“L’amico del popolo”, 12 gennaio 2018

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno II. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

NOTRE-DAME DE PARIS (Francia, 1956), regia di Jean Delannoy, prima trasposizione cinematografica a colori e unica in CinemaScope del popolare romanzo di Victor Hugo Notre-Dame de Paris. Delle numerose versioni è forse la più fedele al romanzo originale, soprattutto per la scelta di rispettare il finale tragico. Sceneggiatura: Victor Hugo, Jacques Prévert, Jean Aurenche, Ben Hecht. Fotografia: Michel Kelber. Montaggio: Henri Taverna. Musica: Georges Auric, Angelo Francesco Lavagnino. Con: Gina Lollobrigida, Anthony Quinn, Alain Cuny, Robert Hirsch, Jean Danet, Danielle Dumont, Philippe Clay, Maurice Sarfati, Jean Tissier, Valentine Tessier, Jacques Hilling, Jacques Dufilho, Roger Blin, Marianne Oswald, Roland Bailly, Piéral, Camille Guérini, Damia, Robert Lombard, Albert Rémy, Hubert de Lapparent, Boris Vian, Madeleine Barbulée.

Nell'anno del Signore 1482 a Parigi la bella zingara Esmeralda viene arrestata dal malvagio giudice Frollo, che poi rilascerà per l'amore che prova nei suoi confronti. Ma la ragazza non ricambia il suo amore e s'invaghisce di Febo, il capitano delle guardie, il quale arresta Quasimodo, il campanaro di Notre Dame che aveva cercato di rapire la gitana sotto ordine del giudice. Ma in seguito ad un disguido Esmeralda è costretta a sposarsi con un uomo che stava per essere ucciso dalla compagnia di zingari di cui lei fa parte. In seguito ad altre peripezie una notte Febo invita Esmeralda in un locale e poi salgono in camera, Qui il giudice di nascosto pugnala alle spalle il capitano e la gente del locale crede che sia stata la zingara. Così viene condannata all'impiccagione, ma Quasimodo accorre in suo aiuto e la salva. Pochi giorni dopo Frollo, per avere per sé una volta per tutte la ragazza, attacca Notre Dame, ma Quasimodo sa come difendersi. Purtroppo un tragico destino attende tutti i protagonisti.

