“L’amico del popolo”, 18 luglio 2017

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

ZARDOZ (USA, 1974), scritto e diretto da John Boorman. Fotografia: Geoffrey Unsworth. Montaggio: John Merritt. Musiche: David Munrow. Con: Sean Connery, Charlotte Rampling, Sara Kestelman, John Alderton, Sally Anne Newton, Niall Buggy, Bosco Hogan, Christopher Casson, Barbara Dowling, John Boorman, Reginald Jarman, Jessica Swift.

Portando al massimo le mitiche aspirazioni dell'umanità, nell'anno 2293 gli Immortali, che sono i ricchi, i potenti e gli intelligenti, per mezzo del massimo ottenibile dal progresso scientifico e tecnologico, hanno costituito in Vortex un'oasi di asfissiante immortalità. Accanto a loro vegetano per sempre gli Apatici (i disadattati) e i Rinnegati (incoerenti condannati a perenne vecchiaia). La colonia viene nutrita dai Bruti, schiavi che lavorano la terra, dominati con violenza dagli Sterminatori, che tuttavia, sono Mortali come i loro sudditi. Tutto il sistema è retto da due invenzioni di Arthur Frayn: il Cristallo (o tabernacolo o cervello di quanto avviene in Vortex) e Zardoz (una divinità di pietra, volante, dispensatrice di ordini e di armi per gli sterminatori). Zed, mortale sterminatore che brama tanto avventura che verità, introdottosi in Zardoz con un trucco, riesce a penetrare anche in Vortex. Uccidendo Frayn, scuotendo la coscienza di Amico, ridonando fremiti sessuali a May e Consuela, dispensando la morte al Vecchio e alla sua corte, infrangendo il Tabernacolo, Zed distrugge l'illusione e dà inizio nuovamente alla vita umana secondo le leggi della natura.

“Nel cinema di Boorman il confronto serrato tra Eros e Tanathos e il problematico dialogo tra Uomo e Natura sono destinati quasi sempre a risolversi con la sconfitta della superbia umana e il ripristino dell’ordine naturale. Ed è così che nell’universo distopico di Zardoz, apparentemente immortale, invincibile, ma votato in cuor suo ad implodere, il “bruto” Zed porterà l’unica rivoluzione possibile: la Morte.
Con l’antefatto costituito dal monologo di Arthur Frayn, andato incontro a una drastica sforbiciatura nell’edizione italiana dell’epoca ma qui saggiamente recuperato, si apre il sipario su uno dei capitoli più magnetici, visionari, filosoficamente complessi della science fiction cinematografica di tutti i tempi. Anche uno dei più discussi, volendo: in generale Zardoz si ama o si odia, ci si inchina al coloratissimo ma fondamentalmente funereo appeal del suo mondo oppure lo si trova ridicolo. Chi ne sta ora scrivendo ha da sempre una venerazione pressoché totale per questa eccentrica pellicola di John Boorman, per il percorso labirintico e indubbiamente molto cerebrale che essa propone. Sì, cerebrale. Non poteva essere diversamente, considerando poi che il film mostra nelle battute iniziali due teste parlanti (con un legame ancora misterioso tra loro) in rapida successione, due teste staccate dal corpo che rivolgendosi a differenti soggetti (direttamente al pubblico, in un caso, e agli “sterminatori” che scorrazzano impunemente per la Terra, nell’altro) offrono i primi elementi per decifrare l’avvincente racconto, che avrà poi tra i suoi protagonisti uno Sean Connery dall’inedito e seducente aspetto tribale, così distante dai panni bondiani con cui gli spettatori dell’epoca (in pole position, ovviamente, le spettatrici) avevano imparato ad amarlo. Due teste, dicevamo. Quella di Arthur Frayn, vista galleggiare in aria su un metafisico fondale nero nel suddetto prologo, ammoniva l’uditorio a seguire con attenzione (come in un teatralissimo “a parte”) i molteplici inganni dell’intreccio, dovuti almeno apparentemente alla sua vena di istrione, di goliardico “muster puppet”: suo il gioco di parole a sfondo letterario, “the wiZARD of OZ”, che svolge il ruolo di propulsore per siffatto congegno narrativo. E come in una moderna rivisitazione del platonico “mito della caverna”, la successiva apparizione dell’enorme testa volante nota col nome di Zardoz, grottesco simulacro divino, costituirà per il protagonista il primo passo del lento e tortuoso percorso di avvicinamento a una possibile verità. Proprio nascondendosi nella bocca di pietra del presunto dio Zardoz il nostro Sean Connery, alias Zed, riuscirà a mettere piede nel cosiddetto Vortex: una comunità di eletti che nel 2293 ha raggiunto già da qualche secolo l’immortalità, separandosi dal resto del genere umano (abbrutito peraltro da distruzioni di massa e guerre fratricide), ma consumandosi al contempo nella noia e nella presunzione di aver costruito una società perfetta, incrinata invece dallo stesso terribile colpo inferto all’ordine naturale. Apatici o rinnegati, questo sembra essere il destino di chi nel Vortex non vuole conformarsi ai principi della comunità, ormai in balia della noia e dell’ipocrisia, sotto la guida dell’orwelliano e all’apparenza onnisciente Tabernacolo. Il cristallo, che lo rappresenta, si propone quale eccellente metafora delle rifrazioni di luce, delle prismatiche riflessioni sul senso più profondo della vita e della morte, di cui la pellicola abbonda. Ma nel cinema di Boorman (Un tranquillo weekend di paura, Excalibur, La foresta di smeraldo) il confronto serrato tra Eros e Tanathos, e il sempre problematico dialogo tra Uomo e Natura, sono destinati quasi sempre a risolversi con la sconfitta della superbia umana, ed il ripristino dell’ordine naturale. Ed è così che nell’universo distopico di Zardoz, apparentemente immortale, invincibile, ma votato in cuor suo ad implodere, il “bruto” Zed porterà l’unica rivoluzione possibile: la Morte.
Quest’edizione del film ottimamente curata dalla Koch Media (in collaborazione con Filmaker’s Magazine, come oramai d’abitudine per la casa di distribuzione) è non solo una valida occasione di rivedere la suggestiva opera di Boorman, in originale o doppiata, con la possibilità di opzionare un esteso commento del regista alle singole scene, ma propone anche altri sfiziosi contenuti speciali: il trailer cinematografico, alcuni spot radiofonici dell’epoca, e una interessante gallery fotografica in cui campeggiano inquadrature particolarmente significative, locandine del film e persino elementi dello storyboard, con qualche bozzetto assai gustoso. Una occasione da non perdere, quindi, per rientrare nel Vortex a distanza di qualche decennio e ricordare insieme a Sean Connery e Charlotte Rampling quanto possa essere noiosa, disumana e avvilente l’immortalità”.

