“L’amico del popolo”, 14 maggio 2020

L'amico del popolo
Grandezza Carattere

L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno IV. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

THE PLEASURE GARDEN (Il giardino del Piacere, UK, Germania, 1925), regia di Alfred Hitchcock. Prodotto da: Michael Balcon, Erich Pommer. Sceneggiatura di Eliot Stannard. Basato su The Pleasure Garden di Oliver Sandys. Musiche: Lee Erwin. Fotografia: Gaetano di Ventimiglia. Cast: Virginia Valli nel ruolo di Patsy Brand. Carmelita Geraghty nel ruolo di Jill Cheyne. Miles Mander nel ruolo di Levet. John Stuart nel ruolo di Hugh Fielding. Ferdinand Martini nel ruolo di Mr. Sidey. Florence Helminger nel ruolo della signora Sidey. Georg H. Schnell nel ruolo di Oscar Hamilton. Karl Falkenberg nel ruolo del Principe Ivan. Elizabeth Pappritz nel ruolo di Native Girl (non accreditato). Louis Brody nel ruolo di Plantation Manager (non accreditato).

THE PLEASURE GARDEN (Giardino del Piacere, UK, Germania, 1925), regia di Alfred Hitchcock 

“Londra. Music-hall Pleasure Garden.

La narrazione comincia in un ambiente teatrale. La prima immagine del film è una scala a chiocciola che un gruppo di ballerine scende per accedere al palcoscenico. Uomini ricchi e maturi in prima fila guardano compiaciuti. In soggettiva, dalla visione sfuocata di uno di questi spettatori, con l'aiuto di un binocolo, si passa all'inquadratura perfetta delle gambe delle ragazze danzanti.

Una di esse, Patsy, bionda per lavoro, è la protagonista. All'uscita dal teatro incontra una giovane aspirante ballerina, Jill, disperata perché è appena stata derubata del portafoglio contenente i soldi e una lettera di raccomandazione al direttore del teatro. Generosamente Patsy le offre ospitalità per la notte nella sua stanza in affitto e le promette di presentarla l'indomani al direttore. I coniugi affittacamere accolgono con cordialità le due ragazze e Jill fa la conoscenza anche di Cuddles, il simpatico cane, curioso e combinaguai, che le va a leccare i piedi, quando prima di dormire si inginocchia a recitare le preghiere.

THE PLEASURE GARDEN (Giardino del Piacere, UK, Germania, 1925), regia di Alfred Hitchcock

Il giorno dopo Jill, in teatro, al rifiuto iniziale del direttore reagisce con astuzia: lo convince a vederla ballare promettendogli di mostrare una danza nuova e audace. Non solo si fa assumere ma riesce, con sicuro senso degli affari, ad ottenere anche un ottimo contratto di lavoro. Patsy si congratula con lei, senza gelosia.

Mentre Jill è assente, arriva il suo fidanzato Hugh, che la vuole salutare prima di partire per le piantagioni nelle colonie inglesi ai Tropici, in cui si dovrà trattenere per due anni. Trova ad accoglierlo l'imbarazzata Patsy, per giunta senza le calze da indossare, sottratte dal burlone Cuttles. Mentre il cane fa le feste al nuovo arrivato, Patsy entra all'improvviso nel salotto e inciampa nei due sdraiati a terra e cade rovinosamente. La buffa situazione predispone i due giovani a una reciproca simpatia.

Jill nel frattempo sta provando un nuovo costume di scena nell'appartamento lussuoso dell'impresario, di cui accetta volentieri la corte.

Patsy e Hugh pranzano insieme e sono raggiunti da un amico di lui, Levet, prossimo a partire come Hugh per le colonie. Insieme vanno ad assistere allo spettacolo di cui è protagonista Jill. Da un palco due eleganti ammiratori osservano compiaciuti la prima ballerina. In camerino uno di essi presenta i suoi omaggi e rivela di essere un principe russo. Jill è lusingata e trascura Hugh.

Patsy intanto è corteggiata da Levet e malgrado sia turbata da alcuni sinistri avvertimenti (l'abbaiare ostile di Cuddles, le ombre inquietanti che accompagnano il suo apparire, il cappello portasfortuna sul letto, la furia con cui cerca di strapparle un bacio) cede alle sue insistenze e accetta la proposta di matrimonio. Levet la bacia impetuosamente.

Il montaggio parallelo mostra intanto la carriera fortunata e i successi mondani di Jill: cena in un lussuoso ristorante con il principe, ritorna nella sua elegante casa e astutamente riesce a congedarlo senza concedergli niente, è libera così di ricevere subito dopo l'impresario Hamilton con cui ha già da tempo una relazione.

THE PLEASURE GARDEN (Giardino del Piacere, UK, Germania, 1925), regia di Alfred Hitchcock

Il giorno del matrimonio di Levet e Patsy la pioggia scende a catinelle e la coppia è costretta, insieme ai testimoni, gli affettuosi affittacamere, ad avviarsi alla cerimonia tristemente con gli ombrelli. Trascorrono una romantica luna di miele sul Lago di Como. Tutto appare perfetto, solo qualche dettaglio rabbuia la fronte di Patsy: la rosa, sgraziatamente gettata nelle acque del lago, la bambina ruvidamente allontanata, l'impazienza nervosa con cui Levet l'attende mentre prega la Madonna per la loro futura vita insieme, nella piazza del borgo pittoresco.

Patsy accompagna il marito ad imbarcarsi sulla nave diretta in Africa e si separa da lui. La mano di Patsy ignara, che sventola il fazzoletto in segno di addio, diventa la mano della moglie indigena che altrettanto ignara accoglie con ingenua gioia il ritorno del suo uomo.

Nella capanna in cui convive con l'indigena Levet beve smodatamente e non risponde alle numerose lettere di Patsy; Hugh non ha notizie da Jill e casualmente vede su un giornale la fotografia di lei e del principe russo dei quali si annuncia l'imminente matrimonio.

Quando finalmente Patsy riceve una lettera dal marito, apprende che è malato. Decide perciò di raggiungerlo per prendersi cura di lui, ma non ha il denaro necessario. Chiede un prestito a Jill che glielo nega, accampando il pretesto delle spese per il matrimonio. In realtà ha il cassetto del secrétaire pieno di banconote che esibisce quando paga il sarto. Saranno i padroni di casa a privarsi dei loro risparmi per permetterle di pagare le spese per il viaggio.

Patsy si imbarca. Purtroppo l'incontro con il marito le riserva la più amara disillusione: nella capanna Levet ubriaco fradicio è in intimità con l'indigena. Ella disperata fugge da Hugh e lo trova gravemente malato.

Durante la sua assenza Levet approfitta del fatto che l'indigena si è tuffata in mare; la raggiunge e l'annega trattenendole con violenza la testa sott'acqua. Ancora il regista collega l'inquadratura della mano di Levet che dà la morte all'indigena a quella della mano soccorrevole di Patsy che accarezza la fronte di Hugh febbricitante.

Levet, perseguitato dal senso di colpa e dalle visioni allucinatorie della indigena che continuamente gli compare davanti agli occhi, roso dalla gelosia vedendo l'intesa fra Patsy e Hugh, vuole uccidere con una scimitarra Patsy ma è inaspettatamente fermato da un colpo di pistola. Il medico del villaggio, avvisato da Hugh, è provvidenzialmente intervenuto a salvarla.

