“L’amico del popolo”, 11 luglio 2017

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

MAICOL (Italia, 1988), regia di Mario Brenta. Sceneggiatura: Angela Cervi. Fotografia: Fabrizio Borelli. Montaggio: Maurizio Zaccaro. Con: Simone Tessarolo, Sabina Regazzi, Giovanni Crespi, Maria Teresa Oldani, Monica Saccomandi, Santo Sariotti

“È un film diretto, che non lascia spazio ai buoni sentimenti, che racconta solitudine, disamore ed emarginazione a Milano. Anita, operaia milanese, è la madre single di Maicol, 5 anni. È un bambino chiuso, estraniato, che sembra uscire dal suo mondo solo di fronte al film Dune. Anita stessa tratta il figlio con freddezza, anteponendogli il rapporto con il fidanzato Giulio (che sembra sempre sul punto di lasciarla). Non trovando nessuno a cui lasciarlo, una sera Anita porta il figlio ad uno dei suoi appuntamenti. Ad una fermata della metropolitana vede Giulio in compagnia di un'altra donna, e scende di corsa dal vagone. Le porte si chiudono e Maicol resta dentro. Inizia un viaggio notturno, in cui il piccolo incontrerà diverse persone che si offrono di aiutarlo, ma invano. La corsa finisce al capolinea, dove Maicol viene preso in consegna dalla polizia che si occupa di riconsegnarlo alla madre, la quale - nel frattempo - non si era preoccupata più di tanto, impegnata com'era a cercare il fidanzato”.

(Wikipedia)

“Maicol ha cinque anni e vive con la mamma Anita, operaia in una fabbrica di Milano. Il bambino gioca sempre da solo ed è chiuso in un mondo tutto suo da cui sembra uscire solo quando vede il film 'Dune'. Anita, a sua volta, non ha ancora accettato la responsabilità di madre e tratta il figlio con indifferenza. L'unica preoccupazione nella vita della donna sembra essere il suo rapporto con Giulio, un uomo che la fa soffrire e che sembra sempre pronto a piantarla in asso da un momento all'altro. Una sera, Anita ha in programma di andare al cinema con il suo compagno ma non riesce a trovare nessuno disposto a prendersi cura di Maicol, così lo porta con sé. Durante il viaggio in metropolitana, Anita vede dal finestrino Giulio con un'altra donna e scende in tutta fretta dal vagone. Purtroppo le porte della carrozza si chiudono velocemente e il piccolo rimane da solo a bordo del mezzo pubblico. Inizia per lui un'odissea notturna in cui diverse persone cercheranno invano di aiutarlo fino a che la metro giunge alla fine della corsa. E' la polizia a mettere fine all'escursione notturna di Maicol, che viene riconsegnato a sua madre che, nel frattempo, non si era curata di cercare il figlio perché era troppo occupata nella ricerca del fidanzato fedifrago...”

(Cooming Soon)

“I tre film diretti da Mario Brenta, dal 1974 a oggi, non delimitano, né tantomeno circoscrivono, la posizione del regista veneziano nel cinema italiano. A Brenta, direttore della fotografia, documentarista (Jamais de la vie!, Effetto Olmi, Robinson in laguna, Calle de la Pietà e Agnus Dei con Karine de Villers, La pièce con Denis Brotto), docente universitario all'Università di Padova, è legata l'intera storia di Ipotesi Cinema, a Bassano del Grappa, realtà didattica e produttiva nata da una felice intuizione di Ermanno Olmi e Paolo Valmarana, terreno di sperimentazione ideale per un cinema senza confini e senza barriere professionali, dove la versatilità di Brenta ha avuto modo di dispiegarsi pienamente. Nel contesto di Ipotesi Cinema è nato il secondo film di Brenta, Maicol, dopo il folgorante esordio con Vermisat, che era stato presentato al Festival di Venezia nel 1974, e aveva ottenuto la Grolla d'Oro per l'opera prima a S. Vincent, il Premio Speciale della Giuria (ex-aequo con Prima pagina di Billy Wilder) al Festival Internazionale di Valladolid, ed era stato finalista al premio Rizzoli per il miglior film della stagione 74/75 con Professione: reporter di Antonioni e Allonsanfàn dei fratelli Taviani. Anche Maicol ha ricevuto riconoscimenti internazionali: il premio Film et Jeunesse al festival di Cannes 1988, il premio Georges Sadoul (ex-aequo con Sweetie di Jane Campion) come miglior film straniero del 1989 e il premio della Confederazione Internazionale del Cinema d'Art et Essai. L'ultimo film, speriamo solo per ora, Barnabo delle montagne del 1994, tratto dal primo romanzo di Dino Buzzati, è stato presentato in concorso a Cannes e ha ottenuto il Gran Premio al Festival Internazionale del Cinema Mediterraneo di Montpellier, il Premio per la miglior regia e il Premio Speciale della Critica al Festival Internazionale del Cinema Latino a Gramado, in Brasile. Il cinema di Mario Brenta non passa inosservato... Maicol è un film duro, sgradevole, senza indulgenza per i buoni sentimenti. Parla di abbandono, disamore, solitudine, emarginazione a Milano. Brenta ha uno stile ruvido, ascetico. Non giudica: constata. E va a segno».