NOTRE-DAME DE PARIS (Francia, 1956), regia di Jean Delannoy

“Il rapporto di Victor Hugo col cinema è decisamente vittorughiano, non se ne poteva dubitare. Solo nel 1909 uscirono undici film, fra cui quattro puntate dei Miserabili. Non ho trovato la durata, ma suppongo che ogni puntata se la sbrigasse un quarto d’ora, il cinema va veloce. IMDb in totale riporta 134 titoli, ma se fosse in borsa sarebbe un titolo a rischio, a volte speculativo a volte dimenticato, non certo un titolo da cassettisti. C’è qualche bell’anno sabbatico, nel decorso, in cui Victor Hugo sembra scomparso (ad esempio, l’ultimo titolo è del 2003), ma tranquilli, ricomparirà e diffusamente, come certe influenze, forse più benigne che maligne, ma certo contagiosissime, che in pochi mesi invadono tutto il pianeta. Va detto che Victor Hugo, ormai da decenni, si è dovuto accomodare spesso in TV, il che fa specie, visto come lo scrittore è ingombrante lo scatolotto lo sentirà stretto, ma non è detto che sia una brutta sorte: un buon romanzo sceneggiato in otto puntate (forse anche di più) è la fine migliore che possono fare “I miserabili”, altrimenti non vedo come si possa fare. Nei film, più che ai titoli dei romanzi si punta ai personaggi, tre su tutti: Quasimodo (quasi sempre come “Il gobbo di Notre Dame”), Rigoletto ed Esmeralda. Anche Jean Valjean, Fantina, Cosetta, ma un po’ di meno. Ogni tanto pure qualche Gavroche, forse fatto bene. Ruy Blas ed Ernani compaiono, ma in genere si tratta teatro fatto al cinema. “I lavoratori del mare” e “L’uomo che ride” sono quasi del tutto assenti, ma sono rimasto impressionato dalla mancanza di “Novantatre”, che è un romanzo, forse l’unico, che rileggerei volentieri. Mancano i film capolavoro, ma chi può indicarne uno per Tolstoj, Dostoevskj, Goethe, Proust? Il caso di Shakespeare è anomalo, c’è sempre il discorso se si tratti di teatro o di cinema. Mentre, e non è un caso, molti ottimi film sono derivati da Dickens, Balzac, Austen, Wilde, James, Conrad. Quando ho fatto l’ultimo saccheggio alle Librerie Paoline di Milano, mi è venuto sott’occhio il “Notre Dame de Paris” di Delannoy del 1956, con una bella copertina di Esmeralda che balla davanti a Notre Dame. Sul retro ho visto che nel cast c’erano Cuny e Quinn e che alla sceneggiatura ha messo mano anche Prévert. Costava meno di dieci euro e me lo sono preso. Dopo averlo visto -è stata la prima volta- credo di aver fatto bene a comprare il DVD, anche se ho trovato alcuni difetti. Anzitutto, l’originale del film andrebbe restaurato, perché i colori appaiono degradati, e non credo sia colpa dell’edizione: il problema, che è grave e generale, riguarda molti film a colori usciti alcuni decenni fa, non so, per quanti sforzi meritori si facciano, se sarà possibile un totale ripristino. Poi, c’è solo la lingua italiana, e questa è colpa dell’edizione. Questo film è da vedere in francese, magari con i sottotitoli in italiano, ci guadagnerebbe sicuramente e il coinvolgimento dello spettatore sarebbe maggiore. Ma i difetti più gravi riguardano proprio il film, anche se più che di difetti si tratta del fatto che certi gusti sono molto cambiati dal 1956 ad oggi. Anzitutto, due parti sono fastidiose: quella di Pierre Gringoire (Robert Hirsch) e di Gaston Phebus de Chateaupers (Jean Danet). Il gusto per la nominologia di Victor Hugo è sterminato, Gabriele D’Annunzio è solo uno scolaretto in confronto. I due attori sono entrambi grassocci, suvvia, non si possono dare parti da poeta o da cavaliere erotomane a due soprappeso. Già questo non li rende credibili, ma è il modo a peggiorare le cose. Perché il poeta, nel 1956, era sinonimo non di testa matta, ma di testa persa, uno che non sa vivere ed in compenso scrive andando a capo spesso. E il cavaliere Phoebus, se lo vedesse qualsiasi Duca di Mantova, anche il più afono, sorriderebbe di sprezzo. Ah, il Rigoletto! Victor Hugo è stato il trampolino, ma il capolavoro l’ha fatto Giuseppe Verdi, con l’aiuto dei versicoli disposti a tutto di Francesco Maria Piave (che però funzionano).
