“L’amico del popolo”, 17 dicembre 2019

L'amico del popolo
Grandezza Carattere

L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno III. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

THE TRIAL (Il processo, Francia, Italia, Germania, 1962), regia di Orson Welles. Prodotto da Alexander Salkind. Sceneggiatura di Orson Welles da “Il processo” di Franz Kafka. Musica: Jean Ledrut. Fotografia: Edmond Richard. Cast: Anthony Perkins - Josef K. Jeanne Moreau - Marika Burstner. Romy Schneider - Leni. Elsa Martinelli - Hilda. Suzanne Flon - Miss Pittl. Orson Welles - Albert Hastler, The Advocate. Akim Tamiroff - Bloch. Madeleine Robinson - Mrs. Grubach. Paola Mori - Court archivist. Arnoldo Foà - Inspector A, Fernand Ledoux - Chief Clerk of the Law Court. Michael Lonsdale - Priest. Max Buchsbaum - Examining Magistrate. Max Haufler - Uncle Max. Maurice Teynac - Deputy Manager. Wolfgang Reichmann - Courtroom Guard. Thomas Holtzmann - Bert the law student. Billy Kearns - First Assistant Inspector. Jess Hahn - Second Assistant Inspector. Naydra Shore- Irmie, Joseph K's cousin. Carl Studer - Man in Leather. Jean-Claude Rémoleux - Policeman #1. Raoul Delfosse - Policeman #2. William Chappell - Titorelli.

“Josef K., un impiegato che conduce un'esistenza tranquilla e rispettabile, una mattina viene svegliato dalla polizia che gli annuncia di essere in arresto sebbene non in stato di detenzione. K. non comprende la ragione dell'arresto, proclama la sua innocenza e si professa vittima di una palese ingiustizia. Condotto davanti alla corte suprema, pronuncia un vibrante discorso accusando tutti i giudici di ordire un complotto contro le persone comuni, arrestate casualmente e senza nessuna prova.
Negli ambienti giudiziari, K. ha a che fare con personaggi oscuri, con donne usate come merce di scambio e con altri accusati, succubi, ma forse anche complici, di una giustizia del tutto incomprensibile. Spinto dallo zio, si affida a un avvocato (interpretato dallo stesso Welles), venerato dai clienti e rispettato dalla corte, che però sembra interessato a tutto fuorché alla sorte dei suoi clienti.
Nel suo girovagare nei meandri del tribunale in cerca di una via d'uscita dalla sua odissea giudiziaria, K. fa incontri bizzarri come il pittore della corte suprema (il cui atelier è una sorta di voliera nella quale vive tormentato dagli sguardi dei bambini), e a poco a poco viene scoraggiato dal proseguire la sua battaglia ed è costretto a rassegnarsi. Il destino di Josef K. è segnato: due funzionari lo prelevano, lo portano nella brughiera e lo giustiziano con della dinamite.

 

Nel 1960, Welles, mentre sta partecipando con un cameo al film Napoleone ad Austerlitz di Abel Gance, viene contattato dal produttore Alexander Salkind che gli propone di trasporre sullo schermo cinematografico il soggetto del romanzo Il processo di Franz Kafka. Il film verrà girato nel 1962 tra Italia, Francia e Jugoslavia. Welles, da sempre interessato al progetto, si getta a capofitto nella regia interpretando anche la parte dell'avvocato Hastler (sebbene più per necessità che per volontà, in quanto Charles Laughton, cui avrebbe voluto assegnare il ruolo, era molto malato e impossibilitato ad accettare l'ingaggio).
Come altri film di Welles, Il processo venne girato al di fuori del sistema degli studios hollywoodiani con un costo ridotto. A dispetto della difficoltà produttiva, e forse proprio per questo, insieme a Quarto potere è uno dei pochi film aderenti alla volontà realizzativa del regista.

Il film visivamente è ricchissimo e tecnicamente si segnala per virtuosismi davvero inusitati per l'epoca. Il montaggio al principio è piuttosto lento per velocizzarsi man mano che la storia procede. Girato in uno scintillante bianco e nero dai contrasti molto forti e con il frequente uso del grandangolo (il 18.5 mm) per deformare le immagini e accentuare il senso di minaccia latente e la claustrofobia delle atmosfere, il film fa sfoggio di scenografie imponenti e allucinanti al tempo stesso (il palazzo di giustizia, l'ufficio di K., lo studio di Hastler, ecc.) che rendono in pieno il pesante senso di soffocamento presente nel romanzo originario.

