“L’amico del popolo”, 11 febbraio 2021

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno V. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

THAÏS (Italia, 1917), regia di Anton Giulio Bragaglia, Riccardo Cassano. Soggetto: Anton Giulio Bragaglia, Riccardo Cassano. Sceneggiatura: Anton Giulio Bragaglia, Riccardo Cassano. Casa di produzione: Novissima Film. Fotografia: Luigi Dell'Otti. Scenografia: Enrico Prampolini. Cast: Augusto Bandini, Oscar. Alberto Casanova, un avventore. Thaïs Galitzy, Vera Preobrajenska/Thaïs. Ileana Leonidoff, Bianca Stagno-Bellincioni. Dante Paletti, un avventore, Mario Parpagnoli, Conte di San Remo.

“La bellissima contessa russa Vera Preobrajenska, detta Nitchevo, è attiva in campo letterario con la pseudonimo di Thaïs. Trascura Oscar, che l'ama perdutamente, per inseguire uomini sposati, che seduce e trascina sull'orlo della rovina. Non riesce però ad irretire il conte di San Remo, e proprio per questo lo invita nella sua stranissima casa ornata da decorazioni geometriche. Il comportamento di Thaïs scatena la gelosia dell'amica Bianca, innamorata del conte, che si lancia in una disperata corsa a cavallo, a causa della quale trova la morte. Thaïs si sente responsabile della fine di Bianca ed entra in una stanza segreta della sua casa, che riempie di gas velenoso con l'intento di suicidarsi. All'ultimo ci ripensa, ma la stanza è ormai bloccata dalle inferriate. Thaïs non riesce più a fuggire e muore tra i tormenti."
 

Con Thaïs Bragaglia volle trasporre sullo schermo le idee futuriste, movimento che considerava con interesse il cinema, in quanto manifestazione artistica basata sulle "macchine" Già in precedenza Bragaglia aveva realizzato una mostra (1911) ed un libro (1912) sulla "fotodinamica futurista"; aveva inoltre stampato delle cartoline e tenuto delle conferenze in cui sosteneva che si era in presenza di un'arte nuova, la sola che poteva catturare la complessità del movimento ed il ritmo della realtà, anche se il gruppo milanese dei futuristi (Boccioni, Carrà, Balla, tra gli altri) contestò le sue posizioni. A seguito di quelle esperienze anche a distanza di anni egli rivendicò una priorità italiana rispetto alle avanguardie cinematografiche francesi e russe, che secondo alcuni si estende anche all'espressionismo tedesco.

Nel 1916 il gruppo futurista fiorentino aveva prodotto Vita futurista (film, oggi perduto, realizzato con fondi personali da Arnaldo Ginna, su incoraggiamento di Marinetti), la cui distribuzione era stata affidata, ma senza esito, allo stesso Bragaglia. Da questa esperienza era nato il Manifesto della Cinematografia futurista, pubblicato nel settembre del 1916, anticipando la cinematografia sperimentale europea degli anni successivi, francese e tedesca in particolare.

Emidio De Medio, un distributore cinematografico romano attento alle novità intellettuali, volle partecipare a queste iniziative, fondando una nuova società di produzione, la "Novissima Film", costituita il 1 luglio 1920 con un capitale di 3 milioni di lire, che rilevò i due teatri di posa della "De Medio e Cerrina" ubicati nei pressi della Appia nuova. La "Novissima" sottoscrisse un contratto che impegnava Bragaglia alla realizzazione di quattro pellicole. Il primo fu il cortometraggio Un dramma nell'Olimpo, mentre Thaïs fu il secondo della serie. Seguirono poi Il mio cadavere e Perfido incanto. Per le riprese venne utilizzato un teatro di posa che si trovava allora in una strada laterale della via Flaminia. Il film venne suddiviso in quattro atti dai titoli Thaïs incubo di eleganza ed ossessione dello stile, Il sogno della posa, La follia dell'immaginazione e Il delirio dell'originalità.

La sceneggiatura fu scritta da Bragaglia e Riccardo Cassano, un regista proveniente dalla Cines che, secondo alcuni, fu il vero regista del film, data l'impreparazione di Bragaglia nel campo della tecnica cinematografica). Le scenografie furono realizzate dal pittore Enrico Prampolini, anch'egli esponente dell'avanguardia, che delineò un «ambiente geometrico, astratto, decorativo, con spunti simbolistici anche molto pronunciati [e con] grandi occhi dipinti sulle pareti ed altri con grandi cerchi intersecati».

(In wikipedia.org)
 

"Nel clima culturale dei primi anni del '900, Anton Giulio Bragaglia (1890-1960) esordisce con le sue ricerche di visualizzazione del movimento pubblicate nel suo trattato tecnico-estetico Fotodinamismo (Nalato 1911-1913, Einaudi 1970-1980). Queste esperienze permettono a Bragaglia una "sapienza visuale" portante dei suoi successivi percorsi registici. Thaïs è l'opera prima cinematografica realizzata da Bragaglia. A tutt'oggi è la sola pellicola superstite del gruppo di film d'avanguardia cui appartiene con gli altri due lungometraggi Perfido incanto, Il mio cadavere e il cortometraggio Dramma nell'Olimpo.
Prodotte da Bragaglia tra il 1916 e il 1917 in questo anno le opere sono immesse nel normale circuito di distribuzione in Italia e all'estero. Si deve ad Henri Langlois la salvezza di questo documento culturale italiano, conservato alla Cinémathèque Française di Parigi dove ho potuto identificarlo dopo che nel corso di decenni si erano diffuse notizie errate sull'identità stessa dell'opera. L'edizione francese è intitolata Les Possédées mentre il titolo originale italiano - Thaïs - è legato al nome del personaggio protagonista.
Come una pièce teatrale il film è suddiviso in quattro atti connotati da una vistosa teatralità. La vicenda è una storia mondano-sentimentale con tragico epilogo. In opposizione al divismo allora imperante Bragaglia, per i ruoli femminili, sceglie due interpreti del tutto sconosciute. Alle scene veriste girate in esterni - lungo Tevere, Pincio, Villa Strohl Fern - si alternano interni eccentrici. Le ambientazioni contrastanti, dove agiscono Thaïs e Bianca, danno rilievo psicologico alle loro opposte personalità. La rappresentazione della crisi e suicidio di Thaïs si svolge nel susseguirsi di sequenze figurative dinamiche ossessive allucinate ad esprimere stati e vibrazioni dell'inconscio. L'opera sfugge ad una rigida classificazione estetica: anche i costumi, al di là di ogni epoca, sono una libera invenzione fantastica. E Thaïs, in parrucca settecentesca e costume tra Maria Stuarda e Pierrot, ironica e ambigua, se ne va in altalena tra Futurismo e Surrealismo, Astrattismo e Optical Art."