Il quartetto del Rigoletto resiste a tutto, è mirabile perfino nell’esecuzione di quei quattro sbandati di “Amici miei”, che lo cantano per sfottere Rambaldo Melandri, di mestiere ufficiale architetto, ma il mestiere reale è di perdersi dietro le poche donne che lo fanno soffrire, le molte che lo amerebbero non gli interessano, gente così è bene sfotterla. Prévert, che firma in parte la sceneggiatura, cerca di aiutare, con qualche battuta anarchico-romantico-realista un po’ riciclata da Les Enfants du Paradis, ma qui non funziona, perché a complicare ancora c’è la Corte dei Miracoli priva della grandezza sia pure costruita ed umorale di Victor Hugo, un felice anacronismo storico. Però le tre grandi parti sono bene assegnate. Claude Frollo (Alain Cuny) è il meglio che ci poteva essere, con la passione amorosa che la religione e l’alchimia rendono torbida e spietata. Si sente il timore degli altri, quando passa in mezzo uno così, dal Re di Francia, al Re dei Pazzi. Meriterebbe da solo la visione del film. Ma poi c’è Quasimodo (Anthony Quinn), gobbo enorme, fortissimo e malconciato, che si aggira come uno scimmione innamorato fra le guglie della grande cattedrale, con acrobazie vertiginose (il regista si è fatto bene aiutare). Però l’innamoramento a Quasimodo fa un effetto mirabile, diviene coraggioso, delicato, cerca di fare tutto quello che può per Esmeralda (Gina Lollobrigida), fino ad abbracciarla dopo morta e morire così, abbracciato a lei. Un caso singolare: una modalità di questo genere si ritrova perfino in un successone degli anni Novanta, “Il paziente inglese”, vedete come l’inesauribilità di Victor Hugo colpisce ancora, magari pure uno probabilmente inconsapevole come Tony Minghella.
Gina Lollobrigida in NOTRE-DAME DE PARISMi soffermo su Gina Lollobrigida. Lo so, molti -e molte- non la trovano appropriata, con quell’aria da eterna Bersagliera da una parte rifatta come guardaroba, dall’altra col volto fumé perché gitana, la parte è quella. Ma sono persone cattive, quelle che non apprezzano. Anzitutto, l’assenza di mistero nello sguardo -tutti a lodar le donne misteriose- è una virtù, quella delle persone buone, e così è la Bersagliera fatta Gitana. In realtà, Gina Lollobrigida, prima dei film di Comencini, la fantasia e la gelosia, aveva fatto due film con Gérard Philipe, “Les Belles-de-nuit” e “Fanfan la Tulipe”, e fece belle parti in film tratti da Moravia, con l’altro suo ruolo: quella della moglie borghesuccia che ci tiene alla rispettabilità, però anela a salire con le armi che ha, e sappiamo quali. Parti più ingenue che perfide in cui era bravissima. Come Esmeralda qui o come Regina di Saba successivamente non sarà rapinosa, ma è assai gradevole come aspetto e movenze. Non fa danno, sa perfino ballare e cantare, ed in questo film c’è una sua esibizione di cui parlerò in un altro post. Il problema vero fu che chi le stava intorno non seppe programmare bene la sua carriera, come invece successe a Sofia Loren. Ma vengo al regista Delannoy. Considerato che si era nel 1956, ebbe molto coraggio, aiutato in questo dagli sceneggiatori Aurenche e Prévert. Perché, con esempi che parranno incredibili, in quasi tutti gli altri gobbi o esmeralde c’è il lieto fine, perché il racconto di Hugo (pubblicato 125 anni prima!) sembrava troppo crudo. Delannoy resistette anche alle pressioni perché Frollo non fosse un prete, ma solo uno studioso un po’ fuori di testa. Non stava bene né l’alchimia né che un arcidiacono di Notre Dame combinasse tali cose. E nell’edizione inglese -gli americani protestanti erano ancor più puritani dei cattolici- Frollo non è sacerdote. Poi Delannoy ha trovato dei produttori disposti a spendere, perché la location di Notre Dame è falsa e bugiarda, è tutta roba ricostruita, da non crederci vedendo il film. Ma ricostruita così bene, non solo le guglie, i pinnacoli, le finestrature, i camminamenti in alto, ma anche e soprattutto la facciata, con le dorature ai bassorilievi che nel 1482 c’erano, così bene che certamente la metterò come luogo, falso in origine ma infine vero nella nostra immagine mentale, che è quella che conta. Viene voglia di tornare subito a Notre Dame e rivederla, a partire dalle vetrate, che appaiono con i titoli di testa.
Infine, gli animali. Eh sì! Gli asinelli, il gatto nero, ma soprattutto la capretta che è sempre in compagnia di Esmeralda e che dicono che sia un diavolo. Non ci credete, è un animale mansueto, lattifero ed intelligente: indovina perfino la carta giusta sul sagrato di Notre Dame de Paris! Toccherà fare un post anche per questo piccolo zoo, visto che Roby e Giuliano si danno da fare con la vista, logica Gli animali nel cinema”.

