“L’amico del popolo”, 13 luglio 2017

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

CONTE DE PRINTEMPS (Racconto di primavera, Francia, 1990), scritto e diretto da Éric Rohmer. È il primo episodio del ciclo dei Racconti delle quattro stagioni. Fotografia: Luc Pagès. Montaggio: María Luisa García. Musiche: Jean-Louis Valéro. Con: Anne Teyssedre, Hugues Quester, Florence Darel, Eloïse Bennett, Marc Lelom, François Lamore, Sophie Robin.

Jeanne, una giovane insegnante di filosofia, fidanzata con il matematico Mathieu, attualmente lontano per motivi di studio, dopo aver conosciuto ad una festa Natacha, una diciottenne pianista, simpatizza subito con questa e accetta l'invito di trasferirsi per alcuni giorni nel suo appartamento, dal momento che il suo lo ha prestato a sua cugina, mentre quello di Mathieu è troppo disordinato per lei. Le due ragazze diventano amiche e si confidano i propri problemi: Jeanne è preoccupata del suo rapporto con Mathieu; Natacha, che si sente trascurata da William, un giornalista, detesta sia sua madre, divorziata, sia Eve, la saccente amante di suo padre Igor, perché è convinta che abbia rubato una collana, il gioiello di famiglia a lei destinato. Quando suo padre Igor incontra casualmente Jeanne, si sente attratto da quella donna riposante e Natacha pensa che le piacerebbe che la fidanzata di suo padre fosse una brillante e giovanile insegnante di filosofia...

"Ma bisogna vedere la grazia con cui l'autore articola il discorso, tagliato in dialoghi il più delle volte a due personaggi, e quali palpiti sa dare alle sue ragazze in fiore. C'è nelle immagini, nonostante l'impermeabilità di Rohmer a tutto quanto esula dell'orizzonte sentimentale dei personaggi, il senso del vissuto con le sue pungenti amarezze, le sue contraddizioni, le accensioni e i dolori. L'abbiamo già detto da Berlino: un film così è una splendida occasione per riscoprire la commedia della vita e la vita come commedia. E abbiamo già detto, e lo diremo ancora, che Eric Rohmer è l'Amadeus del cinema."

(Il Corriere della Sera, 6 maggio 1990)

"E' il delizioso film che chiuse in bellezza, fuori concorso, l'ultimo festival di Berlino. Dopo i sei film dei 'Racconti morali' e i cinque di 'Commedie e proverbi', Maurice Scherer, in arte Rohmer, settantenne felice, ha aperto un nuovo ciclo che s'intitola 'Racconti delle quattro stagioni'. S'incomincia, come l'uso vuole, con la primavera. Rohmer ha cambiato ciclo, ma non la classica trasparenza dello stile, l'interesse per i personaggi giovani, la leggerezza elegante del tocco, la cristallina e armoniosa purezza, insomma il suo cinema fondato sulla comunicazione verbale e l'analisi psicologica. (...) Hugo von Hoffmanstahl diceva: 'La profondità va nascosta. Dove? In superficie'. Il suo film s'appoggia qua e là, con competenza, a frammenti di un arioso Beethoven e di Schumann."

(Morando Morandini, 'Il Giorno', 5 maggio 1990)

"Dopo i sei film che hanno dato vita ai 'Racconti morali' e ai sette andati sotto il titolo 'Commedie e proverbi', Rohmer inaugura con questo 'Racconto di primavera' un nuovo ciclo dedicato alle stagioni. E della primavera quest'ultima fatica del professore di Lettere ha la freschezza e il profumo, il tiepido calore e la fragranza, di per sé sufficienti a confortare un animo dotato di un minimo di sensibilità. Se poi in fondo a quest'animo c'è qualcosa di più, il gioco si fa maggiormente invitante e piacevole. A renderlo tale contribuiscono fra l'altro, ancora una volta, gli attori ai quali ricorre abitualmente Rohmer. Non attori noti - che probabilmente mal si adatterebbero ai personaggi loro assegnati, tutti invariabilmente marcati da quell'anonimato che è la caratteristica della gente comune, - ma attori che suppliscono alla popolarità con la genuinità. E sempre gradevoli sorprese. Come Anne Teyssedre nel ruolo di Jeanne."

(Enzo Natta, 'Famiglia Cristiana', 23 maggio 1990)

“Tra appartamenti di Parigi e una casa di campagna si muovono quattro personaggi. Jeanne (A. Teyssedre), docente di filosofia al primo incarico, si fa ospitare da Natasha (F. Darel) che, in antipatia verso l'amichetta del padre (E. Bennett), sua coetanea, spinge la nuova amica tra le braccia del genitore (H. Quester). È il primo del ciclo "Racconti della quattro stagioni" che segue ai "Racconti morali" e a "Commedie e proverbi". Vi succede poco sul piano dei fatti, molto su quello dei sentimenti. Gli si addice un noto detto di Hoffmanstahl: "La profondità va nascosta. Dove? In superficie". Settantenne felice, E. Rohmer continua per la sua strada: la trasparenza dello stile, l'interesse per i personaggi giovani, la leggerezza elegante del tocco, il suo cinema fondato sulla comunicazione verbale e l'analisi psicologica”.