(Antonella Vigliani Bragaglia, Roma, luglio 2002)

 

Continuando ad ammirare l'attenzione di Antonella Vigliani Bragaglia nei confronti dell'opera di Anton Giulio, mi permetto di offrire un ulteriore contributo: "La validità estetica di Thaïs era tutta nella raffinatezza dei costumi e degli oggetti decorativi, a cui collaborò forse Giuseppina Pelonzi-Bragaglia, la moglie di Anton Giulio, e nelle scenografie di gusto secessionista, surreale e astratto di Prampolini… Il film non era futurista nel senso marinettiano del termine" (Giovanni Lista). Unica testimonianza sopravvissuta di un momento di grande fermento artistico-culturale Thaïs sottende sicuramente un'intenzione di ricerca. Solo che non pare farlo in modo esemplare. Non si ispira cioè ad una precisa poetica, ma raggiunge alte vette sperimentali in un impianto melodrammatico-decadente che occhieggia al classico (il mito della cortigiana Thaïs). Perché anche alcune delle notevoli intuizioni scenografiche di Prampolini (lo strepitoso finale con la trappola mortale dell'"aldilà misterioso") non risultano fuse e coerenti con l'insieme a tratti perfino naturalistico delle altre ambientazioni. Rimane il rammarico della perdita degli altri film (in primis Perfido incanto, 1918, sempre del duo Bragaglia-Cassano, ma anche dei film "ufficiali" del futurismo) che avrebbero potuto completare un quadro che risulta, invece, parziale e più documentabile attraverso dichiarazioni di intento che con la verifica contestuale. La visione della versione restaurata a colori di quanto rimane di Thaïs (poco più della metà) può essere l'occasione più propizia per allargare il dibattito sul ruolo di Bragaglia regista innovatore anche nel campo cinematografico.

(Carlo Montanaro in www.mymovies.it)

 

 

Un autore: Anton Giulio Bragaglia (Frosinone, 11 febbraio 1890 - Roma, 15 luglio 1960), regista teatrale e cinematografico, è stato un pioniere della fotografia futurista italiana e del cinema futurista. Artista versatile e intellettuale con ampi interessi, ha scritto di cinema, teatro e danza.

Fu il più celebre dei fratelli Bragaglia, ma, a differenza di Carlo Ludovico e di Arturo, militò più nel teatro che nel cinema. Accanto a un'esperienza di palcoscenico quasi quarantennale, che durò fino al momento della sua scomparsa, B. intraprese infatti un'attività cinematografica breve, ma sperimentale, che diede i suoi frutti tra la metà degli anni Dieci e l'inizio degli anni Trenta, e anticipò l'esperienza cinematografica espressionista tedesca nel rendere situazioni e ambienti fantastici e demoniaci.

Il padre Francesco, ingegnere, trasferì la famiglia da Frosinone a Roma dove, nel 1906, era stato assunto come direttore artistico della Cines; in tal modo i suoi tre figli (cui va aggiunto un quarto, Alberto, che però si occupò di pittura) entrarono precocemente in quel mondo del cinema, appena nato, in cui avrebbero svolto la loro attività come registi e come fotografi, campo, quello della fotografia, in cui furono pionieri e maestri.

A differenza dei fratelli, Anton Giulio, legato al movimento futurista, abbandonò però ben presto le sperimentazioni tecniche della fotografia per dedicarsi soprattutto all'approfondimento teorico. Fu così che nel 1911 nacque il progetto del 'fotodinamismo', ossia l'arte della fotografia in movimento, tentativo di liberare l'immagine fotografica dalla fissità dell'impressione istantanea della realtà, per ottenere invece una rappresentazione dinamica del reale trasmettendo all'osservatore la sensazione del movimento, analiticamente ricostruito attraverso la sua traiettoria (a questo tema B. dedicò il saggio Fotodinamismo futurista, 1911, rist. 1970).
Di matrice futurista, la fotodinamica di B. venne salutata come forma intermedia tra la fotografia e il cinema, e, di fatto, ispirò l'autore nelle sue realizzazioni cinematografiche Il mio cadavere e Thaïs, entrambi del 1917, e Perfido incanto del 1918. Opere, queste, che, prodotte dalla Novissima Film di E. De Medio, oltre ad avvalersi dell'interpretazione dell'attrice Thaïs Galitzky e della collaborazione scenografica di Enrico Prampolini, furono caratterizzate, per l'appunto, da alcuni giochi fotografici astrattisti e surreali. Questi film, la cui struttura risulta costruita da materiali che continuamente vengono scomposti e ricomposti e che sono caratterizzati da effetti ottici ottenuti con obiettivi prismatici e specchi concavi e convessi, sono considerati tra i primi d'avanguardia realizzati.

Dopo aver pubblicato i saggi Il film sonoro. Nuovi orizzonti della cinematografia (1929) ed Evoluzione del mimo (1930), in cui viene posto l'accento soprattutto sul confronto teorico tra cinema sonoro e teatro, B. girò, nel 1931, Vele ammainate, uno dei primi film sonori italiani, di cui all'epoca si elogiò sia l'elemento acustico sia quello fotografico, sia la scenografia di Gastone Medin sia l'interpretazione di Dria Paola, pur criticandone la generale frammentazione e assenza di compattezza, dovute, probabilmente, alle traversie produttive subite. Di ambientazione portuale, girato in interni, presso gli stabilimenti della Cines-Pittaluga di Roma, e in esterni, presso il porto di Savona, il film, tratto da un soggetto di Aldo Vergano, si avvalse della sceneggiatura di Carlo Ludovico Bragaglia, oltre che dell'assistenza alla regia di Ferdinando Maria Poggioli. Tra le tappe extracinematografiche, occorre ricordare che B. svolse un'intensa attività giornalistica e fu scrittore sagace, autore di numerosi articoli e saggi, molti dei quali dedicati all'archeologia, nonché di alcuni volumi sulla fotografia, sul cinema e sul teatro. Inoltre, dal 1918, fu promotore - assieme a Carlo Ludovico - della galleria d'avanguardia Casa d'arte Bragaglia, dove organizzò mostre e conferenze e di cui pubblicò il Bollettino delle attività (1921-1929). Nel 1921 fondò a Roma il Teatro degli indipendenti, di ispirazione sperimentale, che diresse, sempre aiutato dal fratello, fino al 1936. L'anno seguente assunse la direzione del nuovo Teatro delle arti, che mantenne fino al suo scioglimento nel 1943.
Come direttore artistico e come regista, proponendo un repertorio eclettico e innovativo (contemporaneo o poco frequentato), operò uno svecchiamento e un'apertura del teatro italiano ai modelli internazionali. Negli anni Trenta ricoprì alcuni incarichi ufficiali (consigliere presso la Corporazione dello spettacolo, segretario del Comitato nazionale scenotecnici e poi nell'ambito del Direttorio dei sindacati del teatro e del Sindacato nazionale registi e scenotecnici) e fu attratto nell'orbita del regime fascista, nei confronti del quale mantenne però sempre una certa indipendenza. Nello stesso periodo compì numerose tournée all'estero (in Brasile, Argentina e Uruguay). Dopo la guerra riprese la sua attività di regista solo occasionalmente, in particolare come regista lirico, alternandola a quella di studioso di tradizioni popolari. Allestì la sua ultima regia nel 1960 presso il Teatro dell'opera di Roma. L'anno successivo alla sua morte fu istituito nella capitale un Centro studi dedicato alla memoria di questo grande intellettuale e artista, dalla sfaccettata e ricca personalità.”

