“L’amico del popolo”, 15 giugno 2017

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

STAZIONE TERMINI (Italia - USA, 1953), regia di Vittorio De Sica. Sceneggiatura: Cesare Zavattini, Luigi Chiarini, Giorgio Prosperi, Truman Capote. Fotografia: G.R. Aldo. Montaggio: Eraldo Da Roma. Musica: Alessandro Cicognini, Con: Jennifer Jones, Montgomery Clift, Gino Cervi, Dick Beymer, Paolo Stoppa, Nando Bruno, Enrico Glori, Memmo Carotenuto, Clelia Matania, Enrico Viarisio, Giuseppe Porelli, Oscar Blando, Maria Pia Casilio, Gigi Reder, Liliana Gerace, Attilio Torelli, Pasquale De Filippo, Roberto Rai, Charles Fawcett, Mariolina Bovo.

Maria, giovane signora americana, arriva a Roma per trascorrere un periodo di tempo con sua sorella. Ha lasciato a Philadelphia il marito e la figlioletta. Quando conosce Gianni Doria, un insegnante italiano, però, si innamora pazzamente di lui e inizia una relazione con lui. Dopo un mese, in seguito a una telefonata dall'America, Maria decide di ripartire immediatamente. Gianni la insegue e la raggiunge alla stazione, chiedendole almeno una spiegazione. I due discutono a lungo e Maria, che aveva deciso di tornare da suo marito, sta per cedere alle insistenze di Gianni. Ma l'arrivo di suo nipote Paul le fornisce un pretesto per allontanarsi dall'amante e farsi forza. L'italiano, offeso, la schiaffeggia e se ne va per poi tornare sui suoi passi. I due amanti si ritrovano e si rifugiano in un vagone abbandonato. Lì vengono sorpresi da un frenatore che li porta entrambi al commissariato della Stazione. I due vengono rilasciati perché Maria, per evitare lo scandalo, dichiara al Commissario che partirà con il primo treno e non tornerà indietro. Gianni rimane solo e deluso e la guarda partire mentre lei gli giura amore eterno.

“Secondo Mario Gromo «De Sica si è concesso un altro intermezzo dopo non brevi soggiorni a Hollywood e dintorni (...). L'artista si è come imborghesito, è fiducioso nella sua bravura, qua e là se ne compiace. Si tolga la sua firma a Stazione Termini e nessuno vi riconoscerà un film di De Sica, meno che mai di Zavattini. Il celebre binomio si è evidentemente concessa una vacanza (...). De Sica si è posto al servizio di un modesto copione para - teatrale». Secondo il critico, da bocciare anche i dialoghi di Truman Capote «non all'altezza ed è su di essi che si debbono appuntare le più nette riserve». Il motivo di questa trasformazione viene individuata da Cinema come il «frutto di un insanabile contrasto di mentalità e di metodi che De Sica si è soltanto illuso di aver sanato (....). Contrariamente a quello che ha creduto, De Sica, per la prima volta alle prese con attori di peso - per di più con lingua, mentalità ed abitudini diverse dalle sue - si è trovato disorientato. Per questo regista che amiamo Stazione Termini rimarrà - è da sperare - una isolata parentesi, ma una parentesi pesantemente negativa, nella quale di italiano è dato di ritrovare solamente qualche nome e le apparenze esteriori della Stazione».

Analogo il commento di Guido Aristarco, secondo cui «coscientemente De Sica si autolimita, quando dichiara di essersi fermato. Una sosta che vuole essere, almeno nelle intenzioni, soltanto una parentesi (...) Certo, l'Italia che appare in Stazione Termini non è esattamente quella che vorrebbe l'Italia ufficiale; comunque non ci sono panni sporchi ed il pericolo di essere disonorati all'estero è evitato (...). I contributi realistici sono spesso semplici bozzetti (per cui) il film è la conseguenza diretta del compromesso, di due diverse mentalità e maniere di concepire il cinema, quello del realismo italiano e quello di evasione hollywoodiano».

