L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...
Un film al giorno
FRA’ DIAVOLO (The Devil's Brother, USA, 1933), regia di Hal Roach. Sceneggiatura: Jeanie Macpherson. Basato sull'omonima opéra-comique di Daniel Auber del 1830. Fotografia: Hap Depew, Art Lloyd. Montaggio: Bert Jordan, William H. Terhune. Musica: Daniel-Francois Auber, Marvin Hatley, Leroy Shield. Con: Stan Laurel, Oliver Hardy, Dennis King, Thelma Todd, James Finlayson.
Fra' Diavolo terrorizza, coi suoi, la regione; ma nessuno sa chi egli sia veramente. Stan e Oliver attraversano la zona controllata dalla banda, e vengono derubati: per rifarsi si camuffano da briganti. Passa di lì un gentiluomo e i due lo affrontano, intimandogli: mani in alto! Il gentiluomo domanda a chi si deve arrendere, e i due rispondono: a Fra Diavolo. Ma il gentiluomo fermato è proprio Fra’ Diavolo, che dapprima vorrebbe punire i due, ma poi cambia idea e li assume al suo servizio. Sotto le spoglie del Marchese di San Marco, Fra Diavolo ha fatto la conoscenza di un ricco inglese, alloggiato all'Albergo della Rosa. Egli medita di derubare l'inglese e la sua dama, e intanto fa la corte a quest'ultima. Ma le balordaggini dei due servi destano sospetto; messo sull'avviso, un giovane ufficiale viene a scoprire chi sia veramente il Marchese di San Marco. L'ufficiale fa circondare l'albergo ed arresta il brigante insieme ai suoi due complici; ma quando sta per farli fucilare, per un involontario espediente di Stan, i tre riescono a liberarsi e a fuggire.
“Se, nel giudicare un film, si parte e, nel giudicare un film, si parte dal concetto della "vedibilità", allora i massimi eroi del cinema del mondo sono Laurel e Hardy. Nel corso dei decenni grandi personaggi acclamati nella loro stagione hanno perso, del tutto o parzialmente, vedibilità. Niente più della risata è legata al proprio tempo. La comicità appassisce letteralmente e cade come foglie secche quando cambia la stagione. Non c'è comico che mantenga la sua energia nel corso del tempo. Basta citare a caso: Keaton, parzialmente lo stesso Chaplin, i Marx e, salendo, Gianni e Pinotto, Bob Hope e Bing Crosby, Donald O'Connor del mulo parlante, Jerry Lewis, tutta gente che faceva record di incassi. Attendiamo all'esame del tempo Mel Brooks, Gene Wilder e lo stesso Woody Allen (e già ci accorgiamo che i suoi primi film stanno cedendo). Forse solo il nostro Totò rimane lo stesso di sempre, anzi, migliora col tempo. Laurel e Hardy fanno ridere secondo tutti i registri. Nelle situazioni, nel dialogo, nei gesti, nella mimica. Sono talenti perfetti, non sostituibili, incontrastati legislatori di immagine. Il loro marchio è leader senza discussione a rappresentare la risata, così come la Gioconda rappresenta le arti figurative, il Partenone l'architettura, Shakespeare il teatro, Pelé il pallone, Clay i pugni, Marilyn Monroe la donna, Elisabetta la monarchia.
Laurel è stupido, Hardy è un finto intelligente. Sono pronti a tutte le esperienze: andare in guerra, costruire una casa, adottare un bambino, mendicare, fare tutti i lavori. Sono pignoli e pedanti, trasportano un pianoforte su un ponte di assi e un armadio lungo una scalinata infinita. Ogni tanto Oliver, esasperato, guarda l'obiettivo, guarda lo spettatore, in cerca di solidarietà. E si ride sempre. Commoventi e indimenticabili le sequenze in cui cantano e ballano, con Oliver, così corpulento, capace di muoversi con agilità e leggerezza e Stan, che era inglese, capace di far intravvedere, mascherata e giocata, un'autentica classe "spettacolare". Uno grasso, l'altro magro, fecero del contrasto fisico anche contrasto morale e dialettico. Detto in sintesi e semplicità, la chiave del loro successo è là. Non si può non citare Hal Roach, il loro produttore e, in sostanza, inventore. Fra Diavolo è forse il titolo più noto interpretato dai due, ma tutti i loro film si equivalgono, bastava pescare nel mucchio. I due vagabondi vengono aggrediti e derubati dai banditi, diventano banditi a loro volta, ma incappano proprio nel terribile fra Diavolo, che non li uccide solo per usarli. Alla fine la situazione disperata viene salvata dal provvidenziale intervento di un toro. A Stan e Laurel, tutti dobbiamo molto, da quasi settant'anni a questa parte”.