(Stefania Carpiceci - Enciclopedia del Cinema (2003) in www.treccani.it)

 

Una poesia al giorno

Pel battesimo di due paranze, di Gabriele D'Annunzio (Odi navali, 1893)

Sacerdote canuto da la fronte alta e serena,
dal braccio ancor possente,
tu uomo de la gleba come i padri tuoi, gagliardo
a la vanga e al bidente
come i padri, nutrito come i padri ne l’antica
fede di nostra gente;

tu rude agricoltore da le mani venerande
che su la terra arata
sparsero la semenza ed or l’ostia alzano al Dio
dei padri consacrata
ed or con sempre eguale gesto effondono il perdono
su l’anima prostrata;

tu uomo de la gleba, che in diritto solco il ferro
de l’aratro guidavi,
tu che il flutto sonoro de la messe a mietitura
godendo in cor varcavi,
tu le navi gemelle benedici, benedici
tu le novizie navi!

Benedici le navi sopra il dolce mar funesto,
sopra il bel mar natale;
per le prue rilucenti, dirizzate a la fortuna,
spargi l’acqua lustrale;
consacra nel tuo verbo a la pesca portentosa
la rete virginale!

Propria è l’ora al vóto, poi che il cielo alto silente
ode le tue parole;
e il mar limpido ai lidi, come un giovine che dorma,
ansa leggero, e il Sole
forse non mai dal sommo s’inchinò tanto benigno
su la terrena prole.

La montagna materna splende ai limiti del cielo
tutta cerula in vene
d’oro, cerchiata i fianchi da le selve ove la scure
butta per le carene.
Ecco il vento! Su l’acque desta innumeri sorrisi
il primo alito lene.

- Rosse latine vele, contro l’albero ancor chiuse,
apritevi lunanti
come la nova luna! E voi, donne, con effuse
voci levate i canti
de la duna! Selvagge muse, canti di fortuna
voi date ai naviganti!

Protendete le braccia verso il mar meraviglioso,
le forti nude braccia;
forti a trarre sul lido i rottami del maroso,
forti a segnar la traccia
nel duro tronco, forti ad oprar senza riposo:
protendete le braccia

nude cantando i canti de la gioia in cori alterni
al giustissimo Sole!
Propizia è l’ora; è dolce ogni vita; ed i Superni
odono le parole
umane. Alzate i canti de la gioia ai cieli eterni!
Nessuno oggi si duole.

 

Gabriele D'Annunzio, scrittore ((Pescara, 12 marzo 1863 - Gardone Riviera, 1 marzo 1938). Fu uno dei maggiori esponenti del decadentismo europeo. Dotato di una cultura molto vasta, mostrò un'inesauribile capacità di assimilare le nuove tendenze letterarie e filosofiche, rielaborandole con una raffinata tecnica di scrittura.

