“L’amico del popolo”, 15 luglio 2017

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

THE DAMNED (Hallucination, GB, 1963), regia di Joseph Losey. Tratto dal romanzo di fantascienza “Fossa d'isolamento” di Henry Lionel Lawrence. Sceneggiatura: Evan Jones. Fotografia: Arthur Grant. Montaggio: James Needs, Joseph Losey, Reginald Mills. Musica: James Bernard. Con: Viveca Lindfors, MacDonald Carey, Alexander Knox, Shirley Anne.

In una cittadina sulle coste della Scozia opera una banda di giovani teppisti, comandata da King. Un giorno, la sorella del capo, Joan, si innamora di un turista americano, Simon, che i giovinastri hanno bastonato e derubato, e fugge con lui in motoscafo. Cercando di sottrarsi all'accanita caccia di King, Joan e Simon abbandonano il mare, risalgono le rupi costiere, penetrano in un recinto spinato, ma, nel buio, cadono in un crepaccio e finiscono in acqua. A salvarli e a farli rifugiare in una grotta è un gruppo di bambini - dal corpo senza calore - i quali ricevono insegnamenti attraverso un impianto televisivo e provvedono da soli al proprio sostentamento. Intanto, anche King, che durante l'inseguimento ha rischiato di annegare, è salvato e condotto nella grotta. Tra gli individui che sovraintendono alla vita dei bambini scatta l'allarme: un uomo armato cerca di eliminare i tre intrusi, ma Simon e gli altri lo mettono in condizione di non nuocere e lo costringono a parlare. La verità è spaventosa: quegli strani bambini sono figli di donne contaminate da radiazioni atomiche; a loro, nel caso di una guerra nucleare mondiale, è affidata la speranza della sopravvivenza dell'umanità. Simon, inorridito, cerca di far fuggire i bambini, ma essi vengono tutti ripresi. King muore precipitando con l'auto da un ponte mentre Joan e Simon, ormai irrimediabilmente contaminati, non vivranno più a lungo.

“Piú dichiaratamente commerciale è la partenza di The Damned (in Italia verrà distribuito col titolo assurdo di Hallucination), altro film che ha avuto non poche noie di produzione. Stavolta il soggetto è preso da un romanzo di fantascienza (Fossa d'isolamento, di un certo H. L. Lawrence, pubblicato in Italia da Urania), e il film è prodotto per la Hammer, una piccola casa commerciale inglese che produce abitualmente i mostri di Terence Fisher. Losey ha lavorato sul soggetto trasformandolo completamente, applicandovi scene e personaggi assolutamente suoi. Chi sono The Damned? Sono bambini sopravvissuti alle radiazioni atomiche e divenuti essi stessi radioattivi, che il governo inglese tiene accuratamente isolati e nascosti preparandoli, educandoli, ad essere l'umanità di domani, e naturalmente gli abitanti "super" di un mondo atomico in cui l'Inghilterra avrà la meglio per merito loro. Ma attorno a questo soggetto, che permette a Losey di darci il più penetrante film sull'era atomica - che può reggere il paragone con Stranamore - Losey ne aggiunge almeno altri due. Tre storie si incrociano: quella del turista americano tartassato senza ragione in una tranquilla città vittoriana (Weymouth) da una banda di teddy boys capeggiata da un giovinastro complessato e geloso della sorella; quella del dirigente del campo top secret e di sua moglie, una scultrice; quella infine dei ragazzi. Tre forme di violenza che si incontrano o scontrano: quella irrazionale e gratuita della banda di giovani; quella razionale e cosciente, ma non per questo meno agghiacciante, del direttore del campo; quella infine della guerra, dell'atomica, delle ragioni della politica (da parte di chi ha accettato definitivamente l'idea di una guerra atomica) ai danni di un gruppo indifeso di ragazzi, o meglio di "mostri" che "la politica" ha indirettamente creato. Le tre violenze, le tre storie, si incrociano ed uniscono fino a diventarne una sola nella seconda parte del film, e non sono che aspetti diversi di uno stesso problema e di una stessa angoscia. Ma la vera lotta, il nucleo loseyano del film, è nell'incontro, o scontro, tra la scultrice e il comandante: Freya (Viceca Lindfors), che lavora a statue incomplete, abbozzi, mostri che non arrivano alla loro espressione decisa (come ad esempio la grande statua del finale, figura umana dalla testa piccolissima, rozza, con brandelli d'ali alle spalle) - e Bernard (Alexander Knox), che ha accettato l'idea di un mondo post atomico e persegue razionalmente il suo lavoro, in piena coscienza e buona fede. Egli cerca di spiegare le sue posizioni alla donna.