(In abbracciepopcorn.blogspot.it )

“Nel 1956 è un altro celebre attore a vestire i panni dello sfortunato campanaro... Anthony Quinn. E come dimenticare la bella (e giovane!) Gina Lollobrigida in quelli di Esmeralda? Il film infatti è una co-produzione italo-francese. “Notre-Dame de Paris” è la prima trasposizione cinematografica a colori e unica in CinemaScope del romanzo. Un curioso e sinistro aneddoto è legato a questa pellicola. Leggendo il romanzo per entrare meglio nella parte, Quinn ne rimase talmente scioccato da ammalarsi e diventare egli stesso un mostro. Quando il regista se lo ritrovò davanti col volto livido e gonfio da far paura, decise di sostituirlo con Marlon Brando. Per fortuna Gina Lollobrigida, che già famosa poteva contare su una certa influenza, si oppose al cambio tanto da imporre un ultimatum: “Con un Quasimodo diverso, io non farò Esmeralda !”
E per fortuna Quinn guarì in fretta potendosi dedicare ad un make-up meno reale!”

(In mariannagiglio.wordpress.com)

12 gennaio 1908 nasce Jean Delannoy, attore, regista e sceneggiatore francese (morto nel 2008).

NOTRE-DAME DE PARIS (Francia, 1956), regia di Jean Delannoy

 

Una poesia al giorno

Animal Planet, di Ana Blandiana (pseudonimo di Otilia Valeria Coman, nata a Timișoara il 25 marzo 1942, poetessa romena, sostenitrice dei diritti civili in Romania).

Più innocente, ma non innocente,
In questo universo nel quale
Le leggi stesse della natura decidono
Chi deve uccidere chi
E colui che uccide di più diventa re:
Con quanta ammirazione è filmato
Il leone che placido e feroce scortica la gazzella,
E io, chiudendo gli occhi o spegnendo il televisore,
Ho la sensazione di essere meno partecipe al delitto,
Sebbene sappia che la lucerna della vita
Deve essere riempita continuamente di sangue,
Del sangue altrui.
Più innocente, ma non innocente,
Ho mangiato assieme ai cacciatori,
Anche se mi piaceva accarezzare le orecchie lunghe
E setose dei conigli
Gettati, come su un catafalco,
Sulla tovaglia ricamata.
Colpevole, anche se non ero io a premere il grilletto,
Ma mi tappavo gli orecchi,
Orripilata dal rumore della morte
E dall’odore del sudore indecente di coloro che hanno sparato.
Più innocente, ma non innocente,
Comunque più innocente di te,
Autore di questa spietata perfezione,
Che hai deciso tutto
E poi mi hai insegnato a porgere anche l’altra guancia.

Prima della rivoluzione del 1989, famosa dissidente e sostenitrice dei diritti dell’uomo, Ana Blandiana ebbe il coraggio di contestare in numerose interviste e dichiarazioni pubbliche il dittatore Nicolae Ceauşescu. Nel 2005 ha vinto in Italia il Premio letterario Giuseppe Acerbi, premio speciale per la poesia, per la sua opera Un tempo gli alberi avevano gli occhi, Editrice Donzelli, 2005. Pubblicate in Italia anche le sue memorie di viaggio, Il mondo sillaba per sillaba, Edizioni Saecula, 2012.

 

Un fatto al giorno

12 gennaio 1915: la Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti respinge una proposta per dare alle donne il diritto di voto.

Immagini:

 

Una frase al giorno

“Come l'uomo singolo, così un'epoca intera può compiere grandi progressi nella conoscenza del vero, e rimanere invece molto indietro nella volontà del bene”.

(Johann Heinrich Pestalozzi, Zurigo, 12 gennaio 1746 - Brugg, 17 febbraio 1827).

