L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno V. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...
Un film al giorno
FERMO CON LE MANI (Italia, 1937). Regia di Gero Zambuto. Soggetto: Guglielmo Giannini. Sceneggiatura: Guglielmo Giannini. Produttore: Gustavo Lombardo. Fotografia: Otello Martelli. Montaggio: Giacinto Solito. Musiche: Umberto Mancini. Cast: Totò, Totò di Torretota. Erzsi Paál, Eva Frastorny. Franco Coop, Vincenzino. Tina Pica, Giulia. Oreste Bilancia, Gerolamo Battaglia. Miranda Bonansea, bambina. Luigi Erminio D'Olivo, Vladimiro Pegna. Alfredo Martinelli, accompagnatore. Alfredo De Antoni, padrone di casa. Cesare Polacco, capomastro. Adelmo Cocco, Giuseppe Zoppegni. Yvonne Sandner, Anna. Guglielmo Sinaz, cameriere. Nicola Maldacea, suggeritore. Lena Bellocchio, direttrice dell'Istituto di Bellezza. Giuseppe Pierozzi, direttore del teatro.
Totò di Torretota è un povero diavolo che tenta in ogni modo di sbarcare il lunario. Dopo essere stato cacciato di casa (un'abitazione in via di demolizione in cui si è insediato abusivamente), nel cercare una nuova sistemazione riesce a liberare una povera orfanella dalle grinfie di un bieco sfruttatore, che la obbligava a elemosinare per la strada, e decide di prendersene cura, nonostante l'indigenza.
Per racimolare qualche soldo, Totò accetta di fare da factotum in un salone di bellezza e, per conquistare una buona mancia, si traveste da donna e si fa passare per massaggiatrice spagnola dalla bella Eva, un'assidua cliente del salone, nonché soubrette di rivista protetta dall'inetto cavalier Girolamo Battaglia, il quale non si avvede del fatto che Eva amoreggia sotto i suoi occhi col direttore d'orchestra dello spettacolo. Alla vista delle grazie di Eva, Totò perde il controllo e si fa smascherare. Eva, infuriata, chiede a Girolamo di catturare l'uomo e schiaffeggiarlo, ma il passo lesto di Totò e l'incapacità del Cavaliere impediscono che ciò avvenga. Eva allora intima a Girolamo di ritrovare Totò e schiaffeggiarlo pubblicamente per dimostrare di essere un vero uomo.
Licenziato dal salone di bellezza per la sua bravata, Totò si ritrova a trattare con Girolamo che, a suon di denaro, convince il poveraccio a combinare un incontro in un locale elegante dove sarà convenzionalmente schiaffeggiato davanti a tutti. Sennonché la sera in questione Totò riesce a conquistare la simpatia di Eva così il gesto di Girolamo la indispettisce ancor di più.
Istigato da un amico altrettanto in miseria, Totò decide di tornare dall'uomo per ricattarlo ed estorcergli altro danaro, fingendosi un nobile decaduto che intende imporre un duello per lavare l'onta subita. Poco dopo Totò riesce a trovare lavoro proprio nel teatro dove lavora Eva e, per una serie di equivoci, finisce col sedurre la ballerina, mandando su tutte le furie il suo amante, che rifiuta di dirigere l'orchestra per lo spettacolo serale. A quel punto Totò si offre lui stesso come direttore d'orchestra, ottenendo un incredibile trionfo nonostante non fosse un vero musicista. La cosa fa imbestialire ulteriormente l'amante di Eva che, sconfitto in amore e sul lavoro, aggredisce fisicamente Totò, così che si rende necessario l'intervento della polizia. In commissariato, Totò scopre di essere veramente un conte e unico erede di parecchi milioni. L'inaspettata eredità gli consente di crearsi una famiglia con Eva e la piccola orfana.
Come ultimo gesto, l'ormai ricco e stimato Totò si reca nel locale in cui era stato umiliato da Girolamo e gli si avvicina con la scusa di ringraziarlo per quanto ha fatto in suo favore, restituendogli il denaro avuto per gli schiaffi e rifilandogli due sonori ceffoni, liberandosi dalla frustrazione del precedente episodio.
«Questo film non è americano ciononostante è bruttissimo. Ne prendano atto coloro che ci accusano di faziosità. Noi siamo irrimediabilmente faziosi verso tutti i film che rappresentano un attentato alla società artistica e morale del cinematografo»
(Bianco e Nero, 31 maggio 1937)
«Non mancate a Fermo con le mani, dove riappare Erszi Paal e dove si rivela Totò. Pare a me che la ballerina di Budapest non manchi, oltre che di vaghezza e di estro, di fotogenia: ma, soprattutto, subisce l'attrazione di Totò nella magrezza fantomatica e nella snodatura marionettistica di certi suoi passi di danza, dove il pallore e l'automatismo concorrono, insieme con la bravura, a una specie di pauroso incantamento, di allucinazione irresistibile»
(Marco Ramperti ne L'Illustrazione Italiana, 14 marzo 1937)
"E' uno dei nostri primi tentativi di film interamente comici, basati sull'estro umoristico di un attore-maschera. L'attore prescelto è Totò, uno dei nostri più caratteristici e spassosi artisti di varietà. Senonché la sua trasposizione sullo schermo non mi è parsa per questa volta particolarmente felice. Tuttavia qualche risata riesce a strapparla e, alla fine, una certa facile allegria è diffusa per il film, anche se talvolta una successiva lentezza di ritmo appesantisce le possibilità esilaranti (...)".
(Dino Falconi, Il Popolo d'Italia, 7.03.1937)
«Antonio de Curtis, in arte Totò, è un fantasista ricco di schietta comicità. Con le sue "macchiette" e con le sue battute a finta improvvisazione e soprattutto con la sua originale maschera di sicuro attor comico ha fatto la fortuna di tutte le riviste nelle quali ha preso parte. Eccolo, con questo filmetto, al suo debutto sullo schermo. Purtroppo le sue qualità non hanno potuto troppo brillare ché i pretesti comici e le trovate in questo raccontino cinematografico sono più vicini alla ribalta che allo schermo. Tuttavia il bravo Totò ha dato prova di saper affrontare con sicura spigliatezza la macchina da presa e chissà che un giorno non possa farci un'improvvisata degna della buona volontà che stavolta gli abbiamo indovinato in un film nel quale la "vis comica" è più nelle intenzioni che negli effetti…»
(Fabrizio Sarazani, Il Giornale d'Italia, Roma, 24 aprile 1937)
- Il film: Fermo con le mani (1937) di Gero Zambuto
15 febbraio1898 nasce Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi de Curtis di Bisanzio, attore, commediografo e poeta italiano (morto nel 1967).
“Totò, nome d'arte di Antonio De Curtis, attore teatrale e cinematografico, nato a Napoli il 15 febbraio 1898 e morto a Roma il 15 aprile 1967. Attraverso la centralità della 'maschera' (in grado di vincere sui personaggi e sulla stessa qualità dei film interpretati lasciandoli in ombra) la presenza di Totò ha rappresentato, sulla scena e sullo schermo, gli esiti di un'intera tradizione, che parte dalla commedia dell'arte e passa per il varietà, la sceneggiata, l'avanspettacolo. La spinta vitale e anarcoide del sottoproletariato si intreccia in lui con la identificazione ambigua di una ridicolaggine piccolo-borghese, messa in caricatura nei suoi aspetti deteriori. In questo senso, nella sua straordinaria immediatezza recitativa Totò sapeva rovesciare la cupezza della morte e della fame sciogliendola in sberleffo, nel guizzo sintetico della maschera. Un marionettismo bizzarro spinto fino alla surrealtà parossistica, il volto asimmetrico, sbilenco e deformato, il corpo disarticolato, svitabile, piegabile a ogni deformazione, si coniugavano in lui con un gusto per le acrobazie verbali al limite del nonsense, esprimendo spesso nella stessa comicità una modernità irreale e metafisica. Nel corso della sua carriera ottenne per due volte il Nastro d'argento come miglior attore: nel 1952 per Guardie e ladri (1951) di Steno e Mario Monicelli e nel 1967 per Uccellacci e uccellini (1966) di Pier Paolo Pasolini. Per la prova offerta in quest'ultimo film l'anno precedente gli era stata conferita una menzione speciale al Festival di Cannes.