La fotografia e le scenografie ci proiettano in un mondo allucinato, il bianco e nero taglia le figure in modo netto, esalta ogni contorno, conferisce agli ambienti un'aura spettrale, espressionista, metallica. Gli ambienti in cui si muove K. sembrano ripresi direttamente da Metropolis di Lang, una città fredda, di ferro e vetro, in questo caso disabitata. L'unica rappresentazione di folla mostrataci da Welles sono gli accusati in tribunale, persone in attesa da anni, come anime di un surreale purgatorio. Le altre persone o non hanno un volto, come i giudici della corte suprema, oppure sono persone sfigurate dalla bruttezza interiore.
Solamente le donne offrono a K. un aiuto, seppure talvolta inconsistente, ma anch'esse sono le vittime di un sistema che permette loro di esistere solamente a causa dei loro corpi.
Un elemento molto particolare di questo lungometraggio è la sequenza di apertura, giudicata da alcuni critici la parte migliore del film. L'intera sequenza è stata realizzata da Alexandre Alexeieff usando il suo celebre schermo di spilli: uno schermo in cui erano infissi perpendicolarmente migliaia di spilli retrattili, che proiettavano un'ombra a seconda del modo in cui venivano spostati; grazie quindi al gioco di chiaroscuri prodotto dalle ombre degli spilli, si potevano realizzare immagini in movimento.

Le reazioni al film furono contrastanti. Parte della critica rimproverò a Welles una certa "freddezza" nell'esposizione del racconto, l'incapacità di coinvolgere lo spettatore nella vicenda narrata. La critica più frequente che venne mossa al regista fu quella di non essersi attenuto rigorosamente all'opera di Kafka. In effetti, Il processo di Orson Welles differisce notevolmente dall'originale kafkiano. Il protagonista Josef K. è molto più aggressivo, spavaldo e ironico che nel libro; manca inoltre il cosiddetto "monologo interiore" che sottintende tutto lo svolgersi della storia. Sparisce la passività del K. letterario e il finale viene significativamente modificato rispetto al romanzo. Anche la scelta di Anthony Perkins come protagonista venne criticata, ritenuto l'attore statunitense troppo poco espressivo e "caricato" nella recitazione, i personaggi senza spessore e gli attori generalmente mal diretti.

Non tutte le critiche furono negative però, alcuni critici lodarono la maestria di Welles nel rendere sullo schermo le atmosfere allucinate simili a un incubo del romanzo di Kafka, e l'immaginifico talento visivo del regista. Il critico Sandro Studer, sul n° 3 di Metropolis (maggio 1979) arrivò a definire il film "il vero capolavoro di Welles, degno di stare alla pari con Quarto Potere". Anche lo stesso Welles era soddisfatto dell'opera e così si espresse, durante un'intervista pubblicata ai Cahiers du cinéma, nei confronti di essa: «Dite quel che volete, ma Il processo è il miglior film che abbia fatto».

In definitiva, Orson Welles mostra con grande lucidità un universo in cui la follia è una miscela di freddezza, perversione e carnalità, dove tutti sono colpevoli e dove molti sono solo pedine in un gioco a loro incomprensibile, come i poliziotti incaricati dell'arresto di K., torturati perché questi aveva detto davanti alla corte di essere stato derubato da loro.

Il film racconta la discesa di un cittadino nel claustrofobico ambiente giudiziario, in una carrellata di ambienti che vanno via via restringendosi, dalla ampiezza dell'aula della corte suprema agli spazi angusti dei corridoi e dell'atelier del pittore. Questo effetto trasmette allo spettatore il crescere dell'angoscia di K., che si placa solo nel momento in cui accetta la condanna e il suo destino, momento in cui ci è mostrato nuovamente un ambiente aperto. In più, la scelta delle inquadrature fa chiaramente vedere al pubblico come sia piccolo e insignificante il comune cittadino di fronte all'imponenza della legge; questo è palese ad esempio nella sequenza in cui Josef e la cugina si trovano davanti al palazzo di giustizia e i loro corpi si perdono tra la maestosità delle statue che adornano la scalinata.