(Morandini)

“Un cineasta che segue questo tipo di modelli non può pertanto non trovare difficoltà in questo Paese a dare una certa visibilità alla sua proposta e ad avere apprezzamento: e difatti Brenta è sempre rimasto un regista di cineclub (anche se negli anni Sessanta ha iniziato come assistente alla regia di artigiani della cassetta come Salce, Zampa e Vicario), per quanto apprezzato dalla critica più attenta sin dal suo esordio cinematografico, avvenuto nel 1974 con Vermisat. Difficilmente si può riscontrare un film più bressoniano di questo per la scarna ed essenziale asciuttezza con cui la macchina da presa segue il personaggio del titolo, un essere asociale che sopravvive vendendo i vermi scovati nei fossati come esche ai negozi di pesca e il proprio sangue a cliniche compiacenti, ai margini della metropoli di Milano, così fredda e brumosa che sembra quella raccontata dalle canzoni di Jannacci e Gaber: e forse non è un caso che a interpretare la prostituta che finirà per solidarizzare per un certo periodo con Vermisat sia quella Maria Monti compagna di vita e di scena degli esordi del futuro “signor G” (unica attrice professionista mai utilizzata da Brenta), mentre a vestire i panni del protagonista c’è Carlo Cabrini, lo straniato operaio lombardo in Sicilia del terzo lungometraggio di Olmi, I fidanzati, di una decina di anni prima, molto efficace a rendere l’alienazione anche del suo ex-contadino in questione, specie nel suo vagare come un vuoto nome per commissariati e ospedali, e soprattutto in quest’ultimo caso quando finisce malato di tubercolosi e, non capendo le cure praticategli dai medici, si aggrappa alle credenze contadine mescolanti religione e superstizione. E Brenta non giudica Vermisat o la società industrializzata nella quale non è riuscito a inserirsi, né lo compatisce, come avrebbero fatto altri registi italiani con un soggetto simile tra le mani: semplicemente lo osserva nel suoi gesti e riti quotidiani, riuscendo così senza facili patetismi a rivelarne il disagio e la disperazione interiore.

La stessa cosa sarà in Maicol (1988), ambientato sempre nella metropoli milanese, ma stavolta non più in quella post-boom economico bensì in quella dello yuppismo rampante tipico del decennio in cui il film è stato girato: stavolta i due protagonisti - una giovanissima ragazza madre di nome Anita e il suo bambino (Maicol, appunto) - sono inseriti all’interno di questo contesto, non ne rimangono ai margini come Vermisat, e pur tuttavia non meno di lui appaiono come corpi estranei ad esso, se pur per altri motivi. Anita e Maicol vivono infatti in un grigio condominio popolare: lei fa un lavoro che non ama (operaia in un industria manifatturiera) e suo figlio cerca affetto e attenzioni dalla madre ma non li trova, in quanto essa è tutta presa da una burrascosa relazione con un uomo fedifrago che arriva ad inseguire quando le sembra da lontano di averlo visto con un’altra, dimenticandosi sul treno della metropolitana Maicol, che gli verrà restituito dalla polizia dopo averlo ritrovato al mattino sul mezzo a fine corsa. Da parte di Brenta c’è una sensibilità nell’osservare l’universo interiore del piccolo Maicol – dal quale sembra sbloccarsi solo quando vede il film Dune di David Lynch - e la sua difficoltà nel comunicare col mondo degli adulti non indegna di quella di Maestri come De Sica, Comencini e Truffaut; mentre l’alienazione dalla realtà derivante dallo squallore quotidiano delle loro anonime vite può far pensare a quella dei film di Antonioni, salvo per il diverso contesto sociale descritto - proletario quello di Brenta, medio e alto borghese quello del grande regista ferrarese: in entrambi gli autori però il paesaggio in cui si muovono i personaggi riflette e influenza i loro tormenti interiori.