Fu cresciuto nel popolare rione Sanità dalla nonna e dalla madre, Anna Clemente, nubile, che tirava avanti con lavori saltuari; il padre era Giuseppe De Curtis, agente teatrale di stirpe nobile (era marchese), che avrebbe sposato la madre di Totò nel 1921, trasferendosi con lei a Roma e riconoscendo il figlio. L'infanzia fu quella dei ragazzi dei vicoli napoletani: vita di strada, piccoli lavoretti, poca scuola. Si era già messo in luce, per la capacità di imitare il prossimo, tra i compagni del collegio Cimino e nelle cosiddette periodiche, piccole recite improvvisate a carattere familiare in uso a Napoli e nei dintorni fino al secondo dopoguerra. Suo idolo era il comico fantasista Gustavo De Marco, celebre per la capacità di 'snodarsi' e disarticolarsi, di usare il proprio corpo in figurazioni marionettistiche.
Forse attorno ai sedici anni, Totò debuttò imitandolo, con lo pseudonimo Clerment, sui teatrini in legno che fiorivano attorno alla stazione centrale di Napoli, dove si cimentavano anche i fratelli De Filippo e altri attori napoletani. Nel 1915 si arruolò volontario; schivato abilmente l'invio in Francia col pretesto di una malattia, riuscì a non andare al fronte. A guerra finita era deciso a dedicarsi al teatro; si esibì in compagnie provvisorie, operanti per lo più in provincia nelle cosiddette recite staccate di fine settimana. Si costruì, rubacchiando a De Marco come a Nicola Maldacea e ad altri divi del momento, un piccolo repertorio di 'macchiette' e di soggetti, cui avrebbe spesso fatto ricorso in futuro per risolvere, in teatro o nei film interpretati dopo il 1947, momenti fiacchi dei copioni. Il suo apprendistato proseguì a Roma, nel 1921, a fianco del 'Pulcinella' Umberto Capece.
L'anno seguente venne finalmente scritturato dall'impresario G. Iovinelli, proprietario a Roma dell'omonimo teatro, che aveva contribuito a lanciare Raffaele Viviani ed Ettore Petrolini. Dopo qualche sortita a Napoli, la sua consacrazione tra i nomi di spicco del varietà avvenne al teatro Sala Umberto I di Roma, uno dei più importanti nel genere. Le macchiette che lo resero celebre furono quelle del Gagà, del Bel Ciccillo, del Biondo corsaro, di Otello, e altre ancora, rubate ad altri. "Il mio corredo", raccontò più tardi, "era composto da un solo abito per la scena che andava sempre più logorandosi, senza una sia pur remota possibilità di sostituzione. Ebbi da qui l'idea di creare un 'costume' che accentuasse la mia reale situazione vestiaria. Una logora bombetta, un tight troppo largo, una camicia lisa col colletto basso, una stringa di scarpe per cravatta, un paio di pantaloni 'a saltafossi', comuni scarpe nere basse, un paio di calze colorate. Così nacque l'abito di Totò". Il suo nome d'arte era ormai questo. Nella definizione del personaggio comico e nel suo passaggio a maschera concorsero molte influenze: oltre alle citate, anche Petrolini, quanto meno agli inizi, e l''omino di Chaplin'.
Il varietà, composto da numeri di arte varia, stava lasciando il passo in quegli anni alla rivista, che univa i numeri tra loro attraverso un tenue pretesto narrativo, con alcuni personaggi-guida. Totò agì, come tanti, nell'una e nell'altra forma di spettacolo: nella seconda come primo attore comico, con la compagnia di Achille Maresca che presentava anche operette, a fianco di soubrette come Isa Bluette e Angela Ippaviz, o con la Compagnia stabile napoletana Molinari dell'impresario E. Aulicino, con cui aveva già lavorato, che gestiva il Teatro nuovo di Napoli. Nel 1931 Maresca gli affidò una compagnia di rivista cui venne dato il suo nome, che godeva ormai di notevole fama: erano finiti gli anni della miseria e dell'apprendistato. La piccola compagnia girò l'Italia con un repertorio di copioni non certo eccelsi, ma nei quali l'attore poteva sbizzarrirsi nei suoi numeri comici, nelle macchiette musicali, nei finali per i quali meritò l'appellativo di 'uomo caucciù', per gli sketch che riprendevano vecchi copioni anonimi della tradizione napoletana (La camera fittata per tre, La scampagnata dei tre disperati, Il cafone al ristorante) o lo vedevano in bizzarri travestimenti alle prese con situazioni che scivolavano volentieri nell'assurdo. La sua comicità faceva ormai leva su due costanti: una mimica corporea e facciale di inedita ricchezza (la marionetta), e un'aggressività che trovava nella parola il suo principale strumento di espressione, parodiando il linguaggio aulico della borghesia avvocatesca dell'epoca. Totò fu spesso, in teatro, un 'nuovo al mondo', un ingenuo che con la sua mancanza di condizionamenti sociali e di 'buona educazione' ne svelava il funzionamento e ne distruggeva le apparenze; oppure un poveraccio (ma anche un sussiegoso piccolo-borghese) che rivendicava, senza rispetto per nessuno, la soddisfazione dei suoi istinti primari di cibo, di sesso, di spazio, di riconoscimento: un personaggio aggressivo, bugiardo, cocciuto, ipocrita, secondo lo stesso Totò.
Alle vecchie macchiette si erano aggiunti in repertorio numeri come l'Adamo di Monna Eva (1929), il Cajo Silio di Messalina (1929), Totò Charlot per amore (1930), Il prestigiatore (1931), il finto pazzo di Fra moglie e marito la suocera e il dito, La mummia vivente, il Dongiovanni, e molti altri spesso per riviste che scriveva egli stesso, come L'ultimo Tarzan che concluse nel 1939 la fertile stagione degli anni Trenta. Portate in tournée in quasi tutte le province italiane, queste riviste gli valsero l'ammirazione e il consenso di alcuni intellettuali (Cesare Zavattini, Umberto Barbaro, Renato Simoni, Marco Ramperti ecc.) ma soprattutto l'adesione di un pubblico sempre più numeroso. Dal 1932 anche capocomico, dirigeva una sua compagnia con proprie soubrette, e aveva per spalle Mario Castellani, il più fedele, il pugliese Guglielmo Inglese, suo cugino Eduardo Passarelli. Ma le 'piazze' che copriva erano ancora quelle povere dell'avanspettacolo, che offriva un rapido susseguirsi di numeri legati tra loro da un filo assai esile, per la durata di tre quarti d'ora o un'ora, in attesa della proiezione cinematografica. Totò era ancora confinato al teatro minore. Qui la sua comicità e la sua maschera si definirono, nel contatto con il pubblico che il perbenismo del regime fascista non toccava, certo 'volgare' ma di una volgarità popolare che trovava nel comico sfogo e rivalsa.