Le differenze fondamentali tra la trama de Il processo e quella del film riguardano soprattutto la seconda metà della pellicola e il finale. Nel romanzo il signor K. si reca al duomo per far da cicerone ad un cliente della banca in cui lavora, mentre nel film si ritrova improvvisamente nella cattedrale dopo la fuga dallo studio del pittore Tintorelli. Inoltre, nello studio di costui, mentre nel film viene visivamente spiato dalle ragazzine che si trovano sulle scale, nel romanzo ciò non avviene, per quanto queste assedino lo studio del pittore quotidianamente.

La scena nel duomo è cruciale tanto nel film quanto nel romanzo: in entrambi infatti è lì che al signor K. viene raccontata la storia de Davanti alla legge (Kafka). Nel film è l'avvocato - misteriosamente ivi comparso - a raccontarla, mentre nel libro è il sacerdote a enunciarla. Nel film il signor K. già conosce la storia, mentre nel romanzo no. Questa potrebbe essere un'allusione al fatto che Kafka avesse effettivamente pubblicato la storia molto prima della pubblicazione postuma del romanzo. Inoltre nel libro il prete e K. discutono poi del contenuto della leggenda, lasciando ad intendere che non si possa giungere ad un'interpretazione univoca. Tale passaggio è in realtà fondamentale nel romanzo in quanto allusione metaletteraria alla macchina di metafore messa in moto da Kafka ne Il processo (e in altre sue opere): la scrittura di Kafka metaforizza situazioni psicologiche e storiche fino al punto di rendere il significato della metafora irriconoscibile. Così, mentre solitamente la metafora è significante di un significato, le metafore di Kafka diventano significato e tutte le interpretazioni possibili diventano significante. Tale passaggio è completamente omesso nell'opera cinematografica di Welles.

Il finale inoltre è completamente stravolto. Nel libro K. viene ucciso per sgozzamento dai due uomini che lo trascinano alla miniera per mettere in atto, presumibilmente, la condanna di morte emessa dal tribunale; nel film K. ha invece una reazione di aggressiva derisione nei confronti dei due strani individui, che fuggono in preda al terrore e lo eliminano lanciando una bomba nella conca della cava in cui lo hanno lasciato. La scena si conclude con K. che sembra afferrare la bomba, ma che abbia tentato di lanciarla via per salvarsi oppure no è lasciato alla libera interpretazione dello spettatore.

Nonostante queste differenze, lo snellimento di alcune scene operato da Welles lascia comunque completamente intatta la simbologia religiosa presente nell'opera originaria: il baciamano da parte del commerciante Bloch nei confronti dell'avvocato, la riverenza irrazionale per La Legge e i suoi rappresentanti tipica delle religione (e molto meno dell'ambito della legge civile), la presenza degli uffici del tribunale nei solai, i posti più vicini al cielo, la ritualità testimoniata da alcuni passaggi delle funzioni del tribunale, come il misterioso suono della campanella avvenuto nel processo del suddetto Bloch e La Legge prima di tutto come istigatrice del senso di colpa.”

(In it.wikipedia.org)
 

“Processo e condanna a morte di Joseph K., la cui esecuzione è accompagnata dall’esplodere di una bomba atomica. Fra i maggiori film di Orson Welles. La traduzione da Kafka fu costantemente assistita da un’invenzione insieme rispettosa e geniale di personaggi, luoghi, ambienti ricreati con vigore espressionistico e classica nitidezza. Welles, infatti, non smentì neppure in questo caso la propria tendenza al barocco e all’enfasi, ma gli riuscì di utilizzarla in modo perfettamente funzionale nella solida e meditata struttura del racconto.”

(Gian Piero dell'Acqua in www.mymovies.it)

 

“Strano destino quello de Il Processo. Il film più amato e difeso da Welles, sicuramente quello a cui è più affezionato - forse perché finalmente realizzato senza le leggendarie manomissioni dei produttori -, ma nel contempo il film più discusso dai suoi più grandi ammiratori. Bogdanovich e Truffaut in primis. Welles incontra Kafka, allora, e potremmo fermarci qui. Tante parole sono state scritte a partire da due personalità così diverse, a tratti opposte, differenze che si sentono nella figura di un Joseph K. passivo e spettrale in Kafka, arrabbiato e indisponente in Welles, ecc. Tutte analisi inevitabili, ma sicuramente già fatte, già digerite dal tempo. Il Processo, del resto, è uno dei romanzi cardine del secolo scorso, una delle più alte vette della letteratura di tutti i tempi. Di cosa vogliamo parlare, quindi?
Meglio partire da qui. Quello che mi affascinò la prima volta che vidi il film qualche anno fa (da grande ammiratore del romanzo e quindi con immensa curiosità) fu il piglio così autobiografico che Welles (in)consapevolmente mi comunicava. Perché se c’è un piccolo Joseph K. in ognuno di noi, ossia se il genio purissimo di Kafka è riuscito a scoperchiare un universo ossessivo e intimamente “novecentesco” che sarebbe entrato come un virus nelle nostre esistenze... beh, allora Welles “il primo cineasta della modernità” (Bazin docet) non poteva non cogliere la grandezza di tutto quel potenziale cinematografico.