Johann Heinrich Pestalozzi è stato un pedagogista e riformista svizzero. Pestalozzi è noto come educatore e riformatore del sistema scolastico ma era anche filosofo e si dedicò alla politica.
La prima esperienza come educatore Pestalozzi la fece, appena sposato, in una tenuta agricola, acquistata allo scopo di istituirvi una scuola per ragazzi poveri, dediti all’accattonaggio che venivano sfruttati per i lavori nei campi. L'idea era di dare loro un’istruzione di base e di avviarli al lavoro agricolo d’estate e a quello di filatura e tessitura d’inverno. La scuola doveva reggersi autonomamente con il lavoro dei ragazzi. Purtroppo quest’iniziativa si concluse in maniera fallimentare dopo un decennio di vita, poiché, nonostante aiuti esterni, tardivi e interessati, i debiti finirono col soverchiarlo, era un amministratore inesperto e perdette il proprio patrimonio e quello della moglie.

(Studenti.it)

Johann Heinrich Pestalozzi

PESTALOZZIS BERG (La montagna di Pestalozzi) è un film del 1989 diretto da Peter von Gunten. Il film è stato presentato al 39° Festival del Cinema di Berlino. Gian Maria Volonté interpreta il ruolo del famoso educatore svizzero Johann Heinrich Pestalozzi.

Estate 1799: Johann Heinrich Pestalozzi passa sei settimane a Gurnigelbad nel Cantone di Berna. Poco prima ha dovuto abbandonare il suo progetto di offrire agli orfani alloggio ed una prima educazione nel monastero di Stans, dietro pressione dello stesso governo della "Repubblica elvetica" che, all'inizio, lo aveva appoggiato nelle sue intenzioni. Adesso, Pestalozzi si trova in una crisi esistenziale durante la quale riesamina ancora una volta i suoi ideali ed il suo lavoro senza farsi illusioni e, anche se con fatica conclude di tentare un'altra volta, di ricominciare da capo. La "montagna di Pestalozzi" è il Gurnigel. L'oste Zehnder lo aveva invitato a venire in quel luogo. Qui, l'invecchiato pedagogo ed educatore attivo passa in rassegna il suo tentativo fallito di istituire un ospizio per orfani nel monastero di Stans. In vari flash-back Pestalozzi, profondamente deluso ma anche caparbio e pensoso, vive ancora una volta quei mesi invernali con i "suoi bambini". Dopo che i francesi avevano, in maniera sanguinosa, represso l'insurrezione dei contadini di Nidwalden, numerosi bambini diventati orfani girovagavano cercando di campare con elemosine. Conquistare la fiducia di questi bambini, offrire loro con pazienza e sacrificio di se stesso una base per la loro vita futura fornendo loro un minimo di comprensione e conoscenza: questo era il compito che Pestalozzi si era assunto con lo zelo e l'assolutezza di uno che ne è pienamente convinto. Superando la diffidenza e le beffe iniziali dei bambini, con l'aiuto della sua domestica offre loro una casa. Dorme con loro sulla paglia, mangia con loro dai piatti di legno, insegna a loro.
Infine arriva l'appoggio del governo elvetico il cui incaricato Zechokke deve constatare che Pestalozzi ha sviluppato un proprio metodo. Più tardi, Pestalozzi visiterà con i suoi bambini il governo chiedendo un aumento dei sussidi. Per strada diventa il bersaglio delle ostilità di una folla infuriata.
Dopo sei mesi, Pestalozzi deve lasciare assieme ai bambini il monastero destinato a diventare ospedale militare per le truppe austriache di cui si sta aspettando l'entrata. Egli ed i bambini ricorrono alla resistenza passiva ma, ciononostante, Pestalozzi si vede costretto a mandare via i suoi bambini consapevole che riprenderanno la loro vecchia vita. A Gurnigelbad, Pestalozzi si vede esposto alla diffidenza degli ospiti per i quali non è altro che un mattacchione bizzarro e ossessionato. Riflette sull'educazione fallimentare del figlio, sul suo matrimonio e sull'abbandono della sua fattoria a Birr dove, in giovane età, aveva cominciato a coltivare con delle idee innovative. Ma neanche a Gurnigelbad, Pestalozzi rimane inattivo. Infatti, insegna leggere e scrivere alla domestica Madi. Con tutte le sue forze, l'oste Zehnder si prende cura del suo ospite che, come scrittore e riformista, è noto anche in questo luogo. Ma infine, anche lui si deve arrendere davanti alla caparbietà ed alla delusione di Pestalozzi. Alla fine Pestalozzi si trova da solo in montagna. Egli batte due pietre una contro l'altra. Così lui ed i suoi bambini avevano protestato contro l'ingresso dei soldati nel monastero di Stans.