Tra coloro che invece apprezzarono il film di De Sica vi furono Fernaldo di Giammatteo: «film commerciale? No, non direi che De Sica sia sceso tanto in basso; al contrario qui c'è lo sforzo di conservare ad ogni costo la propria dignità (...) Non è il caso di essere spietati con questo film, perché si commetterebbe un grossolano errore» e, soprattutto il Corriere della Sera, secondo cui «De Sica e Zavattini hanno narrato in Stazione Termini una storia poetica (...), il realismo, di cui il regista ha accettato leggi e caratteri, si inserisce qui nelle pieghe di una indagine intimista. Le notazioni marginali relative alla pittoresca baraonda delle grandi stazioni hanno gusto e sapore, sembra a tratti soverchino, in una smoderatezza rumorosa e turbolenta».

Anche De Sica riconobbe la diversità del film rispetto ai suoi precedenti: «dopo l'esperimento estremistico di Umberto D - ha affermato - Stazione Termini segnava una battuta d'arresto, in quanto vuol essere un film d'arte realizzato con intenti commerciali»: egli tuttavia rifiutò l'accusa di "leso neorealismo": «Accettando di girare Stazione Termini, non ho abdicato alle mie convinzioni, né ho rinunciato a valermi delle esperienze della scuola realista: il fatto che il soggetto sia di Zavattini e che la storia sia ambientata nella principale stazione di Roma, dove passano e sostano ogni giorno migliaia di tipi umani, assicurano in partenza a questo film una impronta realista. «Stazione Termini - ha scritto Tomasi - riporta De Sica agli esordi della sua carriera. C'è il chiaro sforzo di evidenziare il ruolo dell'ambiente attraverso il gran numero di personaggi di contorno che vanno e vengono senza però lasciare alcun senso di autenticità, scivolando spesso nel bozzetto o nel pittoresco», mentre secondo Rondolino «De Sica e Zavattini non riescono a sviluppare ulteriormente quell'indagine acuta della realtà contemporanea che era presente nei loro film precedenti. Stazione Termini non esce dai confini del buon prodotto di consumo». Inquadrando la questione sul piano economico, Brunetta ricorda i condizionamenti che originarono il film: «dopo gli accordi tra ANICA e MPAA, i capitali statunitensi entrano in maniera più massiccia nella produzione, si nota una modifica complessiva nello stile dei registi; ne risentono anche gli autori di punta del neorealismo». Più recentemente, il Mereghetti sostiene che «il film non è poi quel bidone che si disse, anche se le macchiette di contorno che vorrebbero fare colore sono importune e la storia è assai convenzionale»”.

(Wikipedia)