Furono dozzine le piccole riviste che Totò mise in scena nel corso del decennio, conquistando infine quell'agiatezza che gli permise di compiacere una sua ossessiva mania: quella della nobiltà. Il fatto di essere nato figlio di N.N. era stato un rovello costante della sua vita, ed egli cominciò in quegli anni ad accumulare titoli nobiliari - attraverso complicate ricerche araldiche - spesso comprandone. Nel 1933 si era fatto adottare da un vecchio principe in miseria, Francesco Maria Gagliardi Focas, per poterne ereditare in tal modo il lunghissimo elenco di titoli. Nello stesso periodo, dopo il suicidio di una cantante da lui abbandonata, Liliana Castagnola, aveva incontrato una giovanissima ragazza fiorentina di cui fece la sua compagna, Diana Bandini Rogliani, dalla quale nel 1933 ebbe una figlia, Liliana, e che sposò nel 1935. Il matrimonio venne annullato in Ungheria nel 1939, anche se vissero assieme fino al 1950.
Nel 1937 il cinema si era accorto di lui proponendogli per il tramite del produttore Gustavo Lombardo l'interpretazione di Fermo con le mani!, su soggetto di Guglielmo Giannini e regia di Gero Zambuto, e nel 1939 Animali pazzi, su soggetto di Achille Campanile e regia di Carlo Ludovico Bragaglia. Il primo era una charlottiana e sconclusionata divagazione che gli permetteva di esibirsi nei suoi aspetti più marionettistici. Il secondo, grazie al soggettista, noto per un pacato umorismo fitto di trovate surreali, fu decisamente più interessante, ma Totò non vi appariva ancora a suo agio, privato come era della 'volgarità' e condizionato dal copione nelle sue improvvisazioni.
Fino al dopoguerra la sua presenza nel cinema italiano fu secondaria, affidata ad altri quattro film il più importante dei quali, San Giovanni decollato (1940) diretto da Amleto Palermi, portava sullo schermo una commedia dialettale del siciliano Nino Martoglio, un cavallo di battaglia di Angelo Musco. Contribuì alla sceneggiatura Cesare Zavattini, che avrebbe dovuto in un primo tempo dirigerlo (e che poco dopo scrisse per lui il soggetto Totò il buono, portato sullo schermo da Vittorio De Sica con il titolo Miracolo a Milano solo nel 1951 e senza Totò): in questo film Totò ondeggia per la prima volta tra le tentazioni della maschera e la definizione di un carattere. Della sua presenza in Due cuori fra le belve (1943) di Giorgio C. Simonelli ebbe a scrivere Giuseppe De Santis, più tardi regista del Neorealismo: "Totò è un grande mimo. A nessuno più di lui si addice alla perfezione quel famoso dialogo di Kleist sulle marionette. Sembra svitabile come Pinocchio […] Sorprendente è anche l'estrema mobilità del suo viso oblungo […] certo è indiscutibile una sua parentela con certi animali domestici, così come non è lontano dalla struttura fisica di Buster Keaton".
(in "Cinema", 10 luglio 1943)
Uomo di teatro, Totò dedicava al cinema scarsa attenzione, tanto più che in quegli anni, gli anni della guerra, l'incontro con un autore quale Michele Galdieri e con una soubrette quale Anna Magnani gli permise quel trionfo sui principali palcoscenici della penisola cui da tempo aspirava. Le riviste che egli produsse e interpretò si intitolavano Quando meno te l'aspetti (1940), Volumineide (1942), Orlando curioso (1942), Che ti sei messo in testa? (1944), Con un palmo di naso (1944). Galdieri elaborò impalcature solide ed eleganti, che servivano bensì di contorno per sketch che lasciavano a Totò la possibilità d'intervenire ancora 'a soggetto'.
Lo sketch più celebre di Totò appartiene a una rivista di Galdieri del dopoguerra, C'era una volta il mondo (1947), noto con il titolo L'Onorevole in vagone letto. Era all'inizio molto breve, ma, replica dopo replica, raggiunse i quaranta-cinquanta minuti, il tempo di un atto unico, ed è possibile goderlo nella riproposta che Totò, affiancato da Isa Barzizza e Mario Castellani, ne offrì nel film Totò a colori (1952) di Steno e Monicelli. L'aggressività della maschera, irriverente e violenta, si applicava alla distruzione del personaggio di un uomo politico. Non minore irriverenza c'era nelle riviste precedenti. Il controllo censorio operato dal ministero della Cultura popolare si era allentato, in tempo di guerra, permettendo una qualche satira della vita quotidiana del Paese in quegli anni difficili: la comicità svolgeva una funzione, da sempre ambigua, di corrosione dei luoghi comuni e della retorica del potere, di cui il potere sapeva servirsi per offrire al pubblico uno sfogo tuttavia controllabile. Le facili allegorie e l'ammiccante e prudente moralismo di Galdieri venivano però scavalcati dall'attore, che vi pescava occasioni per un intervento ben più graffiante. L'aspetto marionettistico di Totò aveva modo di esprimersi al meglio nelle passerelle finali o in figurazioni come quelle del Manichino, da lui creato nel 1938 e ripreso con Galdieri, nella prima rivista della Liberazione. Con un palmo di naso, con le due figure di un Hitler isterico e allucinato, o di un nuovo e ambiguo Pinocchio in cui si esprimeva imprevedibilmente un Mussolini tradito dal Gran Consiglio.
Dopo Che ti sei messo in testa?, il cui titolo primitivo era, con allusione agli occupanti tedeschi, Che si son messi in testa?, i nazisti ordinarono il suo arresto, cui l'attore sfuggì nascondendosi in casa di amici insospettabili fino all'arrivo delle truppe alleate. Secondo varie testimonianze Totò avrebbe anche contribuito con grosse somme a finanziare la Resistenza romana.
Gli anni dell'immediato dopoguerra lo videro protagonista di riviste quali Un anno dopo (1945) di Oreste Biancoli, che satireggiava in particolare la presenza degli Americani nella capitale; Ma se ci toccano nel nostro debole… (1947) di Francesco Nelli, Mario Mangini, Pietro Garinei e Sandro Giovannini; C'era una volta il mondo, e Bada che ti mangio! (1949) di Galdieri e Totò. Si trattava di riviste sfarzose, con un Totò in gran forma, i cui contenuti proponevano la satira della nuova vita politica italiana in un'ottica che spesso sfociava nella nostalgia del passato regime. L'attore, peraltro, non aveva nascosto ai tempi del referendum del 1946 le sue simpatie monarchiche, coerentemente alle origini nobiliari che gli erano state riconosciute legalmente in più processi. Sempre più si andava precisando una sorta di schizofrenia tra l'immagine pubblica di Totò, attore comico di vena anarcoide, e il principe Antonio De Curtis, che, smessi i panni dell'attore, era un cittadino ricco e ossequiente, riservatissimo, compassato, iscritto, come si scoprì alla sua morte, alla massoneria.
Nel 1947, per utilizzare scenografie e costumi di un melodrammatico Fiacre 13 (1948) di Raoul André e Mario Mattoli, quest'ultimo impiegò Totò (con Carlo Campanini come spalla) in un film dalla sceneggiatura raffazzonata ma piena di incongrui riferimenti satirici alla realtà italiana del dopoguerra, I due orfanelli. Il successo fu clamoroso e Totò diventò in breve tempo il divo numero uno della cinematografia italiana. A quel film seguirono Fifa e arena e Totò al giro d'Italia, entrambi del 1948 e diretti da Mattoli, Totò cerca casa di Steno e Monicelli, Totò le Mokò di Bragaglia, L'imperatore di Capri di Luigi Comencini, tutti del 1949, Totò cerca moglie (1950) di Bragaglia, Tototarzan e Totò sceicco, entrambi del 1950, di Mattoli, e via via decine di altri. Vituperati dalla critica, essi fecero di Totò un personaggio amatissimo da un pubblico popolare, che vi scopriva l'irruenza primigenia della maschera, ma anche la propria fame e ansia di riconoscimento, in un rapporto immediato con le proprie frustrazioni. In essi Totò riprendeva sketch, macchiette, canzoni, assolo del suo teatro, assistito da sceneggiatori e registi che si limitavano a offrirgli canovacci sui cui potesse intervenire con le sue doti di improvvisazione, e da spalle di provata esperienza teatrale, in grado di seguirlo e dargli la battuta: Carlo Campanini, il fedele Castellani, Alda Mangini, Giacomo Furia, Aroldo Tieri, Gianni Agus, Guglielmo Inglese, Luigi Pavese, e più tardi Vittorio De Sica, Aldo Fabrizi, Macario, Dante Maggio, Eduardo Passarelli, Clelia Matania, Dolores Palumbo, Titina De Filippo, Enzo Turco, Carlo Croccolo, Tina Pica, Paolo Stoppa, Gino Cervi e soprattutto Peppino De Filippo (con cui diede più volte vita a una coppia esilarante, come in Totò, Peppino… e la malafemmina, 1956, di Camillo Mastrocinque).
