L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno V. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...
Un film al giorno
THE PLAINSMAN (La conquista del West, US, 1936), regia di Cecil B. DeMille. Sceneggiatura di Waldemar Young, Harold Agnello, Lynn Riggs, Grover Jones (non accreditato). Storia di Courtney Ryley Cooper, basata su "Wild Bill Hickok, il principe dei pistoleri", 1934, di Frank J. Wilstach. Prodotto da Cecil B. DeMille. Fotografia: Victor Milner. Montaggio: Anne Bauchens. Musiche: George Antheil.
Cast: Gary Cooper come Wild Bill Hickok. Jean Arthur come Calamity Jane. James Ellison come William "Buffalo Bill" Cody. Charles Bickford come John Lattimer. Helen Burgess come Louisa Cody. Porter Hall come Jack McCall. Paul Harvey come Mano Gialla. Victor Varconi come cavallo dipinto. John Miljan come generale George A. Custer. Frank McGlynn, Sr. Nel ruolo di Abramo Lincoln. Granville Bates come Van Ellyn. Frank Albertson come giovane soldato. Purnell Pratt come Capitano Wood. Fred Kohler come Jake (teamster). Pat Moriarity come sergente McGinnis. Charles Judels come Tony. Harry Woods come sergente quartiermastro. Anthony Quinn come un indiano Cheyenne. Francis McDonald nel ruolo di un giocatore d'azzardo del fiume.
Tre figure mitiche del West (Wild Bill Hickok, Buffalo Bill, Calamity Jane) sono le pedine fondamentali in una classica avventura della guerra indiana. Hickok e Calamity vengono catturato dai feroci Cheyenne e lei per salvare il suo amato rivela al capo Mano Gialla la posizione del distaccamento comandato da Buffalo Bill, richiamato all’azione ance se, fresco di nozze, progettava di aprire una locanda. La battaglia infuria e gli indiani, equipaggiati con fucili a ripetizione, stanno per avere la meglio. Hickok si lancia nella mischia, ma prima riesce a mandare Calamity in cerca di rinforzi. L’arrivo del Settimo cavalleggeri del Generale Custer risolve la situazione dopo di che Hickok vuole assolutamente scoprire chi fornisce le armi ai pellerossa. Il responsabile, l’infido Lattimer, gli manda contro alcuni soldati in odor di direzione così che, quando Hickok li uccide, l’esercito lo ritiene colpevole e non gli resta che la fuga. Sta a proprio a Buffalo Bill il compito di rintracciarlo, ma i due amici, dopo che hanno saputo che Custer e i suoi sono stati sterminati dagli indiani, si alleano per far giustizia dei trafficanti. A Deadwood Hickok uccide Lattimer, ma, mentre attende l’arrivo dell’esercito per consegnare il resto delle banda, viene colpito a tradimento e muore tra le braccia di Calamity.
“La riflessione politica (sulla corsa all’Ovest) da parte di Lincoln poco prima di essere assassinato, lo scontro feroce con le tribù indiane, la tragedia dello sterminio del Settimo Cavalleggeri di Custer (anche se il Little Big Horn non vine citato), la figura mitica degli eroi della frontiera, la liason romantica, con toni da commedia, tra l’appassionata Calamity Jane e il misogino Wild Bill Hickok… DeMille sa maneggiare con sfrontata simpatia il western, lo indirizza con sicurezza nei canoni che in quegli anni stavano definendo il genere, cade in ingenuità che faticano a tenere il passo dei tempi, ma ha splendide finezze di scrittura (quel “Io e le donne non andiamo d’accordo” pronunciato da Hickok che poi si pulisce la bocca con la mano quando CalamitY lo bacia; ma nella cassa del suo orologio tiene una foto di loro due!) e momenti di regia memorabili (la corsa di Hickok che si fa scudo con due cavalli per raggiungere l’avamposto dei soldati, l’impeto della battaglia contro gli indiani). Una tappa fondamentale tra l’epica pionieristica di Walsh (Il grande sentiero) e la rifondazione fordiana di Ombre rosse.”
(Ezio Leoni in www.movieconnection.it)
"The Plainsman" è un film sugli uomini di frontiera del Vecchio West. Non è il tipico western, anche se hai una grande scena di combattimento tra cowboy e indiani; è più simile a una lezione di storia vagamente basata. Il film inizia con l'assassinio del presidente Lincoln. Presto il governo sta pianificando di vendere armi agli indiani attraverso un intermediario di nome John Lattimer (Charles Brickford). Le pistole e i due Bill - Wild Bill Hickok (Gary Cooper) e William "Buffalo Bill" Cody (James Ellison) si incontrano a St Louis mentre iniziano la loro strada verso ovest. Incontriamo anche Jack McCall (Porter Hall), che alla fine ucciderà Hickok alla fine del film. A Leavenworth, Kansas, i due Bill si imbattono nell'amore perduto di Hickok, Calamity Jane (Jean Arthur). Cody e sua moglie Louisa (Helen Burgess) viaggiano con Hickok e Jane a Hays City, Kansas, dove il piano di Cody per aprire un hotel. La storia ha un piano diverso per i due disegni di legge.
