“L’amico del popolo”, 20 maggio 2020

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno IV. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

20 maggio 1970: viene promulgato in Italia lo Statuto dei lavoratori.

TOUT VA BIEN (Crepa padrone, tutto va bene, Francia-Italia, 1971), regia Jean-Luc Godard, Jean-Pierre Gorin. Soggetto: Jean Luc Godard, Jean-Pierre Gorin. Sceneggiatura: Jean-Luc Godard, Jean-Pierre Gorin. Produttore: Jean-Pierre Rassam e Alain Coffier. Casa di produzione: Anouchka Films, Vicco Films, Empire Film. Fotografia: Armand Marco. Montaggio: Claudine Merlin, Kenout Peltier. Musiche: Paul Beuscher. Cast: Yves Montand, Lui. Jane Fonda, Suzanne Dewaere. Vittorio Caprioli, Marco Guidotti, il direttore. Jean Pignol, il sindacalista UGT. Anne Wiazemsky, militante comunista. Eric Chartier, Lucien. Pierre Oudry, Fréderic. Élisabeth Chauvin, Geneviève. Yves Gabrielli, Léon- Huguette Miéville, Georgette. Castel Casti, Jacques. Louis Bugette, Georges.

Jane Fonda in TOUT VA BIEN (Crepa padrone, tutto va bene, Francia-Italia, 1971), regia Jean-Luc Godard, Jean-Pierre Gorin 

“Il film inizia con la sommaria presentazione di ciò che occorre per produrre un film: una mano firma degli assegni tratti sul conto della produzione e destinati a pagare i mezzi, gli attori, la sceneggiatura, etc; poi presenta i protagonisti, una coppia in crisi d'identità: lui, regista che non crede più all'impegno politico, né come persona né come artista, tira a campare filmando lavori pubblicitari di dubbia qualità; lei, Suzanne Dewaere, giunta a Parigi come inviata di un'emittente statunitense all'epoca del Maggio francese, è rimasta a vivere in Francia come giornalista, e scrive réportage senza impegno politico.

I due si trovano loro malgrado coinvolti in una cruda vertenza sindacale; giunti alla fabbrica alimentare “Salumi” vengono chiusi nell'ufficio con il direttore che dovrebbero intervistare, l'italiano Marco Guidotti, che è stato sequestrato da una parte degli operai esasperati. Il direttore racconta alla giornalista, rivolgendosi alla macchina da presa, il proprio punto di vista sul miglioramento delle condizioni di lavoro e dei salari grazie al progresso tecnico e sociale favorito da un padronato illuminato.

Sopraggiungono i militanti del sindacato UGT, contrari all'azione di forza degli operai. Anche in questo caso il sindacalista delegato si rivolge direttamente allo spettatore, guardando in macchina, per sostenere che le azioni di forza di una minoranza di lavoratori estremisti sono controproducenti per la vertenza. Riescono a far uscire i giornalisti dalla stanza chiusa, ma Guidotti tenta di fuggire, allora gli operai richiudono di nuovo tutti e tre.

Durante la notte Suzanne esce a ascoltare il racconto delle operaie, che oltre a subire lo sfruttamento del padrone soffrono anche le grossolane avances dei colleghi e dei quadri. Tocca ai gauchistes che hanno sequestrato il direttore raccontare le proprie ragioni alla macchina da presa, e sono storie di sfruttamento e salari scarsi. Finalmente gli ostaggi vengono rilasciati, gli operai chiedono scusa a Suzanne e al marito, che accettano di parlare con loro. Per capire cosa significa lavorare in fabbrica, si cimentano a fabbricare salami insieme a loro.

Ognuno torna al suo lavoro. L'articolo che Suzanne scrive sull'occupazione viene rifiutato dalla redazione. Lui torna ai suoi spot pubblicitari, ma comincia anche una riflessione su tutto ciò che è accaduto a partire dal Sessantotto, e rimette in discussione il proprio scarso impegno politico. Hanno anche problemi di coppia, Suzanne è in crisi perché non vuole più leggere alla radio le consuete notizie consolatorie, si rende conto di avere in comune con il marito soltanto i pasti e il letto.

La polizia sgombera con la forza la fabbrica occupata. Suzanne si reca in un supermercato per un servizio che, teme, sarà di nuovo rifiutato dal suo responsabile. Qui è testimone dell'incursione di un gruppo di ragazzi che si fanno promotori di un esproprio e incitano i clienti a uscire senza pagare, poi si scontrano con la polizia. Il film termina con Suzanne e il marito che si incontrano di nuovo in un caffè, ricominciano a parlarsi e, dice la voce fuori campo, incominciano a “pensarsi storicamente”.

(Wikipedia)

“Dopo quasi quattro anni vissuti al di fuori dell'industria dello spettacolo, Godard (con la complicità di Gorin) ritorna al cinema con un sarcastico apologo brechtiano in cui mette a nudo le modalità di produzione del film stesso e prende in ostaggio due divi (Yves Montand e Jane Fonda, sequestrati dagli operai di una fabbrica occupata), trattandoli come attori secondari. Memorabili sono l'idea di mostrare lo spaccato della fabbrica nei suoi spazi aperti ed esposti alla vista, facendo muovere avanti e indietro le comparse come sorci in gabbia, e una lunga sequenza girata in un supermercato, tempio della merce.”

(In www.cinetecadibologna.it)

TOUT VA BIEN (Crepa padrone, tutto va bene, Francia-Italia, 1971), regia Jean-Luc Godard, Jean-Pierre Gorin 

“Occorrono alcune premesse al giudizio, difficile, di questo film contraddittorio e anche ambiguo. Che Godard sia uno dei grandi innovatori cinematografici degli anni Sessanta fa parte ormai della storia. Ed anche che alcuni dei suoi film (PIERROT LE FOU, per fare un esempio) siano dei capolavori. Godard è sempre stato uno straordinario scrittore del linguaggio cinematografico: questa sua scrittura, che è un continuo ripensamento del linguaggio cinematografico, una continua rimessa in questione di certi valori, una meditazione a volte geniale sul significato dell'intervento registico, ha contribuito a quella emancipazione del segno cinematografico, a quella autonomia di significati che trasforma uno sguardo in una constatazione, una illustrazione in arte.

Al contrario, le idee di Godard, la sua filosofia, la sua visione sociale e morale sono sempre state assai spicciole. Perlomeno se prese alla lettera; e se dimentichiamo la cosa più importante del cinema. E cioè, che il vero significato morale di un'opera, quello più universale ed eterno, nasce dalla «qualità» di uno sguardo, di una visione.

Comunque sia, Godard, dopo LA CHINOISE, che è del 1967, e sotto lo shock degli avvenimenti del maggio del '68 si unisce a Jean Pierre Gorin, cioè a colui che sarà destinato a fornirgli la dottrina rivoluzionaria indispensabile in quel momento. Godard, che aveva già fatta, e vinta, la propria rivoluzione, quella dei suoi film da A BOUT DE SOUFFLE in avanti, si vede in obbligo di fare dei film sulla rivoluzione. Ed ecco il periodo dei film militanti, alcuni mai usciti, altri invisibili se non da una ristretta cerchia di operai ai quali sarà certamente risultato assai arduo decifrarne l'ingarbugliato messaggio. Un giudizio su questi sconosciuti LE GAI SAVOIR, UN FILM COMME LES AUTRES, BRITISH SOUNDS, VENTO DELL'EST, ecc. sarà possibile soltanto quando potranno esser visti globalmente. Poi venne TOUT VA BIEN, che è ormai dal 1972, anche se da noi giunge con così ammirevole puntualità. Sempre con Gorin, Godard decide che per rientrare nel sistema, per poter far giungere il suo messaggio a qualcuno in più dei quattro gatti, occorrevano le star. Ed ecco Jane Fonda e Montand, con l'alibi del proprio impegno politico nella vita privata, a trascinarsi stancamente in una faccenda tradizionale di amore sulle barricate, distacco e ritrovamento, che poco ha da spartire con il resto.

Il resto è la storia dell'occupazione di una fabbrica da parte degli operai, di accuse varie nei confronti dei comunisti e dei sindacalisti, nell'elogio di un certo «gauchisme» che, onestamente, non risulta chiaramente cosa dovrebbe essere.

Certamente non quel movimento di entusiasmo, di generosità quasi romantica che ha rappresentato il maggio del '68.

Il fatto è che i film di Godard, con o senza la propria coscienza politica Gorin, rimangono quelli di sempre. Degli splendidi esempi di cinema, fatti per entusiasmare chi nel cinema cerca la poesia del linguaggio. E dei confusi tentativi ideologici, fatti apposta per esasperare chi nel cinema cerca quel tipo di messaggio.