"... Dopo la prima grande esplosione, fiori strani e meravigliosi prima sconosciuti, sono nati nel deserto. Per sopravvivere alla distruzione che inevitabilmente arriverà, abbiamo bisogno di una nuova specie d'uomo. Un accidente ci ha offerto questi nove preziosi bambini - i soli esseri umani che hanno una possibilità di sopravvivere nelle condizioni che dovranno per forza esistere quando verrà il momento. Tutte le nazioni civili cercano la chiave di una sopravvivenza che noi abbiamo trovata (...) I miei bambini sono i semi nascosti della vita. Quando verrà il momento, i bambini usciranno a ereditare la terra." E Freya, già contaminata dal contatto coi bambini: "Che terra gli lascerete? Dopo tutto quel che gli uomini hanno fatto e faranno ancora, è quella la grandezza del vostro sogno? Mettere nove bambini, liberi, al centro delle ceneri dell'universo?" Freya sceglierà di aspettare la fine lavorando in silenzio alle sue statue, ed è in questa occupazione che Bernard l'ucciderà. La parte finale del film, angosciosa e serrata fino allo spasimo, si muove su una serie di rapidi brani, improvvisamente rapidissimi, e si chiude sul battello in cui l'americano e la ragazza attendono la morte, contaminati anch'essi, mentre un elicottero li sorvola aspettando la loro fine per distruggere la barca, e infine ritornando sulla scena dell'inizio, la veduta dal mare della tranquilla sonnolenta città vittoriana. Fuori campo, le nostre orecchie continuano però a percepire le grida di aiuto disperate, inascoltate e strazianti, dei bambini nuovamente rinchiusi ad aspettare la fine del mondo. Questo film assai bello è comunque ancora un'opera in cui l'abilità e la drammaticità non sono pienamente risolte in quel controllo perfetto di tutti gli elementi che vedremo nel Servo”.

(Goffredo Fofi, "Capire con il cinema", Feltrinelli, 1977)

“Come per ogni film di fantascienza (o che si rifaccia in qualche modo alla fantascienza), non ha senso discutere la veridicità dell'assunto, che è sempre una traslazione metaforica di una situazione oggettivamente diversa: non ha importanza, così, che la somministrazione di radiazioni a donne gravide produca malformazioni al feto. È invece necessario, ai fini del film, che i bambini nascano e crescano perfettamente sani, anche se portatori di radiazioni. L'intento di Losey è infatti quello di lanciare un grido d'allarme sul futuro dell'uomo, come in The Boy with Green Hair (con la differenza che qui i bambini sono contemporaneamente assassini e vittime). L'età di questi bambini non è certo l'età della speranza (The Boy with Green Hair), né quella del malessere e della malinconia (The Go-Between): è l'età della minaccia che si protende dal presente verso il futuro. Così quando Simon e Joan entrano per errore nella base militare (ultima figurazione del luogo chiuso, terminazione apocalittica di un panottico che intuisce già le grigie colorazioni foucaultiane), lo spettatore è combattuto fra una partecipazione emotiva per la sorte dei bambini e un istintivo timore per il pericolo mortale che essi costituiscono. È da questa indecisione che nasce la decisione di Bernard: reclusione militare per i bambini e contemporanea loro educazione, perché saranno loro che erediteranno la terra. Losey non parla delle cause, ma insiste sulla ineluttabilità di questa decisione come unica alternativa all'attesa passiva dell'apocalisse. In realtà, l'apocalisse si è già consumata prima che il futuro la realizzi: essa è la forma nascosta (il bunker sotterraneo) del presente e la sua uscita all'aperto non potrà che essere pletorica, tautologica. Non possono infatti costituire un'alternativa accettabile né il romantico tentativo di fuga di Simon e Joan, né quello patologico di King, né quello sterile e irrazionale di Freya (tutti, non a caso, condannati a morte). (...) Ciò che prevale è, come in The Lawless, la tensione all'enunciazione. Essa traspare in particolare dalla semplificazione eccessiva dei personaggi, ridotti a pure funzioni narrative. (...) Comunque sia, ancora una volta il protagonista loseyano è sconfitto, senza alcuna possibilità di scampo. Il ricorso alla fantascienza contraddice apertamente la speranza, la possibile utopia: è il presente, nella sua negatività, a determinare rigidamente il futuro. Non a caso «l'elemento fantascientifico viene ricreato usando soltanto paesaggi fisicamente reali, cioè senza invenzioni o trucchi» (Porro): infatti il futuro è sin d'ora eguale al presente. Ricorrendo alle tipologie individuate da René Predal per il "fantastico", diremo che The Damned è sospeso fra «l'intrusione di un elemento straordinario in un mondo ordinario» e «la proiezione di un elemento ordinario in un mondo straordinario». Infatti, ciò che appare straordinario (i bambini contaminati e contaminanti) non è altro che la forma nascosta e sotterranea dell'ordinario, che fa apparire straordinario (in quanto anacronistico e insufficiente) quel mondo che siamo avvezzi a giudicare ordinario (Simon, Joan, Freya, ecc.). In questo senso il ricorso alla fantascienza è puramente strumentale, come sempre nel filone fantapolitico dell'apocalisse (The Damned precede di un anno sia Il signore delle mosche che Il dottor Stranamore). E si sa che il filone fantapolitico è sempre di tipo didascalico: il punto di vista rimane sempre quello del mondo " normale ", in cui l'apologo costruisce la parola edificante (la violenza, costitutiva della società, come mostra la progressione Teddy Boys-Potere-Energia Nucleare, porterà in breve tempo alla catastrofe). The Damned finisce così per rovesciare il «principio di indeterminazione», da cui sembra procedere (l'assenza di soluzioni "positive"; la fusione speculare presente/futuro; lo scambio ordinario/straordinario; ecc.), nel suo esatto rovescio: ossia, in un eccesso didascalico, in un'ansia duplicatrice che alle immagini, alla struttura, al funzionamento fa seguire immediatamente (o addirittura precedere) la parola, l'evidenziazione, l'enunciazione. «Ciò che può essere mostrato, non può essere detto» (Wittgenstein): una regola a cui Losey non sa o non vuole attenersi sempre”.