VITA
Era ancora convittore presso il collegio Cicognini di Prato quando esordì con Primo vere (1879), una raccolta di poesie pubblicata a spese del padre (Francesco Paolo Rapagnetta, che, adottato nel 1851 da una zia materna e dal marito di questa, Antonio D'A., ne aveva assunto il cognome, trasmettendolo poi ai figli), e positivamente recensita da G. Chiarini. Trasferitosi a Roma nel 1881 per gli studî universitari, che non avrebbe mai condotto a termine, fu accolto con simpatia negli ambienti giornalistici e letterari e cominciò a collaborare alla Cronaca bizantina, la rivista di A. Sommaruga, restando affascinato dai metodi modernamente spregiudicati dell'editore, cui affidò la stampa (1882) di Canto novo e delle novelle di Terra vergine.
Nel successivo periodo di dissipatezze ("La giovinezza mia barbara e forte In braccio de le femmine si uccide"), celebrato dall'audace Intermezzo di rime (1883), si unì in matrimonio con la duchessina Maria Hardouin di Gallese (dal matrimonio nasceranno i figli Mario, Gabriellino e Veniero), trovò un impiego stabile come redattore della Tribuna, firmando con varî pseudonimi cronache mondane e culturali, e pubblicò le raccolte di novelle Il libro delle vergini (1884) e San Pantaleone (1886; insieme con altre, una scelta di novelle da questi due libri sarà ripubblicata in Novelle della Pescara, 1902).
All'esperienza della più elegante società romana e al nuovo grande amore per Elvira (o Barbara, come preferì chiamarla) Fraternali Leoni, si ispirò il romanzo Il piacere, composto negli ultimi mesi del 1888 e pubblicato l'anno successivo dall'editore Treves di Milano.
Dopo la parentesi fastidiosa del servizio militare (1889-90), le ristrettezze economiche lo indussero a spostarsi a Napoli (1891), dove intrecciò una nuova relazione con la nobildonna siciliana Maria Gravina Cruyllas, dalla quale nacquero i figli Renata e Gabriele Dante. A Napoli collaborò tra l'altro al Mattino, si interessò alle opere di Nietzsche e Wagner, e pubblicò a puntate (1891-92) il romanzo L'innocente, apparso poi in volume presso l'editore Bideri (1892) e subito tradotto in Francia; insieme con il racconto lungo Giovanni Episcopo, di poco precedente (1891; in vol. 1892), esso risente l'influsso della narrativa russa. L'influenza della lettura di Nietzsche si fa invece sentire in modo determinante già nel Trionfo della morte (1894), e all'insegna del superomismo si svolgerà la successiva produzione dannunziana, a partire da Le vergini delle rocce (1896).
Nel 1895 D'A. partecipò a una crociera in Grecia, che avrebbe poi trasfigurato nel primo libro delle Laudi. Intanto le suggestioni della crociera rivissero in un dramma, La città morta (1896; pubbl. 1898), grazie anche all'incoraggiamento a scrivere per il teatro che a D'A. veniva da Eleonora Duse, la più grande attrice del tempo, con la quale aveva ormai intrecciato una relazione (e per la quale avrebbe scritto poi Sogno d'un mattino di primavera, 1897, La Gioconda, 1899, e La gloria, 1899).
Nel 1897 fu eletto deputato nel collegio di Ortona a Mare, ma, sia per la scarsa partecipazione ai lavori parlamentari sia per il clamoroso passaggio dai banchi della destra a quelli dell'estrema sinistra ("vado verso la Vita"), uscì sconfitto dalle successive consultazioni elettorali. La sua preoccupazione dominante, anche per le solite difficoltà economiche ora accentuate dal principesco tenore di vita nella villa detta la "Capponcina" presso Settignano, era piuttosto la produzione letteraria. Furono così composti, in un breve giro di anni, quelli che vengono considerati comunemente i capolavori dannunziani: il romanzo Il fuoco (1900); la tragedia Francesca da Rimini (1902); i primi tre libri delle Laudi: Maia (1903), Elettra e Alcyone (1904); la tragedia pastorale La figlia di Iorio (1904).
Nonostante qualche clamoroso insuccesso e la fine della relazione con la Duse, prevalentemente teatrali furono gli interessi del periodo successivo (La fiaccola sotto il moggio, 1905; Più che l'amore, 1907; La nave, 1908; Fedra, 1909), che pure culminò nell'ultimo grande romanzo dannunziano, ispirato a una drammatica vicenda amorosa, Forse che sì forse che no (1910).
Nel 1910, per sfuggire ai creditori, D'A. fu costretto all'esilio in Francia, dove rinverdì un prestigio che risaliva agli anni Novanta e alle traduzioni dell'Innocente e del Piacere, scrivendo in francese antico Le martyre de saint Sébastien (1911), che fu musicato da C. Debussy e interpretato dalla danzatrice I. Rubinstein, e La Pisanelle ou La mort parfumée (1913). In traduzione francese, col titolo Le chèvrefeuille, veniva rappresentata nel 1913 la tragedia Il ferro, da lui composta in italiano come la precedente Parisina del 1912.
In questi anni lavorò anche per il cinema, contribuendo non poco, con le sue sonanti didascalie, al successo del film Cabiria (1914) di Piero Fosco (G. Pastrone). Nel 1915, invitato a Quarto per inaugurare il monumento ai Mille, rientrò in Italia e avviò una personale, infiammatissima campagna interventista, in aperta polemica con gli atteggiamenti del governo. Dopo la dichiarazione di guerra, si arruolò come volontario e si distinse in una serie di imprese militari, come la Beffa di Buccari o il volo su Vienna, pur essendo rimasto gravemente ferito in un incidente aviatorio in seguito al quale perse un occhio. Nella totale cecità postoperatoria, aveva scritto (1916) il Notturno su sottili strisce di carta che la figlia Renata provvedeva a decifrare e ricopiare.
Eroe pluridecorato e figura ormai leggendaria presso i reduci, si fece interprete, dopo la fine della guerra, della loro indignazione per la "vittoria mutilata" e guidò la "marcia di Ronchi" e l'occupazione di Fiume, che tenne, in qualità di "Reggente", dal settembre 1919 al dicembre 1920, quando fu costretto militarmente a rinunciare alla sua impresa (a testimonianza degli ambiziosi programmi politici e sociali del D'A. fiumano resta la Carta del Carnaro a sfondo corporativista, che, redatta da A. De Ambris, ebbe da D'A. la forma letteraria definitiva). Ritiratosi nella villa Cargnacco, in quello che poi chiamerà il "Vittoriale degli Italiani", sul Lago di Garda, fu colto alla sprovvista dal colpo di mano di Mussolini, che aveva appoggiato l'impresa fiumana e a essa probabilmente si era ispirato. Con il dittatore fascista intrattenne un rapporto difficile, apparentemente amichevole e di reciproca ammirazione, ma in realtà minato dal sospetto, vedendosi quindi confinato nella dorata prigione del Vittoriale e dissuaso da qualsiasi interferenza politica, in cambio del massimo riguardo formale e di non poche concessioni (nel 1924 fu creato principe di Montenevoso; poté sovrintendere all'edizione nazionale delle sue opere; nel 1937 divenne presidente dell'Accademia d'Italia).