In PIERROT LE FOU la prima di queste componenti di Godard annullava completamente la seconda. Qui, malgrado la sapienza evidente del regista Godard, la seconda pareggia largamente la prima. Anche se, bisogna ancora sottolinearlo, i film di Godard andranno rivisti a passioni smorzate: proprio perché sono ambigui e contraddittori, ma sempre indagatori sulla realtà contemporanea.”

(Fabio Fumagalli in: www.filmselezione.ch)

TOUT VA BIEN (Crepa padrone, tutto va bene, Francia-Italia, 1971), regia Jean-Luc Godard, Jean-Pierre Gorin 

“Una giornalista americana, con simpatie verso la sinistra extraparlamentare, e un cineasta d’avanguardia, ripiegato negli ultimi tempi per motivi “alimentari” a film pubblicitari, vengono accidentalmente sequestrati da un gruppo di operai in “sciopero selvaggio”. Insieme a loro c’è anche il direttore della fabbrica (un salumificio). Per cinque giorni i tre ascoltano dagli operai le condizioni in cui sono costretti a lavorare. Per i due intellettuali (e per il padrone) sarà una lezione di etica e politica.
Per diversi motivi l’opera è particolarmente significativa nella filmografia di Godard. Innanzitutto, anche se non ufficialmente, risulta essere l’ultima fatica del gruppo Dziga Vertov, collettivo di autori francesi che Godard e Gorin (ex giornalista delle pagine culturali di Le Monde, referente ideologico-teorico-marxista) costituirono dal 1962 al 1973, con 6 lungometraggi realizzati, che per quasi vent’anni sparirono dalla biografia del regista franco-svizzero, prima che fossero restaurati e quindi riscoperti. Godard a Le Monde, all’uscita della pellicola: “Vedrete un film d’amore con le vostre star preferite. Si amano e litigano come in tutti i film. Ma ciò che li separa o li riunisce si chiama lotta di classe. Jane Fonda, giornalista, e Yves Montand, cineasta, passeranno da “ti amo” a “non ti amo più” e poi di nuovo a un secondo “ti amo”, questa volta diverso dal primo: e questo perché tra i due “ti amo” ci sono 45 minuti in cui sono sequestrati in una fabbrica”.
Altro motivo di interesse su Tout va bien riguarda la connotazione “borghese” dell’intero progetto: attori importanti, budget consistente, scenografia imponente (per cui è evidente il tributo al teatro politico), codici narrativi ammiccanti.
Jean-Pierre Gorin: “Ci siamo detti che questo film ci faceva ritornare nel Sistema ma che dovevamo essere più forti di lui. Prendere il progetto di Rassam (produttore), ma essere meglio di Rassam: recuperare i suoi soldi, le sue vedettes, ma fare uno dei nostri film”.”

(Leonardo Lardieri in: www.sentieriselvaggi.it)

TOUT VA BIEN (Crepa padrone, tutto va bene, Francia-Italia, 1971), regia Jean-Luc Godard, Jean-Pierre Gorin“Se può sembrare vero che per qualcuno (intellettuali e militanti) il dialogo con Godard e Gorin può risultare ovvio, nei contenuti politici veicolati dal film (ma questa “ovvietà”, questo “già sentito”, “già capito” a livello di teoria politica, retrocede fino ad annullarsi o a perdere di senso, se, appena, e come non si può evitare di fare nel dialogo Godard/Gorin/Attori/Spettatori, si rispetta la rete di determinanti del film, nell’unità sua originale e, cioè, se si accetta la funzione del film nella sua specificità scritturale, in rapporto traduttivo e traslato con la realtà; e per questo non è necessario essere dei cinefili) è senz’altro più vero che Tout va bien porta in sé una critica volontà di affermarsi come lavoro condotto alla ricerca di condizioni “vere” e di quest’aspetto, se si ripensa all’intera opera di Godard, alla sua poeticità a volte delirante e sempre disperatamente inquieta, ciò che ci colpisce ed entusiasma è ritrovare un Godard che, come non mai, ha confuso poeticità e sincerità (una sincerità che non sembrava potesse esistere sullo schermo) nella volontà fortissima (come non si può riconoscere questo e non esserne affascinati!) che talvolta pare ossessiva (si tratta di recuperare il tempo perduto?) di porsi di fronte al reale, di diventare lo storico di se stesso.”

(Michelangelo Buffa in: www.mymovies.it)

 

 

Una poesia al giorno

Sognando, di Verner von Heidenstam (traduzione in: scritturapoetica.blogspot.com)

Questo sogno svanirà all'alba
o forse non è un sogno?
Oltre il freddo di questa casa,
oltre l'azzurro di un mare calmo.
Un mondo ancora vivo e felice
dove i cuori si intrecciano amandosi.

Questa casa è immersa nella gioia,
il mare ha toni infiniti di verde e blu.
Nuvole minacciose si sciolgono
come neve al calore del sole.
Lo spazio ci stringe entrambi
in un abbraccio morbido e caldo.

Luminose tracce del passato
affiorano nel percorso dei ricordi.
Come scale che il tempo ci pone
per scendere a illuminarne la forma.
All'alba questo sogno è già svanito
o forse tutto quanto è un sogno?

 

Carl Gustav Verner von Heidenstam (Olshammar, 6 luglio 1859 - Stoccolma, 20 maggio 1940) 

Carl Gustav Verner von Heidenstam (Olshammar, 6 luglio 1859 - Stoccolma, 20 maggio 1940) fu scrittore, poeta e romanziere svedese. Premio Nobel per la letteratura nel 1916, con le poesie d'esordio Vallfart och vandringsår ("Pellegrinaggi e vagabondaggi", 1888) inaugurò nel Nord il gusto dell'esotismo e dell'edonismo propri del simbolismo europeo. Nostalgia romantica ed estetismo decadente caratterizzano le sue opere successive, tra le quali si segnala il racconto delle gesta eroiche di Carlo XII Karolinerna (1897-98; trad. it. Carolus rex, 1965).

Vita e opere

Carl Gustav Verner von Heidenstam (Olshammar, 6 luglio 1859 - Stoccolma, 20 maggio 1940) fu scrittore, poeta e romanziere svedeseRicco delle esperienze accumulate durante viaggi e soggiorni nei paesi mediterranei e in Oriente (tra il 1876 e il 1879 fu in Egitto, in Siria, in Grecia e a Roma), H. serbò del naturalismo soltanto la diffidenza verso le illusioni romantiche del sentimento, chiaritasi e rafforzatasi nelle discussioni con Strindberg durante un soggiorno in Svizzera nel 1884 (di cui è testimonianza la prosa documentaria di Från Col di Tenda till Blocks berg "Dal Col di Tenda al Blocksberg", 1888). Sia con le poesie d'esordio (Vallfart och vandringsår "Pellegrinaggi e vagabondaggi", 1888), sia col romanzo (Endymion, 1889) inaugurò nel Nord quel gusto dell'esotismo ed edonismo orientaleggiante che tanto aveva attratto i poeti simbolisti d'Europa. In sede critica, propugnò un ritorno all'idealismo estetico della tradizione nazionale (nel libello Renässans, 1889, e nel romanzo satirico d'ambiente spagnolo Pepitas Bröllop "Le nozze di Pepita", 1890, quest'ultimo in collaborazione con O. Levertin).

Dette forma più originale alla sua ricerca di bellezza e di piacere nell'epos prosastico-poetico Hans Alienus (1892). Aristocratico culto dell'io, nostalgia romantica, estetismo nazionalistico si ritrovano in Dikter ("Poesie", 1895), nei saggi etnografico-psicologici Om svenskarnas lynne ("L'anima svedese", 1897) e soprattutto nel commosso racconto delle gesta eroiche di Carlo XII (Karolinerna, 1897-98; trad. it. Carolus rex, 1965). A tale ispirazione mistico-eroica vanno riportati i romanzi di soggetto medievale (Heliga Birgittas pilgrimsfärd "Pellegrinaggio di santa Brigida", 1901; Folkungaträdet "L'albero dei Folkunghi", 1905-07).

Con l'accentuarsi del suo conservatorismo politico dette un nuovo indirizzo al giornale Svenska Dagbladet (1897) e promosse una violenta polemica letteraria e sociale contro Strindberg (Proletärfilosofienz upplösning och fall "Dissoluzione e tramonto della filosofia proletaria", 1911). Sempre più aspro critico della società moderna, se ne estraniò, cercando l'estremo rifugio nel culto dell'eroe e dell'eroico (Nya dikter "Nuove poesie", 1915).

Nel 1916 gli fu assegnato il premio Nobel. Postumi sono apparsi la raccolta di saggi Tankar och utkast ("Pensieri e progetti", 1941), il volume di memorie När kasta njerna blommade ("Quando fiorivano i castagni", 1941) e la raccolta di liriche Sista dikter ("Ultime poesie", 1942).”

