“L’amico del popolo”, 18 novembre 2017

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

TOUS LES MATINS DU MONDE (Tutte le mattine del mondo, Francia, 1991), regia di Alain Corneau, tratto dall'omonimo romanzo di Pascal Quignard, adattato per il cinema dall'autore stesso insieme al regista. Fotografia: Yves Angelo. Montaggio: Marie-Josèphe Yoyotte. Musiche: Jordi Savall. Con: Gérard Depardieu, Guillaume Depardieu, Yves Gasc, Violaine Lacroix, Yves Lambrecht, Jean-Pierre Marielle, Jean-Marie Poirier, Carole Richert, Michel Bouquet, Myriam Boyer, Anne Brochet, Caroline Sihol, Nadège Teron, Jean-Claude Dreyfus.

Ormai anziano, Marin Marais, compositore al servizio del re Luigi XIV, ripercorre con la memoria il suo itinerario umano ed artistico, legato alla figura del suo maestro, il signore di Sainte Colombe, originale figura di musicista austero e schivo, appassionato dall'amore per la sua arte, che egli vuole tener lontana dal fasto della corte e dalle false lusinghe della mondanità. Morta la moglie, ricusate le profferte reali di suonare a corte e fattosi costruire un capanno, dove ha delle misteriose apparizioni della consorte, vi si chiude per ore dedicandosi allo studio della viola da gamba, al quale inizia le due figlie, Madeleine e Toinette, L'arrivo del giovane Marin sconvolge Madeleine che se ne innamora a prima vista, mentre l'austero genitore lo tratta con crudezza. E' Madeleine a perorare la causa del giovane invitandolo ad eseguire una propria composizione: inizia così uno strano rapporto con la famiglia Sainte Colombe. Il signore di Sainte Colombe non gli lesina giudizi negativi e spietati, ma cerca di farlo addentare in una tecnica musicale che superi la manualità da prestigiatore cui il giovane è naturalmente portato; Madeleine d'altro canto gli si concede, fino a restarne incinta. Poi Marais va a corte, chiamato dal re, e Madeleine, dopo un aborto spontaneo, si ammala e deperisce di giorno in giorno. Sentendosi ormai allo stremo, la giovane chiede al padre di suonare il pezzo composto per lei da Marin, ed egli fa chiamare il musicista, che in un drammatico, rievocativo incontro, le suona il brano "la reveuse". Partito Marin, la ragazza si uccide ed il signore di Sainte Colombe si chiude sempre più nel suo dolore. Ma Marais vuole avere in eredità le celebri suite del maestro, e va a trovarlo. Dopo un ultimo, intenso colloquio sull'essenza della musica, l'artista decide di donare all'allievo il libro delle sue composizioni, e suona con lui il brano dedicato alla cara moglie, "les larmes". Infine chiede a Martin di suonargli proprio "la reveuse", il brano che ha trasportato il compositore, ormai anziano, sull'onda dei ricordi.

TOUS LES MATINS DU MONDE (Tutte le mattine del mondo, Francia, 1991), regia di Alain Corneau

"'Una prosa del poco, una prosa delle parole puntute' ha definito Laurence Giavarini sui 'Cahiers du Cinéma' lo stile dello scarno e suggestivo romanzo. Per rendere tale qualità sullo schermo ci sarebbe voluto un Sainte Colombe del cinema, lo Straub di 'Cronique d'Anna Magdalena Bach'. Ma il regista Corneau, più simile a Marais, aveva la legittima aspirazione di fare spettacolo con un occhio al trionfo di 'Amadeus'. Ne è uscito un film in equilibrio periclitante tra rigore e orecchiabilità, tra riflessione razionale e sentimentalismo. Attacca Gérard Depardieu, Marais ormai vecchio, con un monologo di sei minuti in primissimo piano, poi è il suo prestante figliolo Guillaume a impersonarlo giovane; di contro c'è un Jean Pierre Marielle scolpito nel legno, corrucciato, altezzoso, e in mezzo soffre e si dispera Anne Brochet, forse la migliore del cast, nella parte della figlia sfortunata e suicida. Apprezziamo il gusto di riproporre uno strumento come la viola da gamba, praticamente scomparso dalla metà del '700, considerato il più vicino alla voce umana. Eppure la musica scritta, e non descritta, nel romanzo intriga più della musica dal vivo; e il fantasma concreto e visibile di Madame Sainte Colombe è meno credibile, lieve e misterioso di quello che scivola via sulla pagina."

