“L’amico del popolo”, 15 maggio 2019

L'amico del popolo
Grandezza Carattere

L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno III. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

UN PROPHETE (Il profeta, Francia, 2009), regia Jacques Audiard. Soggetto: Abdel Raouf Dafri e Nicolas Peufaillit. Sceneggiatura: Thomas Bidegain e Jacques Audiard. Fotografia: Stéphane Fontaine. Montaggio: Juliette Welfling. Musiche: Alexandre Desplat.
Cast. Tahar Rahim: Malik El Djebena. Niels Arestrup: César Luciani. Adel Bencherif: Ryad. Hichem Yacoubi: Reyeb. Reda Kateb: Jordi lo Zingaro. Jean-Philippe Ricci: Vettori. Gilles Cohen: Prof. Leïla Bekhti: Djamila. Frédéric Graziani: capo della sorveglianza. Slimane Dazi: Brahim Lattrache.

UN PROPHETE (Il profeta, Francia, 2009), regia Jacques Audiard

Malik El Djebena è un diciannovenne francese di origine araba che, nel corso della sua vita, ha conosciuto soltanto orfanotrofi e riformatori; non sa né leggere né scrivere ed è condannato a sei anni di carcere per un fallito tentativo di rapina. In prigione, per Malik, giovane fragile e senza protezioni o amicizie, la vita si presenta subito molto dura. Il leader della mala còrsa, César Luciani, che spadroneggia indisturbato nel carcere, lo individua come il soggetto ideale al quale far compiere il delitto di un arabo di nome Reyeb, di passaggio in quel carcere. Malik, contro la sua volontà, è addestrato dai còrsi e coperto dai carcerieri corrotti per compiere un delitto che, non senza difficoltà, riuscirà a portare a termine.

Il fantasma di Reyeb continuerà a popolare le notti (e non solo) di Malik che intanto però, senza troppi scrupoli, entra sempre più nelle grazie di Luciani, che decide di servirsi del giovane per alcune missioni all'esterno del carcere. Malik ha intanto cominciato a studiare per imparare a leggere, stringendo una forte amicizia col suo insegnante Ryad. Allo stesso tempo diventa amico di Jordi "lo Zingaro", uno spacciatore che ha già una rete organizzata all'esterno, ma che ha bisogno di un uomo di fiducia che gli recuperi un ingente quantitativo di droga opportunamente occultato.
Così, per volontà di Luciani, che nel frattempo ha visto uscire di cella quasi tutti i suoi compagni, Malik diventa un carcerato modello e, scontata metà della pena, può usufruire di un permesso di mezza giornata. In 12 ore, il ragazzo porta a termine la delicatissima missione affidatagli dal boss còrso, incassando 5.000 euro, recuperando la droga di Jordi e organizzando con l'amico Ryad lo spaccio di stupefacenti sulla rotta Parigi-Marbella come pianificato in carcere. È la svolta.
Malik si permette addirittura di dare dei suggerimenti a Luciani per gestire il difficile rapporto con gli arabi. Nel suo secondo permesso, catapultato in aereo a Marsiglia incontra il boss arabo Brahim Lattrache, soddisfacendo così la richiesta di Luciani, ma ancor di più intessendo per sé una rete di contatti e alleanze che gli assicurano il rifiorire della sua personale attività di spaccio con Ryad, che stava incontrando difficoltà. Lattrache rimane colpito positivamente dal ragazzo, cui dà il soprannome di "profeta" avendo questi predetto l'attraversamento di un cervo, che sarebbe poi in effetti finito contro la loro auto.

Accortosi dei suoi notevoli progressi, Luciani tenta violentemente di ribadire la sua egemonia sul giovane, ma Malik, di fatto, è sempre più forte e audace. Nel terzo permesso il boss còrso gli assegna l'esecuzione del suo capo, Mercaggi, ma, anziché ucciderlo, il giovane intraprendente lo rapisce e lo informa della congiura ordita da Luciani, innescando così una cruenta guerra interna che porta i córsi all'autodistruzione e Luciani all'isolamento definitivo. Tornato in carcere, Malik è ormai un leader tra gli arabi e non riconosce più il boss che l'aveva "creato". Finalmente scontata la pena, ad aspettarlo fuori ci sono moglie e il figlio dell'amico Ryad, malato terminale, e sullo sfondo una scorta degna di un boss conclamato.