(Stefano Coccia, recensione del dvd Zardoz, 1974, di John Boorman)

Scrive Giovanni Grazzini a proposito di questo film: “Oggi si va sul difficile, ma in vetta brilla il sole. Eccoci nel 2293, anno fatale. Il genere umano si è diviso: i ricchi i grandi cervelli, mettendo a frutto i progressi della scienza si sono ritirati in una sorta di mistico empireo, chiamato Vortex e collocato in un’amena valletta, dove hanno raggiunto l’immortalità e la pace dei sensi. Privi di sentimeni e di emozioni ma salvando le forme democratiche, ricevono il sapere da una centrale dell’Intelligenza contenuta in un cristallo e sono forniti di anelli ricetrasmittenti per ogni bisogna. Il Vortex ha anche altri abitanti: gli Apatici, che non si sono adattati e vivono in letargo, e i Rinnegati che per aver commesso qualche colpa sono condannati a restare vecchi per l’eternità. Fuori del Vortex vivono i Bruti: costretti a lavorare la terra, producono il grano che consente agli Immortali di alimentarsi. E i Bruti hanno i loro aguzzini: gli Sterminatori, che li terrorizzano e li uccidono con le armi vomitate da Zardoz. Chi è Zardoz? E perché si chiama così? È l’invenzione di Arthur Frayn, un mago che facendo leva sulla paura dei mortali ha costruito un idolo telecomandato, un’immensa testa di pietra, e l’ha battezzato contraendo le ultime parole del titolo d’un romanzo per bambini, Wizard of Oz, portato più volte sullo schermo nel lontano secolo XX. Periodicamente l’idolo scende sulla terra, si fa consegnare i raccolti, dà in cambio fucili ai suoi ministri, gli Sterminatori, e dopo aver predicato le lodi della violenza scompare fra le nuvole. Ora accade che Zed, sterminatore feroce, un bel giorno si chieda il percome e il perché di questo ricatto: diciamo che il rimorso alimenta la sua sete di verità e di avventura. Con uno stratagemma penetra dentro l’idolo e ascende nel Vortex. L’ambiente che trova è idilliaco, ma l’accoglienza è poco cordiale. Non tanto perché durante il viaggio ha ucciso il mago (bastano pochi giorni per ridare vita al defunto), quanto perché si teme che, introdotto nella comunità degli Immortali, il mortale ponti grave scompiglio. Messo ai voti il suo destino, Zed viene usato come servo, e intanto è sottoposto ad adeguati esami da parte di due donne, Consuella e May, che combattute tra il desiderio di proteggerlo e di distruggerlo ne esplorano la memoria e gli proiettano immagini stimolanti (con esito insospettato...). In sostanza succede che Zed ridesta le facoltà emotive delle sue ospiti, e anche il desiderio sessuale: e con esso la speranza della monte, unica salvezza contro la noia dell’eternità e della democrazia. Sicché Zed, simbolo e mano della Natura liberatrice, procede inesorabile: divenuto signore degli anelli, prima restituisce vigore agli Apatici nutrendoli del suo sudore, poi si accoppia con le Immortali assorbendone l’onniscienza, infine s’impossessa dei segreti del sacro cristallo e consente al più vecchio dei Rinnegati di spegnersi serenamente. Zardoz precipita sulla terra, e i compagni di Zed, gli Sterminatori, facendo strage di Vortex, restituiscono a tutti la gioia di morire. Zed e Consuella, ritiratisi in una caverna, restituiscono ordine all’universo mettendo alla luce un figlio e tenendosi amorosamente per mano sin oltre la morte. Zardoz è un film affascinante, frutto di un’intelligenza spettacolare di inconsueta potenza e di interrogativi morali in cui trovano originale rielaborazione antichi miti e modernissime inquietudini."