"Da allora e sino al 1956-57 almeno un film di Totò è sempre compreso nell'elenco dei primi dieci classificati stagione per stagione", scrisse V. Spinazzola sulla rivista "Ferrania" nel 1964. "Nei circa quaranta film di questo periodo, Totò è un povero diavolo a metà ingenuamente sprovveduto a metà furbescamente sagace, aspirante alla bella vita e condannato a vivere di espedienti, smanioso di imporre la sua autorità e sempre tiranneggiato, beffato, incapace di ottenere rispetto […] Sotto i cieli più diversi, nelle situazioni più impensate il personaggio è sempre animato da un'inconfondibile carica qualunquisticamente anarchica, tanto sfrenata nelle intenzioni quanto velleitaria e grottesca nei fatti".
Nei vent'anni prima della morte, Totò lavorò incessantemente per il cinema, per lo più in questo tipo di film e in ruoli assai simili. Vi furono tuttavia alcune eccezioni. Se Totò cerca casa trasformava in farsa uno spunto tipico del cinema neorealista, e se in Yvonne la Nuit (1949) di Giuseppe Amato il suo personaggio si era già fatto più patetico che comico, in Napoli milionaria (1950) fu al fianco di Eduardo De Filippo nell'adattamento cinematografico che questi diresse della sua celebre commedia sugli effetti della guerra a Napoli; in Guardie e ladri fu un eccellente ladro contrapposto alla guardia interpretata da Fabrizi in una commedia dolceamara di impronta nettamente neorealista; in L'uomo, la bestia e la virtù (1953) di Steno interpretò il testo pirandelliano al fianco di Orson Welles; in Totò e Carolina (1955) di Monicelli, su soggetto di Ennio Flaiano, fu un umanissimo carabiniere incaricato di riportare al paese una giovane prostituta, e in Dov'è la libertà…? (1954) di Roberto Rossellini un carcerato che, ottenuta la libertà, scopre l'orrore della vita quotidiana nella Roma postbellica e torna in carcere con un'evasione alla rovescia. Il suo film di maggiore successo fu però, in quegli anni, Totò a colori, primo film italiano girato a colori, che altro non era che un'antologia di suoi famosi sketch teatrali. In 47 morto che parla (1950) di Bragaglia, si era cimentato con Ettore Petrolini e Molière (L'avaro); in Totò e i re di Roma (1952) di Steno e Monicelli, con due racconti di A.P. Čechov; in L'uomo, la bestia e la virtù e in La patente di Luigi Zampa, episodio del film collettivo Questa è la vita (1954), con L. Pirandello; in Sette ore di guai (1951) di Vittorio Metz e Marcello Marchesi e nei tre film di Mattoli Un turco napoletano (1953), Miseria e nobiltà e Il medico dei pazzi, entrambi del 1954, con il già frequentato E. Scarpetta. Ma anche questi soggetti erano piegati alle necessità della sua maschera, e ne derivavano a volte alcune inedite stridenze.
L'interpretazione più lodata del periodo resta, assieme a quella in Guardie e ladri, quella del 'pazzariello' in L'oro di Napoli (1954) di De Sica, su soggetto di Giuseppe Marotta adattato da Zavattini. La critica, che disprezzò in genere il Totò maschera 'volgare' più amato dal pubblico, lo apprezzò invece quando fu più personaggio e più umano, qualità espresse per esempio in Il coraggio (1955) di Domenico Paolella. La sua filosofia Totò la definì peraltro in Siamo uomini o caporali? (1955) di Mastrocinque, che firmò come autore del soggetto. In questo chapliniano resoconto delle disgrazie di un italiano prima, durante e dopo la guerra, le realtà umane si essenzializzano nella contrapposizione tra uomini e caporali, tra vittime e prepotenti, i quali ultimi (tutti impersonati da Paolo Stoppa), si presentano volta a volta nelle vesti di un milite fascista, del direttore di un lager, di un ufficiale americano, di un direttore di giornale, di un industriale. Che questa primaria distinzione e filosofia fosse per Totò radicato convincimento lo dimostra la sua presenza al fondo di certe sue espressioni meno legate al mestiere d'attore, come in alcune poesie dialettali ('A livella), o in alcune canzoni - qui, soprattutto in rapporto alle donne (Malafemmina) - o amore nel volume autobiografico Siamo uomini o caporali? (1952) scritto in collaborazione con A. Ferraù, ed E. Passarelli, che precedette la realizzazione dell'omonimo film.
La stampa si occupò spesso in quegli anni dei suoi molti amori, e in particolare di quello che lo legò dal 1952 a Franca Faldini, giovane attrice reduce da una esperienza di starlette a Hollywood, che gli fu fedele compagna sino alla morte. Si parlò molto, nel 1954, della gravidanza extramatrimoniale della Faldini, conclusasi dolorosamente con la morte del neonato. Sul finire del 1956 l'attore decise di tornare al teatro con una nuova rivista, A prescindere, di Nelli e Mangini, ottenendo un moderato successo. Durante la tournée venne colpito da broncopolmonite virale e, a Palermo, da un abbassamento della vista in scena (i suoi occhi erano già stati colpiti durante la lavorazione di Totò a colori, per le fortissime lampade utilizzate). Per oltre un anno restò completamente cieco, e quando tornò al cinema nel 1958 il suo fisico era duramente provato e la vista irrimediabilmente ferita. Continuò tuttavia a lavorare indefessamente in film di buon livello, quali I soliti ignoti (1958) di Monicelli, Arrangiatevi! (1959) di Mauro Bolognini, Risate di gioia (1960) di Monicelli, che lo vide di nuovo a fianco della Magnani, La mandragola (1965) di Alberto Lattuada, ma soprattutto, anche se la sua presa sul pubblico era calata, in piccole opere - spesso più che mediocri - costruite appositamente su di lui e nelle quali il suo estro comico impareggiabile continuò a rifulgere. In particolare: Letto a tre piazze (1960) di Steno, Totò, Peppino… e la dolce vita (1961) di Sergio Corbucci, Tototruffa '62 (1961) di Mastrocinque, Totò diabolicus (1962) di Steno, Che fine ha fatto Totò Baby? (1964) di Ottavio Alessi. Nei due ultimi espresse una vena macabra e mortuaria già affiorata in alcuni film precedenti, in particolare in La patente.
Federico Fellini aveva pensato di farne uno dei protagonisti del suo Il viaggio di G. Mastorna, Bolognini di un adattamento di I fratelli Cuccoli di A. Palazzeschi, e prima ancora Luchino Visconti aveva scritto per lui il soggetto di Vita di Petito (il grande Pulcinella dell'Ottocento) assieme a Suso Cecchi D'Amico: tutti film che per vari motivi non vennero realizzati. Lo stesso Totò aveva proposto a più produttori, senza esito, un film muto da lui ideato e interpretato, nell'intento di conquistare il pubblico, straniero, che le difficoltà di doppiaggio gli avevano sempre allontanato (e forse il film avrebbe permesso la liberazione dell'essenza linguistica di Totò - quella di grande mimo -, sempre frenata da esigenze di copione, dalla subalternità alla parola e al parlato e, in fondo, dalla cultura dell'epoca e dalla sua stessa carriera). Fu Pasolini a utilizzarlo genialmente negli ultimi anni della sua vita, in Uccellacci e uccellini, in La Terra vista dalla Luna, episodio del film collettivo Le streghe (1967), e in Che cosa sono le nuvole?, episodio del film collettivo Capriccio all'italiana (1968), rispettando le sue caratteristiche ma inserendole in personalissimi apologhi su storia e natura, mondo sviluppato e mondo del sottosviluppo, crisi del marxismo e fine delle ideologie.