Ormai non ci sono più ostacoli all'amore fra Patsy e Hugh. Il loro ritorno a casa è festeggiato da Cuddles, a cui Hugh era sempre stato simpatico, e dai padroni di casa. Il film si conclude con l'ultima birichinata di Cuddles: gioca con il filo elettrico aggrovigliandolo e impedisce al padrone di sentire la musica alla radio.

Alfred Hitchcock nel 1923“Quando il produttore della Gainsborough Michael Balcon gli affida la prima regia, Alfred Hitchcock ha venticinque anni e ha già fatto quasi tutti i lavori all’interno dello studio: è stato disegnatore di didascalie, sceneggiatore, direttore artistico e aiuto regista di Graham Cutts, il cineasta più affermato dello studio. Il suo primo incarico è un adattamento del fortunato romanzo del 1923 di Oliver Sandys, pseudonimo di Marguerite Florence Barclay. I destini di due ballerine di fila si incrociano: l’astuta e audace Jill fa fortuna mentre la dolce e generosa Patsy viene tradita dal marito privo di scrupoli. Hitchcock rivela padronanza stilistica fin dalla prima inquadratura, una scala a chiocciola dalla quale scende una cascata di ballerine sgambettanti, ma a colpire è l’abilità con cui condensa la trama e moltiplica i livelli di significato.

The Pleasure Garden è una storia abbastanza convenzionale, come ammise lo stesso Hitchcock: “Un melodramma. Ma conteneva varie scene interessanti”. La tematica non doveva stargli troppo a cuore, ma seppe conferirle una dimensione in più: The Pleasure Garden è un saggio sul voyeurismo, la politica sessuale e il divario tra sogno romantico e cruda realtà. Hitchcock usa i personaggi minori per commentare le vicende dei protagonisti e mette in contrasto il comportamento dei ‘buoni’ e dei ‘cattivi’ attraverso l’azione parallela. L’inquadratura della mela gettata via con noncuranza dopo un solo morso simboleggia efficacemente l’indifferenza del marito di Patsy la prima notte di nozze e accenna alla sua condotta futura. Ma si armonizza anche con l’evocazione visiva di elementi ‘naturali’, come fiori e frutti, che Hitchcock usa per alludere alla personalità di Patsy. Reintrodotti dal restauro, questi tocchi da maestro e queste piccole fioriture ci danno la misura del talento del regista, presente già in questo primo film. Probabilmente furono proprio queste pretese artistiche a suscitare l’ostilità di C. M. Woolf, uno dei soci della Gainsborough, spingendolo a rimandare l’uscita del film per più di un anno. Le altre reazioni furono molto più positive. “The Daily Express” seppe vedere in The Pleasure Garden il talento a noi così evidente e descrisse Hitchcock come un “giovane con l’intelligenza di un maestro”. La sua carriera era decollata.

The Pleasure Garden è stato trasformato dal restauro più di qualsiasi altro film di Hitchcock. Una vasta ricerca ha portato alla luce copie conservate in Francia, in Olanda, negli Stati Uniti e al BFI National Archive. Per molti anni si è pensato che The Pleasure Garden fosse circolato in due versioni, forse legate a due diverse uscite, ma un attento confronto delle cinque copie ritrovate, tra cui quattro nitrati originali, ha indicato che potevano essere fatte risalire tutte allo stesso negativo. Il film restaurato reintegra le svolte e i principali filoni narrativi offrendo la ricostruzione più completa possibile del montaggio originale, e usando le fonti migliori tra quelle a nostra disposizione siamo stati in grado di migliorare enormemente la qualità dell’immagine.”

(Bryony Dixon in www.cinetecadibologna.it)

THE PLEASURE GARDEN (Giardino del Piacere, UK, Germania, 1925), regia di Alfred Hitchcock

 

“A proposito di The Pleasure Garden e del perduto The Mountain Eagle, che era stato il primo lungometraggio diretto da Hitchcock, Balcon scriveva: "Dovevo fare questi due film in Germania, almeno per quanto riguarda la presenza di Hitchcock, perché il suo passaggio alla regia era osteggiato da più parti. All'epoca noi dipendevamo dal sostegno dei distributori, che non erano molto diversi da come sono ancora oggi, e non era un'impresa facile convincerli del talento di uno sconosciuto. I due film garantirono comunque a Hitchcock una certa reputazione come regista e da allora egli non tornò più a nessuno dei vecchi lavori." The Pleasure Garden (in parte girato nel nord Italia) venne realizzato tra mille problemi, per lo più connessi al suo risicato budget, e fu ultimato con molte difficoltà. Il film non entusiasmò i distributori, i quali ritardarono di sei mesi l'anteprima per i proprietari delle sale e per la stampa. Dopo la presentazione, le recensioni furono abbastanza favorevoli e il film, che venne distribuito solo dopo The Lodger (Il pensionante) terzo film di Hitchcock e suo primo grande successo, godette anche di un certo favore del pubblico. La vicenda, che narra i destini contrastanti di due ballerine di fila, presupponeva un'ambientazione nei mari del Sud (l'Italia, nella fattispecie) e tutta una serie di cliché melodrammatici. Ma il vero Hitchcock è già chiaramente presente sia nelle prime scene di vita teatrale inglese, sia in qualche altro brillante tocco individuale. Ad esempio nella scena del "cattivo" impazzito che riacquista la normalità proprio quando viene colpito dal proiettile poco prima di morire, scena che fornì l'occasione ai distributori tedeschi di accusare per primi Hitchcock di eccessiva brutalità. “-

(JRT - Catalogo Giornate del Cinema Muto in: www.mymovies.it)

 

Il film:

 

Una poesia al giorno

Quién Sabe, di José Santos Chocano

Indio que asomas a la puerta
de esa tu rústica mansión:
¿Para mi sed no tienes agua?
¿Para mi frío cobertor?
¿Parco maíz para mi hambre?
¿Para mi sueño, mal rincón?
¿Breve quietud para mi andanza?

-¡Quién sabe, señor!

Indio que labras con fatiga
tierras que de otro dueño son:
¿Ignoras tú que deben tuyas
ser por tu sangre y tu sudor?
¿Ignoras tú que audaz codicia
siglos atrás te las quitó?
¿Ignoras tú que eres el amo?

-¡Quién sabe, señor!

Indio de frente taciturna
y de pupilas de fulgor:
¿Qué pensamiento es el que escondes
en tu enigmática expresión?
¿Qué es lo que buscas en tu vida?
¿Qué es lo que imploras a tu dios?
¿Qué es lo que sueña tu silencio?

-¡Quién sabe, señor!

¡Oh, raza antigua y misteriosa,
de impenetrable corazón,
que sin gozar ves la alegría
y sin sufrir ves el dolor:
eres augusta como el Ande,
el Grande Océano y el Sol!
Ese tu gesto que parece
como de vil resignación,
es de una sabia indiferencia
y de un orgullo sin rencor...

Corre por mis venas sangre tuya,
y, por tal sangre, si mi Dios
me interrogase qué prefiero
-cruz o laurel, espina o flor,
beso que apague mis suspiros
o hiel que colme mi canción-,
responderíale diciendo:
-¡Quién sabe, señor!