“II soggetto originale di Stazione Termini scritto da Zavattini qualche anno fa, parlava d'una giovane signora italiana del Nord, forse una triestina, che dopo essere stata amante per un breve ma ardente periodo di tempo, d'un romano conosciuto occasionalmente durante una visita alla Capitale, si decide a partire improvvisamente per raggiungere il marito e la bambina lontani. Il film doveva stare in quella straziante e dolce ultima intimità di un'ora e mezzo nel mondo a parte che è la stazione di una grande città, inferno e purgatorio e paradiso, un giorno o l'altro, di noi tutti. Nient'altro. Zavattini crede alla realtà, crede ai minuti che passano, e sono degni di storia anche quelli di un uomo qualsiasi che non fa nulla, degnissimi se si tratta di un uomo e di una donna che si sono amati e stanno per lasciarsi in maniera irrevocabile, che non si vedranno più. E sarà come fossero morti entrambi, per cui il guardarsi, il toccarsi le mani, il baciarsi, l'abbracciarsi amaramente in un vagone deserto, prima di questo allontanamento, di questa morte, prenderanno di riverbero valore eterno di dramma. Un coraggioso soggetto in anticipo sul cinema, se pure il bel racconto alla Mansfield di David Lean, Breve incontro, avesse già toccato una situazione vicina, e con misura e commozione esemplari. Vicina, abbiamo detto, ma molto diversa, e quasi opposta nella sostanza. In Breve incontro l'emozione era tutta "pre", in Stazione Termini era, anzi doveva essere tutta "post", quel posto per cui l'animale, l'uomo è triste se quanto è avvenuto non avviene di nuovo. Il film di De Sica, poi che Selznick aveva fatto pesare le sue esigenze di produttore americano, non poteva restare fedele alla prima idea di Zavattini: la variante più forte, tale da mutare il senso delle vicende, riguarda proprio i rapporti dei due nel tempo precedente l'addio alla stazione. Non che non si possano dire cose patetiche nel cinema su due innamorati insoddisfatti e sul punto di dividersi per sempre. Vedi Breve incontro. Ma quell'ora e mezzo, tempo reale del film, diventa insufficiente, mentre era ideale per scandire desiderio e memoria ai limiti della disperazione entro quel moto incessante d'umanità sconosciuta, pellegrina sulla terra. E forse De Sica, che ha realizzato in maniera suprema i soggetti di Zavattini, non era neppure il regista più adatto a quella storia solo all'apparenza intimista, ma anzi violenta, febbrile, tachicardica. Perché solo a patto di essere violenta ecc., i minuti dei due amanti avrebbero potuto veramente riempire i minuti degli spettatori. De Sica non è poeta di passioni, ma di sentimenti. Non per nulla s'era pensato di far dirigere il film a Claude Autant-Lara, che in Diable au corps aveva saputo mostrare come sia possibile, anche nel cinema, accendere il fuoco dei sensi, e lasciarlo lentamente incenerire. Ma bisogna dire che se tanti rimaneggiamenti e compromessi hanno tolto a Stazione Termini quella necessità che avevano, Sciuscià, Ladri di biciclette, Umberto D, frutti della più felice stagione del nostro cinema, il film d'oggi è pur sempre degnissimo di esser veduto [...]. Lo schiaffo, il Commissariato, e altri episodi minori riempiono davvero un certo vuoto che la caduta di tensione di cui s'è discorso prima hanno determinato nel film? Non ci sembra, e infatti i punti più emotivi sono nei momenti in cui due si guardano, si parlano, si muovono, si stringono vicini. Semmai funzionano l'architettura implacabile, nelle sue prospettive lunghe, della stazione, gli altoparlanti, i carrelli, gli orologi insonni. Ma carabinieri e preti stranieri e pellegrini e autorità in tuba ci sono di troppo, quasi sempre immotivati; echi stanchi di più antiche, fresche trovate. Solo in questo senso, ci piace la piccola sosta e il parlottare a segni dei collegiali "mutolini", per dirla con il Pellico. Un elemento forse decisivo per il successo del film è la bravura degli interpreti, specie di Jennifer Jones, nel suo tailleur grigio appena ravvivato da una stola di pelliccia, figura indimenticabile di giovane donna inquieta dei nostri tempi. Anche Montgomery Clift ha momenti assai persuasivi, ed un volto, strano a dirsi, credibilmente di italiano di romano prima dell'inevitabile ingrassamento. De Sica ha dimostrato ancora una volta di possedere consumata bravura, intelligenza e gusto non comuni. Ma diciamo arrivederci a lui e al Zavattini, per un altro episodio di quella piccola ma autentica commedia umana che hanno iniziato così bene qualche anno fa, lontano dalle schiavitù del commercialismo e dell'ideologismo.”

(Attilio Bertolucci, "Giovedì", Roma 9 aprile 1953)

Jennifer Jones e Montgomery Clift in STAZIONE TERMINI (Italia - USA, 1953), regia di Vittorio De Sica

 

Una poesia al giorno

La Stazione, "Dworzec", di Wislawa Szymborska (da “Uno spasso”, 1967, in “Poesia di Wislawa Szymborska. La stazione - Poesie report on line”. Traduzione di Pietro Marchesani).

Il mio arrivo nella città di N.
è avvenuto puntualmente.

Eri stato avvertito
con una lettera non spedita.

Hai fatto in tempo a non venire
all'ora prevista.

Il treno è arrivato sul terzo binario.
E' scesa molta gente.

L'assenza della mia persona
si avviava verso l'uscita tra la folla.

Alcune donne mi hanno sostituito
frettolosamente
in quella fretta.

A una è corso incontro
qualcuno che non conoscevo,
ma lei lo ha riconosciuto
immediatamente.

Si sono scambiati
un bacio non nostro,
intanto si è perduta
una valigia non mia.

La stazione della città di N.
ha superato bene la prova
di esistenza oggettiva.

L'insieme restava al suo posto.
I particolari si muovevano
sui binari designati.

E' avvenuto perfino
l'incontro fissato.

Fuori dalla portata
della nostra presenza.

Nel paradiso perduto
della probabilità.