OPERE
Tra i molti generi letterari da lui tentati, D'A. predilesse la poesia lirica: essa anzi fu l'asse intorno al quale tutte le altre forme espressive ruotarono e si organizzarono, allo stesso modo in cui intorno alla letteratura ruotarono i varî aspetti della sua personalità poliedrica. Poetici sono del resto i suoi esordî, con due raccolte addirittura passate in proverbio: Primo vere (1879), per la straordinaria precocità, e Canto novo (1882), per l'invenzione di una inconfondibile cifra personale, pur a ridosso e quasi come approfondimento delle originarie suggestioni carducciane. Del classicismo carducciano, e in particolare delle Odi barbare, rimane virtualmente tributaria una poesia d'ora in poi sempre giocata sulla consapevolezza della propria inafferrabilità di Ideale e sulla conseguente inevitabilità dell'artificio: tutta barbara, congetturale e artificiosa, come congetturale e artificioso era stato il tentativo delle Odi carducciane di riprodurre i metri classici nella versificazione italiana. La stessa scoperta sensuale della natura, che rappresenta la novità più caratteristica di Canto novo e accompagnerà D'A. in tutti gli esperimenti successivi, coincide con un artificio, sullo sfondo di un primordio fantastico giustificando una barbarica irruzione nel mondo ignoto della poesia e conciliando il massimo dell'attualità e della concretezza con l'atemporalità del mito classicistico.
Mentre il narratore di Terra vergine (1882) approfitta con acume della lezione verghiana, e soprattutto fornisce di un retroterra aneddotico la sfrenata sensualità del Canto novo, con Intermezzo di rime (1883) D'A. apre il gioco che da cronista mondano avrebbe condotto a perfezione nel quinquennio successivo: una scherzosa divinizzazione del bel mondo romano e di un rituale trasparentemente erotico, cui la poesia fosse in grado di restituire serietà, se non esplicitezza, ricavandone dal canto suo la conferma di una funzione sociale e del relativo consenso.
È però da romanziere, con Il piacere (1889), che gli riesce di emanciparsi dalle frigide eleganze e dal valore puramente ludico già presentiti e ben esemplati da Isaotta Guttadàuro e altre poesie (1886). Nel romanzo, la "lotta d'una mostruosa Chimera estetico-afrodisiaca col palpitante fantasma della Vita nell'anima d'un uomo" mette finalmente di fronte una fedeltà all'Ideale deprecabile come un vizio immondo, per la disumanità che comporta, e un buon senso tanto immediatamente redditizio e socialmente rispettabile quanto assolutamente sprovvisto di qualsiasi attrattiva letteraria e intellettuale. Lo scrittore ribadisce così l'irrinunciabilità dell'Ideale nell'amore e nell'arte e al romanzo assegna il compito di creare artificialmente nel lettore la disposizione ad assecondare il suo sogno. A questa nuova disposizione del lettore si rivolge la più affabile poesia delle Elegie romane (1892) e soprattutto del Poema paradisiaco (1893), opera in cui, smessi i travestimenti delle raccolte precedenti per agitare l'altrettanto speciosa parola d'ordine della stanchezza dei sensi e della bontà, D'A. riscatta virtuosisticamente il linguaggio più dimesso del suo repertorio, puntando sulla tensione psicologica dei duetti sentimentali e sulla moltiplicazione delle pause che alonano di sottintesi e potenziano anche le parole più banali.
Un altro romanzo, L'innocente (1892), proprio a partire da un equivoco umanitarismo esemplato su Dostoevskij e Tolstoj, aveva del resto chiarito che anche il mito della bontà e della semplicità era nutrito di intellettualismo e si fondava su un idealismo consequenziario in maniera spietata. La conversione al superomismo nietzschiano, per quanto effettivamente incoraggiata da affinità psicologiche e culturali indipendenti dalle letture napoletane di D'A., risulta tuttavia decisiva, sia per l'acuirsi degli interessi teorici di uno scrittore che infatti per un intero decennio mostra di prediligere la forma romanzo, e un romanzo per giunta "idealista", sia per la più risentita percezione della dimensione sociale dell'attività artistica. Si passa quindi dal Trionfo della morte (1894), in cui il già collaudato tema misogino della Nemica coinvolge nella sua ispirazione distruttiva miti e istituzioni inconciliabili con la purezza dell'Arte, a Le vergini delle rocce (1896), il romanzo "di una Bellezza misteriosa e quasi terribile" che racconta, in una maniera provocatoriamente antiromanzesca, il sogno di una folle palingenesi reazionaria contro la "diminuzione" e la "violazione" da cui sono minacciati tutti i valori in una moderna società democratica. E si approda infine a Il fuoco (1900), che mette in scena l'esperimento di una sorta di regia dell'albeggiante vita spirituale delle masse, non più temute e respinte ma incoraggiate e guidate nelle loro oscure aspirazioni verso la Bellezza.
Alle teorizzazioni romanzesche, corrispondono i concreti tentativi di un'arte sia pure solo velleitariamente popolare, compiuti attraverso il teatro. Miti, secondo la ricetta classica dell'arte per il popolo, e insieme dimostrazioni della immutata efficacia dei miti antichi sono le tragedie dannunziane, da La città morta (1898) a La figlia di Iorio (1904) a Più che l'amore (1906), a Fedra (1909), in cui la solita lotta per l'Ideale, spinta talora fino al crimine, rappresenta iperbolicamente una comune insofferenza nei confronti del grigiore della vita quotidiana e la parola poetica sperimenta la propria efficacia fuori del libro.
La stagione dei capolavori dannunziani culmina però nei due più celebrati libri delle Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi, quando l'urgenza del comprendere lascia il posto alla liberatoria conquista di una poesia nella quale felicemente collaborino istinto e artificio. Gli oltre ottomila versi di Maia (1903) sono virtuosisticamente giocati sul mantenimento della stessa tensione espressiva e esplicitamente votati addirittura all'emulazione del poema dantesco, ponendosi altresì a modello delle innovazioni metriche novecentesche e lasciando intravedere una nuova strada per la poesia civile. Alcyone (1904), di là dalla tenue trama di una vacanza estiva a contatto con la natura toscana, trova un motivo unitario nel suo porsi come "tregua" e nella conseguente scelta di argomenti privati e sentimentali, e punta sulla suggestione d'una lingua manipolata senza sforzo evidente e sulla sconcertante prossimità al linguaggio prosastico, sempre imminente e ogni volta mirabilmente eluso (ad esiti altrettanto significativi non giungono il secondo e il quarto libro delle Laudi: Elettra, 1904; Merope, 1912; né Canti della guerra latina, 1933, noto anche come Asterope).
La fase del ripiegamento memoriale si apre all'indomani della splendida fioritura primonovecentesca, all'insegna di un autobiografismo meno strumentale e idealizzato. Se così Forse che sì forse che no (1910) traduce, concretamente svilendolo, l'Ideale dei romanzi precedenti nella passione aviatoria e, quasi come postuma compensazione, rappresenta il dramma della femminilità offesa, tutte le prose di memoria e quella che è stata definita "esplorazione d'ombra", comprese tra l'atteggiamento solennemente meditativo della Contemplazione della morte (1912) e la scrittura apparentemente pedantesca e in realtà comica del Secondo amante di Lucrezia Buti (nel vol. Il venturiero senza ventura e altri studi del vivere inimitabile, 1924, primo dei due tomi che, con Il compagno dagli occhi senza cigli e altri studii ecc., 1928, compongono Le faville del maglio), rivelano addirittura uno scrittore nuovo.
Con il Notturno (pubblicato nel 1921), il mutamento dello scenario psicologico e la singolare tecnica compositiva si risolvono nella ricerca di una lirica essenzialità all'interno della prosa, che nella paratassi inevitabile di un eterno presente vive l'ultima stagione di una sensibilità sovrumana, e, con le Cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele D'A. tentato di morire (1935), lo scrittore a quella tecnica fa corrispondere la naturalezza quasi meccanica con cui si concede alla registrazione, al ricordo, all'intuizione più penetrante, senza ricavarne più nessuna scintilla di vitalità.”