Prima di recarsi in Kansas, i Bills avevano combattuto con il generale Custer (John Miljan) durante la guerra civile. Hickok avverte Custer di aver individuato John Lattimer con delle munizioni e che Lattimer intende vendere le munizioni agli indiani. Il generale Custer invia quindi Cody a un esploratore per gli indiani. Nel frattempo, Jane viene rapita dagli indiani Cheyenne che cercano informazioni sui soldati che trasportano proiettili per le loro armi. Hickok tenta di pagare un riscatto per Jane, rinunciando al suo orologio musicale e al ricordo di Jane, ma gli indiani rifiutano. Portano Hickok e Jane dal loro capo. Gli indiani finiscono per scoprire la posizione dei soldati tramite Jane. La più grande scena d'azione del film è la lotta tra i soldati e i Cheyenne. Laddove mi è piaciuta la scena di combattimento accuratamente riprodotta, con Hickok che fa surf tra due cavalli, non ho potuto fare a meno di chiedermi quanti cavalli si sono feriti durante le riprese. Dopo la scena del combattimento il film va in stallo. La gente di Hays City disprezza Jane e la considera una traditrice per aver dato ai Cheyenne la posizione dei soldati. Cody ha intenzione di aiutare Custer in quella che sarebbe la sua ultima resistenza. Hickok ha intenzione di trasferirsi a Deadwood, una nuova città mineraria in piena espansione e senza legge nel South Dakota. Ancora una volta, la storia ha un piano diverso per i nostri due progetti di legge.
Entrambi i Bill sono a piedi dopo che gli indiani hanno rubato i loro cavalli. In qualche modo riescono a incontrarsi mentre vagano per i boschi. Cody sta cercando Hickok per riportarlo dal generale Custer. Custer ha bisogno dell'aiuto di Hickok per combattere la battaglia a Little Big Horn. Non molto tempo dopo, l'unico indiano amichevole nel film si imbatte nei due Bills di notte. Riferisce la notizia che Custer è stato ucciso. A quanto pare i due Bill parlano anche Cheyenne.
I due Bill arrivano a Deadwood, così come John Lattimer. È ancora impegnato nella vendita di munizioni agli indiani. Hickok diventa ancora una volta l'eroe del film uccidendo il malvagio Lattimer. Il film si conclude presto con la morte di Hickok a Deadwood. Dopo aver ordinato la strana combinazione di uova e whisky, McCall si imbatte in Hickok e lo uccide. McCall non ha davvero nessun altro ruolo nel film, a parte cospirare con Lattimer per spostare le munizioni. L'uomo che lo interpreta era perfetto per il ruolo, dato che sembra una donnola.
Il mio personaggio preferito della mossa era Jean Arthur nei panni di Calamity Jane. È stato piacevole vedere una donna interpretare un ruolo diverso da un'insegnante di scuola, una puttana o una damigella in difficoltà. Sembrava perfetta per il ruolo. Era abbastanza donna, se vuoi, e abbastanza maschiaccio. Insieme ai due Bill che si chiamano Bill, il suo ruolo è stato molto divertente da guardare.”
(Heather Silver in www.umsl.edu)
- IL FILM: The Plainsman
- Oppure in: facebook.com
Uno sceneggiatore:
Grover Jones (15 novembre 1893 - 24 settembre 1940) è stato uno sceneggiatore americano - spesso in coppia con William Slavens McNutt - e regista. Ha scritto più di 100 film tra il 1920 e la sua morte. È stato anche editore di riviste cinematografiche e prolifico scrittore di racconti. Jones è nato a Rosedale, nell'Indiana, è cresciuto a West Terre Haute, nell'Indiana, ed è morto a Hollywood, in California. Era il padre della pioniera del polo americana Sue Sally Hale.
Una poesia al giorno
All’Arialda di Testori, di Franco Parenti
Quando tornai, dopo tanto tempo, nella mia città, la sua periferia non era molto cambiata: anche se la barbarie del recente passato aveva lasciato immense ferite, come squarci nel terreno e case devastate. Ma un fervore nuovo la percorreva e tutta l'imbandierava. Si lavorava, si faceva; la sera si ballava nei cortili, nelle piazze, tra le macerie. Tempo di ritrovata allegria e di coca-cola. Ecco, questa parola, come la pronunciavano i ragazzetti delle periferie milanesi mi colpiva l'orecchio e mi procurava un'inspiegabile tenerezza. ''Coca-cola" un suono insolito e indefinibile per un linguaggio. Alla memoria mi ritorna quel bambino smarrito, che tra un panino e la coca-cola raccontava la storia della sua breve vita, già così tragicamente segnata.
Un panino, un panino e una coca-cola
mio fratello, mio fratello è morto, è morto a Gorgonzola
era, era coi partigiani, ci andò all'ultimo momento
prima era con quelli della Muti, prima di quel momento
poi scappò, scappò facendosi coraggio, ai primi di aprile
me lo ricordo bene, aveva la sua divisa, eravamo nel cortile
un panino, un panino e una coca-cola
e i tedeschi, i tedeschi SS un giorno a Gorgonzola
e i partigiani, un giorno di sole, un giorno di fine aprile
e mio fratello di poco maggiore, eravamo nel cortile.
Aspettami - disse - aspettami qui, nasconditi, io mi faccio coraggio
scappo, no, non scappo, scelgo, capisci scelgo e ai primi di maggio
io ritorno, io torno da te che stai qui, nascosto, non aver paura
stai buono, io non so cerca di capire, vado, forse è un'altra fregatura
ma io tento ancora, c'è forse dall'altra parte
qualcosa che cambia, che ci darà un'arte o una parte
Ma sì, ho un amico di là, se arrivo a Gorgonzola
un panino, un panino e una coca-cola coca-cola
io torno a maggio, qui vedrai, tutto sarà cambiato
e se ne andò in divisa, e non è più tornato.