(Giorgio De Marinis, Gualtiero Cremonini "Joseph Losey", Il Castoro Cinema, 3/1981)

“Un americano (Mac Donald Carey) e il capobanda di un gruppo di giovani teppisti inglesi (Oliver Reed) con la sorella (Shirley Ann Field) scoprono una zona segreta militare dove l'esercito inglese alleva per il futuro bambini contaminati dalle radiazioni atomiche. Realizzato per una casa di produzione di film di terrore, The Damned è tutt'altro che indegno dell'opera di Losey, che riesce a dilatarne i temi e a farne con scene angosciose e dialoghi serrati (tra l'altro con i personaggi d'un "lucido" militare e della moglie artista) più un tragico e crudele racconto filosofico contemporaneo che un semplice film di fantascienza”.

(Georges Sadoul in “Il Cinema”, Sansoni Vol. 1, pag. 230)

THE DAMNED (Hallucination, GB,1963), regia di Joseph Losey

 

Una poesia al giorno

Alla sera, di Ugo Foscolo, dai Sonetti, 1803

Forse perché della fatal quïete
Tu sei l’immago a me sì cara, vieni,
O Sera! E quando ti corteggian liete
Le nubi estive e i zeffiri sereni,

E quando dal nevoso aere inquiete
Tenebre, e lunghe, all’universo meni,
Sempre scendi invocata, e le secrete
Vie del mio cor soavemente tieni.

Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme
Che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
Questo reo tempo, e van con lui le torme

Delle cure, onde meco egli si strugge;
E mentre io guardo la tua pace, dorme
Quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.

  • "Alla sera", di Ugo Foscolo, letto da Vittorio Gassman 

 

Un fatto al giorno

15 luglio 1240: durante la guerra russo-svedese un esercito di Novgorod guidato da Aleksandr Nevskij sconfigge gli svedesi nella battaglia della Neva.
La battaglia della Neva fu combattuta e vinta il 15 luglio 1240 sulle rive dell'omonimo fiume dalle truppe russe del principe di Novgorod e di Vladimir, Aleksandr Jaroslavič, contro una forza d'invasione svedese. Il motivo di tale attacco da parte degli svedesi è da ricercare nella volontà di prendere il controllo della foce del fiume e della vicina città di Staraja Ladoga: il punto di inizio di una fondamentale rotta commerciale fluviale che univa il Mar Baltico con il Mar Nero.
Aleksandr Jaroslavič Nevskij, - in russo: Александр Ярославич Невский (Pereslavl’-Zalesskij, 30 maggio 1220 - Gorodec, 14 novembre 1263), figlio di Jaroslav Vsevolodovič, fu principe di Novgorod e di Vladimir dal 1252 fino alla sua morte; famoso per le sue epiche gesta militari, è considerato, insieme a Ivan Susanin, eroe nazionale russo.

Sergej Sergeevič Prokof'ev

 

Una frase al giorno

“Date loro la possibilità di istruirsi e la fertilità cerebrale delle masse sarà come un nuovo, ricchissimo humus”.

(Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, 1898 - 1948, regista, sceneggiatore, montatore, scrittore, produttore cinematografico e scenografo sovietico)

Sergej Michajlovič Ėjzenštejn

 

Un brano al giorno

"Mi consuelo es amarte", Miguel Angel Sarralde.

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

e-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
web www.brusaporco.org

 

 

 

 

 

UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k