 

Chi lo sa, (traduzione di Ugo Brusaporco)

Indio che spunti dalla porta
di questa tua villa rustica:
Non hai acqua per la mia sete?
Una coperta per il mio freddo?
Il mais per la mia fame?
Un piccolo angolo per il mio sogno,?
Breve quiete per il mio cammino?

-¡Quién sabe, señor!

Indio che lavori con fatica
terre che di un altro proprietario sono:
Tu ignori i tuoi debiti
Il tuo sangue e il tuo sudore?
Tu ignori che audace avidità
Secoli fa te le ha tolte?
Tu ignori che sei il padrone?

-¡Quién sabe, señor!

Indio di fronte taciturna
e pupille di fulgore:
Che pensiero è quello che nascondi
nella tua espressione enigmatica?
Cosa cerchi nella tua vita?
Cosa stai implorando al tuo Dio?
Cosa sogna il tuo silenzio?

-¡Quién sabe, señor!

O razza antica e misteriosa,
di cuore impenetrabile,
che senza godere vedi la gioia
e senza soffrire vedi il dolore:
sei Augustea come le Ande,
il Grande Oceano e il Sole!
Questo tuo gesto che sembra
come di vile rassegnazione,
è di una saggia indifferenza
e di un orgoglio senza rancore...

Il tuo sangue scorre nelle mie vene,
e, per tale sangue, se il mio Dio
mi chieda cosa preferisco
-croce o alloro, spina o fiore,
bacio che spenga i miei sospiri
O il fiele che riempie la mia canzone,
Gli risponderei dicendo:
Chi lo sa, signore!

 

José Santos Chocano (Lima, 14 maggio 1875 - Santiago del Cile, 13 luglio 1934) è stato un poeta, scrittore e diplomatico peruviano 

CHOCANO, José Santos (Lima, 14 maggio 1875 - Santiago del Cile, 13 luglio 1934) .A 20 anni soffrì la prigione e l'esilio per il suo atteggiamento rivoluzionario, che espresse in Iras santas (1894), una delle sue prime raccolte poetiche. Ma questi motivi polemici e oratori furono presto obliati per una più salda ispirazione, che lo portò all'esaltazione epico-lirica della sua terra. Descrittivo nei quadri agresti (En la aldea, 1895), canta in una visione unitaria la sua America, che egli rivede in tutta la sua vita pittoresca e folkloristica, e attraverso alle vicende secolari dalle ombre primitive alla civiltà spagnola e da questa agli aneliti moderni: la Epopeya del Morro del 1899, e Alma América del 1906. Nell'originale accettazione di tutti gli elementi storici e tradizionali il C. accoglie la poesia della leggenda e il vigoroso realismo, selvaggio e avventuriero, della propria civiltà; in lui, l'educazione classica e romantica e le predilezioni parnassiane si purificano nella trascendente ansia del "cantore nazionale".”

(In www.treccani.it)

“José Santos Chocano è stato un poeta, scrittore e diplomatico peruviano, noto come il Cantore delle Americhe, definizione presa dal poema "Blasón" in Alma América; dopo Rubén Darío è da considerarsi il maggior rappresentante del modernismo ispano-americano. Ammesso precocemenente alla National University di San Marcos all'età di 14 anni, già nell'adolescenza si mise in evidenza sia per l'esuberanza lirica sia per la sua vulcanica azione politica.

Se i suoi esordi letterari, come nel caso di En la aldea (1895), mostrarono tinte poetiche romantiche, in Iras santas i suoi versi, scritti durante un semestre trascorso in galera a causa del suo attivismo politico, si colorarono di toni rivoluzionari e sovversivi.

Fu costretto ad espatriare, verso gli inizi del Novecento, ed a rifugiarsi a Madrid, dove frequentò l'ambiente letterario e intellettuale della capitale spagnola.

La sua produzione letteraria, in quegli anni, vide la sua massima espressione nelle raccolte Derrumbe (1899), Canto del siglo (1901), e soprattutto in Alma América (1906), impreziosito sia dalla presentazione di Miguel de Unamuno, sia dalle illustrazioni realizzate dall'artista Juan Gris. In queste opere, Chocano si propose di assurgere al ruolo di vate epico delle Americhe. Sin da queste opere, Chocano evidenziò le sue peculiarità, quali la fantasia, la sofisticatezza, la sensibilità decadentista, il gusto della musicalità, del colorismo, della rima e del ritmo, il naturalismo, che lo caratterizzarono come un poeta modernista e Nuovomondista, in qualche modo associabile, ma nello stesso tempo alternativo, a Rubén Darío.

Contemporaneamente, dal 1905 al 1908, un nuovo governo peruviano gli assegnò incarichi diplomatici, che lo obbligarono a soggiorni in vari Paesi americani ed europei. Negli anni successivi, svolse ruoli di collaborazione in Messico con Pancho Villa, anche se in breve tempo fu costretto alla fuga, in Guatemala con Manuel Estrada Cabrera, alla cui caduta si salvò per miracolo dalla fucilazione, e con Woodrow Wilson negli Stati Uniti, con alcuni dei quali conservò un rapporto epistolare.

Nel 1922, Chocano rientrò in Perù, dove strinse amicizia con il presidente Augusto B. Leguía. Il 5 novembre 1922, Chocano venne nominato "Poeta d'America" in una cerimonia svolta in un teatro di Lima, alla quale presenziò lo stesso capo di Stato. Solo tre anni dopo, però, il poeta si macchiò dell'uccisione di uno scrittore-giornalista, Edwin Edmore, e venne rinchiuso in un ospedale militare per quattordici mesi.

Terminata la reclusione espatriò in Cile, a Santiago, dove riprese la sua attività letteraria, preparando la sua nuova raccolta poetica Primicias de Oro de Indias. Il 13 luglio 1934 fu ucciso a coltellate, per cause ancora ignote, durante un trasferimento su un autobus.”

Manifestazione popolare in onore del poeta José Santos Chocano. Lima, 1922

 

Immagini:

 

Un fatto al giorno

14 maggio 1983: Milano: un attentato incendiario del gruppo Ludwig provoca 6 morti e 32 feriti nel cinema a luci rosse Eros.

“La città di Milano è stata testimone di alcuni tra i più sanguinosi attentati avvenuti in Italia negli ultimi decenni.

Tutti certamente ricordano la strage di Piazza Fontana (12 dicembre 1969, 17 morti), la strage alla Questura di Milano (17 maggio 1973, 4 morti) o la strage di Via Palestro (27 luglio 1993, 5 morti).

I più preparati ricorderanno forse anche la strage mafiosa di Via Moncucco (3 novembre 1979, 8 morti) e la strage brigatista di Via Schievano (8 gennaio 1980, 3 morti).

Milano è stata però anche teatro di un’altra spaventosa strage che tuttavia è stata completamente rimossa dalla coscienza collettiva. Sul luogo dell’eccidio infatti non è stata posta alcuna targa commemorativa e in occasione degli anniversari dell’attentato non viene mai tenuta alcuna commemorazione pubblica.

È un’ipocrisia, ma tant’è. Tale oblio è dovuto al fatto che - parliamoci chiaro - le vittime non sono “pure” come i clienti della banca di Piazza Fontana o come i vigili del fuoco di Via Palestro. No. In questo caso le vittime sono considerate per certi versi come corrotte e impure: sei cittadini arsi vivi che Milano ha preferito dimenticare per non dover citare il peccato che quel rogo intendeva purificare.