(Il Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli)

“Dopo "Racconti morali" e "Commedie e proverbi", un nuovo ciclo per Rohmer, "Le quattro stagioni". Si comincia con la primavera, stagione degli amori, della vita all’aria aperta, della natura in fiore. Luoghi comuni? Per il non più giovanissimo (settant’anni il 21 marzo scorso) ma ancora giovanile regista della Nouvelle Vague, probabilmente sì. Ma senza astio, senza rancore, più filosoficamente che mai, con il sorriso sulle labbra e tanta comprensione per la "sostenibilissima leggerezza dell’essere".
Gli eroi e, più spesso, le eroine del cinema rohmeriano praticano il pensiero debole quasi senza accorgersene: in ciò la loro forza, spontaneità e naturalezza che si consumano (sublimano?) nello spazio di un film, tanto è ferrea la legge del regista in base alla quale solo per una volta (l’eccezione è Marie Rivière) possono assurgere al rango di protagonisti. Cambiano i volti di attori e attrici - sempre bravissimi - ma non lo spessore dei personaggi, cinici, egoisti o, al contrario, sin troppo garbati, timidi, in una modulazione di tipologie che ammette, ed anzi sollecita, il variare delle sfumature. Attraverso la "ciclicità", il regista può "ripetersi senza mai ripetersi", ossia fare (in fondo) sempre lo stesso film rinnovandolo ogni volta. È in questa originalità della serialità la cifra ultima del famoso Rohmer’s touch, non meno impareggiabile e inconfondibile di altri tocchi d’autore ormai celebri.
Ciò premesso veniamo pure al Conte de printemps, sottolineando per prima cosa gli scarti evidenti che il narrato offre per rapporto alle coordinate spaziotemporali della narrazione. È primavera ma l’ambientazione privilegia gli interni: cucine, soggiorni, camere da letto, salotti, sale da pranzo di uno e poi due, e poi tre, e poi quattro, e poi cinque (tanti ne abbiamo contati) diversi appartamenti: a Parigi, Montmorency, in campagna. Sono i luoghi non indifferenti che un regista come Rohmer, mai casuale nell’organizzazione dello spazio, esso stesso dimensione del linguaggio, sceglie per far parlare i personaggi. Ancora una volta la storia nasce dall’insofferenza del personaggio principale (Jeanne) per il luogo (i luoghi) in cui vive. Solo che l’uscita - rifuggendo dalle teoriche del fláneur di benjaminiana (e rohmeriana) memoria - origina in questo caso nuove entrate, in continuazione. È alla festa di un’amica, dove si annoia, capitatavi perché non sapeva dove altro andare, che Jeanne incontra Natacha. È a casa di quest’ultima, in circostanze "imbarazzanti" per la tradizionale pudicizia rohmeriana, che Jeanne conosce Igor, sentendosi subito a disagio. È qui, ancora, che dopo aver stretto amicizia con Natacha, rivede Igor e fa la conoscenza di Eve, capendo che attorno a quel tavolo tutti hanno una buona ragione per sentirsi a disagio. È poi nella villa di campagna (sorvolando su molti altri interni) che il disagio produce alterchi, separazioni distacchi: più o meno dolorosi, più o meno definitivi. Lo spazio urbano, la città, il tessuto metropolitano non sono più l’altrove che ciascuno cerca immaginando di trovare. Rade inquadrature di Parigi intervengono a mo’ di siparietti fra un interno e l’altro. Consentono allo spettatore di respirare ed anche di riflettere: non è la città che manca, è piuttosto il suo richiamo che non attrae più i personaggi, è la sua necessità che pare mancare.
L’altro significativo scarto che caratterizza il film è che in primavera gli amori non sbocciano, muoiono. Baruffano e si lasciano Igor e Eve, per la gioia di Natacha, ma fino ad un certo punto, perché anche i rapporti con il suo fidanzato si sono fatti di recente difficili. Quanto a Jeanne, che dribbla volentieri le avances di Igor, chi può dire che sia felice con Mathieu (che, infatti, non compare mai)? Odia sentirsi sposata e, non esserlo, mantiene il doppio domicilio ma non si sente a suo agio in nessuno dei due, mostra saggezza e manifesta comprensione per i guai degli altri ma chissà... Conte de printemps è meno brillante di altri recenti lavori di Rohmer ma si suggella con un lieto fine che sembra autentico, non di maniera. È più ritto, dialogato, lento e "sofferto", benché sempre "aereo" e forse maggiormente "ottimistico". Persino il "caso" (componente essenziale della poetica rohmeriana) sembra meno bizzarro e imprevedibile, intervenendo quasi soltanto nel finale (il ritrovamento della collana). Se, poi, gli interpreti se la cavano nel migliore dei modi (averne, qui da noi, di "sconosciuti" così...), non si può dire che il regista non sappia cogliere quell’infinità di stati d’animo e sensazioni per cui va giustamente famoso.
Né si può muovere al film l’appunto che alla fin fine non succede niente: sappiamo che nei racconti di Rohmer quel che di più importante accade, accade dentro i personaggi, non fuori di essi. Intrigante, in Racconto di primavera è piuttosto che il senso di incompiutezza, di sottile infelicità di ciascuno dei personaggi (l’ostentato equilibrio di Jeanne, le fissazioni di Natacha, la paranoia di Igor, la libresca filosofia di Eve) rimanga sostanzialmente irrisolto e forse neppure affrontato. Soltanto accennato. Ma, si sa, la primavera non è che l’inizio...”