Ha vinto il Grand Prix Speciale della Giuria del 62º Festival di Cannes, ben nove Premi César 2010, tra cui quello per il miglior film, ed è stato candidato come miglior film straniero ai Premi Oscar 2010.

«C’è una costante affascinante nel cinema di Jacques Audiard. E’ questa capacità dei protagonisti dei suoi film, sia maschi che femmine, di far diventare un handicap fisico, psicologico, comportamentale una leva su cui costruire una ricca risorsa futura.
Malik El Djebena (un travolgente Tahar Rahim al suo esordio come attore principale) è l’ultimo della trafila dei “deboli” corpi messi in scena da Audiard. Il ragazzo è condannato a sei anni di prigione, non sa né leggere né scrivere e al suo arrivo alla centrale di polizia pare un cagnetto spaurito. Viene come gettato in pasto alle non regole di un penitenziario che ha tutta l’aria di una banlieue in continuo fermento. La peggiore teppaglia assemblata in un unico luogo ermeticamente chiuso. Nessuno ambisce ad evadere, l’obiettivo è costruire un microsistema che riproduce quello violento e squilibrato che c’è fuori. Il gruppo più inserito e temuto nella galera, tra musulmani di ogni latitudine, è quello dei corsi, governato dell’anziano Cesar Luciani (un edipico Niels Arestrup). Non passa che qualche settimana e Malik per sopravvivere è costretto a far fuori un detenuto nordafricano che potrebbe testimoniare contro i corsi, pena, a sua volta, il proprio osso del collo. L’iniziazione alla vita del carcere è servita, con immediatezza, rudezza ed estrema fisicità.

Un prophete da qui in avanti è un fiume in piena di prepotenti dinamiche gangsteristiche, di naturale sanguinosa violenza tra uomini. Malik impara ad uccidere, si alfabetizza nella scuola del carcere, si droga, diventa amico di un altro carcerato malato di cancro e della sua famiglia. La presa del potere del ragazzo avverrà a scapito del vecchio corso rimasto isolato in cella (qui c’entra anche Sarkozy e un po’ di politica). Audiard cuce insieme ritmo e spettacolarizzazione, disegna linee rette per le psicologie dei criminali e non si vieta incursioni mai gratuite nel grand guignol.
La sua macchina da presa non ha bisogno di eccessivo movimento, basta aver davanti all’obiettivo la presenza potente di un balletto di facce da ceffi, sbirri corrotti, unghie lunghe e anelli da mafioso, lamette, pistole automatiche. Le sovraimpressioni con brevi frasi e/o nomi dei protagonisti provano a scostare in capitoletti una materia narrativa talmente compatta che due ore e mezza passano come niente. Il respiro di un gangster movie compresso tra le quattro mura spaziali di un carcere con sequenze da tenere a memoria. Quella investita da un pezzo hip-hop, in cui la mdp segue i frammenti ripetuti della preparazione del pasto tra cucina, corridoi, cortile, celle, uffici delle guardie, è semplicemente all’altezza di Quei bravi ragazzi.
Autocitazione: Malik rimane assordato per qualche minuto ripetendo quell’effetto di straniamento sensoriale vissuto da Carla/Emanuelle Devos, in Sulle mie labbra. »

(Davide Turrini in www.cinematografo.it)

