“L’amico del popolo”, 13 novembre 2017

L'amico del popolo
Grandezza Carattere

L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

LE PASSÉ (Il passato, Francia, Italia, Iran ,2013), scritto e diretto da Asghar Farhadi. Sceneggiatura: Asghar Farhadi, Massoumeh Lahidji. Fotografia: Mahmoud Kalari.
Montaggio: Juliette Welfling. Musiche: Evgueni Galperine, Youli Galperine. Con: Bérénice Bejo, Tahar Rahim, Ali Mosaffa, Sabrina Ouazani, Pauline Burlet, Elyes Aguis, Babak Karimi, Valeria Cavalli, Jeanne Jestin

“Ahmad torna a Parigi per firmare definitivamente il divorzio con Marie. Nel corso del film gli sposi dichiarano più volte di voler chiudere con il passato. Ma stranamente Marie non ha prenotato un albergo per Ahmad, e lo convince a dormire sotto il suo stesso tetto. Asghar Farhadi sembra dirci che - nonostante gli sforzi di ognuno di noi - il passato si accumula, più che passare Marie è una giovane donna che lavora in farmacia e vive con le due figlie, Lucie e Léa, avute dal primo marito belga. Vorrebbe sposarsi con il suo nuovo compagno Samir che, a sua volta, ha un figlio piccolo, Fouad, e una moglie in coma da otto mesi per un tentato suicidio. Abitano tutti in una villetta alla periferia di Parigi, dove la normale confusione domestica è aggravata da lavori di ristrutturazione e dal continuo tramestio delle cose che, come le vite dei rispettivi proprietari, sembrano avere una collocazione incerta e in continuo mutamento.
Ahmad, avendo vissuto assieme a Lucie e Léa per molti anni, gode del loro affetto. Proprio per questo, è l'unico che riesce a parlare con Lucie, ora adolescente, che odia Samir e vuole impedirne ad ogni costo il matrimonio con la madre. Ahmad è tornato dall'Iran, dove si era rifugiato in seguito alla separazione. È un cittadino iraniano informato, colto e sensibile, che rivolge alla società francese - e alla sua (ex) famiglia allargata - uno sguardo compassionevole e preoccupato per le debolezze e i meschini segreti di tutti. Sembra convinto che, come dice il Vangelo, "La verità vi farà liberi" (Giovanni 8:32) [3]. Ma qui ognuno ha la propria verità e nessuno è veramente disinteressato. Nemmeno Ahmad, che vorrebbe rivalutare il proprio passato, viene accusato di essere un ipocrita da Marie, che si rifiuta di stare al gioco da lei stessa iniziato”.

(Wikipedia)