(Roberto Ellero, Segno cinema n. 44, luglio 1990)

CONTE DE PRINTEMPS (Racconto di primavera, Francia, 1990), scritto e diretto da Éric Rohmer

 

Una poesia al giorno

Im Vorübergehn, di Johann Wolfgang von Goethe (Francoforte sul Meno, 28 agosto 1749 - Weimar, 22 marzo 1832)

Ich ging im Felde
So für mich hin,
Und nichts zu suchen,
Das war mein Sinn.

Da stand ein Blümchen
Sogleich so nah,
dass ich im Leben
Nichts lieber sah.

Ich wollt es brechen,
da sagt es schleunig:
Ich habe Wurzeln,
Die sind gar heimlich.

Im tiefen Boden
bin ich gegründet;
Drum sind die Blüten
So schön geründet.

Ich kann nicht liebeln,
Ich kann nicht schranzen;
musst mich nicht brechen,
musst mich verpflanzen.

 

Andavo per i campi
così, per conto mio,
e non cercare niente
era quello che volevo.

E lì c’era un fiorellino,
subito lì, vicino,
che nella vita mai
ne vidi uno più bello.

Volevo coglierlo,
ma il fiore mi disse:
possiedo radici,
e sono ben nascoste.

Giù nel profondo
sono interrato;
per questo i miei fiori
son belli tondi.

Non so amoreggiare,
non so adulare;
non cogliermi devi,
ma trapiantare.

 

Un fatto al giorno

13 luglio 1793: il giornalista e rivoluzionario francese Jean-Paul Marat viene assassinato nella sua vasca da bagno da Charlotte Corday, membro della fazione politica opposta. Costretto a letto durante l'estate a causa di una malattia, il 13 luglio ricevette la visita di una filogirondina della Normandia, Charlotte Corday, una giovane donna di Caen (noto centro girondino), che si recò a Parigi con l'obiettivo di uccidere Marat; la Corday, infatti, riteneva che Marat stesse tradendo gli ideali della Rivoluzione fomentando una guerra civile, e vedeva in lui una personificazione del Terrore. La giovine si recò a casa dell'uomo, che la accolse immerso in una tinozza d'acqua medicamentosa (Marat, infatti, era afflitto da un'irritante malattia della pelle che lo costringeva a lunghe permanenze nella vasca da bagno per alleviare il dolore). Dopo una breve conversazione la Corday gli immerse un coltello nel petto e lo uccise, mentre egli stava leggendo la falsa lettera di supplica utilizzata dalla donna come pretesto per farsi ricevere.

Jean-Paul Marat, uomo politico francese (Boudry, Neuchâtel, 1743 - Parigi 1793) fu tra i protagonisti della Rivoluzione francese e direttore dell'Ami du peuple, nel 1792 fu eletto alla Convenzione. Fautore della dittatura rivoluzionaria, gli fu imputata dai girondini la responsabilità dei massacri del settembre 1792, ma venne assolto. Fu tra gli artefici della caduta dei girondini (giugno 1793) e poco dopo venne assassinato da C. Corday.
Medico, scrittore, filosofo e scienziato, costantemente agitato da idee radicali. In gioventù Marat coltivò con alterni successi la passione per le scienze esatte, la speculazione teoretica e il sogno di un rivolgimento sociale che abbattesse il legame tra diritti politici e censo.

  • Da vedere: Marat/Sade di Peter Brook, da Peter Weiss (1967) 

La morte di Marat, Jacques-Louis David, 1793

Una frase al giorno

“La libertà non fa per noi: siamo troppo ignoranti, boriosi, presuntuosi, codardi, vili e corrotti, siamo troppo legati ai piaceri e all'ozio, siamo schiavi della fortuna a tal punto da non conoscere affatto il prezzo della libertà”.

(Jean Paul Marat)

 

Un brano al giorno

Die Moritat von Mackie Messer, musica composta da Kurt Weill su testo di Bertolt Brecht. Canta Lotte Lenya.

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

e-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
web www.brusaporco.org

 

 

 

 

 

UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k