(Mymovies.it)
“Italia meridionale, Settecento. Stanlio (Stan Laurel) e Ollio (Oliver Hardy) vengono derubati dal perfido e leggendario brigante chiamato Fra Diavolo (Dennis King), il quale però decide di risparmiar loro la vita per assumerli al proprio servizio. Tuttavia, i due pasticcioni metteranno in serio pericolo i piani del farabutto.
Tratto dall'omonima opera di Daniel Auber, Fra Diavolo è uno tra i titoli più famosi della celeberrima coppia di Stanlio e Ollio. Il film diverte dal primo all'ultimo minuto, puntando tutto sulla straordinaria forza comica degli attori, capaci di dare sempre vita a trovate fresche ed efficaci (in primis i giochi con le mani di Stanlio e la famosissima scena della sbronza con l'annessa inarrestabile esplosione di risa). Tuttavia la sensazione che le pellicole interpretate da Laurel e Hardy siano solo una vetrina per le loro migliori gag è presente anche in questo caso, seppur - a differenza di titoli come Muraglie (1931) o Il compagno B (1932) - la struttura è decisamente più salda e curata, risultando credibile in tutte le sue svolte narrative e dando il giusto respiro anche ai personaggi secondari (Fra Diavolo in primis). La canzone cantata dal brigante, usata come monito del suo arrivo, nell'edizione italiana è doppiata dal baritono Tito Gobbi”.
(Long Take)
La canzone viene citata anche tra le canzoni contro la guerra, e il sito dedicato, ricorda che proprio la canzone cantata in italiano da Gobbi è la versione italiana della romanza tratta dall'opera lirica "Fra Diavolo, ou L'hôtellerie de Terracine" del compositore francese Daniel François Esprit Auber. Libretto di Augustin Eugène Scribe.
Beh, trascurando i botta e risposta - troppo spesso ormai sopra le righe - tra “leghisti” o “giacobini”, da una parte, e “terroni” e “neoborbonici”, dall’altra, a proposito della storia del Regno di Napoli, mi è venuto in mente che tra tutte le canzoni sull’Italia pre e post unitaria, molte delle quali dedicate a figure di briganti/partigiani/combattenti, non ce n’era ancora una su Michele Arcangelo Pezza, detto Fra Diavolo. Curioso che a scrivere questa, che ora contribuisco e che è l’unica che mi sia riuscito di trovare in rete (a parte la strofa popolare isolata che fa: “E' venuto Fra Diavolo, ha portato i cannoncini, pe' ammazzà li Giacobini, Ferdinando è il nostro Re!”), sia stato un francese, visto che Fra Diavolo i francesi li combatté per tutta la vita e dai francesi fu ammazzato nel 1806. Michele Arcangelo Pezza era di Itri, in Terra di Lavoro, oggi basso Lazio. Giovanissimo uccise un artigiano presso cui era apprendista, perché quello gli aveva messo le mani addosso. Poi uccise anche il fratello di questi, per prevenire la vendetta. Un bel tipino, non c’è che dire... Metteteci pure l’imprendibilità di una lunga latitanza ed il mito di Fra Diavolo era già nato.
Nel 1797 la pena per il duplice omicidio gli fu commutata in servizio militare e qui cominciò la lotta di Fra Diavolo contro i francesi. Inquadrato all’inizio come semplice fante nell’esercito borbonico era però destinato ad una fulgida carriera, e non grazie al lignaggio o alle leccate di culo, ma alle sue grandi doti di stratega della guerriglia. Infatti, mentre i generali crucchi dei Borbone (come Tschudy e Mack), si arrendevano ai francesi uno dopo l’altro, e spesso senza combattere, Fra Diavolo non si arrese mai e quando, proprio nella nativa Itri, i francesi gli trucidarono il padre (dicembre del 1798) la guerra contro l’occupante divenne una guerra per la vendetta personale, feroce e senza esclusione di colpi. Non sto a farla ancora lunga. Fra Diavolo combatté in tutte le coalizioni anti-francesi, combatté alla fine con poche centinaia e poi poche decine di uomini. Stremato, fu catturato a Baronissi (Salerno) il 1 novembre del 1806 ed impiccato qualche giorno dopo a Napoli.
Il grande scrittore francese Victor Hugo - che poi era figlio di Joseph Léopold Sigisbert Hugo, proprio il generale francese che a Fra Diavolo diede la caccia - scrisse di lui: "Fra Diavolo personificava quel personaggio tipico, che si incontra in tutti i paesi invasi dallo straniero, il brigante-patriota, l’insorto legittimo in lotta contro l’invasore. Egli era in Italia, ciò che sono stati, in seguito, Juan Martín Díez ‘El Empecinado’ in Spagna, Canaris in Grecia e Abd-el-Kader in Africa...”