UN PROPHETE (Il profeta, Francia, 2009), regia Jacques Audiard

«Malik El Djebena ha 19 anni quando viene condannato a sei anni di prigione. Entra con poco o nulla, una banconota ripiegata su se stessa e dei vestiti troppo usurati, che a detta delle guardie non vale la pena di conservare. Quando esce ha un impero e tre macchine pronte a scortare i suoi primi passi. In mezzo c'è il carcere, la protezione offertagli da un mafioso corso, l'omicidio come rito d'iniziazione, l'ampliarsi delle conoscenze e dei traffici, le incursioni in permesso fuori dal carcere, dove gli affari prendono velocità.
Ciò avviene all'interno di una prigione, il cinema lo ha già raccontato altrove meglio che qui, per non parlare di come nasce un padrino. Quello che fa Audiard, nel suo film, è prendere il genere per mostrarsi infedele, instaurare con esso un doppio gioco, come fa Malik con il boss corso, stare apparentemente nelle regole ma prendersi la libertà di raccontare anche molto altro.
Malik è uno che apprende in fretta. Impara ad uccidere ma, dallo stesso crimine, impara anche che nel carcere c'è una scuola dove possono insegnargli a leggere e a scrivere. Dalla scuola apprende un metodo, grazie al quale impara da autodidatta il dialetto franco-italiano della Corsica: di fatto si procura un'arma, che obbliga il capo a tener conto di lui. Dagli arabi impara a capire cosa vogliono, dai Marsigliesi impara a trattare, da un amico, forse, imparerà a voler bene.
I compagni di galera prendono a definirlo un profeta, perché lui è quello che parla, con gli uni e con gli altri, quello che porta i messaggi dentro e fuori, che conosce la gente che può far comodo negli affari. Egli fa grandi cose, insomma; la sua via è tracciata come quella di chi ha una missione.
Ancora una storia che ruota nell'universo tanto umano quanto traditore della comunicazione, dunque, dopo quella in cui Vincent Cassel leggeva dalle labbra e quella in cui Romain Duris si affidava alle note. Qui le lingue sono almeno tre, ma è quella silenziosa del sangue che sigla gli accordi, e il potere, in questo codice, è inversamente proporzionale al numero di parole che richiede.
La critica di Audiard alla mala educazione del sistema carcerario è evidente, talvolta aspra, talvolta sarcastica (le uscite per "buona condotta"), ma non è tramite la parola che si esprime: la sua lingua è quella della regia, di cui è interprete sicuro e abile. Quello che propone allo spettatore, qui come in tutte le sue opere, è l'immersione completa nel mondo che racconta, la sospensione del pre-giudizio, lo spettacolo della complessità di un personaggio maschile. La pretesa questa volta, però, va oltre l'offerta: nonostante l'ottimo Tahar Rahim, protagonista, Un prophète si dilata oltremodo, prova qualche artificio ma non fino in fondo, sfiora emozioni interessanti che abbandona troppo in fretta, si lascia imprigionare dalla materia che vorrebbe liberare. Un film più maturo dei precedenti, ma meno comunicativo.»

(Marianna Cappi in www.mymovies.it)

UN PROPHETE (Il profeta, Francia, 2009), regia Jacques Audiard

«Delinquentello magrebino, il 20enne analfabeta Malik El Djebena, condannato a 6 anni, entra in un carcere e diventa lo schiavo di César Luciani, feroce capo di un clan corso che lo obbliga a uccidere un coatto scomodo. Impara a leggere, scrivere, capire il dialetto corso, farsi amico il clan degli arabi islamici, conoscere le regole del mondo carcerario, capire per tempo il calo del dominio corso e l'ascesa di quello arabo. È un thriller complesso e violento, diviso in brevi, incalzanti capitoli. L'impianto è freddamente cronachistico, ma interrotto da passaggi fantasmatici, uscite dal carcere quasi inverosimili e premonizioni oniriche. Tolte alcune scene di raccapricciante durezza, la violenza è più suggerita che mostrata. Molti temi: la prigione è criminogena; fondata su economia e politica, esclude amicizia e lealtà; i criminali sono esseri umani che oscillano tra il bene e il male.
Ottimi il monolitico Rahim e lo sfaccettato Arestrup, parigino di origine danese. Audiard - che l'ha scritto e riscritto con Thomas Bidegain da un treatment di Abdel Raoul Fari - ha avuto un'idea geniale: la colonna sonora registrata, almeno in parte, in carceri vere.
Grand Prix della Giuria a Cannes 2009, 9 premi César, Oscar europeo (EFA) a Rahim.»

(Dizionario completo dei film di Laura, Luisa e Morando Morandini)

Jacques Audiard (1952) è figlio del regista Michel Audiard. All’inizio degli anni ‘80 iniziò l’attività di sceneggiatore con i film Réveillon chez Bob!, Mortelle randonnée, Baxter, Fréquence Meurtre e Saxo. Nel 1994 ha diretto Regarde les hommes tomber, un road movie con Mathieu Kassovitz e Jean-Louis Trintignant vincendo il César come miglior film e il premio Georges- Sadoul. Due anni dopo ha ritrovato i due attori per il suo secondo film Un héros très discret, adattamento dal romanzo di Jean-François Deniau. Con De battre mon cœur s'est arrêté ha ricevuto 10 nomination ai César vincendone otto, tra cui i premi per il miglior film, la miglior regia, la miglior sceneggiatura, la miglior musica e la miglior fotografia. Ha realizzato numerose clip, tra cui Comme elle vient di Noir Désir in cui tutti gli attori sono sordomuti e interpretano le parole della canzone con il linguaggio dei segni. L’inizio del film (una sequenza con sottotitoli) ha suscitato una polemica. Mostra tre donne che, discutendo di politica, giungono alla conclusione che “è meglio essere sordi che ascoltare le parole della politica stessa”.