La vita privata dell'attore, assistito da Franca Faldini, dal cugino e segretario Eduardo Clemente e dall'autista Carlo Cafiero, si limitava ormai a sporadiche apparizioni in pubblico e a un'instancabile attività di benefattore, al cui interno fece spicco la fondazione di un ospizio per cani randagi. I suoi guadagni non erano eccelsi: aveva sempre preteso poco dai produttori e dilapidato i suoi proventi. Nel 1967 accettò di partecipare a una serie televisiva, Tutto Totò, che ripropose i suoi sketch più noti ma con scarsa originalità e in cui l'attore appariva provato. Meditava di tornare al teatro ma, sul set di Padre di famiglia di Nanni Loy, le sue condizioni fisiche si aggravarono (lo sostituì Ugo Tognazzi). Morì a Roma, assistito dalla Faldini. Fu sepolto a Napoli, nella cappella di famiglia che aveva fatto costruire nel cimitero del Pianto a Poggioreale, dopo un funerale nella chiesa del Carmine cui prese parte un'immensa folla.”
(Goffredo Fofi - Enciclopedia del Cinema, 2004, in www.treccani.it)
Una poesia al giorno
She answered, di Zeb-un-Nissa
I will not lift my veil, -
For, if I did, who knows?
The bulbul might forget the rose,
The Brahman worshipper
Adoring Lakshmi's grace
Might turn, forsaking her,
To see my face;
My beauty might prevail.
Think how within the flower
Hidden as in a bower
Her fragrant soul must be,
And none can look on it;
So me the world can see
Only within the verses I have writ -
I will not lift the veil.
Lei rispose (traduzione di Ugo Brusaporco)
Non alzerò il mio velo, -
Perché, se lo facessi, chi lo sa?
Il bulbul potrebbe dimenticare la rosa,
L'adoratore del Brahma
Adorando la grazia di Lakshmi
Potrebbe voltarsi, abbandonandola,
Per vedere il mio viso;
La mia bellezza potrebbe prevalere.
Pensa a come all'interno del fiore
Nascosto come in una pergola
La sua anima profumata deve essere,
E nessuno può guardarlo;
Così il mondo mi può vedere
Solo nei versi che ho scritto -
Non alzerò il velo.
“Zeb-un-Nissa (in persiano: زیب النساء مخفی, traslitterato anche come Zīb al-nisā, Zebunnisa, Zebunniso, Zebunnissa, Zebunisa, Zeb al-Nissa; Daulatabad, 15 febbraio 1638 - Delhi, 26 maggio 1702) è stata una principessa mogul e la primogenita dell'imperatore Aurangzeb e della sua consorte principale Dilras Banu Begum. Fu anche una poetessa che scriveva sotto lo pseudonimo di Makhfi (مخفی, «nascosto»). Imprigionata da suo padre negli ultimi 20 anni della sua vita nel forte Salimgarh, Delhi, la principessa Zeb-un-Nissa è ricordata come una poetessa e i suoi scritti sono stati raccolti postumi come Diwan-i-Makhfi.
Zeb-un-Nissa («ornamento del genere femminile»), la figlia maggiore del principe Muhi-ud-Din (il futuro imperatore Aurangzeb), nacque il 15 febbraio 1638 a Daulatabad, Deccan, esattamente nove mesi dopo il matrimonio dei suoi genitori. Sua madre, Dilras Banu Begum, era la prima moglie e consorte principale di Aurangzeb, ed era una principessa dell'importante dinastia safavide, la dinastia regnante dell'Iran (Persia). Zeb-un-Nissa era la figlia prediletta di suo padre. Aveva altre quattro sorelle più giovani: Zeenat-un-Nissa, Zubdat-un-Nissa, Badr-un-Nissa e Mehr-un-Nissa.
Aurangzeb incaricò Hafiza Mariam, una delle donne della corte, dell'educazione di Zeb-un-Nissa. Zeb-un-Nissa memorizzò il Corano in tre anni e diventò un'hafiza all'età di sette anni. Questa occasione fu celebrata dal padre con una grande festa e con un giorno festivo. La principessa ricevette anche una ricompensa di 30000 pezzi d'oro dal padre. Aurangzeb pagò la principesca somma di 30000 pezzi d'oro all'ustani bi per aver istruito la sua figlia.
Zeb-un-Nissa imparò poi le scienze del tempo con Mohammad Saeed Ashraf Mazandarani, che era anche un grande poeta persiano. Studiò filosofia, matematica, astronomia, letteratura e padroneggiava il persiano, l'arabo e l'urdu. Aveva anche una buona reputazione in calligrafia. La sua biblioteca superava tutte le altre collezioni private e impiegava molti studiosi stipendiati per produrre opere letterarie o per copiare manoscritti per lei. La sua biblioteca era fornita di opere letterarie su ogni argomento, come legge, letteratura, storia e teologia.
Zeb-un-Nissa aveva fama di persona di buon cuore, che aiutava le persone bisognose come vedove e orfani. Inoltre ogni anno inviava pellegrini hajj alla Mecca e Medina. Si interessò anche alla musica e si diceva che fosse la migliore cantante tra le donne del suo tempo.
Per quanto riguarda il suo aspetto, «... è descritta come alta e snella, il suo viso rotondo e di colore chiaro, con due nei, o macchie di bellezza, sulla guancia sinistra. I suoi occhi e i capelli abbondanti erano molto neri, e aveva labbra sottili e denti piccoli. Nel Museo di Lahore c'è un ritratto contemporaneo, che corrisponde a questa descrizione... Nel vestire era semplice e austera; in età avanzata indossava sempre il bianco, e il suo unico ornamento era un filo di perle al collo.» Anche nell'abbigliamento è riportato un suo contributo creativo. «Zeb-un-Nissa ha inventato un indumento femminile noto come Angya Kurti. Questa era una forma modificata dell'abito delle donne del Turkestan. La modifica fu fatta per soddisfare le condizioni indiane».
Zeb-un-Nissa visse in un periodo in cui molti grandi poeti erano all'apice della loro reputazione; per esempio Mawlana Abdul Qader Bedil, Kalim Kashani, Saa'eb Tabrizi e Ghani Kashmiri. C'è una notevole influenza dello stile di Hafez Sherazi sulla poesia di Zeb-un-Nissa. Tuttavia, è considerata uno dei poeti della scuola indiana di poesia in persiano. «Zebunnisa è stata addestrata nello studio serio della dottrina religiosa e in questioni di fede, ed era conosciuta come un'eccellente studiosa in diverse aree accademiche e come figura letteraria di una certa fama. Cantava bene e componeva canzoni; creò molti dei giardini della sua epoca.»
Zeb-un-Nissa scelse "Makhfi" (che significa «Nascosto» in persiano) come suo pseudonimo per firmare le sue poesie. Oltre al suo libro di poesie o raccolta di poesie, chiamato Diwan, che contiene circa 5000 versi, scrisse anche i seguenti libri: Monis-ul-Roh, Zeb-ul Monsha'at e Zeb-ul-Tafasir . In Makhzan-ul Ghaib, l'autore scrive che il libro poetico di Zeb-un-Nissa conteneva 15000 versi.