(In: www.treccani.it)

 

Un fatto al giorno

20 maggio 1961: Papa Giovanni XXIII pubblica la Lettera Enciclica "Mater et Magistra" sulla cristianità e il progresso sociale.

“Giovanni XXIII, indirizzando alla chiesa e al mondo quella che è giustamente considerata - in ordine di tempo - la terza grande enciclica sociale, cioè la Mater et Magistra, ha potuto veramente dedicarla ai “recenti sviluppi della questione sociale nella nuova condizione dei tempi”. E in effetti, in quel 1961, non si poteva non prendere atto che nella realtà sociale del mondo erano intervenuti, dalla fine del secondo conflitto mondiale, profondi cambiamenti.

20 maggio 1961: Papa Giovanni XXIII pubblica la Lettera Enciclica In estrema sintesi, grandi progressi scientifici e tecnici avevano consentito di accrescere, come mai era accaduto prima, la produttività del lavoro e la produzione di nuovi beni e servizi. Ma questo fenomeno, in sé positivo, aveva a sua volta aumentato la disparità delle condizioni di vita tra settori produttivi, tra Regioni dello stesso Stato, tra Stati dello stesso continente, tra le grandi aree del mondo.
Accanto - e in stretta correlazione anche temporale - ai problemi propriamente economici erano intervenuti quelli politico-ideologici, soprattutto connessi al passaggio dalla colonizzazione alla dipendenza politica, nei confronti dei vecchi dominatori, di molti paesi ricchi di risorse naturali, ma deboli e carenti di una classe politica capace. Basterà ricordare che a partire dal decennio Sessanta ottennero l’indipendenza il Camerun, il Congo, la Costa d’Avorio, la Somalia, il Tanganika, la Nigeria: ed era un processo destinato a continuare, scompaginando soprattutto il continente africano.

Alla storica “questione sociale”, identificabile per semplificare con il conflitto tra capitale e lavoro - questione non certo venuta meno - si sommava il conflitto tra popolazioni in forte aumento e disponibilità inadeguata di risorse, con conseguenti spinte a inarrestabili movimenti emigratori di massa.
Questo insieme di trasformazioni aveva fatto cadere l’illusione che la crescita economica fosse in grado per sua natura di attenuare le contraddizioni intrinseche alla crescita stessa: al contrario, l’agricoltura perdeva continuamente terreno rispetto all’industria con gravi conseguenze sulle condizioni di vita delle popolazioni che vivevano del lavoro della terra, i settori privati dell’economia richiedevano una presenza attiva della mano pubblica (è infatti in questo periodo che si avviano interventi di nazionalizzazione di imprese strategicamente importanti); i “corpi intermedi” che formavano la società erano chiamati a essere attivi per far crescere le risorse umane e materiali, i servizi e la partecipazione ai meccanismi della società civile. Ma non solo: anche lo stesso progresso scientifico e tecnico, che stava compiendo enormi avanzamenti in ogni campo, mostrava l’altra faccia della sua realtà, cioè la sua pericolosità agli effetti della sopravvivenza del genere umano.

All’inizio del decennio Sessanta era ormai evidente che non si davano più problemi circoscrivibili a questa o a quell’area, a questo o a quel settore, cioè che la via dello sviluppo nazionale non era più percorribile. I problemi avevano assunto una dimensione mondiale che chiamava in causa inedite forme di collaborazione tra i popoli, nell’interesse di tutta l’umanità.

Le grandi questioni economiche e sociali sulle quali la Rerum Novarum e la Quadragesimo Anno avevano richiamato l’attenzione e l’impegno degli uomini del tempo erano ben presenti, come le condizioni disumane di molti lavoratori, come le disuguaglianze nel tenore di vita, come gli ostacoli e le resistenze al libero associarsi dei lavoratori per tutelare i loro interessi materiali e morali, come le illusorie ideologie (che sarebbero presto cadute).
Ma i “nuovi aspetti” avevano dimensioni e profondità impreviste e mettevano in evidenza la loro novità assoluta e quindi la impreparazione a affrontarli. Si richiedevano nuove forme di intervento e soprattutto nuove metodologie di azione, efficacemente sintetizzate nel “vedere, giudicare, agire” cui era chiamata la stessa Dottrina Sociale della Chiesa (non a caso si invitava a studiarla nei seminari) e l’azione dei singoli e delle comunità a tutti i livelli dell’organizzazione sociale. Esemplare a questo proposito, il richiamo alla funzione insostituibile del movimento sindacale che, anche in Italia, aveva fatto dello sviluppo materiale e morale uno dei suoi obiettivi fondamentali.”

(Segio Zaninelli)

L'11 ottobre del 1962 Giovanni XXIII riunisce il Concilio Vaticano II 

“Dalla Rerum Novarum che riflette sul problema operaio alla Quadragesimo Anno che affronta il problema economico, la Mater et Magistra si apre ad orizzonti più ampi, nazionali ed internazionali, ponendo, ad esempio, come oggetto di riflessione l’agricoltura, il lavoro più povero nel mondo e lo sviluppo dei popoli che stanno emergendo. Siamo nel tempo delle grandi speranze. I popoli africani, in particolare, rivendicano l’indipendenza e iniziano, via via il periodo della “decolonizzazione”.
Si apre nel 1961 il tempo del “Concilio” che è una forma alta di dialogo e di ascolto all’interno della Chiesa. Giovanni XXIII incoraggia lui stesso il dialogo internazionale con inviti e gesti inimmaginabili. Siamo nell’anno dell’incontro sul disarmo di Kennedy e Kruscev a Vienna e al tempo del primo volo spaziale di Jurij Gagarin.

In pochi versetti nell’Introduzione Giovanni XXIII annuncia il significato della sua Enciclica: orientare la Chiesa ad educare alla santificazione e a sostenere singoli e popoli per sviluppare, nel quotidiano, prosperità e civiltà. “Tutta l’enciclica segna la preoccupazione di orientare la Chiesa verso i suoi due compiti fondamentali: generare figli, educarli e reggerli come singoli e come popoli, sviluppando il compito di santificare le anime… ma è anche sollecita delle esigenze del vivere quotidiano degli uomini, non solo quanto al sostentamento ed alle condizioni di vita, ma anche quanto alla prosperità ed alla civiltà nei suoi molteplici aspetti e secondo le varie epoche” (1-6).

INTRODUZIONE

1. Madre e maestra di tutte le genti, la Chiesa universale è stata istituita da Gesù Cristo perché tutti, lungo il corso dei secoli, venendo al suo seno ed al suo amplesso, trovassero pienezza di più alta vita e garanzia di salvezza. A questa Chiesa, colonna e fondamento di verità, (Cf. 1 Tm 3,15) il suo santissimo Fondatore ha affidato un duplice compito: di generare figli, di educarli e reggerli, guidando con materna provvidenza la vita dei singoli come dei popoli, la cui grande dignità essa sempre ebbe nel massimo rispetto e tutelò con sollecitudine. Il cristianesimo infatti è congiungimento della terra con il cielo, in quanto prende l’uomo nella sua concretezza, spirito e materia, intelletto e volontà, e lo invita ad elevare la mente dalle mutevoli condizioni della vita terrestre verso le altezze della vita eterna, che sarà consumazione interminabile di felicità e di pace.

2. Benché dunque la santa Chiesa abbia innanzi tutto il compito di santificare le anime e di renderle partecipi dei beni di ordine soprannaturale, essa è tuttavia sollecita delle esigenze del vivere quotidiano degli uomini, non solo quanto al sostentamento ed alle condizioni di vita, ma anche quanto alla prosperità ed alla civiltà nei suoi molteplici aspetti e secondo le varie epoche.

3. La santa Chiesa, realizzando tutto questo, attua il comando del suo fondatore Cristo, che si riferisce soprattutto alla salvezza eterna dell’uomo quando dice "Io sono la via, la verità e la vita" (Gv 14,6) e "Io sono la luce del mondo"; (Gv 8,12) ma altrove guardando la folla affamata, gemebondo prorompe nelle parole: "Ho compassione di questa folla"; (Mc 8,2) dando prova cosi di preoccuparsi anche delle esigenze terrene dei popoli. Né il divin Redentore dimostra questa cura soltanto con le parole, ma anche con gli esempi della sua vita, quando a sedare la fame della folla più volte moltiplicò miracolosamente il pane. E con questo pane dato a nutrimento del corpo volle preannunziare quel cibo celeste delle anime, che avrebbe largito agli uomini nella vigilia della sua passione.