Lo straniamento e le sconfitte, la rabbia repressa e gli scoppi d’ira, l’impossibilità amorosa e lavorativa, la burocrazia e la brama di libertà, sono tutti tratti del Welles della maturità: quello impossibilitato a esprimersi nella giungla hollywoodiana e quindi costretto a errare perché marchiato da una “colpa”. Citizen Kane. La parabola della porta della Legge, allora, non poteva che diventare l’incipit meraviglioso del film - frutto di due geniali artisti come Alexandre Alexeieff e Claire Parker che lavoravano con l’ombra degli spilli, producendo tavole animate dalle ombre, quindi la porta della Legge è già di per sé cinema fatto di fantasmi riflessi nel buio... - dettando il tempo onirico di ogni successiva inquadratura. Questo è lo smarcamento decisivo e più evidente rispetto a Kafka: se lo scrittore praghese opera a inizio Novecento immaginando un futuro abissale che pian piano entra nella carne del lettore come uno spillo; Welles opera invece negli anni ’60 a macerie compiute (la seconda guerra mondiale) e la materia su cui operare diventa solo il sogno, l’ombra dello spillo, il fantasma che ci portiamo dentro come fardello nella modernità. Dalla porta della Legge in poi, pertanto, Il Processo diventa un film dominato da porte comunicanti, tutto confinato in interni, trionfo del piano sequenza e della profondità di campo mutata di segno: l’immagine è un carcere che imprigiona K. e gli nega il fuori-campo. E non è certo un caso che il film, rivisto oggi, catalizzi una babele di umori cinematografici: dall’Anthony Perkins hithchcokiano che è già (stato) Psycho alla Jeanne Moreau sensuale dei primi Truffaut; dalla schiera di scrivanie ne la Folla di Vidor a tutte le ombre dei noir anni ’40; dai sogni felliniani di Otto e Mezzo a molti surrealismi bunueliani, dai sotterranei ripresi in grandangolo dal futuro universo di Gilliam all’ironia edipica che ispirerà molto David Lynch. E potremmo continuare ancora: questo è il film “cinefilo” per eccellenza di Orson Welles. Eccola l’illusione: il film sul piccolo impiegatuccio schiacciato dalla burocrazia del nuovo-mondo, diventa imponente nella nostra percezione spettatoriale. Forse perché il “racconto” non è mai veramente di Joseph K. (abbastanza sminuito da Welles rispetto al romanzo) che qui diventa solo un testimone e mai un agente di senso, defraudato anche del “suo” monologo interiore. Chi è allora il protagonista del film? Il protagonista diventa l’istanza narrante, il Cinema: sono le luci, il setting, le innumerevoli comparse, insomma è il processo di costruzione l’unico fuori-campo dell’immagine wellesiana. Un’immagine che ingabbia e mozza il fiato, perturba e lascia scarti, si smarca da ogni aderenza al testo ma usa i nostri occhi come l’ennesima porta sul mondo. Questo film è una vertigine senza fine ma anche un freddo film-cervello: Welles è mago e avvocato nel contempo, scrivendo l’ennesimo saggio registico di una modernità sconvolgente. Il vero K. è infine Welles, allora, che combatte davanti alla porta del Cinema e crea nuove Leggi dalle sue sconfitte.

Ecco. Rivedere oggi Il processo va oltre l’ovvia curiosità di assistere all’incontro tra due dei più grossi geni novecenteschi. Perché il film che immagina il vuoto nelle macerie, configura anche la resistenza di uno sguardo al di là di ogni limite. Configurazione (im)perfetta di come l’idea pura e ferina (dalle parole di Kafka alle inquadrature di Welles) possa sgomitare e farsi sguardo sul mondo (il Novecento) travalicando il tempo e i giudizi, la Legge e il denaro, la colpa e l’innocenza, la letteratura e il cinema, così da produrre ancora senso nell’immagine intimamente umana che lascia in eredità. Oltre la morte. Questo film ingiustamente dimenticato, insomma, è di per se una preziosa Rosebaud sepolta nell’archivio immaginario delle “nostre” vite.”