Voleva andare da quel suo amico a Gorgonzola,
aveva fretta
un panino, un panino, una coca-cola
e una sigaretta
(In www.teatrofrancoparenti.it)
15 novembre 1960: dopo lo scandalo per la presunta oscenità dell'opera teatrale "L'Arialda", venata di tematiche omosessuali, il regista Luchino Visconti e gli attori Rina Morelli, Paolo Stoppa e Umberto Orsini si rivolgono al presidente della Repubblica Giovanni Gronchi per protestare contro la censura e contro il divieto di rappresentazione dell'opera. Il Presidente si rifiuta di riceverli.
“L'Arialda è un'opera teatrale (una tragedia popolare) di Giovanni Testori, scritta nel 1960 e andata in scena - preceduta e seguita da accese polemiche e dopo una prima presentazione a Modena il 12 novembre - al Teatro Eliseo di Roma il 22 dicembre 1960, con un testo sottoposto a una settantina di sforbiciate al termine di una dura battaglia con la censura governativa che l'aveva giudicato osceno. La regia era di Luchino Visconti e facevano parte del cast gli attori Rina Morelli, Paolo Stoppa, Umberto Orsini, Pupella Maggio e Lucilla Morlacchi.
Lo spettacolo venne vietato ai minori di 18 anni e, dopo una cinquantina di repliche nella Capitale, approdò a Milano il 23 febbraio 1961 al Teatro Nuovo, ma poté essere rappresentato una sola volta a causa dell'immediato blocco ordinato dal Procuratore della Repubblica Carmelo Spagnuolo, lo stesso giudice che aveva censurato il film di Visconti Rocco e i suoi fratelli. Spagnuolo fece togliere l'opera dal cartellone «per turpitudine e trivialità», sequestrò il copione e sia Testori che l'editore Carlo Feltrinelli vennero denunciati. La vicenda legale durò quattro anni e si concluse con l'assoluzione.
Periferia di Milano, fine anni Cinquanta. La non più giovanissima camiciaia Arialda Repossi vive in una modesta casa con la madre vedova e il bellissimo fratello Eros, coinvolto in un giro di prostituzione maschile e tormentato dall'intera comunità per il suo amore omosessuale nei confronti del tenero Lino.
Dopo la morte dell'impotente fidanzato Luigi, Arialda cerca un suo riscatto a un presente misero e a un futuro senza grandi aspettative tramite il matrimonio con il vedovo Amilcare Candidezza, padre di Gino e Stefano (detto Quattretti), che conducono una vita fatta di ricatti e tradimenti reciproci. Ma l'avvenente Gaetana (terrona spiantata) ruba il fidanzato all'Arialda che - esasperata dal niente che si ritrova in mano - decide di vendicarsi di Gaetana mandando la sua amica Mina, un'affascinante prostituta, a far innamorare Amilcare. Gaetana, disperata, finirà per suicidarsi; Lino morirà in un incidente con la moto che gli aveva regalato l'amato Eros; Arialda, che resterà sola e dilaniata dai rimorsi, pronuncia la battuta finale:” E adesso venite giù, o morti. Venite. Perché, se i vivi sono cosi, meglio voi. Meglio la vostra compagnia. Venite tutti. E portateci nelle vostre casse. Là almeno queste quattro ossa avranno finito di soffrire e riposeranno in pace. Venite. Venite”.
Quarto capitolo de I segreti di Milano, quest'opera mette in scena una tragedia plebea in cui anche i morti hanno un peso importante nella stesura drammaturgica: si lasciano rimpiangere, ma al contempo contribuiscono a consumare la tempra dei vivi, ne fiaccano i nervi, ne biasimano scelte, ne plasmano rinnovati desideri, ne acuiscono ventate di repentino malumore, portano a scatti d'ira veementi. Per la prima volta in Italia, veniva posto al centro della trama la legittimità dell'amore omosessuale, provocando uno scontro con la mentalità allora dominante nel Paese. I cattolici accusarono l'autore di essere fissato con l'eros, la stampa conservatrice insorse e appoggiò la tesi del magistrato che aveva sequestrato lo spettacolo: l'omosessuale era per definizione un «perverso», senza la capacità di amare in modo puro. Dalla parte opposta, dagli ambienti di Sinistra vennero mosse accuse di moralismo e persino di giansenismo.
In tempi più recenti, alcuni critici hanno definito omofoba quest'opera (definita tragedia cattolica), in quanto ai personaggi omosessuali è riservato un destino tragico: il desiderio d'amore e di appagamento sessuale non potrà mai venire soddisfatto, per una sorta d'imperdonabile peccato originale.
L'idea di omosessualità come condizione tragica dell'individuo verrà ripresa da Testori in anni successivi in modo più palese, in parallelo all'apertura della società italiana al movimento per i diritti degli omosessuali: È come se qualcuno mi avesse calcato il dito sulla fronte mentre nascevo: il segno dell'unzione e insieme il segno del male. [...] Vivevo la mia diversità come dannazione ed espiazione, come destino che non potevo accettare. [...] Ho accettato la mia omosessualità con dolore e disperazione.”
(In wikipedia.org)
Un fatto al giorno
15 novembre 1315: battaglia di Morgarten. Un piccolo gruppo di fanti svizzeri sconfigge gli austriaci, numericamente preponderanti, presso Morgarten; fu una delle vittorie che segnarono la via all'indipendenza della Svizzera.