4. Nessuna meraviglia dunque che la Chiesa cattolica, ad imitazione di Cristo e secondo il suo mandato, per duemila anni, dalla costituzione cioè degli antichi diaconi fino ai nostri tempi, abbia costantemente tenuto alta la fiaccola della carità, non meno con i precetti che con gli esempi largamente dati; carità che, armonizzando insieme i precetti del mutuo amore e la loro pratica, realizza mirabilmente il comando di questo duplice dare, che compendia la dottrina e l’azione sociale della Chiesa.

5. Orbene, insigne documento di tale dottrina ed azione, svolta lungo il corso dei secoli dalla Chiesa, è senza dubbio da ritenersi l’immortale enciclica Rerum Novarum, promulgata settanta anni or sono dal nostro predecessore di v.m. Leone XIII, per enunciare i principi con i quali si potesse risolvere cristianamente la questione operaia. Poche volte parola di pontefice ebbe, come allora, una risonanza cosi universale per profondità di argomentazioni e per ampiezza, nonché per potenza incisiva. In realtà quegli orientamenti e quei richiami ebbero tanta importanza che in nessun modo potranno cadere in oblio. Una via nuova si apri all’azione della Chiesa, il cui pastore supremo, facendo proprie le sofferenze, i gemiti e le aspirazioni degli umili e degli oppressi, ancora una volta si eresse a tutore dei loro diritti.

6. E oggi, pur essendo passato un lungo periodo di tempo, è ancora operante l’efficacia di quel messaggio non solo nei documenti dei pontefici succeduti a Leone XIII, che nel loro insegnamento sociale continuamente si richiamano all’enciclica leoniana, ora per trarne ispirazione, ora per chiarirne la portata, sempre per fornire incitamento all’azione dei cattolici; ma anche negli ordinamenti stessi dei popoli.

Segno è che i principi accuratamente approfonditi, le direttive storiche e i paterni richiami contenuti nella magistrale enciclica del nostro predecessore conservano tuttora il loro valore ed anzi suggeriscono nuovi e vitali criteri perché gli uomini siano in grado di giudicare il contenuto e le proporzioni della questione sociale, quale si presenta oggi, e si decidano ad assumere le relative responsabilità…”

(In: Lettera Enciclica Mater Et Magistra del Sommo Pontefice Giovanni PP. XXIII)

Papa Giovanni XXIII

Mater et Magistra

Il cambiamento radicale avvenuto nella Chiesa cattolica è evidente nelle Encicliche dei Pontefici dei tempi moderni. Il dovere della Chiesa di affrontare le varie realtà sociali e il potere dei laici è stato caldamente incoraggiato dall’Enciclica Mater et Magistra pubblicata il 15 luglio 1961 da Giovanni XXIII. Affrontando le inevitabili realtà sociali del suo tempo, Giovanni XXIII guida la Chiesa nell’esame dei segni dei tempi e le permette di coesistere con il mondo non per dominarlo, ma per servirlo e guidarlo. Per compiere la missione di Cristo nella trasformazione dell’ambiente sociale, Giovanni XXIII interpreta i segni dei tempi da una prospettiva evangelica.

Papa Giovanni XXIII menziona i cambiamenti nella società. A livello tecnologico, il progresso della scienza e della tecnica è positivo, la scoperta dell’energia atomica è un progresso, la modernizzazione dell’agricoltura è un segno di tutela e di promozione del settore agricolo, e tutti i mezzi di comunicazione e di trasporto rendono evidente il legame fra i popoli del mondo. A livello sociale, i lavoratori divengono consapevoli dei propri diritti alla sicurezza e all’educazione. Sanno di essere membri di unioni e desiderano una vita confortevole. A livello politico, la Chiesa è consapevole del declino del colonialismo che ha fatto emergere lo stato-nazione.. La situazione postbellica ha costituito un passo importante verso l’affermazione dell’unicità delle culture e delle nazioni. Ora i popoli si autogovernano e stabiliscono le proprie leggi ed istituzioni. L’indipendenza dei popoli e delle culture viene affermata dalla Chiesa per perseguire lo scopo dell’inculturazione, del dialogo e di altre forme di evangelizzazione.

Giovanni XX III applica il principio di sussidiarietà all’interdipendenza dei popoli e delle nazioni. Lo sviluppo tecnologico ed economico aveva trasformato il mondo in un villaggio globale per mezzo delle comunicazioni e dei trasporti. La sempre maggiore complessità della vita socioeconomica ha fatto nascere nelle persone il desiderio di interdipendenza attraverso associazioni, quindi "una più complessa interdipendenza quotidiana dei cittadini, introducendo nella loro vita e nelle loro attività molte e varie forme di associazione " (n. 59).

Giovanni XXIII utilizza la persona umana come criterio per la valutazione delle situazioni socioeconomiche. La dignità della persona umana rimane centrale per qualsiasi tipo di progresso sia esso politico, sociale o economico. "Perciò se le strutture, il funzionamento, gli ambienti d’un sistema economico sono tali da compromettere la dignità umana di quanti vi esplicano le proprie attività, o da ottundere in essi sistematicamente il senso della responsabilità, o da costituire un impedimento a che comunque si esprima la loro iniziativa personale, un siffatto sistema economico è ingiusto, anche se, per ipotesi, la ricchezza in esso prodotta attinga quote elevate e venga distribuita secondo criteri di giustizia e di equità" (n. 83). Giovanni XXIII sottolinea che una economia giusta non implica solo l’abbondanza e un’equa distribuzione dei beni e dei servizi, ma anche lo sviluppo dell’individuo in quanto persona umana che è soggetto e oggetto di questi beni e servizi.

E’ vocazione dello Stato perseguire e promuovere il bene comune. L’Enciclica Mater et Magistra persegue il dialogo fra la Chiesa e la comunità internazionale a proposito dei diritti dell’uomo. E’ vocazione della Chiesa proteggere e difendere con piena chiarezza. La promozione dei diritti dell’uomo è una missione indispensabile della Chiesa. Giovanni XXIII utilizza l’espressione del suo predecessore Pio XI "segni dei tempi" quale opportunità per la Chiesa di proclamare i bisogni dei tempi e di soddisfarli alla luce del Vangelo.

E’ vocazione della Chiesa e del singolo cristiano superare l’eccessiva disuguaglianza fra i vari settori della società. Giovanni XXIII afferma che la persona umana è responsabile delle sue azioni e ha la capacità di autoamministrarsi (Cf n. 55). Il mondo materiale e sociale deve rispettare la dignità della persona umana. Quest’ultima è creata a immagine di Dio ed è radicata in una natura che è esercizio materiale e spirituale del dono della libertà (Cf n. 208). Per la dignità della persona umana la Chiesa lotta contro i cambiamenti economici e sociali che potrebbero compromettere la libertà e la dignità dell’uomo”

(Prof. Jose Vidamor B. Yu, Manila in: www.clerus.org)

Papa Giovanni XXIII

“Al Congresso per i 50 anni della "Mater et Magistra". Il Papa: preoccupano speculazioni finanziarie e su beni alimentari

Signori Cardinali, venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio, illustri Signore e Signori, sono lieto di accogliervi e di salutarvi in occasione del 50° anniversario dell’Enciclica Mater et magistra del beato Giovanni XXIII; un documento che conserva grande attualità anche nel mondo globalizzato. Saluto il Cardinale Presidente, che ringrazio per le sue cortesi parole, come pure Mons. Segretario, i Collaboratori del Dicastero e tutti voi, convenuti dai vari Continenti per questo importante Congresso.

Nella Mater et magistra Papa Roncalli, con una visione di Chiesa posta al servizio della famiglia umana soprattutto mediante la sua specifica missione evangelizzatrice, ha pensato alla Dottrina sociale - anticipando il beato Giovanni Paolo II - come ad un elemento essenziale di questa missione, perché «parte integrante della concezione cristiana della vita» (n. 206).

Giovanni XXIII è all’origine delle affermazioni dei suoi Successori anche quando ha indicato nella Chiesa il soggetto comunitario e plurale della Dottrina sociale. I christifideles laici, in particolare, non possono esserne soltanto fruitori ed esecutori passivi, ma ne sono protagonisti nel momento vitale della sua attuazione, come anche collaboratori preziosi dei Pastori nella sua formulazione, grazie all’esperienza acquisita sul campo e alle proprie specifiche competenze.
Per il beato Giovanni XXIII, la Dottrina sociale della Chiesa ha come luce la Verità, come forza propulsiva l’Amore, come obiettivo la Giustizia (cfr n. 209), una visione della Dottrina sociale, che ho ripreso nell’Enciclica Caritas in veritate, a testimonianza di quella continuità che tiene unito l’intero corpus delle Encicliche sociali.