(In www.treccani.it)

 

11 febbraio 1918, Gabriele D'Annunzio, Luigi Rizzo e Costanzo Ciano nella notte:

“Per risollevare il morale di un esercito abbattuto dopo la disfatta di Caporetto (che abbiamo raccontato nel libro 24 ottobre 1917: storia e leggenda di una disfatta), una sconfitta che ancora bruciava negli animi, si pensò di compiere azioni belliche che mettessero in risalto il valore e la qualità dei reparti militari italiani. Come quella che avvenne nella notte tra il 10 e l’11 febbraio 1918, “una tra le imprese più audaci” della Prima Guerra Mondiale. La cosiddetta “Beffa di Buccari”, in realtà, non fu né una vittoria né una sconfitta, ma una “semplice” missione simbolica. Tutto iniziò con un’incursione militare della Marina italiana nel porto di Bakar (in italiano Buccari), oggi in Croazia, vicino a Rijeka (Fiume), portata a termine da pochi uomini al comando di Costanzo Ciano. A partecipare furono i Mas 96 (guidati dal capitano di corvetta Luigi Rizzo, con a bordo Gabriele D’Annunzio), i Mas 95 (con il tenente di vascello Profeta De Santis) e i Mas 94 (on il sottotenente di vascello Andrea Ferrarini). Con il termine Mas ci si riferisce a un motoscafo armato silurante o motoscafo anti sommergibile. Ricevuto l’ordine dal Comandante della Divisione Navale di Venezia, le motosiluranti tricolori, protette da unità leggere della Marina e da sommergibili da guerra, dopo quattordici ore arrivarono nei pressi dell’isola di Cherso. Procedendo lungo la costa istriana, raggiunsero nella notte la baia di Buccari, dove secondo lo spionaggio si trovavano diverse navi austriache, sia civili che militari. Le unità italiane riuscirono a superare la difesa nemica e, anche se non riuscirono ad affondare nessuna imbarcazione, dimostrarono la loro inefficacia.

“Impazienti di misurarci con il pericolo, operiamo al di là delle nostre forze. Viva l’Italia!”, scrisse D’Annunzio in quell’occasione. Prima di andarsene dalla base nemica, lasciò in acqua alcune bottiglie con dei nastri tricolori e un messaggio all’interno: «In onta alla cautissima Flotta austriaca occupata a covare senza fine dentro i porti sicuri la gloriuzza di Lissa, sono venuti col ferro e col fuoco a scuotere la prudenza nel suo più comodo rifugio i marinai d’Italia, che si ridono d’ogni sorta di reti e di sbarre, pronti sempre ad osare l’inosabile. E un buon compagno, ben noto, il nemico capitale, fra tutti i nemici il nemicissimo, quello di Pola e di Cattaro, è venuto con loro a beffarsi della taglia».

Per ricordare l’evento, il Vate coniò anche l’espressione “memento audere semper” (l’acronimo richiama la sigla Mas), “ricordati di osare sempre”, andando a sostituire il motto “motus animat spes”, non abbastanza virile per un’impresa militare. Fece incidere la scritta anche sulla tavoletta dietro la ruota del timone del Mas 96, conservato al Vittoriale degli Italiani, la casa-museo nei pressi di Gardone Riviera dove visse per alcuni anni. Un motto coniato per esortare i partecipanti all’azione ad assumersi tutti i rischi che essa implicava, con coraggio e sprezzo del pericolo. Un invito a forzare la realtà. Nonostante l’esito inconcludente dal punto di vista militare (le conseguenze sulla flotta austro-ungarica furono limitate, uno dei piroscafi italiani risultò danneggiato), la “Beffa di Buccari” ebbe il merito di risollevare il morale della Marina e dell’Esercito italiani, come già era avvenuto poche settimane prima, grazie alla vittoriosa incursione di Trieste, nel dicembre 1917, quando i MAS 9 e 13, guidati da Luigi Rizzo e Andrea Ferrarini, avevano affondato la corazzata austro-ungarica Wien. Come scrive il sito della Marina, l’incursione mostrò «le facili smagliature ed il mancato coordinamento del sistema di vigilanza costiero austriaco», una debolezza che poteva essere sfruttata ancora.

Nei mesi successivi alla “Beffa di Buccari”, Ciano divenne presidente della Camera e poi ministro delle Comunicazioni. Suo figlio Galeazzo sposò Edda, figlia di Benito Mussolini, e divenne uno dei più importanti esponenti del fascismo. D’Annunzio si diede all’aviazione e nell’agosto 1918 volò sopra Vienna, facendo cadere sulla città dei volantini. Non tutti, però, credono a questa vicenda. La “Beffa di Buccari” potrebbe essere, infatti, una «fake news», una bufala, come spiega nel suo libro «Disertori in Adriatico» (Hammerle Editori) Giacomo Scotti. Dei sei siluri sparati nessuno esplose. Nella baia non c’era nemmeno una nave militare austriaca, come aveva rilevato un ricognitore, ma solo vecchie carrette del mare in disarmo. Un insuccesso totale che il Poeta fece passare per una missione riuscita.

(Silvia Morosi e Paolo Rastelli in pochestorie.corriere.it)

 

Un fatto al giorno

11 febbraio 1929: il cardinale Pietro Gasparri e Benito Mussolini firmano i Patti Lateranensi tra Vaticano e Regno d'Italia

“TRATTATO FRA LA SANTA SEDE E L’ITALIA IN NOME DELLA SANTISSIMA TRINITÀ

Premesso:
Che la Santa Sede e l’Italia hanno riconosciuto la convenienza di eliminare ogni ragione di dissidio fra loro esistente con l’addivenire ad una sistemazione definitiva dei reciproci rapporti, che sia conforme a giustizia ed alla dignità delle due Alte Parti e che, assicurando alla Santa Sede in modo stabile una condizione di fatto e di diritto la quale Le garantisca l’assoluta indipendenza per l’adempimento della Sua alta missione nel mondo, consenta alla Santa Sede stessa di riconoscere composta in modo definitivo ed irrevocabile la « questione romana », sorta nel 1870 con l’annessione di Roma al Regno d’Italia sotto la dinastia di Casa Savoia;
Che dovendosi, per assicurare alla Santa Sede l’assoluta e visibile indipendenza, garantirLe una sovranità indiscutibile pur nel campo internazionale, si è ravvisata la necessità di costituire, con particolari modalità, la Città del Vaticano, riconoscendo sulla medesima alla Santa Sede la piena proprietà e l’esclusiva ed assoluta potestà e giurisdizione sovrana;
Sua Santità il Sommo Pontefice Pio XI e Sua Maestà Vittorio Emanuele III Re d’Italia, hanno risoluto di stipulare un Trattato, nominando a tale effetto due Plenipotenziari, cioè per parte di Sua Santità, Sua Eminenza Reverendissima il Signor Cardinale Pietro Gasparri, Suo Segretario di Stato, e per parte di Sua Maestà, Sua Eccellenza il Signor Cavaliere Benito Mussolini, Primo Ministro e Capo del Governo; i quali, scambiati i loro rispettivi pieni poteri e trovatili in buona e dovuta forma, hanno convenuto negli Articoli seguenti:

Art. 1
L’Italia riconosce e riafferma il principio consacrato nell’articolo 1° dello Statuto del Regno 4 marzo 1848, pel quale la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato.