"Tutto, o quasi, nasce per colpa di una macchia su un vestito: qualcosa di incontestabile, ma di cui nessuno vuole prendersi la responsabilità. L'indizio non potrebbe essere più evidente: 'Il passato', il nuovo film di Asghar Farhadi scava nella storia dei suoi personaggi per farne emergere le «macchie» nascoste, capaci di aiutare a capire i comportamenti dell'oggi. Premiato a Cannes con la Palma per la miglior attrice (Bérénice Bejo), il film continua sulla strada già sperimentata dal regista iraniano nei precedenti 'About Elly' (2009) e 'Una separazione' (2011), quella di una narrazione che non dà nulla per scontato e offre allo spettatore la possibilità di scoprire, scena dopo scena e dialogo dopo dialogo, gli elementi utili per meglio capire la realtà. Ogni volta, però, col rischio di rimettere in discussione le conoscenze (e le certezze) accumulate fino a quel momento. Questo metodo, che chiede allo spettatore un coinvolgimento che va al di là della semplice osservazione dei fatti (e su cui ritorneremo), è sembrato ad alcuni, ai tempi della prima proiezione a Cannes, «ripetitivo» e «meccanico». Mi sembra un'accusa superficiale, che non tiene presente come al regista (anche qui unico responsabile della sceneggiatura) non interessi solo restare fedele a un suo personale stile di racconto, ma lo utilizzi per restituire il senso di un pessimismo più diffuso e invasivo, di una «tragedia quotidiana» con cui tutti dobbiamo fare i conti, capace di superare le storie singole dei personaggi per irradiarsi sulla realtà tutta. Una specie di invisibile gabbia che limita la libertà e che nelle primissime scene prende la forma di una parete di vetro che all'aeroporto separa Ahmad da Marie (lui è Ali Mosaffa, lei Bérénice Bejo) e impedisce loro di comunicare. (...) Farhadi usa Ahmed e la sua apparente estraneità ai fatti per smontare i silenzi e le reticenze dietro cui tutti vorrebbero nascondersi ma di cui finiscono per fargli carico. Nemmeno lui appare totalmente «innocente» (perché quattro anni prima aveva lasciato tutti per tornare in Iran?) e spesso le sue scelte aumentano le tensioni invece che diminuirle. Ma questa è una voluta conseguenza del modo di fare cinema del regista, che usa i comportamenti e le frasi (a volte espresse solo a metà) dei suoi personaggi per scavare nella storia e illuminare un po' meglio - e un po' diversamente - la realtà dei fatti. Così che, scena dopo scena, finiamo per conoscere di più e forse capire un po' meglio. In questo modo il ruolo che Farhadi chiede allo spettatore non è più solo quello di un osservatore attento e partecipe, ma piuttosto quello di un detective capace di entrare in una relazione emotiva con la materia raccontata. Come succede nella vita reale, dove i comportamenti delle persone finiscono per coinvolgerci, innescando tensioni e passioni. E, come nella realtà, senza trovare una risposta a tutte le nostre domande. Proprio quello che succede nei suoi film, che si chiudono sempre su un dubbio e non su una certezza. E su un senso di malinconico fallimento che ci restituisce dallo schermo il senso dei nostri limiti e, come qui, di un amaro bilancio esistenziale. Perché spesso non siamo nemmeno artefici fino in fondo delle nostre scelte."

(Paolo Mereghetti, 'Corriere della Sera', 19 novembre 2013)

"L'amore può far male. E' una spirale di affetti e di complicazioni quella in cui Asghar Farhadi (Oscar due anni fa con 'Una separazione') tuffa lo spettatore. Il regista non giudica. Si limita a suggerire che in un momento difficile, qual è sempre un divorzio, tutti hanno ragioni, ma devono sapersi spartire anche le colpe. E' un thriller del cuore quello tessuto attorno alla volitiva Marie (farmacista che fa i salti mortali per tenere assieme la famigliola), al sensibile Ahmad (ex marito che rientra a Parigi da Teheran per firmare le carte del divorzio) e all'ombroso Samir (nuovo compagno con tanto di figlio piccolo, Fouad). (...) Film struggente, a cui si ripensa. Splendidamente interpretato da tutto il cast, a cominciare da Bérénice Bejo (quella di 'The Artist', il film Oscar muto) premiata a Cannes come miglior attrice. Per noi, il più bel film visto quest'anno sulla Croisette. Meritevole della Palma d'oro assai più del sopravvalutato 'La vita di Adele'."

(Maurizio Turrioni, 'Famiglia Cristiana', 17 novembre 2013)

"Un uomo arriva all'aeroporto di Parigi. Una donna lo attende. I due si vedono e tentano di comunicare attraverso una vetrata che però impedisce loro di sentirsi. È un inizio perfetto, e al tempo stesso è forse l'unico momento di 'Il passato' in cui la sottolineatura simbolica diventa lievemente didascalica. La verità è che il cinema di Asghar Farhadi non funziona con i silenzi: la parola è fondamentale, i dialoghi sono fluviali e al tempo stesso avvincenti. Nessuno, nel cinema del XXI secolo, scrive dialoghi migliori di quelli di Farhadi. I suoi film funzionerebbero anche alla radio. Eppure sono cinema allo stato puro. Quasi un miracolo. (...) 'Il passato' può sembrare un dramma psicologico che mette a confronto varie idee (forse incompatibili) di amore e di famiglia. Ma il film ha almeno un livello di lettura ulteriore: per noi europei, è come osservare la nostra struttura sociale e i nostri meccanismi relazionali stando dall'altra parte dello specchio. Il punto di vista è sempre e soltanto quello di Ahmad: un uomo che viene dall'Iran dopo esser vissuto in Occidente, e che tornando in quel medesimo Occidente lo osserva con uno sguardo in parte alieno, in parte complice e competente. Già così, 'Il passato' sarebbe un film di straordinario interesse culturale e sociologico. In più, c'è la scrittura: come sa benissimo chi ha visto 'A proposito di Elly' e il successivo 'Una separazione' (vincitore dell'Oscar), Farhadi costruisce i film meravigliosamente, calando in ogni dialogo informazioni che portano avanti la trama e piccoli misteri che creano una suspence psicologica degna di Hitchcock. Infine gli attori, tutti stupendi: Ali Mossafa, Bérénice Béjo, Tahar Rahim e il solito, bravissimo Babak Karimi che, vivendo in Italia, è anche il curatore del doppiaggio nella nostra lingua. In due parole: grande film. Altre due parole: da vedere."