La verità, l’amore, la giustizia, additati dalla Mater et magistra, assieme al principio della destinazione universale dei beni, quali criteri fondamentali per superare gli squilibri sociali e culturali, rimangono i pilastri per interpretare ed avviare a soluzione anche gli squilibri interni all’odierna globalizzazione.
A fronte di questi squilibri c’è bisogno del ripristino di una ragione integrale che faccia rinascere il pensiero e l’etica. Senza un pensiero morale che superi l’impostazione delle etiche secolari, come quelle neoutilitaristiche e neocontrattualiste, che si fondano su un sostanziale scetticismo e su una visione prevalentemente immanentista della storia, diviene arduo per l’uomo d’oggi accedere alla conoscenza del vero bene umano.
Occorre sviluppare sintesi culturali umanistiche aperte alla Trascendenza mediante una nuova evangelizzazione - radicata nella legge nuova del Vangelo, la legge dello Spirito - a cui più volte ci ha sollecitati il beato Giovanni Paolo II.

Solo nella comunione personale con il Nuovo Adamo, Gesù Cristo, la ragione umana viene guarita e potenziata ed è possibile accedere ad una visione più adeguata dello sviluppo, dell’economia e della politica secondo la loro dimensione antropologica e le nuove condizioni storiche. Ed è grazie ad una ragione ripristinata nella sua capacità speculativa e pratica che si può disporre di criteri fondamentali per superare gli squilibri globali, alla luce del bene comune. Infatti, senza la conoscenza del vero bene umano, la carità scivola nel sentimentalismo (cfr n. 3); la giustizia perde la sua «misura» fondamentale; il principio della destinazione universale dei beni viene delegittimato.

Dai vari squilibri globali, che caratterizzano la nostra epoca, vengono alimentate disparità, differenze di ricchezza, ineguaglianze, che creano problemi di giustizia e di equa distribuzione delle risorse e delle opportunità, specie nei confronti dei più poveri. Ma non sono meno preoccupanti i fenomeni legati ad una finanza che, dopo la fase più acuta della crisi, è tornata a praticare con frenesia dei contratti di credito che spesso consentono una speculazione senza limiti.
Fenomeni di speculazione dannosa si verificano anche con riferimento alle derrate alimentari, all’acqua, alla terra, finendo per impoverire ancor di più coloro che già vivono in situazioni di grave precarietà. Analogamente, l’aumento dei prezzi delle risorse energetiche primarie, con la conseguente ricerca di energie alternative guidata, talvolta, da interessi esclusivamente economici di corto termine, finiscono per avere conseguenze negative sull’ambiente, nonché sull’uomo stesso.
La questione sociale odierna è senza dubbio questione di giustizia sociale mondiale, come peraltro già ricordava la Mater et magistra cinquant’anni fa, sia pure con riferimento ad un altro contesto. È, inoltre, questione di distribuzione equa delle risorse materiali ed immateriali, di globalizzazione della democrazia sostanziale, sociale e partecipativa.

Per questo, in un contesto ove si vive una progressiva unificazione dell’umanità, è indispensabile che la nuova evangelizzazione del sociale evidenzi le implicanze di una giustizia che va realizzata a livello universale. Con riferimento alla fondazione di tale giustizia va sottolineato che non è possibile realizzarla poggiandosi sul mero consenso sociale, senza riconoscere che questo, per essere duraturo, deve essere radicato nel bene umano universale.
Per quanto concerne il piano della realizzazione, la giustizia sociale va attuata nella società civile, nell’economia di mercato (cfr Caritas in veritate n. 35), ma anche da un’autorità politica onesta e trasparente ad essa proporzionata, pure a livello internazionale (cfr ibid., n. 67).
Rispetto alle grandi sfide odierne, la Chiesa, mentre confida in primo luogo nel Signore Gesù e nel suo Spirito, che la conducono attraverso le vicende del mondo, per la diffusione della Dottrina sociale conta anche sull’attività delle sue istituzioni culturali, sui programmi di istruzione religiosa e di catechesi sociale delle parrocchie, sui mass media e sull’opera di annuncio e di testimonianza dei christifideles laici (cfr Mater et magistra, 206-207). Questi debbono essere preparati spiritualmente, professionalmente ed eticamente.

La Mater et magistra insisteva non solo sulla formazione, ma soprattutto sull’educazione che forma cristianamente la coscienza ed avvia ad un’azione concreta, secondo un discernimento sapientemente guidato.
Il beato Giovanni XXIII affermava: «L’educazione ad operare cristianamente anche in campo economico e sociale difficilmente riesce efficace se i soggetti medesimi non prendono parte attiva nell’educare se stessi, e se l’educazione non viene svolta anche attraverso l’azione» (nn. 212-213).
Ancora valide, inoltre, sono le indicazioni offerte da Papa Roncalli a proposito di un legittimo pluralismo tra i cattolici nella concretizzazione della Dottrina sociale. Scriveva, infatti, che in questo ambito «[…] possono sorgere anche tra cattolici, retti e sinceri, delle divergenze. Quando ciò si verifichi non vengano mai meno la vicendevole considerazione, il reciproco rispetto e la buona disposizione a individuare i punti di incontro per un’azione tempestiva ed efficace: non ci si logori in discussioni interminabili e, sotto il pretesto del meglio e dell’ottimo, non si trascuri di compiere il bene che è possibile e perciò doveroso» (n. 219).

Importanti istituzioni a servizio della nuova evangelizzazione del sociale sono, oltre alle associazioni di volontariato e alle organizzazioni non governative cristiane o di ispirazione cristiana, le Commissioni Giustizia e Pace, gli Uffici per i problemi sociali e il lavoro, i Centri e gli Istituti di Dottrina sociale, molti dei quali non si limitano allo studio e alla diffusione, ma anche all’accompagnamento di varie iniziative di sperimentazione dei contenuti del magistero sociale, come nel caso di cooperative sociali di sviluppo, di esperienze di microcredito e di un’economia animata dalla logica della comunione e della fraternità.
Il beato Giovanni XXIII, nella Mater et magistra, rammentava che si possono cogliere meglio le esigenze fondamentali della giustizia quando si vive come figli della luce (cfr n. 235).

Auguro, pertanto, a tutti voi che il Signore Risorto riscaldi i vostri cuori e vi aiuti a diffondere il frutto della redenzione, mediante una nuova evangelizzazione del sociale e la testimonianza della vita buona secondo il Vangelo. Tale evangelizzazione sia sorretta da un’adeguata pastorale sociale, attivata sistematicamente nelle varie Chiese particolari. In un mondo, non di rado ripiegato su se stesso, privo di speranza, la Chiesa si attende che voi siate lievito, seminatori instancabili di veritiero e responsabile pensiero e di generosa progettualità sociale, sostenuti dall’amore pieno di verità che abita in Gesù Cristo, Verbo di Dio fattosi uomo. Nel ringraziarvi per la vostra opera, vi imparto di cuore la mia Benedizione Apostolica.”

(Papa Benedetto XVI lunedì 16 maggio 2011 in: www.avvenire.it)

 

 

Una frase al giorno

“CHE COS’È L’UOMO. Che cosa sta vivendo? L’ampia sala trovata tra le pareti strette. Cosa sta riconoscendo? Trovare l’unica radice sotto il groviglio dei rami. Cosa sta credendo? Guardare a casa fino al momento in cui arriva il benvenuto. Cosa è perdonare? Spingi la tua strada tra le spine per stare al fianco del tuo vecchio nemico. Cosa sta cantando? L’antico respiro dotato disegnato nel creare. Che cosa è il lavoro, ma fare canzoni dal legno e dal grano? Che cosa è governare i regni? Un’abilità che gira ancora a quattro zampe. E armare i regni? Un coltello posto nel pugno di un bambino. Cosa significa essere un popolo? Un regalo alloggiato nelle pieghe profonde del cuore. Cos’è l’amore per il paese? Tenere casa tra una nuvola di testimoni. Qual è il mondo per i ricchi e forti? Una ruota, girando e girando. Qual è il mondo per i piccoli della terra? Una culla, a dondolo e a dondolo.”