“Il 15 novembre 1315, il duca Leopoldo di Asburgo marciò con la sua scorta in parte a cavallo da Zugo in direzione di Sattel, attraverso la Valle dell'Ägeri. All'estremità sud del Lago di Ägeri, al Morgarten, venne attaccato dagli svittesi che, malgrado fossero in numero inferiore, lo costrinsero alla fuga. Ciò che più tardi fu rappresentata come la prima «battaglia per la libertà» dei cantoni primitivi contro i balivi stranieri, fu al tempo stesso una controversia sull'eredità del Conte di Rapperswil, l'ex balivo del convento.
Cause della Battaglia del Morgarten
Le esatte circostanze che portarono alla Battaglia del Morgarten sono discusse e si trovano ripetutamente al centro di ricerche storiche. Oltre alle ragioni conosciute del «conflitto di marca» e del «conflitto di trono», la ricerca storica attuale suggerisce anche il «conflitto nobiliare».
Conflitto di marca
Il «conflitto di marca», il pluriennale conflitto per i confini e lo sfruttamento tra gli abitanti di Svitto e il convento di Einsiedeln, è un motivo «classico» per lo scontro del Morgarten. Il convento di Einsiedeln, che attorno al 1300 era a tutti gli effetti un'azienda vera e propria con una posizione molto forte nella regione, decise di passare all'allevamento di grosso bestiame, molto più lucrativo, per ragioni economiche dettate dall'agricoltura di sussistenza a copertura del bisogno proprio. La ragione di questa scelta era il commercio con le ambiziose città dell'Altipiano e con la regione economica dell'alta Italia, molto urbanizzata. Per rilanciare la propria organizzazione economica, il convento intraprese modifiche strutturali economiche pionieristiche. Per il commercio del bestiame di grossa taglia, sul terreno proprio del convento o su quello comune vennero create fattorie speciali, le cosiddette «Schweighöfe», e affidate a mezzadri conventuali.
Di conseguenza questi mezzadri si occuparono meno delle tradizionali forme di pastorizia dei «piccoli contadini», ovvero del comune allevamento nella zona d'influenza di Einsiedeln e dei contadini svittesi. La messa in discussione delle forme di sfruttamento contadine stabilite creò potenziale di conflitto da entrambe le parti. Questo perché la modernizzazione significò per i «piccoli contadini» un cambiamento profondo delle modalità economiche conosciute che erano soprattutto rivolte ai piccoli allevamenti. L'allevamento di grandi animali richiese zone di sfruttamento comune, mentre i piccoli allevamenti vennero relegati a superfici marginali. La minaccia alle forme di sfruttamento tradizionali dei piccoli contadini nel terreno comune causata dall'allevamento intensivo di grandi animali portò a rivolte contadine più energiche. In seguito a questa mossa nacquero conflitti di sfruttamento veri e propri. Mentre durante i conflitti il convento prendeva le parti dei suoi mezzadri, da parte loro i contadini svittesi coinvolsero Svitto. Gli scontri culminarono il 6 gennaio 1314 quando gli svittesi attaccarono il convento di Einsiedeln. Il convento fu saccheggiato e alcuni monaci presi prigionieri e portati a Svitto. Questo attacco al convento fu il culmine spettacolare dello sviluppo, che portò da aperti e ripetuti conflitti quotidiani ad azioni di saccheggio di bestiame organizzate finanche a uno scoppio di violenza politica contro l'abbazia.
Conflitto di trono
Una possibile causa, probabilmente però solo marginale, fu il cosiddetto «conflitto di trono» del 1314/15, nel cui contesto potrebbe essere nata la battaglia. Dopo la morte di Enrico VII, i principi elettori non trovarono accordo su nessuno dei candidati comuni per la corona tedesca e così nel 1314 si giunse alla «doppia elezione» di Ludovico il Bavaro (Wittelsbach) e di Federico I d'Asburgo (Asbrugo), il fratello del duca Leopoldo.
Costantemente impegnati nell'ottenere conferma di questo privilegio dall'assegnazione dell'immediatezza imperiale nel 1240 da parte dell'imperatore Federico II con l'elezione di sempre nuovi re, gli svittesi supportarono Ludovico il Bavaro. Egli dava loro la speranza di confermare o rinnovare le «libertà» ottenute nel 1240, che garantivano loro la possibilità di continuare ad autogestire le relazioni interne. Con queste premesse, il Morgarten divenne palcoscenico di un conflitto che divise l'intero regno. Nell'anno dopo la Battaglia del Morgarten, re Ludovico il Bavaro confermò la lettera delle libertà del 1240, probabilmente quale ricompensa per la presa di parte degli svittesi.
Conflitto nobiliare
La battaglia del Morgarten avvenne quasi due anni dopo l'attacco degli svittesi al convento. Mentre la vecchia storiografia partiva dal presupposto di un tentativo asburgico di rappresaglia o disciplina contro Svitto, le nuove ricerche portano a interpretare la dimostrazione di dominio quale motivo principale per l'azione di Leopoldo. In qualità di proprietario dell'avogadria ecclesiastica sul convento di Einsiedeln, egli si sentì sfidato e la sua reputazione messa in discussione dall'attacco al convento.