UN PROPHETE (Il profeta, Francia, 2009), regia Jacques Audiard 

 

Una poesia al giorno

و مضيت مغتاظاً, di Salah Ahmed Ibrahim

ووقفتُ في أدبٍ و في فرضِ احتشام
و مددتُ كفي بالسلام
لكن كفكِ في الطريقِ ترددتْ و تعثرتْ
و امتد في عينيكِ ظلُّ توجسٍ
و كأنما كفي حرام
و كأنما قتلت حسيناً
أو رمتْ بالمنجنيق قداسةَ البيتِ الحرام
لكنني لم أنبسْ
و خنقتُ في صدري كلام
و حبستُ في حلقي ملام
و مضيتُ مغتاظاً أضمِّد مُهجتي
ألمُّ من فوقِ الترابِ كرامتي
و أسبُّ يوماُ كنتِ تجلسي انتِ فيه قُبالتي

الشاعر صلاح أحمد ابراهيم

I was furious

And I stood in literature and in the imposition of modesty
And extended my palm peace
But your palm in the road hesitated and stumbled
And the shadow of your eyes continued to rage
And it is as if it is haraam
As if she killed Husayna
Or threw a catapult the sanctity of the Holy Land
But I did not answer
And choked in my chest words
And I locked in my throat
And I became angry, I kept my anger
Pain from above the dirt my dignity
And the most beautiful day you sat, you are in front of me

The poet Salah Ahmed Ibrahim

Ero furioso (tentata traduzione)

E sono rimasto nella letteratura e nell'imposizione della modestia
E ho esteso la pace del mio palmo
Ma il tuo palmo sulla strada esitò e incespicò
E l'ombra dei tuoi occhi ha continuato a imperversare
Ed è come se fosse haram
Come se avesse ucciso Husayna
O ha gettato una catapulta sulla santità della Terra Santa
Ma non ho risposto
E soffocato nelle mie parole di petto
E ho chiuso la mia gola
E mi sono arrabbiato, ho mantenuto la mia rabbia
Dolore dall’alto e sporcizia sulla mia dignità
E il giorno più bello in cui ti sei seduto, sei di fronte a me

15 maggio 1993 muore Salah Ahmed Ibrahim, poeta e diplomatico sudanese (nato nel 1933).
Salah Ibrahim fu descritto nel 1963 come il più importante poeta sudanese della sua generazione, e che: "nella sua poesia c'è tutto il desiderio, tutta la frustrazione della sua generazione, scrive la sua poesia con miracolosa facilità e bellezza". Ibrahim si è laureato alla Khartoum University, Faculty of Arts. Salah ha insegnato presso l'Institute of African Studies presso l'Università del Ghana dal 1965 al 1966. Impegnato in politica è stato infine Ambasciatore del Sudan in Algeria.
Sua sorella Fatima Ahmed Ibrahim era un parlamentare di primo piano e un attivista per i diritti delle donne.

 

Un fatto al giorno

15 aprile 1911: più di 300 immigrati cinesi vengono uccisi nel massacro di Torreón quando le forze della rivoluzione messicana guidate da Emilio Madero prendono la città di Torreón dai Federales.

Julián Herbert scrive un libro sul massacro: «La casa del dolore altrui», edito da gran vía. Lo scrittore messicano racconta il massacro di 303 cinesi, nel 1911 a Torreón, da parte dei maderisti.

Un «piccolo genocidio» dimenticato
Fu nel 1910 che Francisco Madero, tenace oppositore del regime di Porfirio Díaz (presidente/dittatore del Messico per trentacinque anni) fece scoccare la prima scintilla della Rivoluzione, invitando il popolo a prendere le armi. A lui si unirono Francisco Villa, Emiliano Zapata, Venustiano Carranza e altri ancora, e nel 1911 Díaz fu costretto a un esilio senza ritorno, mentre Madero veniva assassinato dal suo luogotenente Victoriano Huerta e scoppiava una nuova rivolta guidata da Zapata e Villa: la Rivoluzione aveva cominciato a divorare se stessa, e qualche anno dopo si sarebbe incanalata nell’alveo ambiguo del Pri, partito di governo dal 1929 al 2000.