(Alberto Crespi, 'L'Unità', 21 novembre 2013)

“Quasi post Una separazione. Dove le tensioni, come nel film Orso d'oro a Berlino 2011 e nel precedente About Elly si creano proprio vivendo a stretto contatto, in famiglie che provvisoriamente si allargano e in disagi individuali che diventano un problema comune. Con discorsi spesso ascoltati soprattutto dai bambini e litigi che non si riescono a chiudere nella dimensione domestica Ahmad,(Ali Mosaffa) dopo essersi separato da 4 anni con l'ex-moglie francese Marie (Bérénice Bejo), arriva a Parigi per ultimare le pratiche del divorzio. Qui la donn gli chiede d'aiutarlo a risolvere i conflitti che ha con la figlia Lucie (Pauline Burlet) ma malgrado i suoi sforzi non solo non ci riesce ma lascia affiorare un tragico segreto del passato che coinvolge il nuovo compagno di Marie, Samir (Tahar Rahim).
C'è sempre una scrittura elaboratissima nel cinema del regista iraniano. E in questo suo sesto lungometraggio tornano in gioco alcuni elementi come l'impermeabilità dell'abitazione che esaspera i conflitti (chiusa dal cancello da una parte e dal passaggio del treno dall'altra) come in Una separazione e un personaggio fantasma (la moglie di Samir in coma) che intreccia destini molteplici come era avvenuto con la ragazza scomparsa nella villa sul Mar Caspio in About Elly. Parigi stessa appare oppressiva, resa opaca dall'illuminazione scura della fotografia di uno dei più importanti direttori della fotografia irianiani, Mahmoud Kalari che, oltre ad aver collaborato con Farhadi in Una separazione, ha lavorato anche con Abbas Kiarostami, Mohsen Makhmalbaf e Jafar Panahi.
Sulla strada di Parigi però il cinema di Asghar Farhadi sembra essersi in parte inceppato. Stavolta infatti scattano solo raramente quelle reazioni alle situazioni create dalla sceneggiatura che invece scattavano con una naturale immediatezza in Una separazione. Sempre abilissimo a dirigere gli attori, soprattutto i bambini, si sente però lo scarto tra Ali Mosaffa (anche importante regista iraniano) da una parte e Bérénice Bejo e Tahar Rahim dall'altro, il primo già naturalmente integrato nel suo cinema, gli altri due sulla strada di farlo nel corso del film. Mentre però Rahim possiede un istinto che gli permette anche di superare certi nodi un po' integrati (e si vede in uno dei pochi momenti davvero intensi nel film, nel modo in cui guarda e poi parla col figlio che non voleva scendere dalla metropolitana), la Bejo si affida prevalentemente a una tecnica che le permette raramente di far agire d'istinto il suo personaggio, cosa che invece caratterizza spesso le sue protagoniste iraniane.
Le passé è troppo spesso un film bloccato, che procede per slanci intermittenti, con un'ottima partenza (il dialogo attraverso i vetri all'aeroporto) e che applica all'estremo la lezione del Neorealismo italiano come quella di porre i personaggi davanti a una situazione per poi creare quello 'scatto rosselliniano' dove dalla scrittura si precipita dentro la loro vita. Qui avviene raramente e una scena rivelatrice di questa difficoltà è la ricerca nella notte sotto la pioggia della figlia di Marie da parte di Ahmad e Samir. Se fosse stato girato in Iran sarebbe stato un altro film? Probabile. Farhadi resta una delle più belle scoperte del cinema iraniano degli ultimi anni e ciò lo si può vedere anche in alcuni momenti di Le passé. Ma gli manca ancora quella 'magia' di appropriarsi di altri luoghi, quella che invece ha avuto Kiarostami con la Toscana (Copia conforme) e Tokyo (Qualcuno da amare).”