“Maicol è nato all’interno dell’esperienza Ipotesi Cinema, il laboratorio di cinema fondato da Olmi, ed è una storia non scritta da me bensì da una ragazza che frequentava appunto questa scuola-non scuola: era molto piaciuta durante le discussioni che si facevano, solo che lei non aveva nessuna intenzione di girarlo, non aveva ambizioni registiche, era una che aveva più che altro un inclinazione per la scrittura, e allora pensavano a chi avrebbe potuto girarlo al posto suo e poi è venuto fuori il mio nome. Infatti, quando io sono rientrato dalle riprese di un documentario, lì a Bassano mi è stata annunciata questa decisione e allora ho letto questa storia, che era un po’ scritta sullo stile di Vermisat, però ovviamente in tutt’altro ambiente: qui si parlava di una ragazza madre molto giovane, di appena vent’anni, con un ragazzino di cinque anni, e della loro situazione conflittuale in conseguenza di un triangolo che si viene a istituire, cioè la madre, il figlio e il fidanzato della madre, che non è il padre del bambino. Quindi c’è una specie di ronde, di inseguirsi di questi personaggi ciascuno dei quali ricerca un po’ d’affetto ma non trova risposta, una specie di movimento circolare con una durata di ventiquattr’ore. Questo è stato appunto il mio secondo film: però stavolta diversamente da Vermisat, dove posso dire che è andato tutto liscio, dopo la prima settimana di riprese ho avuto un momento di sbandamento, di panico. Mi sembrava che questo film non mi corrispondesse in qualche modo, e così ho avuto un momento anche fortemente depressivo, volevo interrompere il film. Poi invece ho ripreso in mano la sceneggiatura e l’ho un po’ riadattata, anche parlandone con Olmi, così siamo arrivati alla fine. Anche stavolta il film è andato bene: Maicol era nato per Raiuno, e quando è stato trasmesso in seconda serata ha fatto più di tre milioni di ascolto, ma non ha avuto una distribuzione sala in Italia se non in qualche serata-evento. Non si sa bene perché la RAI non s’è occupata di distribuirlo, mentre è stato venduto all’estero: ha avuto un premio collaterale a Cannes, per esempio, è uscito in Francia dove ha avuto il premio Sadoul per il miglior film straniero dell’anno, e in tutto il Sudamerica e il Nordamerica (in particolare in Canada è stato un grande successo: una cosa abbastanza curiosa)”.

(Mario Brenta)

  • Da vedere assolutamente e chiedersi perché il film non sia stato proiettato in sala: vimeo.com

Mario Brenta

 

Una poesia al giorno

Briciole, di Marino Moretti

Dal gracile rametto
d'uno spoglio nocciolo
spiccò l'ardito volo
d'un tratto un passerotto
e tenne aperte l'ale
tra i fiocchi della neve
finché si posò lieve
sul bianco davanzale.

Indi bussò col becco
ai vetri proprio come
quel che chiede nel nome
di Dio solo il pan secco;
e gli furono davanti
subito cinque visi,
cinque allegri sorrisi,
dieci sguardi esultanti.
Così dal quel mattino
il povero uccellino
s'ebbe - invece del pane -
le miche quotidiane

 

Un fatto al giorno

11 luglio 1895: i fratelli Auguste e Louis Lumière dimostrano la tecnologia cinematografica agli scienziati.

Il padre di Auguste e Louis nasce nel 1840 nell'Haute-Saòne (discendente, pare, di un accenditore di ceri nelle chiese, da cui il cognome). Antoine era dotato di una forte personalità, di uno spirito artistico e anticonformista, come testimoniano le sue passioni per la pittura e il canto e soprattutto il modo in cui diede impulso e poi incoraggiò fin dal 1894 l'invenzione dei suoi figli. [...]
Sposato a diciannove anni, Antoine si stabilisce a Besançon lavorando come pittore e poi come fotografo. È in questa città che nascono i suoi due primi figli; Auguste, nel 1862, e Louis, nel 1864. Nel 1870 la famiglia Lumière si trasferisce a Lione. Affarista nato (anche se con alterne fortune), Antoine apre uno studio di fotografia in pieno centro. Segue con attenzione il succedersi delle invenzioni nel campo delle immagini e non manca di garantire una solida formazione ai figli: Louis e Auguste sono allievi della Martinière, il più importante istituto tecnico di Lione.
Nel 1881 il figlio minore, Louis, a soli diciassette anni mette a punto un procedimento fotografico istantaneo, denominato Étiquette bleue, che prima e più ancora del cinematografo, assicurerà alla famiglia fama e lauti guadagni. Per fabbricare e commercializzare le preziose lastre di vetro, Antoine Lumière acquista un terreno a Monplaisir, un'area della prima periferia di Lione servita dal tram: nasce così la Société Lumière et Fils. Raggiunta rapidamente, la fortuna continua a sorridere. La fabbrica si sviluppa e, a partire dal 1895, comincia l'avventura del cinematografo”.

(Thierry FrémauxL'invenzione del cinematografo, ne Il Cinema Ritrovato)

 

Una frase al giorno

“C’è il visibile e l’invisibile. Se voi filmate solo il visibile, è un telefilm che state realizzando”.

(Jean-Luc Godard)

 

Un brano al giorno

Giuseppe Becce, TERRA Sinfonikern "Die lustige Witwe" 1.Teil

  • Di Giuseppe Becce, inventore della musica per film, si veda la sua interpretazione nel ruolo di Richard Wagner in un film del 1913 che ha anche la sua musica: www.youtube.com

Il compositore di Lonigo (Lonigo, 2 febbraio 1877 - Berlino, 6 ottobre 1973) è sepolto in un angolo nascosto del cimitero berlinese di Wilmersdorf.

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

e-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
web www.brusaporco.org

 

 

 

 

 

UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k