(Tullio Kezich, 'Il Corriere della Sera', 5 Marzo 1992)

“Dopo il bel Notturno indiano (dal romanzo-trappola del nostro Tabucchi, incentrato sui temi del doppio e della ricerca dell'altro-che-è-in-sé), Corneau ci prende gusto con le atmosfere del cinema d'autore, travasando negli scenari abbastanza inediti della Francia alla seconda metà del Seicento l'antica passione per la musica barocca e gli umori di un pessimismo solidamente coltivato anche negli anni del noir (Polite Pvhon 357, La minaccia, Il fascino del delitto e Codice d'onore; tre dei quali, non a caso, con quel campione di tristezza virile che sapeva essere Yves Montand). Tema in apparenza, di Tutte le mattine del mondo sembra essere la perfezione musicale (e il gusto e la maestria con cui Jordi Savall orchestra musicalmente il film, recuperando le partiture autentiche dell'epoca, non farebbero che confermare l'assunto). Ma il prezzo che Sainte Colombe va pagando per giungere a quella perfezione compresa e fatta propria da Marin Marais solo in tarda età, dopo essersi lasciato sedurre dalle tentazioni mondane, è altissimo: diciamo il completo isolamento e distacco dal mondo. Per cui il tema della perfezione musicale finisce per rovesciarsi nel suo esatto contrario: l'assoluta imperfezione umana. "Signore, voi potrete fare della musica ma non sarete mai musicista" tuona Sainte Colombe nei riguardi del pur dotato Marais il giorno del provino, quando quest'ultimo bussa alla porta del maestro per apprendere la sua arte, umile allievo. Ma che dire di un musicista la cui unica "passione" è costituita dalle fugaci e fantomatiche apparizioni di uno spettro, il fantasma sia pure benigno della bella moglie scomparsa da tempo? Il giansenismo, fede del rigore etico ad oltranza in una società già bellamente protesa verso i fasti frivoli del Settecento (fasti che pure non impediranno a quest'ultimo secolo di fondare la modernità sotto qualsivoglia profilo: scientifico, politico, filosofico ecc.), è certamente soltanto la superficie ideologica dell'isolamento di Sainte Colombe. Le sue pulsioni, d'altra parte, sono così mortifere da ottundere persino ciò che in altri (nelle figlie, ad esempio) è puro istinto, una voglia di vivere che non ha bisogno certo di ulteriori giustificazioni odi ragioni specifiche. Eppure, è esattamente nel freddo e abbandonato capanno dove Sainte Colombe ama rifugiarsi, solitario più che mai, con l'unica compagnia della spettrale consorte, che egli compone i suoi capolavori, a cominciare da quel "Fombeau des Regrets" che è insieme programma, dichiarazione di intenti e di risultanze. C'è forse nell'arte una bellezza che ha a che fare soltanto con la morte? L'interrogativo non è di oggi e vanta tanti di quei precedenti illustri da far impallidire, se possibile, persino il già pallido Sainte Colombe. Che ha comunque ragione quando mette in guardia il giovane allievo circa la precarietà del suo proprio talento. Quest'ultimo, infatti, gli potrà consentire di intrattenere il re e la sua corte, di far crepare d'invidia i colleghi altrettanto ambiziosi ma meno dotati, di aver successo, far fortuna e vivere l'agiatezza. Ma non gli eviterà quel senso di perenne insoddisfazione, diciamo pure di frustrazione, che coglie l'artista quando costui avverte i limiti invalicabili della propria opera. Sul piano dei risvolti sentimentali, poi, l'insensibilità del giovane Marin nei riguardi di Madeleine, dopo averla lusingata e sedotta, non è certo meno colpevole dell’ardita di Sainte Colombe, l’uno all’altro incapaci di amare con simmetrica indifferenza. La forma di Tutte le mattine del mondo è quella del luogo flash-back. Non può non ricordare, dunque l'Amadeus di Forman, parimenti giocato sulle memorie con cui un anziano musicista. Ricorda l'esistenza di un altro musicista. Ma fra Marais e Salieri da un lato, Sainte Colombe e Mozart dall'altro, le analogie finiscono dove cominciano. E ciò vale anche per il film di Corneau rispetto a quello di Forman. La spettacolarità di Tutte le mattine del inondo non è certo narrativa, frutto di particolari accadimenti o di trovate più o meno estemporanee, e d'altra parte Sainte Colombe e lo stesso Marais non offrono certo l'inventario esistenziale a forti tinte offerto dal buon Mozart. Qui tutto è interiorizzato nello sguardo ora minaccioso, ora assente di Jean-Pierre Marielle (che è lo spigoloso Sainte Colombe), in quello dapprima esuberante (Guilaume Depardieu) e poi smarrito (Gérard Depardieu) di Marin Marais, mentre gli occhi della brava Anne Brochet (Madeleine) non possono far altro che rimproverare la cecità degli uomini (il padre e poi l'amante). In Francia, pluripremiato ai Césars, il film è inaspettatamente finito fra i campioni di incasso. Qui da noi si sta facendo vedere, pur senza strabiliare. Un buon film medio d'autore, ammesso che le due categorie del film d'autore - inconciliabili un tempo-possono convivere. Noi crediamo di sì, almeno presso registi come Alain Corneau, già capace in passato di altre conciliazioni: la rivisitazione del noir in contesti filmici non meramente di genere”.