(Simone Emiliani)

Immagini

LE PASSÉ (Il passato, Francia, Italia, Iran ,2013), scritto e diretto da Asghar Farhadi

 

Una poesia al giorno

Fede nella primavera, di Ludwig Uhland

Le dolci brezze si sono risvegliate
spirano e sussurrano giorno e notte
si muovono ovunque
aria fresca nuovo suono
ora povero cuore non temere
ora tutto, tutto deve cambiare.
Il mondo diventa più bello ogni giorno
e non si sa cosa diventerà.
La fioritura non accenna a finire
e fiorisce anche la valle più profonda.
Ora povero cuore dimentica il tuo tormento.
Ora tutto, tutto deve cambiare

Frühlingsglaube

Die linden Lüfte sind erwacht,
Sie säuseln und weben Tag und Nacht,
Sie schaffen an allen Enden.
O frischer Duft, o neuer Klang!
Nun, armes Herze, sei nicht bang!
Nun muß sich alles, alles wenden.

Die Welt wird schöner mit jedem Tag,
Man weiß nicht, was noch werden mag,
Das Blühen will nicht enden.
Es blüht das fernste, tiefste Tal:
Nun, armes Herz, vergiß der Qual!
Nun muß sich alles, alles wenden.

Ludwig Uhland (Tubinga, 26 aprile 1787 - Tubinga, 13 novembre 1862) fu uno dei maggiori esponenti del romanticismo tedesco. Visse a cavallo del 1800, ma a 32 anni, nel 1819 decise di dedicarsi quasi esclusivamente alla politica, smettendo quasi completamente di pubblicare le sue liriche. Quel senso di libertà e ricerca d’amore che si respira però in molte sue poesie gli è sopravvissuto ed è per questo che ancora oggi Fede di primavera è una delle poesie tedesche più conosciute (merito è anche l’essere diventata testo di una composizione di Franz Schubert).
Uhland può essere considerato uno dei maggiori poeti della scuola sveva, dalla quale accolse quell'anelito di libertà che lo condusse in seguito ad abbandonare la letteratura per la vita politica.

Nel 1815 pubblicò un volume di liriche e iniziò l'insegnamento della letteratura tedesca a Tubinga. Fu membro del parlamento nel 1848. La sua produzione poetica, largamente apprezzata e molto popolare in Germania, trovò nella ballata il mezzo espressivo più congeniale, dove una sana robustezza di fondo nelle rievocazioni leggendarie si unisce ad una perfetta padronanza linguistica e ritmica: Graf Eberhard (Il conte Eberhard), Der blinde Konig (Il re cieco), Des Sangers Fluch (La maledizione del cantore).

Ludwig Uhland

Scrisse inoltre il testo della marcia funebre Ich hatt' einen Kameraden, tuttora in uso nelle forze armate tedesche.

Ich hatt' einen Kameraden,
Einen bessern findst du nit.
Die Trommel schlug zum Streite,
Er ging an meiner Seite
In gleichem Schritt und Tritt.

Eine Kugel kam geflogen:
Gilt sie mir oder gilt sie dir?
Sie hat ihn weggerissen,
Er liegt zu meinen Füßen
Als wär's ein Stück von mir.

Will mir die Hand noch reichen,
Derweil ich eben lad'.
"Kann dir die Hand nicht geben,
Bleib du im ew'gen Leben
Mein guter Kamerad!".