Quando Aurangzeb divenne imperatore dopo Shah Jahan, Zeb-un-Nissa aveva 21 anni. Aurangzeb scoprì il talento e le capacità di sua figlia e iniziò a discutere con lei gli affari politici del suo impero, ascoltando le sue opinioni. È stato menzionato in alcuni libri che Aurangzeb inviava tutti i principi reali per il ricevimento di Zeb-un-Nisa ogni volta che entrava a corte.
Zeb-un-Nissa non si sposò e rimase nubile per tutta la vita, nonostante avesse molti pretendenti. Ciò avvenne anche col sorgere di pettegolezzi speculativi su amanti segreti e incontri di palazzo.
Suo nonno, l'imperatore Shah Jahan, l'aveva promessa in sposa al suo primo cugino, il principe Sulaiman Shikoh, il figlio maggiore di suo zio paterno, il principe ereditario Dara Shikoh. Shah Jahan intendeva che lei diventasse una futura imperatrice mughal poiché Sulaiman era l'erede di Dara Shikoh, che era il successivo in linea per la successione al trono dopo Shah Jahan. Il matrimonio sarebbe stato un connubio perfetto, tuttavia non ebbe luogo, a causa della riluttanza di Aurangzeb, che disprezzava suo fratello maggiore. Anche il re dell'Iran, il figlio di Shah Abbas II, Mirza Farukh, voleva sposarla. Le pervennero anche molte altre proposte, ma pretese che prima della fissazione del matrimonio avrebbe visto i principi.
In alcuni libri è stato scritto che c'era una storia d'amore segreta tra Zeb-un-Nissa e Aqil Khan Razi, poeta e governatore di Lahore. Tuttavia, altri non sono d'accordo con questa ipotesi. Ad esempio, nel suo libro poetico (Diwan), alcuni sostengono che non è possibile trovare un singolo ghazal che supporti questo punto e che tutte le sue poesie sono basate sul concetto sufi dell'Amore di Dio.
Secondo alcune fonti, gli scandali "disumanizzanti" (creati e/o scritti da alcuni stranieri) riguardanti la vita delle signore mogul non erano rari durante l'era post-rinascimentale. Ad esempio, un'affermazione quale «Un sordido episodio della relazione carnale [di Zeb-un-Nissa] con Aqil Khan Razi e la sua morte all'interno di un calderone su un fuoco ardente sotto di esso» ha avuto popolarità. Tuttavia, altre fonti affermano che Razi visse a lungo (come funzionario del governo) e che perì di morte naturale.
Ci sono più resoconti contrastanti che offrono spiegazioni per le circostanze che alla fine hanno portato alla sua prigionia a Salimgarh Fort, Delhi, ai margini di Shahjahanabad (l'attuale Antica Delhi). Nel 1662, quando Aurangzeb si ammalò e i suoi medici prescrissero un cambio d'ambiente, portò con sé la sua famiglia e la corte a Lahore. A quel tempo Akil Khan, il figlio del suo visir, era governatore di quella città. Nel periodo successivo, Akil Kahn e Zeb-un-Nissa presumibilmente ebbero una relazione breve ma fallita, dopodiché Auranzeb iniziò a diffidare di lei e in seguito la imprigionò.
Altre teorie suggeriscono che fosse imprigionata per il fatto di essere una poetessa e una musicista (entrambi anatemi per il modo di vivere e di pensare austero, più ortodosso e fondamentalista, di Aurangzeb).
Un'altra spiegazione indica la sua corrispondenza con il fratello minore, Muhammad Akbar. Sostenne il giovane principe nell'inevitabile conflitto di successione in corso, e si scoprì che gli aveva scritto durante la ribellione del 1681 d.C. (nel corso della quale aveva pubblicamente accusato Aurangzeb di trasgressioni contro la legge islamica). La sua punizione fu che la sua ricchezza accumulata fosse confiscata, la sua pensione annuale di 4 lakh annullata e lei fu tenuta prigioniera a Salimgarh fino alla sua morte.
Qui, dopo 20 anni di prigionia, Zeb-un-Nissa morì dopo sette giorni di malattia ancora prigioniera a Shahjahanabad mentre Aurangzeb era in viaggio nel Deccan. Fonti contrastanti riportano la data della sua morte alternativamente nel 1701 o nel 1702.
La sua tomba si trovava nel giardino dei "Trentamila alberi" (Tees Hazari), fuori dal Kashmiri Darwaza, la porta nord della città. Quando fu creata la linea ferroviaria a Delhi, la sua tomba con la sua lapide incisa fu spostata nel mausoleo di Akbar a Sikandra, Agra. C'è anche una tomba a Nawankot, Lahore, in Pakistan, ma la sua autenticità è dubbia.
Nel 1724, anni dopo la sua morte, i suoi scritti sparsi ed esistenti furono raccolti sotto il nome Diwan-i-Makhfi, letteralmente «il Libro del Nascosto». Conteneva quattrocentoventuno ghazal e diversi rubaʿi. Successivamente, nel 1730 altri ghazal furono aggiunti al manoscritto, anch'esso miniato. Il suo libro di poesie è stato stampato a Delhi nel 1929 e a Teheran nel 2001. I suoi manoscritti si trovano nella Biblioteca nazionale di Parigi, nella biblioteca del British Museum, nella biblioteca dell'Università di Tubinga in Germania e nella biblioteca di Mota in India. Il giardino che allestiva a Lahore e che è stato chiamato Chauburgi, o "dalle quattro torri", può ancora essere rintracciato da porzioni delle mura e dei cancelli rimanenti.”
(In wikipedia.org)
15 febbraio 1638 nasce Zeb-un-Nissa, principessa e poetessa indiana († 1702)
Un fatto al giorno
15 febbraio 1879: per i Diritti delle donne, il presidente statunitense Rutherford B. Hayes firma una legge che consente ai magistrati donna di discutere le cause davanti alla Corte Suprema.
“Il 15 febbraio 1879, il presidente Rutherford B. Hayes firmò una nuova legge che avrebbe ammesso le donne come membri degli avvocati della Corte Suprema e avrebbe permesso loro di presentare e discutere casi presso l'alta corte. La suffragetta, insegnante, avvocato e candidata alla presidenza Belva Lockwood ha sostenuto questa causa con il Congresso dopo che la Corte Suprema aveva stabilito che le donne - e in particolare la Lockwood - non potevano esercitare la legge prima di essa. Nel novembre 1876, il presidente della Corte Suprema Morrison Waite rispose bruscamente alla richiesta di Lockwood di essere ammessa nel gruppo della Corte Suprema: "Per la prassi della Corte dalla sua organizzazione al tempo presente, e per la corretta costruzione delle sue regole, nessuno tranne gli uomini è autorizzato a esercitare davanti ad essa come avvocati e consiglieri", ha detto Waite. Il presidente della Corte suprema ha aggiunto che la Corte non cambierà idea a meno che non sia "richiesto dalla legge".
Nella maggior parte dei casi, anche i tribunali statali non consentivano alle donne come avvocati di discutere casi a livello di tribunali statali. La Corte Suprema in un parere del 1872 nella causa Bradwell vs Illinois ha confermato la capacità dell'Illinois di bloccare le donne dal suo stato di avanzamento. Myra Bradwell, una neolaureata in giurisprudenza, aveva chiesto alla Corte Suprema di intervenire, citando la clausola sui privilegi o sulle immunità del 14° emendamento.
Il giudice Samuel Miller, citando i recenti casi dei mattatoi, ha affermato che la clausola non si applica alla capacità di uno stato di regolare la propria condotta. "Il diritto di controllare e regolare la concessione della licenza per esercitare la legge nei tribunali di uno stato è uno di quei poteri che non vengono trasferiti per la sua protezione al governo federale", ha detto Miller. L'opinione concordante del giudice Joseph Bradley è andata molto oltre, affermando che le donne non erano adatte a discutere casi della Corte Suprema o addirittura a diventare avvocati. "L'uomo è, o dovrebbe essere, il protettore e il difensore della donna. La naturale e giusta timidezza e delicatezza che appartiene al sesso femminile evidentemente lo rende inadatto per molte delle occupazioni della vita civile ", la Storia ha detto. “Il destino e la missione fondamentali della donna sono l'adempimento degli uffici nobili e benevoli di moglie e madre. Questa è la legge del Creatore ".