(Waldo Williams in meetingbenches.net)

Waldo Goronwy Williams (30 settembre 1904 - 20 maggio 1971) 

Waldo Goronwy Williams (30 settembre 1904 - 20 maggio 1971) fu uno dei principali poeti in lingua gallese del 20° secolo. Era anche un pacifista cristiano, attivista contro la guerra e nazionalista gallese. Viene spesso indicato solo con il suo nome. Waldo Goronwy Williams è nato a Haverfordwest, nel Pembrokeshire, il terzo figlio di John Edwal Williams (1863-1934), preside della scuola elementare Prendergast di Haverfordwest, e sua moglie Angharad Williams (1875-1932). Suo padre parlava sia il gallese che l'inglese, ma sua madre parlava solo inglese, così come lo stesso Waldo nei suoi primi anni.
Nel 1911 il padre di Waldo fu nominato capo della scuola elementare di Mynachlog-ddu, nel Pembrokeshire. Lì Waldo imparò a parlare il gallese. Nel 1915 suo padre si trasferì di nuovo, per dirigere la Brynconin School, la scuola elementare di Llandissilio, nel Pembrokeshire. Waldo fu allevato come Battista e battezzato come membro della Cappella Battista Blaenconin nel 1921 all'età di 16 anni.
Dopo aver frequentato la scuola di grammatica a Narberth, nel Pembrokeshire, Williams ha studiato all'University College of Wales, Aberystwyth, dove si è laureato in inglese nel 1926. Si è poi formato come insegnante e ha lavorato in varie scuole nel Pembrokeshire e nel resto del Galles e dell'Inghilterra, tra cui la Kimbolton School, Huntingdonshire. Ha anche insegnato corsi serali per il Dipartimento di Studi Extra-murali presso l'University College of Wales, Aberystwyth.

Negli anni 1920 e 1930, Williams era amico e sostenitore di Willie Jenkins (Hoplas), uno dei pionieri dell'Independent Labour Party (ILP) e del Labour Party nel Pembrokeshire. Jenkins era un pacifista, che era stato imprigionato come obiettore di coscienza durante la prima guerra mondiale. Fu candidato laburista al Pembrokeshire in quattro elezioni tra il 1922 e il 1935. Il famoso poema di Williams "Cofio" (Ricordando) fu scritto nel 1931 durante una visita alla fattoria di Willie Jenkins a Hoplas, Rhoscrowther, vicino a Pembroke. Williams sposò Linda Llewellyn nel 1941. La sua morte nel 1943 gli causò angoscia. Non si è mai risposato. In seguito avrebbe descritto il suo matrimonio di due anni come "i miei grandi anni".

Pacifista, fu un obiettore di coscienza nella seconda guerra mondiale, che portò al suo licenziamento da dirigente scolastico. Durante la guerra di Corea (1950-1953) rifiutò di pagare la sua imposta sul reddito per motivi pacifisti come protesta contro la guerra e la coscrizione militare - una protesta che continuò fino al termine del servizio militare obbligatorio nel 1963. I suoi beni furono sequestrati dagli ufficiali giudiziari e fu incarcerato due volte nei primi anni '60 per aver rifiutato di pagare la sua imposta sul reddito. Nel frattempo, negli anni '50, si unì ai quaccheri di Milford Haven.

Il volume di poesie di Williams Dail Pren (Foglie dell'albero) fu pubblicato nel 1956 da Gwasg Gomer. È stato descritto come il più straordinario lavoro di poesia in lingua gallese pubblicato dal 1945. Negli anni '50, in parte influenzato dal suo amico DJ Williams, era diventato un sostenitore di Plaid Cymru e lo aveva nominato candidato parlamentare nel collegio elettorale del Pembrokeshire a le elezioni generali del 1959, vincendo il 4,32 per cento (2.253) dei voti.

Alla fine degli anni '60, Williams insegnò il gallese ai bambini di 10-11 anni presso la Holy Name Catholic School, Fishguard, Pembrokeshire. Si dice che sia stato un insegnante affascinante, appassionato ed entusiasta, che ha usato sagome in legno di animali da fattoria con i loro nomi dipinti in gallese su un lato. Williams morì nel 1971 al St Thomas's Hospital, Haverfordwest, e fu sepolto nel cimitero della cappella di Blaenconin a Llandissilio. C'è un memoriale a Rhos-fach, vicino alla sua casa d'infanzia a Mynachlog-ddu. Nel 2019, la scuola elementare Waldo Williams di Haverfordwest è stata nominata in suo onore”.

(In wikipedia.org)

 

Un brano musicale al giorno

Clara Wieck Schumann, Piano Trio Op. 17 in Sol minore per pianoforte, violino e violoncello

Allegro moderato
Scherzo
Andante
Allegretto

Gabor Farkas, pianoforte
Luosha Fang, violino
Michael Katz, violoncello

Merkin Hall, New York, 2019

Clara Josephine Wieck Schumann (Lipsia, 13 settembre 1819 – Francoforte sul Meno, 20 maggio 1896) 

Composto nel 1846, il Trio in sol minore per pianoforte, violino e violoncello si distingue per lo spessore della costruzione tecnica e per gli episodi di alto lirismo ed espressività; da molti è considerato il brano più significativo tra le composizioni di Clara Wieck Schumann. Clara Wieck ha 27 anni ed è in attesa del quarto figlio; non potendo viaggiare per eseguire alcuni concerti già programmati, si concentra in questa composizione dove mette alla prova le sue capacità contrappuntistiche conseguenti agli studi dell’opera di Bach.

Le sonorità corpose del Trio lo rendono affine alla musica del marito, e forse di Mendelssohn; qui, comunque, ognuno dei tre strumenti suona in contrappunto per la maggior parte del tempo e non raddoppiando le parti come spesso avviene nelle opere di Robert Schumann.

Il primo movimento, Allegro moderato, si apre con un tema brillante, vigoroso e deciso, seguito da un motivo più leggero, accordale, e sincopato. Il secondo movimento, Scherzo: Tempo di Menuetto, si caratterizza come un dolce, giocoso intermezzo prima dell’Andante, commovente e sofferto, che costituisce il terzo movimento. L’Allegretto finale, in forma sonata, presenta un tema grave e nervoso al quale si contrappone un secondo soggetto più ottimista; una fuga concitata origina una serie di libere variazioni sui due temi. “

(In: diesisebemolle.wordpress.com)

 

Clara Josephine Wieck Schumann (Lipsia, 13 settembre 1819 - Francoforte sul Meno, 20 maggio 1896) fu una delle più importanti figure femminili dell’Ottocento musicale tedesco, ma divenne celebre come Clara Schumann. Infatti molti la ricordano semplicemente come la moglie del grande compositore romantico e come una brillante pianista: per questo tengo molto a dimostrare ai lettori che Clara fu sì questo, ma anche e soprattutto molto altro.

Nacque nel 1819 a Lipsia da Friedrich Wieck, maestro e amante della musica oltre che proprietario di una fabbrica di pianoforti, e Marianne Tromlitz, pianista e cantante. Considerando anche che il nonno Johann Georg Tromlitz fu un compositore di buona fama nel secolo precedente, possiamo dire che Clara insieme ai suoi fratelli cresce in un ambiente intriso di passione per la musica che lei assorbì in modo particolare. Il padre si accorse della sua spiccata predisposizione e fin dall’età di cinque anni le iniziò ad impartire lezioni private seguendo i metodi pedagogici di Pestalozzi e Rousseau; contemporaneamente fece anche attenzione a preservare la salute e la forma del suo corpo giovane (combinava studio e attività all’aria aperta), in modo da rendere il suo apprendimento costante, completo ed efficace. Effettivamente questo metodo diede i suoi frutti, permettendo alla piccola pianista di sviluppare una tecnica straordinaria ed impeccabile, così come accadde per Hans von Bülow e per Robert Schumann. Inoltre Friedrich si occupò personalmente dei concerti e delle tournée che fin da subito Clara iniziò a sostenere, diventando nel giro di alcuni anni una delle concertiste più acclamate e stimate in Europa.

Ebbene, questa è la dote e la professione per cui è più conosciuta e i motivi sono vari e tutti molto importanti: al di là della tecnica, della freschezza, della dolcezza della grande passione interpretativa, nonostante nei primi anni le fu imposto dal padre intransigente un certo repertorio, Clara ben presto riuscì a inserire nei suoi programmi anche pezzi di compositori come Beethoven, Chopin, Bach e Mendelssohn; fu brillante compositrice e ben presto decise anche di suonare sistematicamente in ogni esibizione almeno un brano o una variazione da lei scritta. Inoltre fu una delle prime interpreti a eseguire interi concerti a memoria e a ideare metodi di insegnamento dello strumento che sono adottati ancora oggi. Tenne in suo primo concerto all’età di dieci anni e ebbe la possibilità di esibirsi davanti a influenti personaggi politici e grandi musicisti come Listz e Paganini, finché nel 1837 fu nominata virtuosa da camera dell’Imperatore.