(Roberto Ellero, segno cinema n. 55, maggio-giugno 1992)

"Nonostante le apparenze e i manifesti, non è Depardieu il protagonista di 'Tutti i mattini del mondo', ma Jean-Pierre Marielle che, con tragica intensità e asciutta autorevolezza, impersona il taciturno e iroso signore di Sainte Colombe. Morta la giovane moglie, si rinchiude nella sua casa, nel suo dolore, nella sua musica. Nemmeno gli inviti, gli ordini del re che lo vuole a corte, lo smuovono. La musica che suona sulla sua viola a gamba - 'Le tombeau des regrets' - è così bella che risveglia i morti, alla lettera. Nel romanzo, attraverso la parola scritta, le apparizioni della moglie defunta hanno un incanto misterioso e struggente. Corneau ha rischiato assai nel metterle in immagini: che ci sia riuscito senza danni, anche se con minore felicità espressiva, torna a onore di un talento, di una misura. Con un'invenzione di sceneggiatura la storia di Sainte Colombe è raccontata in flash-back da Depardieu che, all'inizio e all'epilogo, fa Marais vecchio imparruccato, gravato dagli anni e dagli onori. Marais giovane - che, riluttante e ruvido, Sainte Colombe accetta come allievo per intercessione della figlia grande - è interpretato da suo figlio Guillaume. Nessuno dei tre personaggi principali - Sainte-Colombe, sua figlia Madeleine, Marin Marais - è particolarmente piacevole e simpatico, Corneau non ha fatto nulla per piacere. Il suo film ha la bellezza metafisica della natura morta di Lubin Baugin ('Le dessert de gaufrettes') che si vede nella casa di Sainte Colombe e che ora sta al Louvre."

(Morando Morandini, 'Il Giorno', 6 Marzo 1992)

"E un cinema, se vogliamo, per happy few, ma in questo momento di orge televisive e di macchinoni hollywoodiani indirizzati soltanto a reazioni epidermiche, è una splendida dimostrazione di quello che ancora si può fare con l'arte del film, specie se si opera sull'immagine. Nei panni di Marin Marais c'è Gérard Depardieu, prima bolso, segnato, appesantito dal successo, poi ferito e reso trasparente dalla crisi che lo riscatta. Saint-Colombe è Jean-Pierre Marielle, il segnale più scoperto nel suo rigore e nei suoi abiti da lutto e fuori moda, della citazione di Dreyer. La figlia che morirà per amore è Anne Brochet, una figurina dolente e squisita; a Marin Marais giovane dà volto lo stesso figlio di Depardieu, Guillaume. Non so però se diventerà come il padre."