Imperterrita, Lockwood trascorse tre anni dopo il rifiuto del 1874 facendo pressioni sul Congresso e sull'ex presidente Ulysses Grant (che aveva presentato a Lockwood la sua laurea in legge) per una legge che avrebbe costretto la Corte Suprema a riconoscere il diritto delle donne di comparire davanti ad essa. Il presidente Hayes ha firmato "Un atto per alleviare alcune disabilità legali delle donne", in cui si legge che "qualsiasi donna che deve essere stata membro degli avvocati della corte suprema di qualsiasi Stato o territorio o della Corte Suprema del Distretto di Columbia per lo spazio di tre anni, e che ha mantenuto una buona reputazione dinanzi a tale tribunale, e che sua una persona di buon carattere morale, sarà ammessa, su sua richiesta e previa la presentazione dei dati richiesti, ad esercitare dinanzi alla Corte Suprema del Stati Uniti."
Lockwood aveva esercitato la professione legale nel Distretto di Columbia e si era qualificata come la prima donna avvocato a comparire davanti alla Corte, nel caso Kaiser v. Stickney del 1880. Lockwood ha parlato per circa 20 minuti in tribunale. Lockwood non ebbe la meglio in quel caso, ma vinse il suo secondo e ultimo caso alla Corte Suprema nel 1906 (si candidò anche per due volte alla presidenza del National Equal Rights Party.”
(Traduzione di Ugo Brusaporco da Scott Bomboy editor in chief of the National Constitution Center, in: constitutioncenter.org)
“Allo scoppio della Guerra Civile, nel 1861, Rutherford Birchard Hayes lasciò una brillante carriera di avvocato, tre figli piccoli e la amata moglie Lucy, incinta del quarto, per arruolarsi nell’esercito nordista. Non aveva alcuna esperienza militare ma quattro anni dopo, a fine guerra, era Generale, carico di gloria e di ferite. Rutherford Birchard Hayes fu uomo tutto di un pezzo, onesto e coraggioso, con una priorità assoluta: l’Unione. Entrò in politica con il Partito Repubblicano, prima deputato a Washington e poi Governatore dell’Ohio, lo Stato in cui era nato nel 1822.
Alle presidenziali del 1876, Hayes apparve il candidato ideale per rilanciare l’immagine dei repubblicani, dopo i tanti scandali del governo uscente del presidente Grant. Ebbe la nomina e si ritrovò protagonista delle elezioni più contestate della Storia americana. L’avversario, il democratico Tilden, prevalse di misura nel voto popolare ma non ottenne la decisiva maggioranza dei seggi degli Stati. In Florida, Louisiana e South Carolina, i tre Stati del Sud più turbolenti, si incrociarono accuse di brogli e vari conteggi. Fu una commissione parlamentare a sancire infine la vittoria di Hayes, 185 a 184, proprio a ridosso del 4 marzo 1877, l’Inauguration Day.
Per evitare imbarazzanti contestazioni pubbliche, il giuramento avvenne dentro la Casa Bianca. L’onesto Rutherford B. Hayes restò comunque bollato come «Rutherfraud» (Rutherfrode) dalla velenosa ironia degli avversari politici. Anche questo potrebbe aver pesato sul giudizio degli storici, poco benevolo verso un Presidente che pure fece del suo meglio per ampliare i diritti civili delle minoranze e che, per primo, evocò gli Stati Uniti come Nazione e non solo come un’unione di Stati.
La vita e la carriera di Hayes furono molto influenzate dalla moglie Lucy. Per lei fu coniata l’espressione First Lady. Era una donna molto colta per l’epoca, prima moglie di presidente ad essere laureata. Non a caso il Presidente Hayes promosse il diritto delle donne-avvocato a patrocinare in Corte Suprema.
Lucy era molto religiosa e portò l’austerità alla Casa Bianca: niente balli, fumo, carte e soprattutto niente alcol. Ironia della sorte, il padre di Hayes aveva una distilleria. Nel 1878, un cronista scrisse che alle feste presidenziali «scorreva limonata a fiumi, come champagne». La First Lady fu soprannominata «Lemonade Lucy».
Durante i quattro anni di Hayes la Casa Bianca registrò novità importanti. Arrivarono il telefono e la macchina da scrivere. Portato in dono dal console americano a Bangkok, arrivò anche un gatto siamese (il primo a mettere zampa negli Stati Uniti) che, con scarsa fantasia, fu chiamato Siam. Nel 1881, a fine mandato, Rutherford B. Hayes si ritirò a vita privata dedicandosi, specie dopo la morte di Lucy, a cause umanitarie. Morì d’infarto il 13 gennaio 1893, a 71 anni. Le sue ultime parole furono: «Vado da Lucy».
(Fernando Masullo in www.repubblica.it)
- Immagini: 1879, la Corte Suprema ammette i magistrati donna - Rai Teche
Una frase al giorno
“Accossì comme vaje tu si tenuto | c'a sto siecolo tristo | se nnorano li panne | e non se dice cchiù da dove viene, | si non come tu vai.”
(Come vai così sei considerato, perché in questo tristo secolo si onorano gli abiti e non si dice più da dove vieni, ma come tu vai)
(Giambattista Basile citato in Le Muse napolitane; Il Pentamerone, vol. II, Giuseppe-Maria Porcelli, Napoli, 1788)
“BASILE, Giambattista. - Nacque a Giugliano in Campania nel 1566, come risulta dal Libro I dei battezzati della parrocchia di S. Nicola in cui è riportata la data del 15 febbraio di quell'anno, sebbene Benedetto Croce ne collochi i natali a Napoli nel 1575. I primi anni della sua vita sono oscuri. Raggiunta la giovinezza, lasciò il suo luogo natale probabilmente per motivi economici, peregrinando in Italia per un numero imprecisato di anni. A Venezia si arruolò soldato ai servigi della Serenissima e fu inviato insieme con il suo reggimento nell'isola di Candia, allora minacciata dai Turchi. Nella colonia veneta di questa città, ricca di famiglie illustri e facoltose, il B. trovò modo di far apprezzare per la prima volta le sue qualità letterarie e fu accolto nell'Accademia degli Stravaganti, fondata da Andrea Cornaro. Nell'estate del 1607 partecipò a una campagna navale della Repubblica di Venezia, servendo su una delle navi della flotta comandata da Giovanni Bembo. Quando la flotta si sciolse, il B., compiuti i suoi doveri nei confronti della Repubblica, decise di rientrare nella città natale (1608); da lì fu attirato a Napoli nell'orbita della sorella Adriana, divenuta nel frattempo famosissima cantatrice, e in quegli anni ospite onorata e ammirata presso la corte di Luigi Carafa, principe di Stigliano. Dalla sorella e dal marito di lei, Muzio Baroni, gentiluomo calabrese, il B. ricevette una protezione estremamente cordiale e costante, che si perpetuerà sin dopo la morte, attraverso testimonianze di affetto e di riverenza.
Quando Adriana si trasferì a Mantova presso il duca Vincenzo Gonzaga, fece in modo che di lì a qualche anno il fratello la seguisse, rendendolo partecipe degli alti onori di cui era gratificata. Ma il soggiorno del B. a Mantova durò pochi mesi fra il 1612 e il 1613: il suo rapido ritorno a Napoli fu forse dovuto questa volta alle sue condizioni di salute.