Altrove.
Altrove.
Come risuonano queste piccole parole

Dworzec

Nieprzyjazd mój do miasta N.
Odbył się punktualnie.

Zostałeś uprzedzony
niewysłanym listem.

Zdążyłeś nie przyjść
w przewidzianej porze.

Pociąg wjechał na peron trzeci.
Wysiadło dużo ludzi.

Uchodził w tłumie do wyjścia
Brak mojej osoby.

Kilka kobiet zastąpiło mnie
pośpiesznie
w tym pośpiechu.

Do jednej podbiegł
ktoś nie znany mi,
ale ona rozpoznała go
natychmiast.

Oboje wymienili
nie nasz pocałunek,
podczas czego zginęła
nie moja walizka.

Dworzec w mieście N.
dobrze zdał egzamin
z istnienia obiektywnego.

Całość stała na swoim miejscu.
Szczegóły poruszały się
po wyznaczonych torach.

Odbyło się nawet
umówione spotkanie.

Poza zasięgiem
naszej obecności.

W raju utraconym
prawdopodobieństwa.

Gdzie indziej.
Gdzie indziej.
Jak te słówka dźwięczą.

Wisława Szymborska, poetessa polacca (Bnin, Poznań, 1923 - Cracovia 2012), muovendo dall'osservazione del quotidiano, costruisce una poesia intellettuale e riflessiva, che s'interroga sulla condizione esistenziale dell'uomo contemporaneo, contrapposto ed estraneo al mondo della natura. Nel 1996 ha ricevuto il premio Nobel per la letteratura e la sua produzione trova ampia diffusione anche in Italia. Dal 1931 si trasferì a Cracovia; è stata a lungo redattrice della rivista Życie literackie. Esordì con raccolte non estranee alla poetica del realismo socialista ("Per questo viviamo", 1952; "Domande poste a se stessi", 1954). In seguito la sua poesia si è andata liberando da ogni appartenenza a scuole e correnti letterarie, approfondendo un'amara e ironica visione dell'esistenza, e sviluppando uno stile personalissimo che unisce il rigore all'estrema levità dell'espressione”.

(Enciclopedia Treccani)

Wisława Szymborska

 

Un fatto al giorno

15 giugno 1656: Bertuccio Valier viene eletto 102° Doge della Repubblica di Venezia. “La sua ducea corrisponde a un periodo particolarmente glorioso della guerra di Candia, per le imprese di Lorenzo Marcello e di Lazzaro Mocenigo, caduto eroicamente dopo avere forzato i Dardanelli, nel tentativo di raggiungere Costantinopoli”.

(Enciclopedia Treccani)

“Il Doge Bertuccio Valier (1596 - 1658), discendente dalla famiglia Prioli, si sposò con Benedetta Pisani, dalla quale ebbe molti figli ma solo uno visse abbastanza per diventare anch'egli Doge. Molto ricco e diplomatico di successo, era considerato dai suoi contemporanei elegante e di notevole raffinatezza. Restò in carica per soli tre anni; periodo decisamente più lungo e fortunato se paragonato al predecessore Francesco Corner che morì dopo soli diciannove giorni di regno. Mentre Bertuccio verrà ricordato per aver respinto le proposte di pace dei turchi, il figlio Silvestro (1630 - 1700), passerà alla storia per essere stato il Doge dei poveri. Nonostante fosse conosciuto per il suo amore verso la bella vita, era particolarmente attento alle problematiche del popolo. La sua figura, inoltre, aveva un fascino particolare, in quanto sua moglie Elisabetta Querini, nota per il suo carisma, fu l'ultima Dogaressa di Venezia e l'unica che poté usufruire della solenne incoronazione dopo il 1646, anno in cui una legge vietò i pomposi e costosi festeggiamenti per preservare le casse del Regno. Bertuccio, Silvestro e l'ultima dogaressa di Venezia vennero sepolti nel magnifico mausoleo barocco nella Basilica dei Santi Giovanni e Paolo in Venezia”.

(I Valier - Villa Valier)

 

Una frase al giorno

“Il problema con libere elezioni è che non si sa mai come andranno a finire”.

(Vjaceslav Michajlovic Molotov)

 

Un brano al giorno

Elly Ameling, Ei, wie schmeckt der Coffee, J. S. Bach, Kaffee kantate, BWV 211

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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web www.brusaporco.org