Pestalozzis Berg (La montagna di Pestalozzi) è un film del 1989 diretto da Peter von Gunten"Ho incontrato Pestalozzi dieci anni fa grazie al romanzo "La montagna di Pestalozzi" di Lukas Hartmann. Per dire la verità questo romanzo ha fatto scendere Pestalozzi dal suo piedistallo per metterlo subito su un altro. Accanto all'immagine puramente umanistica che in Svizzera abbiamo finora avuto di Pestalozzi, viene presentato un uomo complicato e difficile che per nel suo atteggiamento politico, la sua lungimiranza e la sua utopia, va ben al di là dell'umanista che conosciamo"... "Credo di aver presentato, con Gian Maria Volontè un uomo essenzialmente egocentrico, ma ho fatto vedere anche quei lati di Pestalozzi che, da noi, in genere non vengono presi in considerazione e dei quali non si parla affatto, ciola difficoltche si trova nel vivere con un utopista. Era realmente un utopista, di cui, in Svizzera, ne esistono ben pochi. Per noi qualcosa di atipico. Far vedere quant'difficile trovarsi con quest'uomo, questo l'argomento centrale riguardo al personaggio di Pestalozzi. Penso che ogni utopista fallisca alla fine. Ma può offrire sufficienti stimoli per cambiare la vita in maniera che diventi vivibile."

(Peter von Gunten in trentofestival.it)

"Mi sento molto vicino a Pestalozzi perché lavorato assieme ai bambini per la pace e contro le guerre. E poi Pestalozzi un personaggio storico. Egli uno dei primi pedagoghi intellettuali. Ed ha lavorato dove c'erano bambini che appena riuscivano a parlare e che avevano fame, che non avevano niente e che avevano bisogno di tutto."

(Gian Maria Volontè in trentofestival.it)

 

Un brano musicale al giorno

T’aggio voluto bene”, aria di Gaetano Latilla (1711-1788), cantata dal tenore Marco Beasley, Ensemble Musica Ficta. 

Marco Beasley 

“T’aggio voluto bene,
facce de cacciottiello.
Ma mò non me commene
portarete chiù amore.
Vattenne, tradetore!
ca chiù sto coreciello
non te lo voglio dà.

Tu n’iere lo patrone
de chesta fegliulella,
e tu a barda e a sella
la stive a commannà.
Ma perzo ài già lli vuoje
te puoje arrecettà.”

NB: Per ammissione degli stessi esecutori del brano, il manoscritto consultato per questa registrazione era illeggibile negli ultimi quattro versi, cosicché talune parole cantate da Marco Beasley non corrispondono al testo originario riportato qui sopra.

Traduzione:

T'ho voluto bene,
faccia di cagnolino.
Ma ora non mi conviene
darti ancora amore.
Vattene, traditore!
che più questo cuoricino
non te lo voglio dare.

Tu ne eri il padrone
di questa figlioletta,
e tu con barda e sella (1)
la stavi a comandare.
Ma perduto hai già i buoi (2)
ti puoi dileguare (3).

(1) “alla stregua di un cavallo bardato e con la sella”.
(2) i buoi son già fuggiti dalla stalla: "hai perduto l'occasione", “ormai è fatta”.
(3) nel significato più duro: “puoi andare a morire” e persino “puoi ucciderti”.


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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web www.brusaporco.org

 

 

 

 

 

UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k