(Gian Luigi Rondi, 'Il Tempo', 29 Febbraio 1992)

Tutte le mattine del mondo semplicemente incanta: è pacato, profondo, curato. Ha immagini bellissime e la sua colonna sonora, curata da Jordi Savall, è da sola un motivo sufficiente per consigliarne la visione. Qual è il fine della musica? La dolcezza, risponde una voce fuori campo all'inizio dello splendido Tutte le mattine del mondo. Su questa parola, dolcezza, la voce affaticata di Marin Marais ne fa scivolare un'altra. L'ombra, dice con disperata esitazione, datemi l'ombra. La macchina da presa è catturata dal suo viso, dai vecchi occhi che non sanno se decidersi a piangere, da quel che vi resta di un'antica gioia del corpo (bravissimo, Gérard Depardieu)”

(Roberto Escobar Il Sole-24 Ore)

TOUS LES MATINS DU MONDE (Tutte le mattine del mondo, Francia, 1991), regia di Alain Corneau

 

Una poesia al giorno

Canto alla Luna da “Giulieta e Romeo” (poemetto, 1905), di Berto Barbarani (pseudonimo di Roberto Tiberio Barbarani, Verona, 3 dicembre 1872 - Verona, 27 gennaio 1945; è stato un poeta italiano e un importante poeta dialettale veronese)

O Lùna tonda, che nel çièl te gìri
sentinèla del mondo e de l'amor,
e bàsi e piànti insième te respìri
da i to balconi pièni de slusor,
che te inçércola tuta a gìri, a gìri;

lùna, a quàrti o a metà, secondo ségna
la mòda stràmba che se ùsa in çiél,
dopo che in çiél, come el lunàrio inségna,
i te sassìna a colpi de penèl,
e nàso e òci e boca i te disségna;

lùna de i monti, ciàro de i paési,
spècio de i làghi e de le vàle fonde,
stéla dei copi, dove i gàti intési
se sfìda a rugolàr zo da le gronde
par le gatìne de tùti i paési;

lùna de quéi che a sòrte o par natùra
dòrme in mèso à le stràde o su la pàia,
questurìna dei làdri a nòte scùra,
ràbia dei càni che te guàrda e sbàia,
risorsa del pitor che te impitùra;

lùna, imprésteme a mi tùto el to lùme,
la to camìsa biànca, el to slusor,
parché vèsta du osèi de le so piùme,
du colombìni che se fa a l'amor...
e perméteme a mi che fàssa lùme!

Monumento a Verona dedicato a Berto Barbarani

 

Un fatto al giorno

18 novembre 1978: suicidio di massa di Jonestown. A Jonestown (Guyana), Jim Jones guida il Tempio del popolo ad un suicidio di massa; muoiono 913 persone, tra cui 276 bambini.