(Pietro Masciullo in www.sentieriselvaggi.it)

  • Il film: Orson Welles's The Trial (1962) Spanish Subtitles

 

 

Una poesia al giorno

Il premio nobel, di Nicanor Parra in L’ultimo spegne la luce (Bompiani, 2019), a cura di Matteo Lefèvre

Il Premio Nobel per la Lettura
lo dovrebbero dare a me
che sono il lettore ideale
e leggo tutto ciò che trovo:
leggo i nomi delle strade
e le insegne luminose
e le pareti dei bagni
e i nuovi elenchi dei prezzi
e la cronaca nera
e i pronostici del Derby
e le targhe delle auto
per un tipo come me
la parola è una cosa sacra
signori membri della giuria
che ci guadagno a mentirvi
sono un lettore incallito
leggo tutto - non salto
neppure gli annunci economici
certo che ora leggo poco
non dispongo di molto tempo
ma cavolo se ho letto
per questo chiedo che mi diate
il Premio Nobel per la Lettura
al più presto impossibile

Nicanor Segundo Parra Sandoval (San Fabián de Alico, 5 settembre 1914 – La Reina, 23 gennaio 2018) è stato un poeta, matematico e fisico cileno

Nicanor Segundo Parra Sandoval (San Fabián de Alico, 5 settembre 1914 – La Reina, 23 gennaio 2018) è stato un poeta, matematico e fisico cileno. Le sue opere hanno avuto una profonda influenza nella letteratura ispano-americana. Considerato il creatore dell'"antipoesia", è considerato da numerosi critici tra cui Harold Bloom, Niall Binns e Roberto Bolaño uno dei più grandi poeti dei suoi tempi. Figlio maggiore del musicista e maestro elementare Nicanor Parra e di Rosa Clara Sandoval Navarrete, sarta e tessitrice di origini contadine, nasce nella provincia cilena di Chillán. È inoltre fratello della celebre cantautrice Violeta Parra.
Nel 1932 si trasferisce a Santiago. Esordisce nel 1937 con Cancionero sin nombre, con un linguaggio colloquiale e prevalenza di temi popolari.

Parra si situa in una posizione antitetica rispetto alla consolidata tradizione poetica cilena, quella di Pablo Neruda, Vicente Huidobro e Gabriela Mistral. Con il termine "antipoesia", da lui coniato, respinge ogni registro alto e situa la poesia nel quotidiano, inserendovi il lessico dei mass media, facendo uso dell'ironia e della parodia, e aprendo così una strada nuova, che si diffonde ampiamente nei decenni successivi, trovando seguaci come Ernesto Cardenal e Roque Dalton.
Docente universitario di matematica e fisica, viaggia molto per lavoro, entrando in contatto con la poesia anglosassone, quella di Thomas Stearns Eliot, Ezra Pound, Walt Whitman, da cui è grandemente influenzato.
Il suo secondo libro, Poemas y antipoemas, esce nel 1954.
L'umorismo nero e il sarcasmo si inseriscono in composizioni spesso in versi liberi, ma anche in metri classici come l'endecasillabo o il settenario. La figura del poeta da lui ridicolizzata si contrappone così a quella di creatore semidivino che aveva assunto presso Neruda e Huidobro”.

(In it.wikipedia.org)

Nicanor Segundo Parra Sandoval (San Fabián de Alico, 5 settembre 1914 – La Reina, 23 gennaio 2018) è stato un poeta, matematico e fisico cileno

 

Un fatto al giorno

17 dicembre 1973: trenta passeggeri vengono uccisi in un attacco da parte di terroristi palestinesi all'aeroporto Leonardo da Vinci - Fiumicino di Roma.