ATTORNO ALLA RIVOLUZIONE, ai suoi trionfi e alle sue convulsioni, è nata negli anni una narrativa di stampo epico (letta da molti, criticata da alcuni e presa adeguatamente in giro da altri, come l’irresistibile Jorge Ibargüengoitia), ma pochi si sono azzardati a raccontare un episodio come quello avvenuto a nel 1911 a Torreón, cittadina fondata quattro anni prima nel nordest del paese, dove i maderisti avevano messo in fuga l’esercito governativo. Subito dopo l’ingresso in città, le truppe di Madero si scagliarono con violenza inaudita contro la prospera comunità cinese, parte importante quanto silenziosa del complesso mosaico cittadino di nazionalità e culture, e, con il consenso e la partecipazione di buona parte degli abitanti, ne saccheggiarono le case, le terre e le botteghe. Almeno trecentotre persone, quasi tutte originarie di Canton, vennero selvaggiamente assassinate, e i cadaveri, smembrati dai machete, gettati giù dalle terrazze, trascinati lungo le strade, furono infine sepolti in una fossa comune, fuori dal cimitero.

Proprio a questa vicenda si rifà La casa del dolore altrui (gran vía, pag. 314, e.17) che, nell’eccellente traduzione di Francesco Fava, conferma la sorprendente bravura di Julián Herbert, scrittore e poeta, ma anche critico, saggista ed ex leader di gruppi rock come Los Tigres de Borges e Madrastras.

NATO AD ACAPULCO nel 1971, ma da anni residente a Saltillo, non lontano da Torreón, negli ultimi dieci anni Herbert si è imposto come un narratore capace di attraversare generi diversi, cucendoli insieme grazie alla cosiddetta «letteratura dell’io» oggi di moda, piegata però a un’estetica esigente; nella sua produzione spiccano i racconti di Cocaína (manual de usuario), del 2006, il recentissimo Tráiganme la cabeza de Quentin Tarantino, e un romanzo potente e insolito come Ballata per mia madre (gran vía, 2014), in cui rievoca la vita e la morte della madre prostituta, i difficili giorni dell’infanzia, l’accidentato procedere verso la maturità: una mirabile reinvenzione della propria esperienza giocata su tutti i registri, dalla rabbia al lamento all’umorismo più nero. Adesso, con La casa del dolore altrui, Herbert esplora nuove strade in un’opera che è allo stesso tempo cronaca travolgente, saggio, indagine storiografica, romanzo, reportage, mettendosi in scena come personaggio-narratore che insegue una storia sentita da ragazzo, quando gli avevano raccontato che l’autore del massacro di Torreón era Pancho Villa.

Molto tempo dopo, lo storico Carlos Valdés gliela riporterà alla mente, facendogli notare che, per quanto radicata e diffusa, la tradizione orale era falsa, perché in quei giorni il leggendario generale stava assediando Ciudad Juárez: una discrepanza sufficiente a indirizzare la curiosità dello scrittore verso una vicenda che attendeva da sempre di essere raccontata in un altro modo.
Così, grazie a una lunga e accuratissima ricerca, Herbert ha rintracciato e utilizzato fonti di ogni genere: libri di storia, aneddoti, materiali di archivio, fotografie, libelli, memorie, canzoni, voci che corrono, comprese quelle dei tassisti di Torreón (quattro «intermezzi» ce le propongono come una sorta di coro greco), inserendo nel racconto spezzoni della propria vita quotidiana e rivelandoci via via i meccanismi e il «farsi» della propria scrittura. Oltre alla descrizione asciutta e precisa della mattanza, lo scrittore esamina i fatti che la precedono e la seguono, disegna i ritratti di tredici dei protagonisti, ricostruisce la storia dell’emigrazione cinese e soprattutto dimostra che la rabbiosa xenofobia verso gli orientali aveva radici profonde, precedenti all’arrivo dei maderisti.
Il «piccolo genocidio» (così lo chiama Herbert, con ironia) nacque in buona parte dalla propaganda di movimenti come quello di Ricardo Flores Magón, che accusava i cantonesi di rubare il lavoro ai nativi, e, ancora prima, dai racconti a sensazione di marinai, mercanti, missionari, in cui i sudditi del Celeste Impero apparivano come poligami, pagani, subdoli, torturatori, lussuriosi.