"Scritto, prodotto e diretto da John Boorman, Zardoz fonde echi del mondo classico, leggende medievali (il ciclo di Artù), saghe nibelungiche, e mescola letture fantastiche (Swift, Tolkien...) ai gridi d’allarme dei futurologi umanisti. L’apologo che ne esce ribalta l’ideologia di Un tranquillo week-end di paura, dove Boorman beffava i fautori del ritorno alla natura. Di fronte al crescente pericolo di una degenerazione della scienza, che a somiglianza della religione rischia di utilizzare i terrori dell’uomo a favore di una classe di gelidi tecnocrati, Boorman - un protestante educato dai gesuiti - torna a celebrare le virtù delle passioni e il dono della morte. Una traboccante inventiva visiva dà al monito di Boorman grazia di fiaba. Poco importa se il racconto qua e là cade nel farraginoso, e qualche trapasso è di ardua comprensione. Zardoz conta nel complesso, per la novità delle situazioni, la ricchezza delle scenografie, la bravura della sua struttura a incastri. Lo spettatore paziente e colto avrà di che sfamarsi individuando in questa ipotesi del futuro i vermi del presente e i molti rinvii letterari, ma anche il pubblico meno allenato alle sciarade e agli echi mitologici sarà preso dal fervore di un ingranaggio dove i più vari modelli stilistici (dal western a Kubrick a Fellini) trovano unità nel gusto tutto nuovo di una féenie con fiocchi di angoscia e di ironia. Già impostosi fra i migliori registi di questi anni, Boorman qui fa un altro passo avanti. Basti la sicurezza con cui regge molteplici motivi: la concitazione delle scene crudeli, la limpida semplicità di quelle bucoliche, le ieratiche liturgie consumate dagli Immortali, gli incubi di Zed e la sua lotta contro il cristallo. E si veda con quale lusso di idee ci dipinge Vortex, popolato di schermi su cui si visualizzano i ricordi, di magazzini in cui sono raccolti gli avanzi dell’antica statuaria, di computers forniti di divine facoltà. Venuto per meravigliare, Boorman è il cavalier Marino del cinema di fantascienza. Gli attori, Sean Connery, che riepiloga i tratti di tanti eroi leggendari (da Ulisse a Parsifal), è molto azzeccato, nella sua muscolosa nudità, per contrapporre la forza selvaggia dell’uomo, armato del solo revolver, al tedio perfetto degli Immortali e compiere la vendetta cui Vortex stesso l’ha delegato. E Charbotte Rampling e Sara Kestelman passano bene dai toni enigmatici di un mondo rarefatto ai fremiti ansiosi della fertilità. Fra gli altri bisogna ricordare almeno John Alderton, l’Amico per primo messo in crisi da Zed; Sally Anne Newton, la profetessa; e Niall Buggy, il nuovo Merlino che lega Zardoz al Mago di Oz. Il paesaggio fotografato con maestria da Geoffrey Unsworth, ha i colori pastello d’Irlanda e gli squilli d’un estro incessante. Musica grande: Beethoven”.

(Da Corriere della Sera, 14 aprile 1974)

Trailer:

 

Una poesia al giorno

Metà della vita, di Friedrich Hölderlin. (Traduzione di Luigi Reitani, da “Tutte le liriche”, Mondadori, 2001)

Con gialle pere scende
E folta di rose selvatiche
La terra nel lago,
Amati cigni,
E voi ubriachi di baci
Tuffate il capo
Nell’acqua sobria e sacra.