Sabato 14 maggio 1983. Mentre una trentina di spettatori stava assistendo al primo tempo del film porno Lyla, profumo di femmina, due giovani si presentarono alla cassa del cinema «Eros Sexy Center» di Viale Monza 101 (vicino alla fermata del metrò Rovereto), comprarono i biglietti, entrarono in sala e si sedettero nelle ultime file.

Nessuno fece caso al fatto che portavano con sé due borsoni. Dentro i borsoni c’erano però due taniche di benzina.

Alle ore 17.45 si spensero le luci e cominciò il secondo tempo del film. I due spettatori si alzarono dai loro posti, aprirono i borsoni e rovesciarono il contenuto delle taniche sul pavimento della sala. Poi, mentre scostavano le pesanti tende di velluto per scappare via, gettarono a terra un cerino accesso.

L’incendio che divampò fu violentissimo. Tutti gli spettatori riuscirono a scappare utilizzando le uscite di sicurezza - chi con le proprie gambe, chi portato a braccia da altri spettatori - prima del crollo del tetto.

Tuttavia numerosi spettatori e alcuni soccorritori dovettero essere ricoverati in ospedale - chi per ustioni, chi per intossicazione da fumo - e nei giorni successivi all’incendio sei di loro morirono. Le vittime erano cinque spettatori di un film porno e Livio Ceresoli, un passante che si era precipitato nella sala per prestare soccorso e che aveva riportato ferite di una portata tale da causarne poco dopo la morte.

Una settimana dopo il rogo, l’Ansa di Milano ricevette un volantino che rivendicava l’attentato con queste parole: «Rivendichiamo il rogo dei cazzi. Una squadra della morte ha giustiziato uomini senza onore, irrispettosi della legge di Ludwig». Gli autori del volantino, per non essere scambiati per mitomani, citarono dettagli che fino ad allora non erano stati divulgati dagli investigatori: «per appiccare l’incendio al cinema sono stati usati una tanica e un bidone di plastica ai cui manici sono stati fissati rispettivamente una catenella da lavandino e una fascetta metallica marca Serflex». La sigla che rivendicò l’azione - Ludwig - era ben conosciuta dalle forze dell’ordine perché aveva già rivendicato diversi omicidi compiuti negli anni precedenti.

L’escalation criminale della formazione terroristica Ludwig - che oggi viene ripercorsa dal libro di Monica Zornetta, Ludwig: Storie di fuoco, sangue, follia (304 pp., Baldini Castoldi Dalai Editore, 16,50 euro) - ebbe infatti inizio il 25 agosto 1977 a Verona, quando diedero fuoco al senzatetto Guerrino Spinelli mentre dormiva. Un anno dopo, il 17 dicembre 1978, a Padova uccisero a coltellate il cameriere omosessuale Luciano Stefanato. La stessa sorte toccò al tossicodipendente Claudio Costa il 12 dicembre 1979 a Venezia. Passò ancora un anno, e il 20 dicembre 1980, a Vicenza, massacrarono a colpi di ascia e di martello Alice Maria Baretta, prostituta.

Non era ancora finita. Il 24 maggio 1981 incendiarono la torretta di Porta San Giorgio a Verona, dove morì lo studente Luca Martinotti. Il 20 luglio 1982 uccisero a martellate Giovanni Battista Pigato e Mario Lovato, anziani frati del Santuario della Madonna di Monte Berico. Ormai era un delirio di azioni sempre più frequenti. Il 26 febbraio 1983 a Trento assassinarono con un punteruolo il sacerdote Mario Bison. Il 14 maggio 1983 incendiarono il cinema «Eros Sexy Center» di Milano provocando, come abbiamo visto, sei vittime. Il 7 gennaio 1984 a bruciare fu la discoteca «Liverpool» di Monaco di Baviera, e nel rogo rimase uccisa la cameriera Corinne Tartarotti.

La parabola criminale di Ludwig si interruppe domenica 4 marzo 1984. Due ragazzi si presentarono alla cassa della discoteca «Melamara» di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova. C’era una festa in maschera, e i due ragazzi si erano travestiti da Pierrot. Comprarono i biglietti ed entrarono in sala. Con sé avevano ancora una volta due borsoni e nei borsoni c’erano ancora una volta delle taniche. I due cominciarono a versare benzina sul pavimento del locale come avevano già fatto all’«Eros Sexy Center» di Milano e al «Liverpool» di Monaco di Baviera, ma questa volta qualcosa andò storto: i buttafuori del locale li individuarono e li immobilizzarono immediatamente, domando poi le fiamme in pochi minuti. I due piromani, che i Carabinieri sottrassero ad un tentativo di linciaggio, si chiamavano Marco Furlan, 24 anni, studente in Fisica, figlio di un primario di chirurgia plastica al centro grandi ustionati dell’ospedale civile maggiore di Borgo Trento, e Wolfgang Abel, 25 anni, laureato in matematica, nato a Monaco di Baviera e trasferitosi in Italia con la famiglia da bambino, figlio di un dirigente assicurativo.

I processi che ne seguirono non riuscirono mai a far piena luce sulle motivazioni che li avevano spinti ad agire. Il loro desiderio di purificazione e di morte, al di là del loro generico quanto profondo disgusto morale per la società che li circondava, non ha trovato fino ad oggi una spiegazione razionale. I giudici, pur non trovando prove sufficienti per condannarli per i primi delitti, nondimeno condannarono Abel e Furlan a 27 anni di prigione a testa per tutte le azioni compiute a partire dal 1982, compresa quindi la strage al cinema «Eros Sexy Center» di Milano.

Oggi le pene sono state quasi del tutto scontate: Abel è in semilibertà, mentre Furlan - pur avendo alle spalle una fuga e una latitanza all’estero - è libero, e addirittura vive e lavora a Milano.

Questi sono i fatti nudi e crudi.

Marco Furlan e Wolfgang Abel

Diciamo subito che il saggio è scritto in modo scorrevole ed è ben documentato (in appendice sono riportate le copie dei famosi volantini che Abel e Furlan scrissero per rivendicare le loro azioni). Il saggio ha inoltre il pregio di ripristinare la “correttezza storica” degli eventi. In molti siti web viene infatti attribuita a Ludwig anche la strage in un locale di Amsterdam che provocò 15 morti. In realtà il colpevole di quel fatto fu catturato e condannato, e non c’entrava niente con Abel e Furlan.

La vicenda pone tuttavia problemi di “inquadramento storico”, diciamo così, che il saggio non riesce a risolvere. Non è una mancanza grave poiché nessuno è ancora riuscito a porre la questione nazista in termini che possano consentire una classificazione agevole. Detto in parole povere: i delitti di Ludwig furono causati da turbe psichiche di Abel e di Furlan o furono espressione di una rivolta politica di stampo neonazista?

Si tratta di una questione difficile da trattare. Nel 1989 Sergio Zavoli scrisse La notte della Repubblica (che poi fu anche una fortunata serie TV), un libro in cui il grande giornalista tentava di fare un triste contabilità dei morti di terrorismo in Italia dal 1969 al 1989. Ebbene, in quel suo pioneristico tentativo di sintesi, Zavoli non conteggiò i morti di Ludwig tra i morti di terrorismo e non citò mai Ludwig nelle 400 pagine del suo saggio.