Negli anni che vanno dal 1608 al 1613 il B. si era intanto creato per suo conto una piccola ma solida fama di poeta. La sua prima produzione in lingua è rappresentata dal poemetto Il pianto della Vergine (imitazione delle Lagrime di S. Pietro del Tansillo), apparso a Napoli nel 1608. Seguì un volumetto di Madriali et ode (Napoli 1609), quasi tutti di argomento celebrativo ed encomiastico. Poi, Le avventurose disavventure (Napoli 1611), favola marittima, in cui i vecchi schemi della favola pastorale e boschereccia vengono allargati a motivi e ambienti marinari, secondo un modello già entrato nella tradizione, particolarmente a Napoli. Del 1612 sono le Egloghe amorose e lugubri e la Venere addolorata, dramma per musica in cinque atti (ambedue stampate a Napoli). Nel 1613, a Mantova, il B. ripubblicò tutte Le opere poetiche, fin allora apparse, aggiungendo ai Madriali et ode una terza parte, dedicata al Gonzaga.
La poesia in lingua è trattata dal B. con un'integrale adesione ai modi della lirica letteraria. Se si escludono Le avventurose disavventure, che, pur nell'imitazione, riescono ad esprimere alcunché di fresco e di vivace, si potrebbe dire che il rispetto delle formule, delle regole e dei generi sfiora in questo primo B. il pedantesco e lo scolastico. Gli è che in lui, più ancora che la ripresa di atteggiamenti marinistici ovvero prettamente barocchi, si manifesta durante questa fase la stanca continuazione di motivi tardo-rinascimentali, con particolare riferimento all'ambiente napoletano e meridionale (già è stato fatto il nome del Tansillo). Il legame con taluni aspetti della lirica cinquecentesca è testimoniato altresì dalle cure che egli dedicò all'edizione di testi noti e meno noti di quel periodo: Rime di M. Pietro Bembo degli errori di tutte le altre impressioni purgate, aggiuntevi le osservazioni, le varietà dei testi e la tavola di tutte le desinenze delle rime, del cavalier G. B. B., Napoli 1616; Rime di M. Giovanni della Casa, riscontrate coi migliori originali e ricorrette, ibid. 1617; Osservationi intorno alle rime del Bembo e del Casa con la tavola delle desinenze delle rime e con la varietà dei testi nelle rime del Bembo, ibid. 1618. Al B. si deve inoltre la prima edizione delle Rime di Galeazzo di Tarsia, ibid. 1617.
Intorno al 1618 la produzione in lingua del B., fin qui molto copiosa, s'impoverisce. Le sue cure si volgono verso nuovi interessi. Il B. pubblica ancora (Napoli 1617) la terza parte De' madriali et delle ode. Altre cose egli verrà presentando di tanto in tanto: ma si tratterà, generalmente, di componimenti d'occasione, oppure, più di rado, di opere d'ispirazione più chiaramente marinistica, che accompagnano parallelamente la creazione dialettale senza confondersi con essa.
A Napoli il B. riprese le sue funzioni di cortigiano e di amministratore, venendo incaricato ora dai viceré spagnoli ora dai signori del luogo di reggere questo o quel comune della provincia. Nel 1615 si trovava per svolgere un incarico del genere a Montemarano, in provincia di Avellino. Nel 1617 era in Zuncoli, al seguito del marchese di Trevico, Cecco di Loffredo. Nel 1618 entrò al servizio del principe Marino Caracciolo, che lo creò nel 1619, governatore di Avellino. Qui componeva, dedicandolo al suo signore, l'idillio L'Aretusa, imitazione dei consimili componimenti marinistici. L'anno successivo il B. scrisse e dedicò a Domizio Caracciolo, marchese di Bella, Il guerriero amante, che, in tratti più accesi e convulsi, sembra riprodurre la vicenda di una celeberrima storia d'amore. Nel 1621-22 fu governatore nelle terre di Lagolibero in Basilicata.
Con il ritorno della sorella Adriana a Napoli la situazione del B. migliorò ulteriormente. I Basile e i Baroni trovarono infatti generosa protezione presso Antonio Alvarez di Toledo, duca d'Alba, viceré di Napoli, dal quale il B. ricevette nel 1626 il governo della città di Aversa. A lui dedicò una raccolta di cinquanta delle sue Ode (Napoli 1627), in gran parte già apparse nelle stampe precedenti.
Negli ultimi anni di vita il B. fece parte della corte del duca d'Acerenza, Galeazzo Pinelli, che lo creò governatore di Giugliano. Si trovava in questa città, quando, nell'inverno 1631-32, Napoli e la provincia furono investite da un'epidemia dalla quale lui stesso fu contagiato. Morì il 23 febbraio 1632 e fu seppellito nella chiesa di S. Sofia di Giugliano. Aveva appartenuto, oltre che all'Accademia degli Stravaganti di Candia, a quelle napoletane degli Oziosi e degli Incauti.”
(Saggio completo di Alberto Asor Rosa - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 7, 1970, in www.treccani.it)
15 febbraio 1566 nasce Giambattista Basile, letterato e scrittore italiano (morto nel 1632)
Un brano musicale al giorno
Friedrich Ernst Fesca (1789-1826): Sinfonia nº 1 in Mi bemolle maggiore, Op.6 (1810-11)
- Andante - Allegro: 13:52
- Andante con moto: 8:21
- Minuetto - Allegro: 2:55
- Finale - Allegro: 7:05
Ndr Radiophilharmonie, direttore Frank Beermann.
“Frederic Ernst Fesca (Magdeburgo, 15 febbraio 1789 - 24 maggio 1826) violinista e compositore tedesco di musica strumentale.
Suo padre, Johann Peter August Fesca, era giudice del mercato di Magdenburgo e attivo nel settore musicale della città e dedicava parte del suo tempo alla pratica del violoncello e del pianoforte. Sua madre era una cantante che aveva studiato con Johann Adam Hiller e Marianne Podleska; era stata una cantante professionista in giovane età.
Friedrich ricevette la sua prima educazione musicale a Magdenburgo e completò gli studi a Lipsia sotto A.E. Müller. Quando aveva solo quattro anni, sapeva già eseguire pezzi di media difficoltà al pianoforte e iniziava lo studio del violino. All'età di quindici anni suonò davanti al pubblico in diversi concerti per violino, accolti con applausi generali, e ottenendo il posto di primo violino designato della Leipzig Gewandhaus Orchestra. Occupò questa posizione fino al 1806, quando divenne primo violino del duca Pietro I di Oldenburgo. Nel 1808 venne nominato violinista solista da Re Gerolamo della Vestfalia al Teatro di Stato di Kassel, e lì rimase fino alla fine della occupazione francese (1814), quando si recò a Vienna, e subito dopo a Karlsruhe, essendo stato nominato primo violino dal granduca di Baden.
La sua salute cagionevole gli impedì di godere dei numerosi e meritati trionfi dovuti alla sua arte, e nel 1826 morì di tubercolosi all'età di trentasette anni.
Suo figlio Alexander fu anche un buon compositore.
Come virtuoso, Fesca fu uno dei maggiori esponenti della scuola di violinismo tedesca, creata da Spohr e Joachim. Specialmente come leader di quartetto si dice non avesse rivali per la dignità classica e la semplicità di stile. Tra le sue composizioni, i suoi quartetti per strumenti ad arco e altri pezzi di musica da camera sono i più notevoli. Le sue tre sinfonie (No. 1 in Mi♭, Op. 6; No. 2 in Re, Op. 10; No. 3 in Re, Op. 13) assieme alla musica da camera si trovano elencati nel catalogo Augener dal 1861 Le sue due opere, Cantemira e Omar, ebbero scarso successo. Scrisse anche della musica sacra, alcune canzoni e musiche per quartetto vocale.”
(In wikipedia.org)
Ugo Brusaporco
Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.
INFORMAZIONI
Ugo Brusaporco
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