“L'attentato di Fiumicino del 1973 fu un attentato terroristico palestinese che il 17 dicembre colpì l'aeroporto di Roma-Fiumicino uccidendo 34 persone e causando il ferimento di altre 15. Il 17 dicembre 1973 alle ore 13:10, un commando terrorista palestinese composto tra le 6 e le 10 persone, fece irruzione all'interno del Terminal di Fiumicino. Gli uomini dopo aver estratto armi automatiche ed esplosivi dalle loro valigie, si sono fatti strada all'interno del Terminal fino alla pista sparando all'impazzata e uccidendo due persone. Raggiunta la zona di parcheggio dell'aeroporto, i terroristi si sono diretti verso il Boeing 707 della Pan Am, volo 110 per Teheran con scalo a Beirut delle 12.45, e vi gettarono all'interno due bombe al fosforo. Gli assistenti di volo tentarono di evacuare il velivolo il più velocemente possibile aprendo le uscite di emergenza sulle ali, dal momento che le altre erano ostacolate dai terroristi; molti passeggeri riuscirono a scappare, ma 30 rimasero uccisi. Tra questi quattro italiani: l'ing. Raffaele Narciso, il funzionario Alitalia Giuliano De Angelis, di ritorno alla sede di Teheran con la moglie Emma Zanghi e la loro figlia Monica di appena 9 anni. Nell'attacco perse inoltre la vita il finanziere ventenne Antonio Zara che, giunto per primo sul luogo dell'assalto a seguito dell'allarme generale emanato dalla Torre di controllo dell'aeroporto, tentò di contrastare i dirottatori.

Il commando si impadronì poi di un Boeing 737 della Lufthansa in attesa di partire per Monaco di Baviera, facendovi salire alcuni ostaggi tra cui sei agenti della dogana di Fiumicino. Costrinsero quindi l'equipaggio, che già era a bordo, a far decollare il velivolo. A bordo dell'aereo della Lufthansa uccisero il tecnico della società Asa, Domenico Ippoliti, il cui corpo venne successivamente abbandonato sulla pista dell'aeroporto di Atene dove l'aereo aveva fatto scalo. Dopo circa 16 ore l'aereo decollò dalla capitale greca e si diresse verso Beirut. Le autorità libanesi tuttavia, rifiutarono di concedere all'aereo l'autorizzazione per l'atterraggio e bloccarono le piste dell'aeroporto con dei veicoli. Anche Cipro fece lo stesso. Fecero così scalo a Damasco, dove le autorità siriane rifornirono l'aereo di viveri e carburante. Dopo circa 6 ore decollarono di nuovo alla volta di Kuwait City, dove l'aereo si fermò definitivamente.
Il dirottamento terminò nella tarda serata del giorno successivo all'Aeroporto Internazionale del Kuwait, dove vennero liberati gli ostaggi. I terroristi negoziarono la loro fuga ma vennero comunque catturati poco tempo dopo. Le autorità kuwaitiane, dopo aver interrogato i terroristi, decisero di non sottoporli a processo e valutarono la possibilità di consegnarli all'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Nel 1974 il presidente egiziano Anwar Sadat acconsentì che venissero portati al Cairo sotto la responsabilità dell'OLP e che venissero processati dalla stessa per aver condotto una "operazione non autorizzata".
A seguito dei negoziati avviati durante un altro dirottamento aereo, i cinque uomini del commando vennero liberati nel novembre del 1974 per poi comunque ritornare sotto la custodia dell'OLP. Da quel momento non ci sono state più notizie certe sulla loro sorte.”

(In it.wikipedia.org)

Immagini:

 

 

Una frase al giorno

“L'essere umano è la continuità di un'enorme massa di persone. Come le foglie di un albero, le persone vanno e vengono.”

(Erwin Friedrich Maximilian Piscator, Ulm, 17 dicembre 1893 - Starnberg, 30 marzo 1966, regista teatrale tedesco)

Immagini:

Erwin Piscator con i genitori e il fratellino

 

Un brano musicale al giorno

Franz Schubert, Sinfonia n. 8 in Si minore D 759 (Incompiuta)

  • Allegro moderato (si minore)
  • Andante con moto (mi maggiore)
  • Allegro (si minore) e trio (sol maggiore) - Restano solo 128 battute

Wolfgang Sawallisch, Staatskapelle Dresden.

Franz Peter Schubert (Vienna, 31 gennaio 1797 - Vienna, 19 novembre 1828) è stato un compositore austriaco del periodo romantico

La Sinfonia n. 8 in Si minore D 759, comunemente detta Incompiuta (in tedesco Unvollendete), è una delle sinfonie più note di Franz Schubert.