Tuttavia anche il balivo imperiale reggente dal 1309 nei Paesi forestali Werner von Homberg, vantava diritti ereditari sui diritti di baliaggio del convento di Einsiedeln. In qualità di più importante attore politico della regione, dal 1313 intraprese azioni mirate per rafforzare la propria posizione nella Svizzera interna collaborando quindi strettamente con i locali gruppi al comando nella regione. In questo periodo, il conte Werner assunse nella regione della Svizzera interna un ruolo politico importante e i diritti di baliaggio in questione erano un'importante fondamento di controllo. Concretamente, il «Morgarten» fu una faida aristocratica, quindi un confronto tra il balivo imperiale Werner von Homberg e il signore feudale Asburgo e tra le loro rivendicazioni dei baliaggi sulla proprietà del convento di Einsiedeln. L'esercizio del dominio nel Medioevo richiedeva la presenza personale, e ciò risultava particolarmente importante proprio nelle regioni contese. Dopo l'attacco degli svittesi al convento di Einsiedeln nel gennaio 1314, agli Asburgo si videro costretti a sottolineare i propri diritti di baliaggio sui beni e le genti di Einsiedeln tramite la loro presenza in loco. La Valle dell'Ägeri, allora proprietà del convento di Einsiedeln, fu la rotta di marcia scelta. Con questa azione, Asburgo volle dimostrare il proprio dominio sia sugli svittesi e il loro balivo imperiale Werner von Homberg, che sull'abate di Einsiedeln. A lui andava dimostrato che si poteva fare affidamento alle promesse di protezione degli Asburgo.
Da questa prospettiva diventa chiaro come la resistenza al Morgarten scaturì dalle genti dell'area del balivo Homberg che cercavano di impedire la presenza del dominio del conte Leopoldo ad Einsiedeln. Per finire, anche la speranza di un bottino fu motivo ulteriore per l'attacco degli svittesi..."
(Leggi tutto l’articolo in: Ufficio per la cultura svizzera, Archivio di stato ZG)
- Immagini in: www.swissinfo.ch
Una frase al giorno
“Il popolo cinese ha sempre nutrito buona volontà nei confronti del popolo americano. Nel 1784, la nave mercantile statunitense, Empress of China, salpò per la Cina, aprendo gli scambi amichevoli tra i nostri due popoli. A metà del XIX secolo, diverse decine di migliaia di lavoratori cinesi, lavorando fianco a fianco con i lavoratori americani e sfidando condizioni difficili, costruirono la grande ferrovia che collegava l'est e l'ovest del continente americano.”
(Hu Jintao, discorso alla Casa Bianca, 2006)
“Hu Jintao (胡錦濤T, 胡锦涛S, Hú JǐntāoP; Jixi, 21 dicembre 1942) è un politico cinese. È stato il Quarto Segretario generale del Partito Comunista Cinese, eletto al termine del XIV Congresso Nazionale, nonché Presidente della Repubblica Popolare Cinese e Presidente della Commissione Militare Centrale dello Stato e del partito. Hu Jintao nacque nel 1942 a Taizhou, nella provincia dello Jiangsu. I suoi antenati erano originari di Jixi, nella provincia dello Anhui ove risiedettero finché suo nonno non si trasferì a Jiangyan. Hu si dimostrò uno studente talentuoso, eccellendo in materie quali il canto e la danza. È stato un attivista della Lega della Gioventù Comunista, considerata l'ala riformista del Partito Comunista Cinese, della quale divenne il maggior esponente.
Si unì al Partito Comunista Cinese prima della Rivoluzione culturale cinese, quand'era ancora studente all'Università Tsinghua di Pechino. Si laureò con lode in Ingegneria idraulica nel 1964. Dopo la laurea, Hu divenne assistente universitario, ove lavorò dal 1965 al 1968. Durante la rivoluzione culturale cinese del 1966, il padre fu torturato e morì a Jiangyan. Nel 1966 esplodeva la Rivoluzione culturale. Fra le innumerevoli vittime minori, stritolate dalla campagna contro i "borghesi", vi fu un certo Hu Jingzi della cittadina di Taizhou, in provincia di Jiansu. Colpevole solo di possedere un piccolo negozio di tè, fu espropriato della sua modesta impresa e costretto a diventare un impiegato dello Stato. Per aver osato criticare qualche estremista locale, Hu Jingzhi fu poi accusato di peculato, trascinato in piazza per subire uno dei famigerati processi pubblici delle Guardie rosse e infine incarcerato. Venne liberato solo dopo la fine della Rivoluzione culturale, nel 1978. Morì subito dopo per gli stenti patiti in prigione. Aveva solo 50 anni. Hu Jingzhi era il padre dell'ex presidente della Cina.
Hu Jintao aveva iniziato a fare carriera nei primi gradini della gerarchia comunista quando la notizia della morte del padre lo raggiunse nella regione del Qinghai (il Far West della Cina, in senso letterale), dove era stato mandato a dirigere il partito locale. Si precipitò a Taizhou per ottenere dai suoi compagni la riabilitazione ufficiale del padre, ma non la ottenne.
Un aneddoto narra che Deng Pufang, figlio maggiore di Deng Xiaoping ed anch'esso studente all'Università Tsinghua, fu perseguitato durante la rivoluzione culturale. Catturato e rinchiuso, si accorse che la sua cella era piena di materiale radioattivo e capendo che se fosse rimasto rinchiuso in quel posto sarebbe morto, tentò la fuga saltando da una finestra. A causa della caduta rimase però paralizzato ed impossibilitato a muoversi. Hú vide la scena e portò Deng Pufang ad un vicino ospedale ove poterono salvargli la vita (anche se rimase comunque paralizzato). Questa notizia colpì molto Deng Xiaoping, che successivamente si prodigò per far avere a Hu una promozione. Sostenuto sia da Qiao Shi che da Hu Yaobang, appena quarantaduenne fu nominato segretario del partito della provincia di Guizhou, e lo rimase fino al 1988, quando fu mandato a ricoprire la stessa carica nella Regione Autonoma del Tibet, in cui dall'anno precedente erano iniziate le manifestazioni indipendentiste. Impose immediatamente il pugno di ferro in quella zona, seguendo le indicazioni del governo centrale che chiedeva di stroncare ogni protesta; il 5 e 6 marzo 1989 la polizia fece fuoco sui dimostranti tibetani e dal 7 marzo venne istituita la legge marziale.