Io avevo un camerata,
non ce n'è miglior ahimè.
Che tuonasse la battaglia,
che fischiasse la mitraglia,
saldo stava accanto a me,
saldo stava accanto a me.

Una palla, tra migliaia,
destinata a trarti al ciel!
Colpito t'ebbe al petto,
t'accasciasti senza un detto,
camerata mio, fratel!
Camerata mio, fratel!

Mi tendevi ancor la mano,
implorandomi invan:
- Non ti posso qui aiutare,
mentre deggio ancor sparare.
Ci vedremo in ciel doman,
ci vedremo in ciel doman!

 

Un fatto al giorno

13 novembre 1917: inizia la prima battaglia del Piave tra gli italiani e gli austro-tedeschi. “Con l’espressione “offensiva del Piave” o “battaglie del Piave” si indicano alcuni combattimenti tra il Regio Esercito italiano e gli austro-ungarici, durante la prima guerra mondiale, nei pressi del fiume Piave. In quest’articolo si parlerà della prima, compiuta dal 13 al 26 novembre 1917, dagli austro-ungarici poco dopo i fatti di Caporetto.
Con la disfatta di Caporetto l’esercito italiano aveva perduto 700.000 uomini: 10.000 morti, 30.000 feriti, 370.000 prigionieri e 350.000 dispersi. In più aveva perso anche molti armamenti tra cannoni, mitragliatrici e fucili. A seguito quindi di questo tragico episodio lo Stato Maggiore italiano, d’accordo con l’alto comando dell’Intesa, decise di attestare la nuova linea sul Piave ordinando nel contempo l’arretramento delle armate delle linee Giulia e Carnica. La nuova linea al centro, come cardine di raccordo, il monte Grappa sul quale sin dall’offensiva austriaca del Trentino dell’anno precedente, erano stati compiuti lavori di accesso e di difesa.
Le forze contrapposte erano inizialmente costituite in questo modo: la parte italiana era formata da 15 divisioni costituenti la IV armata e la III armata mentre la parte austriaca era formata da 38 divisioni ripartite tra la XIV armata austro-germanica e il gruppo di armate dell’Isonzo. Successivamente si arrivò a 51 divisioni italiane (tre britanniche, due francesi, una cecoslovacca e un reggimento americano) contro le 73 divisioni austro-ungariche.

 

Una frase al giorno

“Il turismo è l'arte della delusione”

(Robert Louis Stevenson, romanziere scozzese, poeta e saggista, nato il 13 novembre 1850 e morto nel 1894)

Immagini: Robert Louis Stevenson Documentary 

Robert Louis Stevenson

Paese di produzione Francia, Italia, Spagna, Regno Unito, Germania Ovest. Anno 1971.
Regia Andrea Bianchi (pseudonimo del regista britannico John Hough)
Soggetto Robert Louis Stevenson (romanzo "L'isola del tesoro")

Interpreti e personaggi:
Orson Welles, Long John Silver
Kim Burfield, Jim Hawkins
Walter Slezak, Squire Trelawney
Rik Battaglia, Captain Smollett
Ángel del Pozo, Doctor Livesey
Lionel Stander, Billy Bones
Jean Lefebvre, Ben Gunn
Maria Rohm, Mrs. Hawkins
Paul Muller, Blind Pew
Michel Garland, George Merry
Aldo Sambrell, Israel Hands
Adolfo Thous, Black Dog

 

Un brano al giorno

Il 13 novembre 1868 muore Gioachino Rossini, compositore e pianista italiano (nato il 29 febbraio 1792)

Ouverture dal Guglielmo Tell di Gioacchino Rossini, diretta da Claudio Abbado

«Titano di potenza e di audacia. Il Napoleone d'un'epoca musicale» (Giuseppe Mazzini)

“Rossini! Rossini!” Regia Mario Monicelli. Con Sergio Castellitto, Philippe Noiret, Jacqueline Bisset. 1991

  • Su lui uscì nel 1991 il film:Rossini! Rossini!” Regia Mario Monicelli. Con Sergio Castellitto, Philippe Noiret, Jacqueline Bisset.

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

e-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
web www.brusaporco.org

 

 

 

 

 

UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k