Ahimè, dove trovare, quando
E' inverno, i fiori, e dove
Il raggio del sole,
E l’ombra della terra?
I muri stanno
Afoni e freddi, nel vento
Stridono le bandiere.

Hälfte des Lebens

Mit gelben Birnen hänget
Und voll mit wilden Rosen
Das Land in den See,
Ihr holden Schwäne,
Und trunken von Küssen
Tunkt ihr das Haupt
Ins heilignüchterne Wasser.

Weh mir, wo nehm' ich, wenn
Es Winter ist, die Blumen, und wo
Den Sonnenschein,
Und Schatten der Erde?
Die Mauern stehn
Sprachlos und kalt, im Winde
Klirren die Fahnen.

 

Un fatto al giorno

18 luglio 1870: proclamazione del Dogma dell'Infallibilità Pontificia da parte di Papa Pio IX. Scrive Famiglia Cristiana l’11 marzo 2016, riportando un articolo di Monsignor Cosmo Ruppi, apparso nel 2008: “La domanda sull’infallibilità del Papa è frequente anche da parte dei cristiani: è infallibile quando parla dalla finestra o nelle udienze del mercoledì? È infallibile quando scrive le encicliche, quando parla alla gente a Roma o nei suoi viaggi apostolici? La risposta è semplice: il Papa è infallibile quando, come pastore universale della Chiesa, con «un atto definitivo proclama una dottrina riguardante la fede o la morale».
Sul problema dell’infallibilità del Papa si era già soffermato il concilio ecumenico Vaticano I, interrotto nel 1870 a seguito dell’occupazione di Roma da parte delle truppe piemontesi. Il vescovo non è infallibile, sbaglia, non gode affatto della dote dell’infallibilità. Anche il Papa non è infallibile quando parla o quando scrive, ma solo quando emette una definizione dogmatica su una verità di fede, come ha fatto Pio XII nel 1950 quando ha definito la verità (il dogma) dell’Assunzione della Beata Vergine Maria. Dopo di lui, nessun Papa ha fatto definizioni infallibili, perché non hanno avuto alcuna verità da ribadire come verità di fede.
Il Papa, dunque, è infallibile solo quando, come maestro supremo, propone una verità da credere come rivelata da Dio, come insegnamento stabilito da Cristo. È infallibile, perché Cristo ha garantito tale infallibilità attraverso il dono dello Spirito Paraclito, con l’unico scopo di tutelare, proteggere la Chiesa dagli errori e dai pericoli. Tale compito è stato affidato soprattutto a Pietro e ai suoi successori, chiamati a «confermare i fratelli nella fede» (Luca 22,32), ma - come dice il concilio Vaticano II - tale infallibilità «risiede pure nel corpo episcopale, quando esercita il supremo magistero col successore di Pietro» (Lumen gentium, 25). Alla definizione dogmatica pronunciata dal Papa o dal collegio dei vescovi, unito a lui, si deve l’ossequio della fede, perché si tratta di una verità da credere: tocca il deposito divino della fede cristiana. Il Concilio dice che alle definizioni dogmatiche «non può mancare l’assenso della Chiesa, data l’azione dello stesso Spirito Santo, che conserva e fa progredire nell’unità della fede tutto il gregge di Cristo» (Lumen gentium, 25).”

 

Una frase al giorno

Rivolgendosi a un giornalista che gli aveva chiesto cosa ne pensasse dell'opera fatta all'aperto, Arturo Toscanini, grande direttore d’orchestra, fine musicista, immenso uomo, rispose: “All'aperto si gioca a bocce”. Sarà per questo che volevano mettere un coperchio all’Arena di Verona?
Di Toscanini disse un altro grande direttore d’orchestra, Carlo Maria Giulini: “Era un grande direttore, un vero "servitore" della musica, è stato lui a insegnarci a rispettare gli spartiti, ma era anche un grande uomo, che non si è mai servito della musica per interessi personali... È stato uno dei tre artisti che hanno cambiato radicalmente la storia dell'interpretazione musicale. Gli altri due grandi nomi sono Liszt, per il suo modo di suonare il pianoforte, e Paganini per il modo rivoluzionario di suonare il violino”.

Ascoltiamoli nella Sinfonia n. 6 di Beethoven:

 

Un brano al giorno

Marlene Dietrich - In The Navy

 

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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web www.brusaporco.org

 

 

 

 

 

UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

 

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

 

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

 

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

 

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

 

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

 

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

 

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

 

Nous serons

 

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

 

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

 

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

 

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

 

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

 

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

 

Un fatto al giorno

 

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k