Da parte della leadership cinese e di Deng Xiaoping venne molto apprezzata la decisione di Hu d'inviare da Lhasa un telegramma al Comitato Centrale del Partito ove esprimeva il suo incondizionato appoggio all'intervento armato contro i manifestanti di piazza Tien An Men.
Nel gennaio del 1989 morì il Panchen Lama, da molti considerato la seconda autorità spirituale del buddismo tibetano dopo il Dalai Lama. Quella morte scatenò due mesi di disordini in Tibet. Hu, che aveva appena assunto il comando della regione e la frequentava poco, non era certo preparato a capire gli umori della popolazione. La sua reazione fu durissima: legge marziale e repressione poliziesca. La repressione tibetana intanto continuava e Hu accusava il Dalai Lama di "favorire l'insorgere di idee indipendentiste all'interno dell'opinione pubblica, con il sostegno delle forze reazionarie internazionali". La sua linea intransigente gli valse la fiducia dell'"ala dura" del Partito e, mentre Zhao Ziyang e Hu Yaobang continuavano a perdere prestigio, accusati di "debolezza", nell'ottobre 1990 Hu Jǐntāo fu nominato Primo Segretario del Distretto Militare del Partito Comunista in Tibet.
Nel 1992 fu richiamato a Pechino da Deng Xiaoping ed eletto membro del Politburo, massimo organo decisionale cinese. La sua carriera politica continuò, nel 1999 divenne vicepresidente della Repubblica Popolare Cinese, il 15 novembre 2002 viene eletto Segretario generale del Partito Comunista Cinese ed infine, il 15 marzo 2003 divenne Presidente della Repubblica Popolare Cinese e nel 2004 della Commissione Militare Centrale del Partito poi nel 2005 della Commissione Militare Centrale dello Stato.
Quando ha assunto la direzione del partito, al sedicesimo congresso nazionale del partito comunista della Cina, Hu Jintao è sembrato avere un atteggiamento più egalitario del suo predecessore. Hu ed il suo primo ministro Wen Jiabao hanno puntato a realizzare una società più armoniosa, cercando di diminuire le disuguaglianze e di puntare sul benessere. Hanno scommesso sui settori della popolazione cinese che non hanno partecipato alla riforma economica ed hanno effettuato nelle province con l'obiettivo dichiarato di capire meglio le zone più povere della Cina. Hu e Wen inoltre hanno tentato di far uscire la Cina da una politica di "sviluppo economico a tutti i costi" e favorendo una politica economica più equilibrata tenendo conto di fattori quali la diseguaglianza sociale e i danni ambientali, compreso l'uso del "prodotto interno lordo verde".
Una delle maggiori crisi che ha dovuto affrontare Hu durante il suo mandato è legata allo scoppio dell'epidemia di SARS nel 2003. A seguito di forti critiche alla Cina da parte dell'Organizzazione Mondiale della Sanità per aver inizialmente cercato di nasconderla e per aver risposto poi con debolezza e lentezza alla crisi, Hu e Wen hanno deciso di prendere le misure necessarie per aumentare la sicurezza e il monitoraggio della situazione, segnalando i casi alle organizzazioni internazionali della salute.
Molti osservatori internazionali parlano di Hu come di un politico molto liberale, rispetto ai suoi predecessori. Ha introdotto infatti molte novità nella politica interna, mirando a eliminare (almeno in parte) gli enormi privilegi della classe dirigente cinese. Nonostante alcune aperture, rispetto alla politica estera non sembra ancora molto disponibile a concederne. Ad esempio, con la dichiarazione del 17 maggio ha espresso chiaramente la sua volontà di non rinunciare all'obiettivo di considerare l'unificazione della Cina con Taiwan come uno dei più importanti del suo mandato, a costo di utilizzare anche la forza se Taiwan si dichiarasse indipendente.
Il Plenum del partito nell'ottobre del 2004 rilancia il modello socialista e Hu, assunti pieni poteri, dichiara che: "La democrazia liberista occidentale non è fatta per la Cina" e che: "I fatti hanno provato che il socialismo con caratteristiche cinesi è la strada corretta per condurre il paese verso la prosperità e assicurare il benessere ai cittadini".
Una classifica stilata nel 2010 dalla rivista Forbes collocava Hu Jintao al 1° posto nella lista degli uomini più potenti al mondo di quell'anno.
Come capo di Stato della Cina ha aperto le Olimpiadi del 2008.”
(In wikipedia.org)
- Immagini in: espanol.cgtn.com
15 novembre 2002: Hu Jintao diventa Segretario generale del Partito Comunista Cinese.
Un brano musicale al giorno
Giulio Neri (basso) canta dal Simon Boccanegra di Giuseppe Verdi il Prologo "A te l'estremo addio... Il lacerato spirito"
Simon Boccanegra è un'opera di Giuseppe Verdi su libretto di Francesco Maria Piave, tratto dal dramma Simón Bocanegra di Antonio García Gutiérrez. La prima ebbe luogo il 12 marzo 1857 al Teatro La Fenice di Venezia.