Secondo Zavoli dunque, le azioni di Ludwig erano solo materiale da psichiatri e i loro riferimenti al nazismo erano solo un epifenomeno della loro malattia privo di reale valore politico. La posizione di Zavoli è comprensibile. D’altronde, anche a proposito del nazismo vero e proprio non si capisce mai bene quando siano finite le turbe psichiche dei suoi leader e quando sia cominciato il loro bieco progetto politico.

Ma siamo davvero sicuri che, nel caso di Ludwig, questa sia un’analisi corretta?

Il saggio che abbiamo tra le mani mette per esempio bene in luce come i Ludwig ebbero anche contatti, superficiali certo, con altri elementi del galassia del neonazismo del nord est e in particolare con quel gruppo che poi prese il nome di “Ronde pirogene antidemocratiche”.

Tuttavia la “spiegazione politica” è da prendere con le molle.

Per esempio è da escludere, e Monica Zornetta lo esclude categoricamente, secondo me a ragione, che i Ludwig siano stati manovrati o eterodiretti, cosa che invece capitò alla sezione veneta Ordine Nuovo, la nota formazione nazifascita (fuoriuscita dal movimento sociale e su posizioni, diciamo così, molto evoliane) che si rese protagonista della strage di Piazza Fontana.

Allo stesso modo Zornetta esclude, e secondo me anche qui a ragione, che le azioni di Ludwig possano essere ascritte a quella che generalmente è nota come la “strategia della tensione”, cioè quella serie di stragi e omicidi che dalla fine degli anni Sessanta a metà degli anni Ottanta avrebbero avuto come scopo quello di preparare il terreno nell’opinione pubblica a una svolta autoritaria di destra, e comunque anticomunista, in Italia. Le azioni di Ludwig invece - così puntigliosamente rivendicate con tanto di prove per essere sicuri di essere creduti e motivate come’erano da una schietta adesione al nazismo - erano totalmente inutilizzabili, e anzi controproducenti, in un contesto in cui l’intento doveva essere quello di convincere l’opinione pubblica italiana che fosse necessaria e auspicabile una svolta autoritaria di destra.

E tuttavia proprio qui si apre un campo di indagine interessante, che l’autrice sfiora appena, e cioè quello di tentare di capire il motivo per cui nel nord est italiano siano proliferati dagli anni Sessanta in poi diversi gruppuscoli neonazisti, uno dei quali è stato Ludwig.

Il saggio è dunque un’interessante lettura che può aiutare a sviluppare molte riflessioni in merito a questioni come psichiatria/nazismo e nazismo/nord est italiano. Ma, come dicevo all’inizio, può servire anche a smascherare certe ipocrisie perbeniste.

Non mi stupirei se Furlan, che oggi vive a Milano, l’incendiario figlio di un primario di chirurgia plastica in un centro grandi ustionati, di tanto in tanto passasse anche per Viale Monza, magari nel tratto dove ci sono i due vecchi ponti della ferrovia. Tra una grande banca e un negozio con le insegne coperte da fogli di giornale, tra un centro massaggi e due phone center, tra un negozio di restauratore chiuso e un ristorante cinese, al civico 101 c’è ancora un edificio basso là dove c’era il cinema «Eros Sexy Center». Sicuramente Furlan, passando davanti al civico 101. Uno sguardo imbarazzato, forse, di una persona attenta a non farsi notare.

Lo stesso imbarazzo che circonda le vittime di quel giorno, troppo poco pure e innocenti per meritarsi di essere ricordate.

(In: www.vorrei.org)

Marco Furlan e Wolfgang Abel 

“...Uguale a quelli inviati per attentati precedenti: caratteri gotici, frasi deliranti sulla razza e come intestazione la solita svastica sormontata da un’aquila nazista. Il testo diceva: “Rivendichiamo il rogo dei cazzi. Una squadra della morte ha giustiziato uomini senza onore, irrispettosi della legge di Ludwig». Poi, per evitare di essere presi per dei mitomani, una serie di dettagli relativi all’attentato: “Per appiccare l’incendio al cinema sono stati usati una tanica e un bidone di plastica ai cui manici sono stati fissati rispettivamente una catenella da lavandino e una fascetta metallica marca Serflex”. Abel e Furlan finirono sotto processo e furono condannati anche per il rogo del cinema porno di Viale Monza. Tuttavia, chiarezza sui loro legami e i loro rapporti col mondo del neo nazismo non è mai stata fatta fino in fondo. Ma a noi poco importa. Non siamo qua per raccontare le loro gesta. Queste righe non abbiamo deciso di scriverle per fare luce sulle relazioni di giovani fanatici neonazisti dell’alta borghesia veronese. Ciò che ci preme è accendere una piccola luce su quelle sei vittime dimenticate perché colte in un momento di debolezza. In un momento che il nostro perbenismo un po’ peloso ci impedisce di affrontare a viso aperto. Non ci piace parlare di vittime di serie A e di serie B o, peggio ancora, di ipocrisia latente. Non vogliamo puntare il dito contro nessuno. Non siamo in grado farlo. Però, ecco, se in uno dei prossimi giorni che ci stanno conducendo al cinquantesimo anniversario della strage di Piazza Fontana doveste trovarvi a passare per Viale Monza, magari proprio davanti al civico 101, un pensiero a quelle sei vittime della follia stragista di quegli anni dedicatelo. Il cinema Eros oggi non c’è più. Dopo il rogo del 1983 rimase chiuso per un bel po’ e a distanza di qualche anno venne riaperto sotto forma di discoteca. Non ebbe grande fortuna. Chiuse i battenti anche lei nel giro di poco. Oggi, invece, c’è la sede di una congregazione religiosa, la Comunità cristiana dello Spirito Santo. Non sappiamo che senso dare a questa presenza in quel luogo. Forse non c’è l’ha, o forse sì. Pensateci voi. Noi ci limitiamo a far notare solo una cosa: nessuno, dopo tanti anni, ha ritenuto che fosse arrivato il momento di porre una targa commemorativa su uno dei muri esterni. Eppure, fra le vittime c’erano persone comuni, uguali in tutto e per tutto a noi: un impiegato della Sip, un aiuto cuoco, un artigiano, un autista di una ditta di spedizioni, un funzionario Cariplo…”

(In storiedimenticate.it)

 

Quattro marzo 1984, da ‘Melamara', discoteca di Castiglione delle Stiviere, quattrocento ragazzi si scatenano a una festa in maschera. Nel buio della sala appare un ventenne magro vestito da Pierrot. Ha un’espressione seria, se ne resta defilato da un lato mentre da una porta di sicurezza, quasi nello stesso istante, avanza verso di lui un giovane con due grandi borse. Il secondo arrivato estrae piano due grosse taniche e senza che qualcuno ci faccia troppo case, con l'aiuto del Pierrot versa il contenuto in circolo intorno alla pista lasciato cadere qualcosa si affretta all'uscita con il compagno. Dal pavimento si alza una lingua di fuoco che rapidamente si estingue, ma qualcuno urla, si ustiona, il panico si scatena tra i quattrocento ballerini e gli sguardi puntano tutti contro i due piromani che vengono acciuffati, picchiati e trattenuti fino all'arrivo della polizia. Mentre spingono in auto gli unici due piromani che tentano di dar fuoco a una moquette ignifuga, gli agenti si figurano già una lunga serata a verbalizzare le farneticazioni di due balordi, ma quella notte le cose andranno diversamente. E qualche tempo dopo, l'Italia intera parlerà dei due ragazzi della Melamara.
sommario