La Stampa su questo folle evento ha pubblicato il 18/11/2008: “Il 18 novembre 1978, esattamente trent’anni fa, 912 persone, seguaci della congregazione religiosa del «Tempio del Popolo», si suicidarono in massa nella loro comune di Jonestown, nella giungla della Guyana, bevendo un cocktail al cianuro, secondo gli ordini del loro capo, il reverendo Jim Jones.
Jones non era uno dei soliti squilibrati emarginati dalla società che si rifugia nella religione: Jones era un uomo stimato, che propugnava una sorta di socialismo apostolico e fu anche assessore all’edilizia del comune di San Francisco sotto il sindaco democratico George Moscone. Addirittura la moglie del presidente Carter, Rosalynn, fu colpita dalla bontà di quest’uomo e intratteneva con Jones regolare corrispondenza epistolare. Il vicepresidente Mondale, in una lettera al «caro Jim», si dichiarava «riconoscente per il lavoro del Tempio del Popolo nella difesa della libertà di stampa, nella lotta contro la droga e nella direzione di un istituto per bambini handicappati».
Nonostante le lusinghiere opinioni di molti personaggi importanti, però, Jones, verso la metà degli anni Settanta, cominciò a dare segni di squilibrio: si credeva la reincarnazione di Cristo e Lenin insieme, diceva di essere in grado di compiere miracoli e le prime voci di molestie sessuali nei confronti di alcuni adepti cominciarono a diffondersi.
Messo sotto accusa da più parti e sentendosi braccato, Jones prese segretamente accordi con il governo della Guyana per ottenere alcuni lotti del terreno nella giungla: così, nell’estate del 1977, più di mille persone si trasferirono nella nuova «terra promessa» e diedero vita a Jonestown, la comune della setta del Tempio del Popolo.
Ben presto, però, iniziarono primi problemi: i familiari dei seguaci della setta cominciarono a rivolgersi alla polizia per far tornare a casa i loro congiunti, mentre indagini giudiziarie scoprirono frodi fiscali e addirittura torture e sequestri di persona all’interno della congregazione. In seguito alle varie indagini, nel 1978, il deputato californiano Leo Ryan si recò in visita a Jonestown insieme a un gruppo di giornalisti per verificare cosa accadesse realmente nella comunità: il politico, però, venne ucciso da un seguace della setta su ordine di Jones, insieme ad altre quattro persone, durante una sparatoria mentre cercavano di ripartire dall’aeroporto con alcuni adepti che erano stati costretti a partire per la Guyana.
Fu a questo punto che qualcosa si ruppe: il reverendo Jones, convinto che la Chiesa, il governo e la Cia volessero distruggerli, salì sull’altare e ordinò ai fedeli «il supremo sacrificio per la religione e il comunismo» e per «difendersi dall’imminente invasione delle forze del Male». Centinaia di persone bevvero un cocktail al cianuro, facendo la fila davanti a un enorme bidone pieno di cianuro. Jones aspettò che tutti esalassero il loro ultimo respiro e si sparò un colpo di pistola alla tempia: attorno a lui rimasero i cadaveri di 911 persone, il più grande suicidio di massa nella storia.

Immagini:

  • Jonestown, il più grande suicidio di massa... del giornalismo mondiale: www.youtube.com
  • Jonestown, il più grande suicidio di massa della storia: www.youtube.com

18 novembre 1978: suicidio di massa di Jonestown

 

Una frase al giorno

18 novembre 1926, George Bernard Shaw rifiuta di accettare il premio in denaro del suo Premio Nobel, dicendo: "Posso perdonare Alfred Nobel per aver inventato la dinamite, ma solo un demone con sembianze umane può aver inventato il Premio Nobel."

  • PYGMALION (USA, 1938): Pigmalione è un film del 1938, prodotto da Gabriel Pascal e diretto da Anthony Asquith e Leslie Howard, tratto dalla omonima commedia di George Bernard Shaw, che contribuì personalmente alla sceneggiatura.

Leslie Howard in PYGMALION

 

Un brano al giorno

Sainte-Colombe, La Conférence. Jordi Savall - Wieland Kuijken: www.youtube.com

Jordi Savall

Monsieur de Sainte-Colombe (1640 circa - 1700 circa) è stato un gambista e compositore francese della seconda metà del XVII secolo, attivo forse nella zona dell'Île de France, del quale non sono noti né il nome di battesimo, né le date di nascita e morte.
Sono scarsissimi anche i cenni biografici di cui disponiamo, dovuti ad una manciata di riferimenti sparsi in fonti e documenti contemporanei: è probabile che l'attività di concertista di Sainte-Colombe si sia svolta a livello poco più che familiare (forse rifiutando anche un invito del re di Francia ad esibirsi a corte) e che egli non abbia mai dato alle stampe le proprie composizioni.
Ciononostante, tra i contemporanei Sainte-Colombe fu considerato, oltre che uno straordinario compositore, il più grande esecutore di musica per viola da gamba, strumento allora particolarmente in voga nelle corti europee; tra l'altro si ritiene che egli stesso abbia contribuito al perfezionamento tecnico dello strumento, estendendone le possibilità espressive con modifiche dell'incordatura (inserimento della settima corda di tonalità grave)”.

(Wikipedia)

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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web www.brusaporco.org

 

 

 

 

 

UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k