UN’AURA quasi demoniaca aveva accompagnato la prima ondata migratoria dei cinesi in America, a metà del XIX secolo, e all’ostilità per una differenza percepita come minacciosa e incomprensibile si era aggiunto il timore che gli orientali, fornitori di mano d’opera a buon mercato ma anche abili commercianti, rappresentassero una minaccia per gli interessi americani. Non è improbabile, suggerisce Herbert, che le oscure leggende sui cinesi fossero arrivate attraverso i figli delle élites locali, studenti negli Stati Uniti, e che il regime di Porfirio Díaz - incline alle teorie eugenetiche e pronto a considerare «desiderabili» solo i migranti europei - se ne fosse nutrito. Il pogrom fu, insomma, il risultato della diffidenza e del disprezzo ormai incistati nell’immaginario collettivo, e a fare da detonatore fu una voce (quella, falsa, di una sparatoria dei cinesi contro i rivoluzionari) che si sparse in un attimo, senza che nessuno si fermasse a verificarne l’autenticità.

In seguito, le indagini ufficiali si preoccuparono soprattutto di imporre una «verità» che calunniava le vittime, dava ragione ai soldati, falsificava le dichiarazioni dei testimoni oculari, per il buon nome della Rivoluzione e del Messico. Strutturato in sequenze, quasi come un copione cinematografico, il testo funziona non solo per ciò che racconta, ma per il modo in cui lo fa. Con una scrittura brillante e di grande efficacia, ricca di immagini memorabili («Immaginavo gli spettri di 303 cinesi che percorrono - con i piedi nudi, bruciati dall’asfalto - le strade di una città che neppure li conosce. L’oblio è più vicino di noi alla natura»), Herbert attinge a materiali diversissimi, accostando i documenti alla voce parallela della cultura popolare, e, un capitolo dopo l’altro, collega il passato al presente, per sottolineare sia le origine remote della violenza che è ormai il marchio di fabbrica del suo paese, sia la contraddizione tra la protesta per la discriminazione e il razzismo subiti negli Usa e il trattamento feroce riservato ai fuggitivi centroamericani, lasciati in balìa della delinquenza organizzata. Ci viene anche svelato, alla fine, il mistero del titolo: «Casa del dolore altrui» è il nome che gli abitanti della zona danno al loro stadio, alludendo all’imbattibilità della squadra locale nelle partite giocate in casa. Un nome che è, secondo l’autore, una perfida parodia della tradizionale ospitalità messicana: «la mia casa è la tua... ma solo per farti male».

PER COMPORRE un testo del genere, in cui coesistono la situazione della Cina tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, la squadra del Santos Laguna, gli scenari domestici dell’autore, il cartello degli Zetas, le varie forme del capitalismo, infinite citazioni letterarie (Paz, Sada, Pacheco, Sarduy e molti altri si aggirano in queste pagine), la musica pop e l’arte d’avanguardia, i film americani e i corridos, le manipolazioni della verità da parte del potere, il selvatico proliferare dei rumeurs e il silenzio delle vittime, l’ironia e il terrore, occorrono una vasta cultura, un’enorme capacità narrativa e una profonda consapevolezza politica: sarebbe impossibile, altrimenti, ottenere una simile qualità formale e insieme chiedere al Messico di guardarsi in uno specchio spaventoso. «Questa non è la storia che cercavi: è quella che ho» ci dice lo scrittore. E la usa. La usa per stabilire un dialogo serrato e doloroso con il suo paese, ma anche con tutti noi, che navighiamo a vista in acque sempre più buie.»

(Francesca Lazzarato in ilmanifesto.it)

Emilio Madero

«...Herbert è uno scrittore straordinario, La casa del dolore altrui è un libro che sconvolge e appaga allo stesso tempo. Non diremo che si tratta di un saggio che si legge come un romanzo, o il contrario. Diremo che si tratta di un libro che ha un passo bello e deciso, scritto con una prosa che appassiona e che porta il lettore in un passato sconosciuto, facendogli vedere che quella parte così lontana del Messico, un secolo fa, somiglia al quartiere accanto più di quanto ci si possa aspettare.»