Robert e Clara Schumann

In quegli anni di grande successo Clara ebbe al suo fianco una importante figura che accompagnerà la sua crescita: uno dei tanti allievi del padre, Robert Schumann. Si conobbero quando lei aveva appena nove anni e lui diciassette. Divennero da subito buoni amici e ben presto si innamorarono. Il padre osteggiò sempre la relazione amorosa tra i due, invidioso del grande talento di Robert e convinto della sua incapacità di saper badare alla preziosa e promettente figlia. Nonostante questo i due si sposarono del 1840. Il loro rapporto fu sempre sincero, affettuoso e felice anche se Schumann con il passare degli anni divenne un uomo molto instabile e inquieto. Clara però le rimase sempre vicino, assumendo il ruolo di punto di riferimento non solo umano e affettivo, ma anche musicale. Il primo aspetto è testimoniato dalla vasta produzione che il compositore le dedica e scrive pensando a lei: infatti l’animo impetuoso e tormentato dell’uomo trova un’oasi di pace dai suoi demoni e dai suoi pensieri ossessivi proprio nella figura della compagna. Anche se in realtà il personaggio di Clara influenzerà quasi tutta sua la produzione dal 1835 in poi, qui ricordiamo i più importanti casi: “Dieci improvvisi su tema di Clara Wieck” op.5 “Davidsbündlertänze” op.6, Quartetto per pianoforte e archi op.47, Sonata op.11 e Carnaval op. 9. In particolare ascoltando quest’ultimo pezzo possiamo farci un’idea di come Robert percepisse la figura della moglie dal punto di vista musicale. Il tema è appassionato, dolce, ma anche frizzante e caratterizzato da un costante ritmo puntato; un’ onda, un impeto che sale in alto e riscende con morbidezza. Questo è il ritratto sentimentale e musicale di Clara e riflette il suo modo di suonare passionale e creativo. Inoltre possiamo dire che il motivo è stato ripreso dalla tragica scena finale dell’Opera “Marin Faliero” di Donizetti: Clara era molto affascinata dall’opera italiana e Schumann scelse questo tema per sottolineare proprio le sue influenze musicali e le sue ispirazioni. Oltre che musicista, interprete, fonte di ispirazione e musa Clara Wieck Schumann fu anche una fantastica moglie e madre: con Robert si trasferirono prima a Lipsia e poi a Dresda cercando di conciliare sempre la loro vita con gli impegni lavorativi di entrambi. Partorì ben otto figli, che riuscì a crescere gestendo quasi da sola la casa, la sua personale carriera artistica e l’attività musicale del marito. Infatti con il passare degli anni quest’ultimo diventò sempre più mentalmente instabile: iniziò a soffrire di amnesie e di momenti di completa estraneità e non lucidità, tanto che inizierà a essere continuamente licenziato e mano a mano incapace di comporre. Il disagio di Robert culminò nel tentato suicidio del 1854, al seguito del quale venne internato nel manicomio di Endenich, a Bonn.

Ultima attività, ma certamente non la meno importante, di cui è necessario parlare è quella di compositrice. Come si è già detto in precedenza, fu sempre solita scrivere originali variazioni su temi famosi, che denotano il suo estro e la sua bravura nel reggere il confronto con i pezzi su cui si apprestava a lavorare. Inizierà a scrivere i primi brani interamente suoi fin dalla tenera età: “Quatre Polonaises” op. 1 furono pubblicate quando aveva dieci anni. Ricordiamo inoltre: “Caprices en forme de Valse”,” Valses romantiques”, “Quatre pièces caractéristiques”, “Soirées musicales”, un concerto per pianoforte e quello che da molti è considerato il suo capolavoro “Trio in sol minore per pianoforte, violino e violoncello” op. 17. Il punto di forza delle sue composizioni è la spiccata sensibilità e capacità di catalizzare all’interno del mezzo musicale i propri sentimenti più intimi, di attingere alla sua vita per comporre, come farà per tutta la sua carriera anche Schumann.

Clara Josephine Wieck Schumann (Lipsia, 13 settembre 1819 – Francoforte sul Meno, 20 maggio 1896)Le composizioni che testimoniano questo modo di approcciarsi alla musica sono paradossalmente quelle meno conosciute: vale a dire i Lieder (genere tipico del romanticismo tedesco, dove pianoforte e voce interpretano solitamente poesie dei maggior poeti del tempo). Clara ne scrisse un numero abbastanza consistente, per ora ancora poco conosciuti e causa della loro frequente erronea attribuzione al marito. La produzione liederistica comprende gli anni fra il 1830 e il 1856, durante i quali frequentò insieme a Robert ambienti altolocati sviluppando legami con personaggi di spicco. Infatti comporrà questi Lieder per occasioni come compleanni, eventi di beneficenza, regali (come per esempio quello per la regina danese Carolina Amalia) e così via. I testi da cui attinse furono di poeti come Geibel, Rückert, Goethe, Heine, Serre e Lyser, molti di loro conosciuti di persona e amici di famiglia della coppia. I temi trattati sono ovviamente quelli caratteristici del Romanticismo: descrizione e esaltazione dei paesaggi naturali e dei fiori, canti alla luna, riflessioni sull’amore, descrizioni di sogni eccetera.

La grande creatività di Clara riesce ad esprimersi a pieno in questo genere, trovando in ogni lied un modo diverso per rendere musicalmente l’atmosfera, i concetti, le forme poetiche e i sentimenti che il testo le consegna. Infatti ha uno stile e un modo di comporre sicuramente poco schematico: a volte decide di dare il ruolo di spicco al pianoforte e relegare al canto una melodia elementare che faccia risaltare il testo poetico (“Liebst du um Schönheit”), in altri componimenti invece carica la linea melodica della cantante di pathos, enfatizzato da un grande uso di dinamiche e di variazioni di tempo ( come “Sie liebten sich beide” e “Er ist gekommen in Sturm und Regen”); tratta in modi diversi lo stesso argomento, come ad esempio la natura in “Liebeszauber” (tema gioioso e frizzante) e in “Die stille lotosblume” (atmosfera sognante e malinconica). Dopo la morte di Schumann, avvenuta nel ‘56, Clara smise di comporre questo genere. In concomitanza di questo terribile evento che fu per lei sia la perdita dell’uomo della sua vita, sia l’arrivo di ulteriori responsabilità nei confronti della sua famiglia, inizierà a dedicarsi ad un ulteriore fondamentale lavoro per la storia della musica: la conservazione, la cura e la promozione delle opere del marito. A lei infatti dobbiamo la conoscenza completa e ordinata di tutta la musica da lui composta oltre che alla difesa che operò in reazione alle critiche negative fatte in quegli anni al suo operato.

E’ però necessario fare una considerazione: durante il suo lavoro Clara incappò in alcuni “errori” di revisione. Quelli più evidenti di riscontrano nelle edizioni di Carnaval e Davidsbündlertänze. Infatti per queste composizioni egli si ispira all’estetica del frammento del circolo di Jena e dal romanzo “Considerazioni filosofiche del gatto Murr” di E.T.A. Hoffmann, elaborando un vero proprio sistema di aforismi musicali concepiti però come un dialogo continuo e unitario. Clara regolarizza le contraddizioni e le particolarità dello stile del marito, mettendo le due barre che indicano la fine di un brano ad ogni frammento, togliendo così l’idea di omogeneità e integrazione originaria. Ad ogni modo il suo lavoro in quegli anni è stato fondamentale e tutti le siamo debitori.

Trascorse l’ultimo periodo della sua vita come insegnante di pianoforte al conservatorio di Francoforte, unica donna in una scuola esclusivamente maschile. Accanto a lei rimase l’amico e pupillo del marito Johannes Brahms, che venne definito da Robert il musicista del futuro. Il rapporto tra i Johannes e Clara fu sempre di grande amicizia, di sostegno reciproco, di empatia e di rispetto che però non sfociò mai, per quanto ne sappiamo, in una storia d’amore.

Clara soffrì negli ultimi anni di vita di frequenti e intensi dolori fisici, dovuti alla sindrome di sovraccarico, a causa dell’eccessivo lavoro di esercizio al pianoforte che riuscì in parte ad alleviare grazie alle nuove cure di Friedrich von Esmarch. Passati 5 anni dal suo ultimo concerto avvenuto del 1891, Clara Wieck Schumann morì di ictus.

La sua importantissima figura ha lasciato a tutti noi una grande testimonianza di vita dedicata all’arte, all’amore per la famiglia, alla creatività, all’insegnamento, alla dedizione costante e completa alla musica e penso che conoscere, approfondire e apprezzare la sua eredità di musicista e di donna sia il modo più adatto per ringraziarla.”

(Aurora Tarantola in quinteparallele.net)

Clara Josephine Wieck Schumann (Lipsia, 13 settembre 1819 - Francoforte sul Meno, 20 maggio 1896)

"... É così, con un diario a quattro mani, consuetudine che verrà riproposta per i successivi quattro anni, in un susseguirsi di quadernetti colmi di testi, affermazioni, considerazioni, aneddoti, risposte e contro-risposte, cadenzate da un tempo lento e necessario alla riflessione personale, che il giovane Robert Schumann, trentun’anni, e la giovanissima Clara Wieck, di appena ventidue, suggellano l’inizio di una comunità di intenti e la corrispondenza scritta di amorosi sensi.