Art. 2
L’Italia riconosce la sovranità della Santa Sede nel campo internazionale come attributo inerente alla sua natura, in conformità alla sua tradizione ed alle esigenze della sua missione nel mondo.

Art. 3
L’Italia riconosce alla Santa Sede la piena proprietà e la esclusiva ed assoluta potestà e giurisdizione sovrana sul Vaticano, com’è attualmente costituito, con tutte le sue pertinenze e dotazioni, creandosi per tal modo la Città del Vaticano per gli speciali fini e con le modalità di cui al presente Trattato. I confini di detta Città sono indicati nella Pianta che costituisce l’Allegato I° del presente Trattato, del quale forma parte integrante.
Resta peraltro inteso che la piazza di San Pietro, pur facendo parte della Città del Vaticano, continuerà ad essere normalmente aperta al pubblico e soggetta ai poteri di polizia delle autorità italiane; le quali si arresteranno ai piedi della scalinata della Basilica, sebbene questa continui ad essere destinata al culto pubblico, e si asterranno perciò dal montare ed accedere alla detta Basilica, salvo che siano invitate ad intervenire dall’autorità competente.
Quando la Santa Sede, in vista di particolari funzioni, credesse di sottrarre temporaneamente la piazza di San Pietro al libero transito del pubblico, le autorità italiane, a meno che non fossero invitate dall’autorità competente a rimanere, si ritireranno al di là delle linee esterne del colonnato berniniano e del loro prolungamento.

Art. 4
La sovranità e la giurisdizione esclusiva, che l’Italia riconosce alla Santa Sede sulla Città del Vaticano, importa che nella medesima non possa esplicarsi alcuna ingerenza da parte del Governo Italiano e che non vi sia altra autorità che quella della Santa Sede.

Art. 5
Per l’esecuzione di quanto è stabilito nell’articolo precedente, prima dell’entrata in vigore del presente Trattato, il territorio costituente la Città del Vaticano dovrà essere, a cura del Governo italiano, reso libero da ogni vincolo e da eventuali occupatori. La Santa Sede provvederà a chiuderne gli accessi, recingendo le parti aperte, tranne la piazza di San Pietro.
Resta per altro convenuto che, per quanto riflette gli immobili ivi esistenti, appartenenti ad istituti od enti religiosi, provvederà direttamente la Santa Sede a regolare i suoi rapporti con questi, disinteressandosene lo Stato italiano."

(Leggi tutto il testo del Concordato in: www.vatican.va)

 

 

Una frase al giorno

“The cause of Communism is the greatest cause in the history of mankind becasuse it seeks to remove from society all forms of oppression and exploitation, to liberate mankind and to ensure peace and prosperity to all.”

(La causa del comunismo è la causa più grande nella storia dell'umanità perché cerca di rimuovere dalla società tutte le forme di oppressione e sfruttamento, di liberare l'umanità e di assicurare pace e prosperità a tutti.)

(Nelson Mandela, citato in United States Congressional Serial Set, Edizione 13677, 1986, p. 37)
 

Mandela, Nelson Rolihlahla, uomo politico sudafricano (Qunu, Umtata, 1918 - Johannesburg 2013). Partecipò nel 1944 alla fondazione della lega giovanile dell'African national congress (ANC), di cui divenne nel 1950 presidente. Tra i promotori degli scioperi contro le leggi sulla segregazione dei neri, subì numerosi arresti; convintosi in seguito della necessità di passare alla lotta armata, fondò (1961) un'organizzazione clandestina. Fu condannato all'ergastolo nel 1964 e divenne il simbolo della lotta al segregazionismo in tutto il mondo. Liberato nel 1990, svolse un ruolo di primo piano nel processo di democratizzazione del paese. Premio Nobel per la pace insieme a F.W. de Klerk (1993), è stato poi presidente della Repubblica (1994-99).

VITA E ATTIVITÀ
Figlio di un capo della tribù Thembu, dopo la laurea in giurisprudenza M. svolse attività legale per la difesa dei diritti della popolazione, sottoposta al regime dell'apartheid. Fra i fondatori (1944) della lega giovanile dell'African national congress (ANC) e ne divenne presidente nazionale nel 1950. Nell'esecutivo nazionale dell'ANC dal 1949, ne fu vicepresidente negli anni 1951-52, segnandone la svolta in senso radicale; pronunciatosi per la lotta armata contro il potere razzista, nel 1961 diede vita all'organizzazione clandestina Umkhonto we sizwe ("Lancia della nazione"). Ripetutamente imprigionato a partire dal 1952, nel 1964 fu condannato all'ergastolo. Liberato nel febbr. 1990 e dal luglio 1991 nuovamente presidente dell'ANC, M. condusse lunghi negoziati con il governo per la democratizzazione del regime.

Nel maggio 1994 venne eletto presidente della Repubblica. L'impegno di M. durante la sua presidenza si concentrò su tre questioni centrali per la vita politica della Repubblica Sudafricana: la riconciliazione nazionale, la risposta all'estrema povertà di larghissima parte della popolazione nera, la nuova collocazione internazionale del paese. In questo contesto M. promosse la creazione della Commissione per la verità e la riconciliazione (1995-98), che assunse un ruolo estremamente importante anche per le sue valenze simboliche. Essa ebbe il compito di stilare un elenco di coloro che, tanto tra la popolazione nera quanto tra quella bianca, avevano subito violenze durante il regime di apartheid, di individuare i colpevoli dei crimini e di amnistiarli nel caso in cui avessero reso piena confessione e dimostrato che il reato era stato commesso per motivi politici e non personali. Consentendo così a un intero paese di specchiarsi nel suo passato recente, la commissione permise alle vittime di non sentirsi dimenticate e di non considerare le proprie sofferenze annullate dalla politica di compromesso istituzionale con gli esponenti del vecchio regime e incanalò al tempo stesso sul terreno dell'ammissione delle colpe, del riconoscimento delle vittime e di una consensuale condanna morale molte tensioni e molte lacerazioni. Alla scadenza del mandato presidenziale nel 1999, M. decise di non ricandidarsi, esprimendo così ancora una volta la sua convinzione che solo il superamento di una visione personalistica del potere fosse la premessa per continuare in un reale processo di democratizzazione.