Il serial killer Ludwig

Tutto aveva avuto inizio sette anni prima a Verona, quando la polizia si era trovata di fronte un cadavere carbonizzato in una a Fiat 126. Chiuso in auto e bruciato vivo con due molotov, era Guerrino Spinelli, un senzatetto che dormiva abitualmente nella sua Fiat 126. Allora si pensò a un omicidio occasionale, l'accanimento di qualche crudele teppista contro un emarginato. Un anno dopo Luciano Stefanato, sommelier, fu trovato riverso sull'asfalto a Padova con due lame conficcate nella schiena, anche qui mancava il movente. Strano, ma anche in questo caso non c'erano altre piste. A Venezia, l'anno successivo il 22enne Claudio Costa viene trovato accoltellato, ancora una volta senza un movente. Il cerchio degli omicidi senza un perché si chiude nel 1980, a Vicenza, quando il corpo di Alice Maria Beretta, cinquantadue anni, viene trovato deturpato da colpi d’ascia e martello.

I delitti dell'odio

Due giorni dopo, alla redazione de Il ‘Gazzettino' di Mestre arriva un volantino: “Rivendichiamo l’omicidio di Alice Maria Beretta”. Sulle prime si pensa a uno scherzo di pessimo gusto, ma un'ultima frase che fa riferimento al colore e alla marca del martello utilizzato come arma del delitto, cancella ogni dubbio sull'autenticità di quel messaggio. Il volantino, vergato in caratteri dell'alfabeto germanico e siglato con ‘Gott mit uns' (Dio con noi), motto nazista, è firmato ‘Ludwig'. Tutto torna, la matrice di estrema destra e quella insensata serie di omicidi unita da un filo rosso: l'odio. Spinelli era una senzatetto, Stefanato un omosessuale, Claudio Costa un tossicodipendente, Alice Beretta, una prostituta. E Ludwig niente altro che un gruppo di assassini. Nessuno sa come e dove possano colpire, l'unica certezza è che non hanno pietà. Tutti i corpi delle vittime, infatti, sono straziati: dal fuoco, da lame affilate, da martelli massicci e accette possenti. Chiunque siano i killer, non vogliono solo eliminare l'obiettivo: vogliono farlo in maniera plateale, esemplare. ‘Rieducare' la società secondo le ideologie neonaziste.

Gli omicidi in Veneto

Quando sembra che le cose non possano andare peggio, quando l'aria nelle città è viziata dalla nausea e dal terrore, i delitti più cruenti della serie si consumano proprio sotto il naso della polizia. È il 20 luglio 1982. Vittime sono due anziani frati di Monte Berico a Vicenza, Mario Lovato e Giovanni Battista Pigato, aggrediti a martellate. Un anno dopo, Armando Bison, un prete di Trento viene ammazzato con le stesse modalità, ma questa volta Ludwig lascia una firma: un punteruolo con un crocifisso, confitto nella testa della vittima. Il solito volantino di rivendicazione, recita: "è stato punito chi tradisce il vero Dio”. Chi è, allora, questo Dio?A marzo finalmente la svolta, l'uomo che si nasconde dietro Ludwig viene arrestato. Silvano R. assistente universitario che stava tenendo un corso alla Facoltà di fisica di Povo, a pochi chilometri da dove il prete era stato ammazzato, aveva addirittura contattato il rabbino di Padova per avvertirlo che, secondo le sue previsioni, la prossima vittima sarebbe stata scelta dalla comunità ebraica. Il ‘professor Ludwig', come venne ribattezzato, finisce sulle prime pagine di tutti i giornali, odiato dalla massa e sezionato dagli psichiatri dell'ultim'ora, salvo essere scarcerato otto giorni dopo, per mancanza di prove. E tante scuse per essere stato dato in pasto ai giornali come mostro.

L'incendio della Melamara

Nel maggio le cose cambiano. Ludwig depone il coltello e imbraccia la tanica di benzina. A Milano l'incendio dell'Eros Sexy Cente', un cinema a luci rosse, miete sei vittime e lascia 32 feriti; il 17 dicembre successivo il sexy club "Casa rossa" di Amsterdam va a fuoco, bilancio: 13 morti. Pochissimi giorni dopo, nel gennaio 1984, il rogo di una discoteca a Monaco di Baviera si conclude con una vittima e numerosi feriti. "Al Liverpool non si scopa più!" è il beffardo volantino degli assassini, che hanno cambiato modus operandi. Sono passati dall'omicidio alla strage, dalla lama, al fuoco ‘purificatore' e hanno normalizzato il linguaggio dei volantini. In una parola: sono diventati sicuri di sé, si sentono invincibili. Poi un giorno di marzo del'84 la polizia sventa un rogo alla Melamara e porta in centrale due ragazzi.

Marco Furlan e Wolfgang Abel

Il vero volto di Ludwig è quello di Mario Furlan, 26enne laureato in fisica, figlio di un noto primario di Verona e Wolfgang Abel, 27 anni, dottore in matematica, figlio di un consigliere delegato di una compagnia assicurativa tedesca. ‘Quei bravi ragazzi' cresciuti a drink e odio nazi a piazza Vittorio Veneto a Borgo Trento, in famiglie alto-borghesi. A differenza di Furlan, Abel, ritenuto la vera mente del duo, non confessa. La sentenza per loro arriva diversi anni dopo l'arresto, nell'aula del processo Dozier al tribunale di Vicenza, dove neanche si presentano. Grazie alla seminfermità mentale, Furlan e Abel scongiurano l'ergastolo e vengono condannati a 30 anni. Ne sconteranno molti meno. Non riveleranno mai il motivo per cui si facevano chiamare Ludwig, ma qualcuno crede che l'ispirazione sia venuta dal libro Avventura di un povero cristiano, do Ignazio Silone, di cui una copia fu trovata nell'appartamento di Abel. Nel libro il frate Ludovico da Macerata combatte contro la deriva della Chiesa dai dogmi.

L'epilogo

Nel febbraio 1990, quando sono ormai dietro le sbarre, a Firenze, un gruppo di giovani con maschere di carnevale si scaglia contro ambulanti stranieri e nordafricani. Anche stavolta arriva un messaggio di rivendicazione: Gott mit uns, Ludwig. L'odio non muore mai.

(Articolo completo su: www.fanpage.it)

Wolfgang Abel

 

Ludwig (serial killer) - Marco Furlan (Padova, 16 gennaio 1960) e Wolfgang Abel (Düsseldorf, 25 marzo 1959) sono due serial killer italiani, autori di vari omicidi perpetrati nell'Italia nord-orientale, in Germania e nei Paesi Bassi tra il 25 agosto 1977 e l'8 gennaio 1984, rivendicati con volantini di contenuto neonazista e firmati con lo pseudonimo Ludwig…..