(Wikipedia)
Come aneddoto, bisogna ricordare che in passato la figura di Fra Diavolo ha ispirato non solo opere musicali come quella di Auber, da cui è tratta questa canzone, ma anche pellicole cinematografiche, una su tutte la mitica “The Devil's Brother”, da noi uscita proprio con il titolo di “Fra Diavolo”, del 1933 per la regia di Hal Roach, una delle commedie più divertenti di Stan Laurel ed Oliver Hardy. La storia ovviamente non ci azzecca nulla con quella vera, ma l’attore Dennis King che nel film interpreta Fra Diavolo canta in inglese questa canzone, doppiato nell’edizione italiana da Tito Gobbi.
Quell'uom dal fiero aspetto
guardate sul cammino
lo stocco ed il moschetto
ha sempre a lui vicin.
Guardate un fiocco rosso
ei porta sul cappello
e di velluto indosso
ricchissimo mantel.
TREMATE!
Fin dal sentiero del tuono
dall'eco viene il suono
"DIAVOLO, DIAVOLO, DIAVOLO!"
TREMATE!
Fin dal sentiero del tuono
dall'eco viene il suono
"DIAVOLO, DIAVOLO, DIAVOLO!"”
- Il film si vede su: www.raiplay.it
- A chi interessa l’opera: Auber "Fra Diavolo", Deutsche Oper am Rhein, 1982
Una poesia al giorno
Finché tu esisti, di Ángel González
Finché tu esisti,
finché il mio sguardo
ti cerca al di là delle colline,
finché niente
mi riempie il cuore,
se non è la tua immagine, e c’è
una remota possibilità che tu sia viva
da qualche parte, illuminata
da una luce - qualunque...
Finché
io ho il senso che sei e che ti chiami
così, con quel nome tuo
così piccolo,
continuerò come adesso, amata
mia,
affranto di distanza,
sotto l’amor che cresce e che non muore,
questo amor che continua e non finisce.
(In "Poesia spagnola del secondo Novecento", Vallecchi, 1998, a cura di F. Luti)
Un fatto al giorno
9 luglio 1850: viene eseguita la condanna a morte del profeta persiano Bāb a Tabriz, in Persia.
”Sayyid Alí-Muhammad, detto Il Bāb, nacque a Shíráz, nel sud della Persia, il 20 ottobre 1819. Presto fu orfano del padre e quindi affidato alla protezione dello zio materno. Frequentò per pochi anni una scuola coranica, finché il suo insegnante, resosi consapevole della innata conoscenza del fanciullo, lo riconsegnò allo zio scusandosi di non potergli insegnare nulla. Bensì, raccomandò allo zio di aver cura del nipote che dimostrava segni di devozione, gentilezza e conoscenza, inusuali per la sua età... Nel frattempo a Najaf (in Iraq) la scuola Shaykhí (millenaristi) era passata sotto la guida di Sayyid Kázim. Durante i suoi pellegrinaggi, Il Bāb vi prese parte in alcune occasioni, suscitando la trepidazione del maestro. Nell’ultima, Sayyid Kázim, in risposta alla domanda di un discepolo, indicò la fascia di luce del sole che illuminava la veste del Bāb, dicendo: Cosa mai posso più rivelarvi, se la verità è più evidente della luce del sole sulla veste di quel giovane. Pochi mesi dopo congedò i suoi, invitandoli a disperdersi in cerca del “Qá’im” (Messia). Assicurò loro, la propria dipartita, per la sua apparizione... La rapida diffusione del messaggio, oltre alla viva attesa messianica millenaria, fu dovuta soprattutto agli scritti, epistole ed esortazioni che fluivano dalla penna del Bāb e di Bah’u’lláh e allo zelo dei loro sostenitori. La nuova interpretazione del Corano e dei testi sacri in chiave allegorica, l’istituzione di leggi e ordinanze moderne di carattere sociale ed economico che di fatto abrogavano le precedenti, tipo ruolo della donna, abolizione del clero, calendario, festività ecc., oltre alla denuncia della corruzione e superstizione nell’apparato statale e clericale, esasperarono le autorità religiose ed il monarca che decisero di mettere fine a una tensione politico-religiosa che minacciavano i loro poteri. Il Bāb fu due volte portato nella città di Tabriz e processato per apostasia; fu minacciato e invitato a desistere dal suo proposito. In ogni circostanza, Egli ribadì il proprio rango e la propria missione.