Negli anni successivi M. continuò sia nel suo impegno internazionale per rafforzare il legame della Repubblica Sudafricana con l'area dei paesi occidentali, sia nell'opera di mediazione per la soluzione dei diversi conflitti che contrassegnavano la vita politica dell'Africa. La lunga carcerazione, ma soprattutto la costante lotta per l'abolizione dell'apartheid e per il riconoscimento dei diritti politici dei neri gli hanno procurato rispetto e notorietà internazionali e ne hanno fatto il simbolo della lotta contro ogni forma di razzismo.

Nel 1993 ha ricevuto il premio Nobel per la pace con F. W. de Klerk.

Nel 1994 Mandela ha pubblicato la sua autobiografia, Long walk to freedom (trad. it. 1995).”

11 febbraio 1990: in Sudafrica viene liberato Nelson Mandela dopo ventisei anni di carcere. Data simbolica per l'abolizione dell'apartheid

Immagini:

 

Un brano musicale al giorno

Luciano Pavarotti in “La Figlia del Reggimento”, di Gaetano Donizetti

Luciano Pavarotti, tenore.
Orchestra del Teatro alla Scala di Milano. Direttore Nino Sanzogno, 11 febbraio 1969
 

La fille du régiment (La figlia del reggimento) è un'opera comica in due atti di Gaetano Donizetti, su libretto francese di Jules-Henri Vernoy de Saint-Georges e Jean-François Bayard. Fu eseguita per la prima volta l'11 febbraio 1840 dall'Opéra-Comique di Parigi alla Salle de la Bourse.

L'opera fu scritta da Donizetti mentre viveva a Parigi tra il 1838 e il 1840, preparando una versione rivista della sua opera italiana allora ineseguita, Poliuto, come Les martyrs per l'Opéra di Parigi. Poiché Martyrs è stato ritardato, il compositore ha avuto il tempo di scrivere la musica per La fille du régiment, la sua prima opera su un testo francese, nonché di mettere in scena la versione francese di Lucia di Lammermoor come Lucie de Lammermoor.

La fille du régiment divenne rapidamente un successo popolare in parte a causa della famosa aria "Ah! Mes amis, quel jour de fête!", Che richiede al tenore di cantare non meno di otto Do acuti - una nona cantata spesso non viene scritta. La figlia del reggimento, una versione in lingua italiana leggermente diversa (nella traduzione di Calisto Bassi), è stata adattata ai gusti del pubblico italiano.

La serata di apertura è stata "un disastro a malapena evitato". Apparentemente il tenore principale era spesso fuori campo. Il noto tenore francese Gilbert Duprez, presente, osservò più tardi nel suo Souvenirs d'un chanteur: "Donizetti mi giurava spesso quanto avesse sofferto a Parigi la sua autostima di compositore, dove non fu mai trattato secondo i suoi meriti. Io stesso ho visto il fallimento, quasi il collasso, de La fille du régiment. "

Ha ricevuto una recensione molto negativa dal critico e compositore francese Hector Berlioz (Journal des débats, 16 febbraio 1840), che ha affermato che non poteva essere preso sul serio né dal pubblico né dal suo compositore, sebbene Berlioz abbia ammesso che parte della musica, "il piccolo valzer che funge da entr'acte e il trio dialogué ... non mancano né di vivacità né di freschezza."

La fonte dell'ostilità di Berlioz è rivelata più avanti nella sua recensione: "Cosa, due colonne sonore principali per l'Opéra, Les martyrs e Le duc d'Albe, altre due al Théâtre de la Renaissance, Lucie de Lammermoor e L'ange de Nisida, due all'Opéra-Comique, La fille du régiment e un'altra il cui titolo è ancora sconosciuto, e ancora un altro per il Théâtre-Italien, sarà stato scritto o trascritto in un anno dallo stesso compositore! M [onsieur] Donizetti sembra trattarci come un paese conquistato; è una vera e propria invasione. Non si può più parlare dei teatri d'opera di Parigi, ma solo dei teatri d'opera di M [onsieur] Donizetti."

Il critico e poeta Théophile Gautier, che non era un compositore rivale, aveva un punto di vista un po' diverso: "M [onsieur] Donizetti è capace di pagare con una musica bella e degna della cordiale ospitalità che la Francia gli offre in tutte le sue teatri, sovvenzionati o no. "

Nonostante il suo inizio irregolare, l'opera divenne presto molto popolare all'Opéra-Comique. Durante i suoi primi 80 anni, raggiunse la sua 500esima rappresentazione a teatro nel 1871 e la sua millesima nel 1908.
L'opera fu rappresentata per la prima volta in Italia alla Scala, Milano, il 3 ottobre 1840, in italiano con recitativi di Donizetti in sostituzione del dialogo parlato e poi ripetuta solo sei volte. Fu nel 1928, quando Toti Dal Monte cantò Marie, che l'opera iniziò ad essere apprezzata in Italia.

La fille du régiment ricevette la sua prima rappresentazione in America il 7 marzo 1843 al Théâtre d'Orléans di New Orleans. La compagnia di New Orleans presentò per la prima volta l'opera a New York City il 19 luglio 1843 con Julie Calvé nei panni di Marie. Lo Spirito dei Tempi (22 luglio) lo considerò un grande successo e, sebbene la partitura fosse "sottile" e non all'altezza di Anna Bolena o L'elisir d'amore, alcune delle "gemme" di Donizetti sarebbero state trovato in esso. L'Herald (21 luglio) è stato molto entusiasta, soprattutto nel suo elogio di Calvé: "Applausi è un termine inadeguato, ... acclamazioni veementi hanno premiato questa talentuosa prima donna." Successivamente l'opera è stata rappresentata frequentemente a New York, il ruolo di Marie che è una delle preferite con Jenny Lind, Henriette Sontag, Pauline Lucca, Anna Thillon e Adelina Patti.

Presentato per la prima volta in Inghilterra in italiano, apparve il 27 maggio 1847 all'Her Majesty's Theatre di Londra (con Jenny Lind e Luigi Lablache). Successivamente, il 21 dicembre 1847 in inglese, fu presentato al Surrey Theatre di Londra. W. S. Gilbert ha scritto un adattamento burlesco dell'opera, La Vivandière, nel 1867”

(Articolo completo in wikipedia.org)


 

Marie - Mariella Devia
Tonio - Paul Austin Kelly
Sulplice - Bruno Pratico
La Maquise - Ewa Podles
Hortensius - Nicolas Rivenq
Caporale - Aldo Bramante
Un Paysan - Ernesto Gavazzi
La Duchesse - Edoardo Borioli

Direttore: Donato Renzetti
Orchestra del Teatro alla Scala
Coro del Teatro alla Scala

 


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

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Ugo Brusaporco

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