ampiamente nei decenni successivi, trovando seguaci come Ernesto Cardenal e Roque Dalton.
Docente universitario di matematica e fisica, viaggia molto per lavoro, entrando in contatto con la poesia anglosassone, quella di Thomas Stearns Eliot, Ezra Pound, Walt Whitman, da cui è grandemente influenzato.
Il suo secondo libro, Poemas y antipoemas, esce nel 1954.
L'umorismo nero e il sarcasmo si inseriscono in composizioni spesso in versi liberi, ma anche in metri classici come l'endecasillabo o il settenario. La figura del poeta da lui ridicolizzata si contrappone così a quella di creatore semidivino che aveva assunto presso Neruda e Huidobro”.
(In it.wikipedia.org)
Un fatto al giorno
17 dicembre 1973: trenta passeggeri vengono uccisi in un attacco da parte di terroristi palestinesi all'aeroporto Leonardo da Vinci - Fiumicino di Roma.
“L'attentato di Fiumicino del 1973 fu un attentato terroristico palestinese che il 17 dicembre colpì l'aeroporto di Roma-Fiumicino uccidendo 34 persone e causando il ferimento di altre 15. Il 17 dicembre 1973 alle ore 13:10, un commando terrorista palestinese composto tra le 6 e le 10 persone, fece irruzione all'interno del Terminal di Fiumicino. Gli uomini dopo aver estratto armi automatiche ed esplosivi dalle loro valigie, si sono fatti strada all'interno del Terminal fino alla pista sparando all'impazzata e uccidendo due persone. Raggiunta la zona di parcheggio dell'aeroporto, i terroristi si sono diretti verso il Boeing 707 della Pan Am, volo 110 per Teheran con scalo a Beirut delle 12.45, e vi gettarono all'interno due bombe al fosforo. Gli assistenti di volo tentarono di evacuare il velivolo il più velocemente possibile aprendo le uscite di emergenza sulle ali, dal momento che le altre erano ostacolate dai terroristi; molti passeggeri riuscirono a scappare, ma 30 rimasero uccisi. Tra questi quattro italiani: l'ing. Raffaele Narciso, il funzionario Alitalia Giuliano De Angelis, di ritorno alla sede di Teheran con la moglie Emma Zanghi e la loro figlia Monica di appena 9 anni. Nell'attacco perse inoltre la vita il finanziere ventenne Antonio Zara che, giunto per primo sul luogo dell'assalto a seguito dell'allarme generale emanato dalla Torre di controllo dell'aeroporto, tentò di contrastare i dirottatori.
Il commando si impadronì poi di un Boeing 737 della Lufthansa in attesa di partire per Monaco di Baviera, facendovi salire alcuni ostaggi tra cui sei agenti della dogana di Fiumicino. Costrinsero quindi l'equipaggio, che già era a bordo, a far decollare il velivolo. A bordo dell'aereo della Lufthansa uccisero il tecnico della società Asa, Domenico Ippoliti, il cui corpo venne successivamente abbandonato sulla pista dell'aeroporto di Atene dove l'aereo aveva fatto scalo. Dopo circa 16 ore l'aereo decollò dalla capitale greca e si diresse verso Beirut. Le autorità libanesi tuttavia, rifiutarono di concedere all'aereo l'autorizzazione per l'atterraggio e bloccarono le piste dell'aeroporto con dei veicoli. Anche Cipro fece lo stesso. Fecero così scalo a Damasco, dove le autorità siriane rifornirono l'aereo di viveri e carburante. Dopo circa 6 ore decollarono di nuovo alla volta di Kuwait City, dove l'aereo si fermò definitivamente.
Il dirottamento terminò nella tarda serata del giorno successivo all'Aeroporto Internazionale del Kuwait, dove vennero liberati gli ostaggi. I terroristi negoziarono la loro fuga ma vennero comunque catturati poco tempo dopo. Le autorità kuwaitiane, dopo aver interrogato i terroristi, decisero di non sottoporli a processo e valutarono la possibilità di consegnarli all'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Nel 1974 il presidente egiziano Anwar Sadat acconsentì che venissero portati al Cairo sotto la responsabilità dell'OLP e che venissero processati dalla stessa per aver condotto una "operazione non autorizzata".
A seguito dei negoziati avviati durante un altro dirottamento aereo, i cinque uomini del commando vennero liberati nel novembre del 1974 per poi comunque ritornare sotto la custodia dell'OLP. Da quel momento non ci sono state più notizie certe sulla loro sorte.”
(In it.wikipedia.org)
Immagini:
- La Strage di Fiumicino: 17 dicembre 1973
- La Storia siamo noi - Attentato a Fiumicino
- PRIMA PARTE - Dossier 56 - La strage dimenticata. Fiumicino 17 dicembre 1973 - Teleroma 56
Una frase al giorno
“L'essere umano è la continuità di un'enorme massa di persone. Come le foglie di un albero, le persone vanno e vengono.”