Alla morte di Schubert, avvenuta nel 1828, ne risultavano completati solo i primi due movimenti, Allegro moderato e Andante con moto, mentre di un terzo movimento (Scherzo) rimane lo spartito per pianoforte quasi completo, ma con sole due pagine già orchestrate. Molti hanno teorizzato che Schubert potrebbe aver abbozzato un finale che invece è diventato il grande entr'acte in si minore dalle sue musiche di scena per Rosamunde, ma ciò è tutto da dimostrare. Non si conoscono i motivi che indussero Schubert a non ultimare la sinfonia; si pensa che il compositore ritenesse pesante l'uso del tempo ternario in tutti i movimenti (inconsueto nella struttura di una sinfonia), infatti il primo movimento è in 3/4, il secondo in 3/8 e il terzo sarebbe stato anch'esso in 3/4. La tonalità dell'Incompiuta è inusuale per una sinfonia del periodo classico (né Haydn, né Mozart né Beethoven scrissero mai sinfonie nella tonalità di Si minore) e costituisce di per sé un sintomo dell'incipiente transizione al romanticismo. Questa composizione è talvolta chiamata la prima sinfonia romantica. L'autografo è conservato al Gesellschaft der Musikfreunde di Vienna. La prima edizione in partitura, postuma, fu stampata da Spina a Vienna, nel 1867.
La stesura dell'opera iniziò il 30 ottobre 1822, protraendosi per tutto l'autunno.
La prima esecuzione fu postuma a Vienna, presso il Burgtheater per la Gesellschaft der Musikfreunde, il 17 dicembre 1865, diretta da Johann Ritter von Herbeck. Schubert nel 1823 aveva dato la partitura ad Anselm Hüttenbrenner (rappresentante di un'associazione di amici della musica di Graz, che aveva conferito a Schubert un diploma onorifico). Johann Erbeck riuscì ad ottenere la partitura da Hüttenbrenner e in sede di prima esecuzione aggiunse come Finale l'ultimo movimento della Terza Sinfonia dello stesso Schubert.”

(Articolo completo in it.wikipedia.org)

“Sulla genesi del più celebre capolavoro sinfonico di Schubert sono ancora aperti molti interrogativi: l'autografo, datato 30 ottobre 1822, fu dal compositore consegnato all'amico Anselm Hüttenbrenner in quanto esponente dell'Unione Musicale Stiriana, cui l'opera era probabilmente destinata come ringraziamento perché aveva nominato Schubert membro onorario. Non sappiamo perché Schubert non la finì, né perché Hüttenbrenner la tenne nascosta per più di quaranta anni: solo il 17 dicembre 1865 Johann Herbeck ne diresse a Vienna la esecuzione. L'esistenza di estesi abbozzi per uno Scherzo contraddice la suggestiva ipotesi che Schubert considerasse in realtà la sinfonia perfettamente compiuta in due movimenti. L'Incompiuta ci conduce al cuore della poetica schubertiana, al suo nucleo di desolazione e confidenza con la morte, tra vagheggiamenti del sogno e della memoria e lo schiudersi improvviso di angosciosi abissi.
Nel primo tempo lo schema classico della forma sonata è rispettato solo come una scorza, come il contenitore di un percorso libero e inquieto, dove i due temi principali appaiono quasi come monadi chiuse nell'incanto, struggente e mestissimo, della bellezza melodica. Prima della loro apparizione violoncelli e contrabbassi propongono otto battute introduttive: non sono semplicemente una introduzione, ma una sorta di motto che conduce l'ascoltatore in un tempo onirico e che fa parte del materiale fondamentale dell'Allegro moderato, divenendo protagonista dello sviluppo che (come già l'esposizione) si apre a gesti laceranti, a drammatiche tensioni e fratture. Il secondo tempo si affianca al primo in un dittico in sé concluso, come se esplorasse sotto una luce diversa una affine condizione desolata. Due ampi episodi sono giustapposti: il primo inizia con accenti quasi pastorali, di mestissima dolcezza, e si prolunga in una idea dal respiro solenne e grave; il secondo appare più oscuro e turbato, si dilata su continue modulazioni e armonie instabili, fino ad approdare a uno straziato gesto in fortissimo. Entrambi gli episodi vengono poi ripetuti e conclude una breve coda.”

(Testo tratto dal Repertorio di musica sinfonica a cura di Piero Santi, Giunti Gruppo Editoriale, Firenze, 2001)

17 dicembre 1865: prima esecuzione della sinfonia “Incompiuta” di Franz Schubert.

 


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

e-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

 

 

 

 

 

UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k