A Tabriz, il 9 luglio 1850, ore 12:00, mentre nel cortile della caserma, gremito persino sui tetti di gente ignara, un plotone di esecuzione si distribuiva in tre lunghe file, il Bāb ed Anís furono legati a un palo (Anís, era un ventenne che con il proprio capo, volle proteggere dai dardi, il petto del Bāb). «Se aveste creduto in me, o generazione perversa», furono le ultime parole del Bāb alla moltitudine che guardava mentre il reggimento si preparava a sparare la raffica finale, «tutti voi avreste seguito l’esempio di questo giovane, che era di rango superiore a molti di voi e vi sareste sacrificati di buon grado sul mio sentiero. Verrà il giorno in cui mi riconoscerete, ma quel giorno non sarò più con voi».
Così come una meteora, la luminosa figura del giovane Bāb attraversò il cielo dell’intelletto umano e lambì la superfice del mare della sua coscienza, provocando uno sconvolgimento in tutti gli ordini costituiti.”
- Articolo completo in: venividivici.us
“Bāb (arabo: bāb, porta), titolo assunto da Alī Muḥammad di Shirāz (1819-1850), fondatore in Persia di una nuova religione (da lui detta babismo). Egli si presenta come riformatore dell'islamismo, quasi un suo modernizzatore, e il simbolo della “Porta” sta a indicare la sua facoltà di schiudere agli uomini la conoscenza di Dio. Il Bāb, perseguitato dalle autorità islamiche, fu fucilato a Tabriz nel 1850. Delle molte opere attribuite al Bāb (alcune di dubbia autenticità) la principale è il Bayan (dichiarazione, spiegazione), in cui espone i capisaldi della sua riforma: abrogazione del digiuno, della preghiera e di altri canoni fondamentali della pratica musulmana; interpretazione spirituale dei termini usati nel Corano e negli altri libri sacri; nuove istituzioni religiose e nuova direzione della preghiera (non più verso la Mecca ma verso la casa del Bāb); nuovo sistema di divisione ereditaria; tensione escatologica verso “Colui che Dio manifesterà”, il Profeta futuro, di cui il Bāb è il servo. In conclusione il Bāb dichiara finito il ciclo di Maometto e intende aprirne uno nuovo, incentrato sul Profeta venturo”.
(Sapere.it)
- Si veda in: www.youtube.com
Una frase al giorno
Quid ergo est tempus? Si nemo ex me quaerit, scio: si quaerenti explicare velim, nescio.
(Che cosa è, allora, il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se dovessi spiegarlo a chi me ne chiede, non lo so).
Aurelio Agostino d'Ippona
(in latino: Aurelius Augustinus Hipponensis; Tagaste, 13 novembre 354 - Ippona, 28 agosto 430. E’ stato un filosofo, vescovo e teologo berbero con cittadinanza romana)
- Da non perdere il film di Roberto Rossellini su Agostino d’Ippona: www.youtube.com
Un brano al giorno
Beniamino Gigli e Giuseppe De Luca cantano il duetto da “I pescatori di perle” di Bizet, Del tempio al limitar, 1927.
Ugo Brusaporco
Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.
INFORMAZIONI
Ugo Brusaporco
e-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
web www.brusaporco.org
UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.
È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.
Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.
“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”
(Wikipedia)
“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”
(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)
“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.
(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)
“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”
(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)
“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”
(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)
“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.
(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)
Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/
Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0
https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs
https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4
https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk
Una poesia al giorno
Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].
Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi
che certo guarderanno male la nostra gioia,
talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?
Andremo allegri e lenti sulla strada modesta
che la speranza addita, senza badare affatto
che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?
Nell'amore isolati come in un bosco nero,
i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,
saranno due usignoli che cantan nella sera.
Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,
non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene
accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.
Uniti dal più forte, dal più caro legame,
e inoltre ricoperti di una dura corazza,
sorrideremo a tutti senza paura alcuna.
Noi ci preoccuperemo di quello che il destino
per noi ha stabilito, cammineremo insieme
la mano nella mano, con l'anima infantile
di quelli che si amano in modo puro, vero?
Nous serons
N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants
Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,
Nous serons fiers parfois et toujours indulgents
N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie
Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,
Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.
Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,
Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,
Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.
Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible
Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,
S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.
Unis par le plus fort et le plus cher lien,
Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,
Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.
Sans nous préoccuper de ce que nous destine
Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,
Et la main dans la main, avec l'âme enfantine
De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?
Un fatto al giorno
17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.
(da Focus)
Una frase al giorno
“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”
(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)
Un brano al giorno
Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k