(Erwin Friedrich Maximilian Piscator, Ulm, 17 dicembre 1893 - Starnberg, 30 marzo 1966, regista teatrale tedesco)
- Erwin Piscator in it.wikipedia.org
Immagini:
Un brano musicale al giorno
Franz Schubert, Sinfonia n. 8 in Si minore D 759 (Incompiuta)
- Allegro moderato (si minore)
- Andante con moto (mi maggiore)
- Allegro (si minore) e trio (sol maggiore) - Restano solo 128 battute
Wolfgang Sawallisch, Staatskapelle Dresden.
“La Sinfonia n. 8 in Si minore D 759, comunemente detta Incompiuta (in tedesco Unvollendete), è una delle sinfonie più note di Franz Schubert.
Alla morte di Schubert, avvenuta nel 1828, ne risultavano completati solo i primi due movimenti, Allegro moderato e Andante con moto, mentre di un terzo movimento (Scherzo) rimane lo spartito per pianoforte quasi completo, ma con sole due pagine già orchestrate. Molti hanno teorizzato che Schubert potrebbe aver abbozzato un finale che invece è diventato il grande entr'acte in si minore dalle sue musiche di scena per Rosamunde, ma ciò è tutto da dimostrare. Non si conoscono i motivi che indussero Schubert a non ultimare la sinfonia; si pensa che il compositore ritenesse pesante l'uso del tempo ternario in tutti i movimenti (inconsueto nella struttura di una sinfonia), infatti il primo movimento è in 3/4, il secondo in 3/8 e il terzo sarebbe stato anch'esso in 3/4. La tonalità dell'Incompiuta è inusuale per una sinfonia del periodo classico (né Haydn, né Mozart né Beethoven scrissero mai sinfonie nella tonalità di Si minore) e costituisce di per sé un sintomo dell'incipiente transizione al romanticismo. Questa composizione è talvolta chiamata la prima sinfonia romantica. L'autografo è conservato al Gesellschaft der Musikfreunde di Vienna. La prima edizione in partitura, postuma, fu stampata da Spina a Vienna, nel 1867.
La stesura dell'opera iniziò il 30 ottobre 1822, protraendosi per tutto l'autunno.
La prima esecuzione fu postuma a Vienna, presso il Burgtheater per la Gesellschaft der Musikfreunde, il 17 dicembre 1865, diretta da Johann Ritter von Herbeck. Schubert nel 1823 aveva dato la partitura ad Anselm Hüttenbrenner (rappresentante di un'associazione di amici della musica di Graz, che aveva conferito a Schubert un diploma onorifico). Johann Erbeck riuscì ad ottenere la partitura da Hüttenbrenner e in sede di prima esecuzione aggiunse come Finale l'ultimo movimento della Terza Sinfonia dello stesso Schubert.”
(Articolo completo in it.wikipedia.org)
“Sulla genesi del più celebre capolavoro sinfonico di Schubert sono ancora aperti molti interrogativi: l'autografo, datato 30 ottobre 1822, fu dal compositore consegnato all'amico Anselm Hüttenbrenner in quanto esponente dell'Unione Musicale Stiriana, cui l'opera era probabilmente destinata come ringraziamento perché aveva nominato Schubert membro onorario. Non sappiamo perché Schubert non la finì, né perché Hüttenbrenner la tenne nascosta per più di quaranta anni: solo il 17 dicembre 1865 Johann Herbeck ne diresse a Vienna la esecuzione. L'esistenza di estesi abbozzi per uno Scherzo contraddice la suggestiva ipotesi che Schubert considerasse in realtà la sinfonia perfettamente compiuta in due movimenti. L'Incompiuta ci conduce al cuore della poetica schubertiana, al suo nucleo di desolazione e confidenza con la morte, tra vagheggiamenti del sogno e della memoria e lo schiudersi improvviso di angosciosi abissi.
Nel primo tempo lo schema classico della forma sonata è rispettato solo come una scorza, come il contenitore di un percorso libero e inquieto, dove i due temi principali appaiono quasi come monadi chiuse nell'incanto, struggente e mestissimo, della bellezza melodica. Prima della loro apparizione violoncelli e contrabbassi propongono otto battute introduttive: non sono semplicemente una introduzione, ma una sorta di motto che conduce l'ascoltatore in un tempo onirico e che fa parte del materiale fondamentale dell'Allegro moderato, divenendo protagonista dello sviluppo che (come già l'esposizione) si apre a gesti laceranti, a drammatiche tensioni e fratture. Il secondo tempo si affianca al primo in un dittico in sé concluso, come se esplorasse sotto una luce diversa una affine condizione desolata. Due ampi episodi sono giustapposti: il primo inizia con accenti quasi pastorali, di mestissima dolcezza, e si prolunga in una idea dal respiro solenne e grave; il secondo appare più oscuro e turbato, si dilata su continue modulazioni e armonie instabili, fino ad approdare a uno straziato gesto in fortissimo. Entrambi gli episodi vengono poi ripetuti e conclude una breve coda.”
(Testo tratto dal Repertorio di musica sinfonica a cura di Piero Santi, Giunti Gruppo Editoriale, Firenze, 2001)
17 dicembre 1865: prima esecuzione della sinfonia “Incompiuta” di Franz Schubert.
Ugo Brusaporco
Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.
INFORMAZIONI
Ugo Brusaporco
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