- L’opera: Simon Boccanegra, di Giuseppe Verdi
Vienna Opera House (2018)
Direttore: Evelino Pidò
Regista: Peter Stein
Cast
- Thomas Hampson: Simon Boccanegra
- Dmitry Belosselskiy: Jacopo Fiesco
- Francesco Meli: Gabriele Adorno
- Marina Rebeka: Maria Boccanegra (Amelia)
15 novembre 1356: Simone Boccanegra viene eletto doge per la seconda volta. Morirà ancora in carica, probabilmente avvelenato, nel 1363.
“BOCCANEGRA, Simone. - Appartenente a cospicua famiglia genovese di origine popolare, nacque da Iacopo di Lanfranco e da Ginevra Saraceni, figlia di Egidio signore di Rezenasco in Toscana, all'inizio del sec. XIV, pare nel 1301. Ricchi e attivi commercianti, i Boccanegra avevano raggiunto il potere con il fratello del nonno del B., Guglielmo, capitano del popolo dal 1257 al 1262. È probabile che il giovane Simone, chiamato anche Simonino o Simoncino, abbia seguito la tradizione familiare dedicandosi al commercio e alla mercatura. Tutti gli storici genovesi concordano infatti nell'affermare che non aveva rivestito alcun incarico pubblico prima del 1339, quando a furor di popolo fu eletto primo doge di Genova.
Gli anni che avevano preceduto quest'atto rivoluzionario erano stati caratterizzati da grande instabilità politica e sociale a causa delle lotte interne e delle guerre esterne: dopo la lunga signoria dei guelfi e di Roberto d'Angiò, nel 1335 i ghibellini avevano riconquistato il potere eleggendo due capitani del popolo, i quali, impotenti a resistere all'opposizione dei nobili guelfi e alla pressione dei Catalani sul mare, assunsero gradatamente i pieni poteri e persero definitivamente l'appoggio popolare quando si arrogarono l'elezione dell'abate del popolo, in passato scelto dal popolo stesso.
Così quando il 23 settembre 1339 si procedette all'elezione del nuovo abate, i popolari designarono il B., il quale però rifiutò la nomina con il pretesto che egli non apparteneva a famiglia plebea e quindi non poteva ricoprire tale carica. Di fronte al suo rifiuto la folla, sobillata forse da alcuni suoi amici, lo acclamò doge a vita, e questa volta il B. non esitò ad accettare la nuova dignità che il giorno successivo venne confermata anche dal popolo riunito in parlamento.
L'introduzione in Genova del dogato, che nel nome si richiamava all'istituzione veneziana, corrispondeva perfettamente alla contemporanea trasformazione del regime comunale in signoria, in atto ovunque nell'Italia centrosettentrionale. Il nuovo doge assunse i poteri detenuti fino ad allora dai capitani del popolo. Fu istituito inoltre un consiglio di quindici membri scelti fra i popolari, detto degli Anziani, mentre l'amministrazione della giustizia rimase affidata a un podestà forestiero. Tre abati del popolo rappresentavano gli interessi degli abitanti delle tre valli genovesi. Nello stesso tempo i guelfi furono esclusi dalle cariche pubbliche, mentre ai nobili fu proibito l'accesso al dogato. Il compito che si presentava al doge, in un momento in cui le finanze erano esauste, le gabelle quasi tutte ipotecate in favore dei creditori, i commerci ostacolati dalle scorrerie corsare e i territori della Repubblica in mano ai ribelli, non era dei più facili. Ma il B. dette subito prova di grande fermezza. Assunto il comando delle forze militari e delle fortezze riuscì, ancora nel corso del suo primo anno di dogato, a sottomettere i feudatari ribelli e a recuperare i possedimenti genovesi sulle due Riviere e nell'Oltregiogo. Tuttavia la sua tendenza ad accentrare sempre di più nelle proprie mani il potere, distribuendo gli incarichi più importanti tra i suoi congiunti, gli alienò presto non poche simpatie anche tra i popolari e provocò già nel 1339 le prime congiure, che tuttavia riuscì a dominare facilmente.
Una volta consolidato il potere all'interno, il B. si preoccupò di formare una buona flotta per far fronte alle continue scorrerie dei nobili, i quali, scacciati dalle loro terre, si erano dati alla pirateria e ostacolavano i commerci soprattutto con la Provenza, da dove arrivava il frumento per Genova, vittima di una grande carestia nel 1340. Per questa impresa cercò l'aiuto di Pisa, l'antica rivale di Genova, con la quale il 24 giugno 1341 prolungò la pace già esistente per altri venticinque anni. Riuscì a mantenere buoni rapporti anche con quasi tutti gli altri Stati della penisola. Nei confronti del papato tenne un atteggiamento di deferenza e subito dopo la sua elezione a doge ne informò con una solenne ambasceria Benedetto XII ad Avignone. Accettò di buon grado anche la richiesta di Clemente VI di far partecipare navi genovesi a una crociata contro i Turchi. Al re di Castiglia, Alfonso XI, in guerra con il sultano del Marocco Abū l-Ḥasan, nel 1341 inviò venti galee al comando del fratello Egidio il quale, nominato ammiraglio della flotta castigliana, inflisse nel marzo 1342 una grave sconfitta a quella marocchina che assediava Algeciras.