(Gianni Montieri. Articolo completo in www.minimaetmoralia.it)

 

Una frase al giorno

«Ciò che logora le nostre anime nel modo più rapido e peggiore possibile è perdonare senza dimenticare»

(Arthur Schnitzler, poeta e novelliere, nato a Vienna il 15 maggio 1862 da famiglia israelita, morto nella stessa città il 21 ottobre 1931)

Arthur Schnitzler, poeta e novelliere (Vienna, 15 maggio 1862 - 21 ottobre 1931)

Studiò dapprima medicina e collaborò per alcuni anni col padre Johann, medico eminente. E qualcosa di questa mentalità di medico è rimasto anche nella sua opera di poeta. Ma l'indugio nelle diagnosi lucide e sottili, a fondo psichico e fisiopsichico, ne costituisce un aspetto soltanto: l'altro aspetto - forse più importante ancora - è la sua interiore adesione al morbido clima spirituale della vita viennese dell'epoca. La forza più viva della sua poesia fu la delicatezza di tocco nello sfiorare le zone di penombra delle anime, sulla sempre mobile e incerta linea di congiunzione fra il mondo dei sensi e la coscienza.

(Giuseppe Gabetti - Enciclopedia Italiana (1936). Articolo completo in www.treccani.it)

15 maggio 1862 nasce Arthur Schnitzler, Autore e drammaturgo austriaco (morto nel 1931)

  • Voci: Alba Rohrwacher legge "Signorina Else" di Arthur Schnitzler - Audiolibr
  • Immagini: "SCENA MADRE", di Arthur Schnitzler

 

Un brano musicale al giorno

Maria Theresia Von Paradis / Jacqueline du Pré esegue: Sicilenne (registrato il 16 luglio 1962)

15 maggio 1759 nasce Maria Theresia von Paradis, pianista e compositrice austriaca (morta nel 1824). Musicista austriaca molto apprezzata da Mozart, Maria Theresia von Paradis è una figura particolare nella storia della musica in considerazione dei trionfali successi ottenuti nonostante il terribile handicap della cecità.

Maria Theresia von Paradis, pianista e compositrice austriaca (1759-1824)

Nasce a Vienna, il padre è un funzionario imperiale, segretario per il Commercio. Intorno ai tre anni d’età Teresa Paradis subisce un repentino decadimento della funzione visiva a causa di una sopravvenuta paralisi del nervo ottico; da gennaio a giugno del 1777 viene sottoposta ad uno specifico trattamento presso la clinica del famoso dottor Franz Anton Mesmer, tuttavia senza ottenere alcun beneficio.
Sin da bambina Paradis riceve un’accurata formazione musicale; studia teoria e composizione con Carl Friberth e l’Abate Vogler, pianoforte con Leopold Kozeluch, canto con Vincenzo Righini e Antonio Salieri. Dal 1770 suona stabilmente l’organo nella chiesa di Sant’Agostino; ad una esecuzione dello Stabat Mater di Pergolesi, dove canta anche la parte di primo soprano, è presente l’imperatrice Maria Teresa d’Austria che, affascinata dalla sua bravura, decide di premiarla con una rendita vitalizia. Fino al 1775 Teresa Paradis si esibisce in numerosi concerti suonando a memoria composizioni di Salieri, Mozart e Haydn. Nel 1783 intraprende con la madre una lunga tournée in Europa; a Salisburgo conosce la famiglia Mozart, si esibisce anche a Londra e ai Concerts Spirituel di Parigi dove, nel 1785, collabora con Valentin Haüy all’apertura della prima scuola per ciechi. Durante questo periodo inizia a scrivere musica avvalendosi di una particolare scheda di composizione costruita per lei da Johann Riedinger.
Rientrata a Vienna nel 1786, Maria Theresia von Paradis abbandona l’attività concertistica e si dedica esclusivamente alla composizione affrontando anche generi molto impegnativi quali l’opera e la cantata; nel 1808 fonda un istituto per l’educazione musicale dei bambini.
La sua produzione musicale comprende non meno di cinque opere, cantate, lieder, e numerose sonate per pianoforte. Sono poche, tuttavia, le composizioni a noi pervenute; tra queste è compresa una famosa Siciliana per violino e pianoforte, a lei attribuita, ma della quale si nutrono dubbi circa la sua autenticità.

 


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k