Vittime di Ludwig

25 agosto 1977, Guerrino Spinelli, Verona
17 dicembre 1978, Luciano Stefanato, Padova
12 dicembre 1979, Claudio Costa, Venezia
20 dicembre 1980, Alice Maria Beretta, Vicenza
25 maggio 1981, Luca Martinotti, Verona
20 luglio 1982, padre Gabriele Pigato e padre Giuseppe Lovato, Vicenza
26 febbraio 1983, don Armando Bison, Trento
14 maggio 1983, 6 morti (Livio Ceresoli, Giorgio Fronza, Ernesto Mauri, Pasquale Esposito, Elio Molteni e Domenico La Sala) e 32 feriti, Milano
17 dicembre 1983, 13 morti, Amsterdam
8 gennaio 1984, un morto (Corinne Tartarotti) e 7 feriti, Monaco di Baviera”

(Articolo completo in wikipedia.org)

 

Una frase al giorno

“Ho la grande e stupefacente sensazione di qualche cosa, lassù, che è "quello". Non mi riferisco alla bellezza, non esattamente. È che la cosa basta in se stessa: soddisfacente; compiuta. È la sensazione della mia straordinarietà, di me che cammino sulla terra: dell'infinita stranezza della condizione umana.”

(Virginia Woolf, Londra, 25 gennaio 1882 - Rodmell, 28 marzo 1941. Dal Diario)

Virginia Woolf, fotografia di George Charles Beresford nel 1902

“«Io provo un senso di fodere estive alle poltrone; di essere rimasta a casa mentre tutti sono in campagna. Mi sento desolata, polverosa e delusa». La solitudine dell’artista attraversa tutte le pagine del Diario di una scrittrice, libro straordinario che racconta il processo creativo e la scrittura di una delle scrittrici più importanti del XX secolo, Virginia Woolf, nata Adeline Virginia Stephen. Lo testimoniano, oltre alla sua vasta opera che comprende romanzi, racconti, saggi, diari e lettere, anche la mole di scritti e di siti web a lei dedicati. Ai quattro figli del primo matrimonio dei genitori, Sir Leslie Stephen e Julia Jackson (nipote di Julia Margaret Cameron), entrambi vedovi, si aggiunsero Vanessa, Virginia, Thoby e Adrian.

L’infanzia di Virginia fu una tipica infanzia vittoriana, fatta di lezioni casalinghe, rispetto delle convenzioni, benessere e la sensazione costante che tutta la vita della casa e della numerosa famiglia ruotasse intorno alla madre, bella e distante, che la bambina vede come una cattedrale. La morte precoce di Julia, nel 1895, sprofonda la futura scrittrice nella prima grave crisi psicotica e sfocia in un tentativo di suicidio.

Il fantasma della madre tornerà in vita nel suo romanzo - insieme a Le Onde, uno dei due, a mio avviso, più belli - Al faro, nella superba traduzione di Nadia Fusini. «Vi sarà un ritratto completo di papà; e della mamma; e poi St. Ives; e l’infanzia e tutte le solite cose che cerco di metterci dentro». Fu proprio il padre Leslie a farle dono del mondo della letteratura. Benché Virginia non avesse potuto studiare all’università come i fratelli, l’accesso alla libreria paterna le spalancò il mondo nel quale voleva vivere. Un mondo fatto di immaginazione e acuta osservazione della realtà.

Virginia sapeva cogliere “il canto del mondo reale” così come Liliana Rampello intitola il suo libro, che è un’analisi diversa e nuova di tutta l’opera woolfiana. La studiosa «strappa via la Woolf dalla fama di donna segnata dalla tragica fine … e restituisce il sentiero luminoso di una donna geniale che canta continuamente la vita e il suo affascinante mistero, concretamente percepibile, per così dire, nei singolari e minuscoli accadimenti che entrano negli istanti del mondo» (Annarosa Buttarelli).
La morte del padre e della sorellastra Stella diventa la condizione di possibilità e di libertà che porterà i giovani Stephen a staccarsi dai fratellastri Duckworth e ad andare a vivere a Bloomsbury, in quello che diventerà il luogo simbolo di una generazione straordinaria, di giovani artisti e intellettuali inglesi che segneranno la storia della cultura e della letteratura del Novecento.

La condizione di privilegio e l’acuta capacità di osservazione le permisero di scrivere anche uno dei saggi più importanti per le donne moderne, Una stanza tutta per sé. Una rendita e una stanza con la porta chiusa erano ciò di cui una donna creativa aveva bisogno per potersi esprimere. La “cercatrice irrequieta”, come lei stessa si definiva, aveva comunque bisogno di una vita che avesse un centro e uno scambio continuo. Virginia combatté tutta la vita contro l’Angelo del Focolare che, a causa dell’educazione, vive in ogni donna e la fa sentire sempre in colpa perché non si comporta come dovrebbe.

Dopo la morte del fratello prediletto Thoby nel 1906 e il matrimonio avvenuto nel 1907 dell’amatissima sorella Vanessa, che così smise di appartenere soltanto a lei, fu con Leonard Woolf che Virginia trovò un nuovo centro Alla fine di maggio del 1912 Virginia gli disse senza giri di parole che lo amava e voleva sposarlo. Il matrimonio permise la continuazione della vita bloomsburiana e le lunghe conversazioni che lei tanto amava. Parlava di libri con Litton-Strachey, le conversazioni con Vanessa erano incentrate sulle relazioni d’amore e d’amicizia; con Roger Fry il tema principale era l’arte e con Forster riprendeva quelle lunghe meditazioni sulla scrittura che costellano il suo diario.

Con Vita Sackville-West, di certo il suo più grande amore, poteva parlare di tutto. La felicità della vita domestica, che molti critici mettono in dubbio, e la ricchezza delle sue relazioni, non bastò a metterla al riparo dalla sua fragilità psichica, dalle crisi maniaco-depressive che, insieme alle pesanti molestie subite dai fratellastri quando era ancora una bambina piccola, avevano nel tempo relegato in un cono d’ombra la vitalità e la passionalità della scrittrice.

Nel 1913 tentò di nuovo il suicidio. Era tipico che alla fine di ogni sforzo creativo si sentisse svuotata e finita. Solo quando Leonard aveva letto il libro appena terminato, lei ritrovava un po’ di calma e di speranza nel futuro. Scriveva instancabilmente Virginia, recensioni per il «Times Literay Supplement», pagine di diario dense di osservazioni sulle persone che incontrava e sui libri che stava leggendo, lettere con decine di diversi corrispondenti che sottolineano la sua ironia e acutezza. Il suo romanzo d’esordio La crociera, venne pubblicato nel 1915, cui seguirono Notte e giorno nel 1919, La camera di Jacob nel 1922, Mrs. Dalloway nel 1925, Al faro nel 1927, Le onde nel 1931.
Si confrontava di continuo con i suoi contemporanei e dell’amata-odiata Katherine Mansfield, che frequentò dal 1916 sino alla sua morte nel 1923, scrisse nel diario che la sua scrittura era l’unica di cui fosse gelosa. Virginia era una donna piena di fascino: la lista di ammiratori e ammiratrici è lunghissima, così come quella delle persone famose che incontrò nel corso della vita.