Colmi di premure, attenzioni e tenerezze l’uno per l’altro, gli scritti attestano un amore che si fonda su pattuite parole chiave, impegno, parsimonia e fedeltà. Per noi lettori, il diario non è solo la serratura da cui sbirciare un amore pieno e consapevole, ma una preziosa lente d’ingrandimento per comprendere a distanza quali siano state le idee primigenie, i motori e le istanze da cui è sorta l’ispirazione artistica nei protagonisti. Lui, inquieto musicista, che fino a pochi anni prima aveva considerato la possibilità di fare della letteratura la propria professione, forse già lacerato da una sensibilità patologica, è pienamente consapevole di appartenere a un mondo che vede la nascita di un movimento artistico nuovo, il romanticismo, pervaso da incredibile fecondità lirica e forza espressiva. É allievo pianista del padre di lei, Friedrick Wieck, che ne ha ostacolato, fino all’ultimo e in tutti i modi, il matrimonio.

Lei è una talentuosissima pianista, compositrice e virtuosa della tastiera tanto da incantare le sale da concerto e i saloni delle corti di mezza Europa, ormai votata alla carriera più straordinaria dal padre. Wieck, fervido appassionato di musica, editore e fondatore di una fabbrica di pianoforti, divenuto docente di chiara fama sulle ali dei successi clamorosi della giovane figlia-allieva, ben altro avrebbe desiderato per Clara. Certamente una vita da star, su cui puntare tutto con disciplina ferrea e determinazione, piuttosto che vederla ossequiosa sposina, e futura madre di ben otto figli, accasata con un marito spiantato e ai suoi occhi mediocre compositore. Schumann scrive musica di “nuovo genere”, i lieder per voce e pianoforte.
Quel giovane, che a causa di un’infelice esperienza di studio per fortificare le articolazioni delle dita, si era ritrovato con una mano pressochè paralizzata, tanto da dovere ripiegare più sulla composizione che non sulla carriera pianistica, gli appare pieno di contraddizioni psicologiche. Anche a partire dai saggi di critica ed esegesi musicale pubblicati fin dall’età giovanile sulla rivista Neue Zeitschrift für Musik, in cui Schumann sdoppia la propria personalità firmandosi con due differenti pseudonimi, associati a due figure distinte e contrastanti. Florestano, dalla natura fantastica, capace di slanci appassionati, ed Eusebio, dai tratti più contemplativi e introversi, ripiegato entro un carattere sognante, fragile e meditativo.

Certo, Clara tutto sarà nel tempo fuorchè una moglie remissiva e rinunciataria delle proprie aspirazioni. Donna tenace e sodale, fervida ammiratrice della rara sensibilità intimistica musicale di Robert, ella intuisce fin da subito l’incredibile talento dell’uomo che ha fortemente desiderato, come compagno di vita e di interessi: Il tuo modo di scrivere musica per me è la cosa più bella e più cara.

Clara Josephine Wieck Schumann (Lipsia, 13 settembre 1819 - Francoforte sul Meno, 20 maggio 1896)Nell’appartamento di Inselstrasse, la vita coniugale si alterna tra aspirazioni comuni e l’accudimento della prole, le preoccupazioni per la salute propria e quella dei figli, i momenti di studio intenso del pianoforte, la stesura di nuove partiture sulle quali confrontarsi, i timori sofferti per il proprio futuro artistico, le preoccupazioni economiche, l’insegnamento di Robert al Conservatorio di Lipsia, invitato dall’amico Mendelsshon; e ancora, gli avvenimenti musicali della città e la lettura critica di testi poetici, le passeggiate, i preparativi per i viaggi e le lunghe tournée di Clara, le interpretazioni pianistiche, le sensazioni del dopo-concerto. Le giornate sono cadenzate dalle minuziose descrizioni del trascorrere delle stagioni e dei mutamenti delle condizioni atmosferiche. C’è posto anche per attimi di gioiosa complicità a due: Domenica scorsa, la sera, abbiamo festeggiato con una piccola bottiglia di champagne; sono ore felici trascorse quando fuori è ancora inverno e fa freddo.

La dimora dei coniugi Schumann viene movimentata anche dalle molte visite di amici, allievi e musicisti che vi soggiornano e costituiscono motivo di considerazioni scritte trai due coniugi, alternando giudizi entusiastici a critiche contrastanti. La giovane donna si dedica appieno all’accudimento della famiglia senza tuttavia mai rinunciare alla propria priorità intellettuale di raffinata musicista. La carriera pianistica, persino suo malgrado, a causa dell’estenuante logorio fisico del concertismo senza sosta, quasi divenuto insopportabile, diviene nel tempo una risorsa economica necessaria e irrinunciabile. Sono anni in cui la vita di Robert è caratterizzata dalla tensione alla felicità più pura e sognante che si dibatte tuttavia entro un’anima sofferta, che incarna l’inquietudine dello spirito romantico unitamente alla sofferenza della patologia psichica. Tanto che scrive: L’immagine di Clara si libra al di sopra di queste tenebre e mi aiuta a sopportare tutti i miei dolori.

Sono due anime in condivisione, difficile non provarne profonda empatia, anche a distanza di centinaia d’anni luce da quel mondo. Sono Twin spirits, e proprio così, tra le molte rivisitazioni teatrali e letterarie di quell’amore, viene intitolata un’accattivante performance teatrale diretta da John Caird e messa in scena alla Royal Opera House di Londra nel 2005. Protagoniste la voci narranti dell’io epistolare di Robert e Clara, interpretate dai coniugi Sting e Trudie Styler, accompagnati da un ensemble di strepitosi musicisti, tra cui spicca la voce del violino suadente di Sergej Krylov.

Clara Schumann e Johannes BrahmsNonostante il trasferimento della coppia da Lipsia, prima a Dresda, poi a Düsseldorf, la malattia di Schumann diviene una presenza incombente nell’equilibrio familiare, alternando momenti di benessere, che vedono il nascere di assoluti capolavori della letteratura pianistica, cameristica e sinfonica, con baratri emotivi sempre più cupi, caratterizzati da gravi inquietudini, persistenti amnesie e assenze psichiche che turbano non poco il compositore. Ma è proprio in quest’ultima città che si presenta a casa Schumann, nel 1853, il giovane musicista Brahms, appena ventenne. Appare subito desideroso di avere consigli e indicazioni da colui che egli ammira più di qualsiasi altro compositore. Ma l’incontro con Clara, affascinante e colta, si rivela deflagrante per la sensibilità del giovane che coltiva, insieme alla devozione incondizionata per Schumann, un tacito e conturbante sentimento amoroso per colei che sola rappresenta l’eterno femminino. É un amore che allaga il cuore, forse compreso e condiviso dalla donna, ma mai appagato.

In preda alla follia del disturbo bipolare, fino al tentato suicidio nelle acque del Reno, e al conseguente ricovero nel manicomio di Endenich nel 1854, Schumann viene accudito per i due successivi anni che precedono la sua morte dal solo Brahms. Egli lo visita frequentemente in ospedale - Clara non vi metterà mai piede - e si preoccupa dei figli della coppia durante i lunghi periodi di assenza della madre, impegnata strenuamente in tutta Europa per concerti. Perché una tale chiusura di Clara? Molti gli interrogativi e le risposte possibili. Il distacco forzato da Schumann per l’incapacità di sopportarne il dolore, la ribellione verso l’imponderabile crudeltà del destino che li vede separati o l’impossibilità di accettare la trasfigurazione dell’oggetto amato, ormai non più riconoscibile nell’essenza? Il turbamento dinnanzi al possibile amore di un uomo molto più giovane o gli impegni artistici che la tengono lontana da casa, con la necessità di sobbarcarsi lei sola il gravoso peso della famiglia? Forse, la percezione che l’unicità della condivisione è ormai perduta, per sempre.

Ci restano le future pagine musicali di Brahms, dense di desiderio e nostalgia cocente, rimpianto e struggimento appassionato per ciò che avrebbe potuto essere, e non è mai stato, l’amore per Clara. Le piace Brahms? Chiede Antony Perkins ad Ingrid Bergman nel film di Litvak, tratto dall’omonimo romanzo di Françoise Sagan del 1959. Nascita di un sentimento folle e impossibile e, per antonomasia, la traduzione in musica di quella Sehnsucht dello spirito romantico che due uomini, a distanza di poco tempo, hanno avuto un tempo per la stessa donna, amante fedele e musa ispiratrice.

(Un diario a quattro mani, di Francesca Bonaita, in: www.dols.it)

 


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

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