Virginia Woolf nel 1927

Il 22 febbraio 1937 la traduttrice francese del romanzo Le Onde, Marguerite Yourcenar che non suscitò molto il suo interesse, andò a trovarla per parlare della traduzione che stava facendo. La Yourcenar riteneva la Woolf uno dei più geniali prosatori della lingua inglese e in un suo scritto l’avrebbe paragonata a Vermeer «per il fascino quasi idilliaco dei colori che rivela lo stesso gusto delle vibrazioni uniche, dei minuti eterni di cui è fatto il mondo di Virginia Woolf, per la magia segreta che impregna le loro immagini, seppure rese con strumenti diversi». Virginia scrive nel diario una cronaca dell’incontro che si limita a descrivere l’aspetto della visitatrice, e annotare che le sembrava una donna che avesse qualcosa da nascondere del suo passato, la grande scrittrice francese resta senza nome. Anni dopo, al contrario, la Yourcenar rievocherà addirittura la scarsa luce nel salotto dove si incontrarono, le domande che fece a una Woolf poco interessata all’arte della traduzione che lei non riusciva a concepire come un dialogo tra scrittore e traduttore, così come lo concepiva la Yourcenar.

Un altro incontro che vale la pena ricordare è quello con Sigmund Freud, il 28 gennaio 1939. Parlarono delle conseguenze della Grande Guerra sull’Europa, dell’ascesa di Hitler al potere. Lei lo ascoltava con grande attenzione; prima di salutarla Freud le regalò un narciso. Condividevano la passione per le profondità della mente umana ed entrambi la esploravano attraverso la scrittura. Virginia rese omaggio alla grandezza di Freud nel diario del 2 dicembre 1939 annotando: «Cominciato a leggere Freud ieri sera; per ampliare la circonferenza: dare al mio cervello un più vasto raggio: renderlo obiettivo: uscire da me stessa. E sconfiggere così il restringimento della vecchiaia». Non era solo la vecchiaia a stringere Virginia in un cerchio soffocante. La Seconda Guerra Mondiale era scoppiata e lei non ne avrebbe vista la fine. Gli ultimi due anni della sua vita furono oscurati dai bombardamenti su Londra e da molte paure per il futuro.

Alla fine del 1940 la malattia si era ripresentata e l’ultimo dottore che l’ebbe in cura le prescrisse riposo assoluto, soprattutto che stesse lontana dalla letteratura. Aveva ricominciato a sentire le voci Virginia, così come da giovane sentiva gli uccellini cantare in greco, e non aveva più la forza di combattere. Scrisse tre lettere, una per Vanessa e le ultime due per Leonard dove lo ringraziava per la felicità che avevano condiviso.

Senza salutare né il marito né la domestica Louie, Virginia si allontanò da casa il 28 marzo 1941. Arrivata sulle rive del fiume Ouse, in un luogo dove altri abitanti del luogo si erano suicidati, Virginia mise dei sassi nelle tasche del cappotto e si incamminò nel fiume. Verrà ritrovata solo il successivo 18 aprile. La devastazione della guerra inghiottì anche questa morte e fu solo negli anni Sessanta che il mondo letterario ricominciò a occuparsi di lei. Le sue ceneri riposano all’ombra di un olmo nel giardino di Monk’s House. Sulla lapide è incisa la frase “«Le onde si infrangevano sulla spiaggia» che chiude il suo celebre romanzo.

Ancora oggi i suoi libri non cessano di riempirci di stupore e di incanto, avvinti da quella luce particolare che la Yourcenar aveva riconosciuto.”

(Elena Petrassi in www.enciclopediadelledonne.it)

Virginia Woolf (Londra, 25 gennaio 1882 - Rodmell, 28 marzo 1941)

 

14 maggio 1925 viene pubblicato il romanzo di Virginia Woolf, La signora Dalloway.

Pubblicato il 14 maggio 1925, quando Virginia Woolf ha quarantatrè anni, Mrs Dalloway, è il primo grande romanzo della scrittrice inglese che fino ad allora aveva scritto The Voyage Out, Night and Day e Jacob's Room. Virginia Stephen era nata a Londra il 25 gennaio 1882, figlia di Leslie Stephen, celebre storico e saggista e di Julia Jackson Duckworth (morta nel 1895). Nel 1912 aveva sposato Leonard Woolf con il quale nel 1917 aveva fondato la casa editrice Hogarth Press. In Mrs Dalloway si racconta la giornata di una signora di cinquantadue anni dell'alta società inglese che organizza una festa in una giornata di giugno e parallelamente si racconta di Septimus, reduce della prima guerra mondiale che finisce per togliersi la vita: le due traiettorie non si incrociano e solo alla fine, nel corso della cena, Mrs Dalloway apprende la notizia del suicidio dell'uomo. Liliana Rampello ci guida all'interno delle novità introdotte da Virginia Woolf attraverso quest'opera nell'arte del romanzo. Per ciascun personaggio Woolf crea una galleria temporale autonoma e a partire da queste diverse temporalità riesce a orchestrare una temporalità unica, sempre al presente, in cui i personaggi dialogano tra loro.

 

Un brano musicale al giorno

Johan Peter Emilius Hartmann, Quartetto d'archi in sol maggiore (1848) - Cailin Quartet

Cailin Quartet 

Clara Bæk, violino.
Sophia Bæk, violino.
Stine Hasbirk, viola.
Therese Åstrand, violoncello.

 

J.P.E. Hartmann ritratto da Otto Bache nel 1884

Johan Peter Emilius Hartmann (Copenaghen, 14 maggio 1805 - Copenaghen, 10 marzo 1900) compositore danese.

Hartmann nacque in una famiglia di musicisti di origine tedesca. Anche se inizialmente ricevette lezioni di musica da suo padre, fu per la maggior parte autodidatta. Secondo il desiderio del padre, studiò giurisprudenza e lavorò quindi come funzionario dal 1829 al 1870, ma inoltre perseguì una variegata carriera musicale. Nel 1824, era già organista presso la Garnisons Kirke a Copenaghen e nel 1832, fece il suo debutto come compositore con l'opera Ravnen (Il Corvo).

Nel 1836, fece il suo primo viaggio di studio in Germania ed in Francia, in cui fece la conoscenza figure musicali significative come Fryderyk Chopin, Gioachino Rossini, Luigi Cherubini e Louis Spohr. Spohr ed il compositore danese Christoph Ernst Friedrich Weyse furono le guide più importanti di Hartmann. Ulteriori viaggi in Germania seguirono negli anni successivi, durante cui inoltre ha fondato l'Associazione Musicale Danese nel 1836, di cui rimase presidente fino alla fine della sua vita. Nel 1843, si trasferì dalla Garnisons Kirke per suonare l'organo presso la Vor Frue Kirke e diventò direttore dell'Associazione Culturale Studentesca, posizioni che mantenne fino alla morte.

Nel 1867, dopo aver insegnato al Conservatorio di Giuseppe Siboni dal 1827, Hartmann contribuì a stabilire e dirigere il Conservatorio di Copenaghen con Niels Gade e Holger Simon Paulli. Durante il suo corso della vita, Hartmann ha occupato un posto centrale nella vita musicale danese ed era considerato da molti come un'autorità assoluta sugli argomenti musicali.

Le opere di Hartmann sono caratterizzate da serietà artistica, vitalità drammatica ed in particolare, da una coloritura nazionale che affascinava profondamente il pubblico danese. Gli elementi nordici nei temi (basati su canzoni popolari, sulle modulazioni e su una tendenza verso suoni piuttosto scuri) emersero prepotentemente dopo il 1830. Hartmann ha unito queste influenze romantiche ad un severo controllo sia sopra la forma che sopra il tema, acquisito con il suo addestramento classico e spesso rievocativo di Felix Mendelssohn.”

(In wikipedia.org)

 


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

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Ugo Brusaporco

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