Ma il B. si acquistò meriti particolari nel tentativo di rafforzare la stabilità e la potenza delle colonie genovesi in Oriente. Nel 1341 stabilì di emettere un prestito forzoso per sostenere le spese necessarie alla difesa delle colonie in Crimea gravemente minacciate dai Turchi. Sempre nello stesso anno, dopo lunghe trattative, poté stipulare un accordo, particolarmente favorevole per Genova, con Anna di Savoia, vedova dell'imperatore d'Oriente Andronico III e reggente per il figlio Giovanni V. A partire dal 1342, poi, unì le forze genovesi a quelle veneziane per combattere i Tartari di Gianibek, imperatore del Kipčak, che già nel 1342 avevano assalito i commercianti genovesi e veneziani di Tana, e nel 1344 posero l'assedio a Caffa, la più importante colonia genovese sul Mar Nero. Ma, con l'aiuto dei Veneziani, i Genovesi costrinsero i Tartari a ritirarsi e il B. poté così ricevere in Genova un inviato dell'imperatore Gianibek venuto a chiedere la pace. A conclusione di questa sua intensa attività in favore delle colonie genovesi sul Mar Nero il B. fece raccogliere in un unico corpo, conosciuto con il nome di Liber Gazariae, tutte le leggi per la tutela del commercio e della navigazione in quel mare. Come ultimo episodio della politica coloniale del B. va ricordata la partecipazione di Genova alla lega, conclusa nel 1344 con Venezia e con Clemente VI, contro Omarbeg, il potente emiro di Aydin, al quale i crociati, al comando del genovese Martino Zaccaria, poterono sottrarre Smirne.
Nonostante questi brillanti successi di politica estera, il dominio del B. ebbe fine nel 1344.
I nobili, che non avevano mai desistito dall'ostacolarlo, avevano trovato alleati anche in molti popolari, che gli rimproverarono il governo sempre più assoluto e lo sperpero del denaro pubblico. Infatti per pagare i mercenari assoldati allo scopo di reprimere i frequenti attacchi dei fuorusciti, ma soprattutto per far fronte alle spese della corte fastosa della quale si circondava, il B. si era visto costretto ad imporre tasse sempre più gravose, colpendo soprattutto i Comuni e le località che gli si erano mostrati ostili. Oltre a uno stipendio annuo superiore a 5.000 lire di genovini, percepiva altre somme per la manutenzione dei due palazzi a sua disposizione, per le spese di rappresentanza, per il mantenimento dei suoi falconi da caccia, di un leopardo e di altri animali, cosicché le spese per il doge rappresentavano una voce assai alta nel bilancio della Repubblica.
Perduto l'appoggio dei popolari, il B. all'inizio del dicembre 1344 tentò un accordo con i nobili fuorusciti, promettendo di riammetterli al governo della Repubblica. Ma l'accordo non fu raggiunto, poiché il B. si rifiutò di allontanare dalla città i mercenari al suo servizio.
Dopo questo insuccesso, il 23 dicembre 1344 il B. convocò il popolo a parlamento e, dopo aver ricordato le proprie benemerenze verso la città e il suo operato, abbandonò spontaneamente il potere, imbarcandosi alcuni giorni dopo alla volta di Pisa, con più di 100.000 fiorini d'oro secondo il racconto di Giovanni Villani. Vari motivi spinsero il doge a scegliere Pisa come suo rifugio: l'origine toscana della madre, le buone relazioni da lui tenute con la città e soprattutto la presenza del fratello Niccolò come capitano del popolo in quel Comune.
A Pisa il B. rimase per vari anni. È probabile che egli abbia continuato a interessarsi alle vicende politiche della sua città natale, ma solo nel 1353, quando Genova, bloccata per mare dai Veneziani e dagli Aragonesi e per terra dai fuorusciti aiutati da Giovanni Visconti, si affidò all'arcivescovo milanese, il B. uscì dal suo riserbo. Pare infatti che dal suo esilio abbia sostenuto i tentativi per dare la signoria di Genova al Visconti. Secondo il cronista milanese Pietro Azario avrebbe offerto all'arcivescovo, tramite il suo amico Giovanni Mondella, tesoriere del Visconti, il suo appoggio per la conquista di Genova, ottenendone in cambio ingenti somme di danaro, con le quali pagò alcuni debiti contratti all'epoca del dogato. I cronisti genovesi invece ignorano questi rapporti del B. con il nuovo signore di Genova. Riferiscono che, solo nel 1356, i successori dell'arcivescovo Giovanni, conoscendo il malcontento genovese nei loro riguardi, inviarono a Genova il B., in quel momento mantenuto in ostaggio a Milano, nell'estremo tentativo di riconquistarsi il favore della città; ma appena rientrato in Genova, il B. si unì ai popolari e contribuì con la sua presenza ad incoraggiare la rivolta contro il dominio visconteo. Il presidio milanese, fu cacciato dalla città il 14 novembre e il giorno seguente il B. fu acclamato doge per la seconda volta.
Il suo secondo dogato fu caratterizzato come il primo da una politica antinobiliare; i nobili infatti furono esclusi, ora, non solo dalle cariche pubbliche, ma anche dal comando delle navi commerciali e da guerra. Dopo la sua elezione dovette inoltre ridurre all'obbedienza le principali città della Riviera occidentale che, rimaste fedeli ai Visconti, non riconoscevano il nuovo governo instaurato in Genova.
L'antagonismo con i Visconti, contro i quali alla fine dello stesso 1356 il B. si alleò con Giovanni II Paleologo marchese del Monferrato, rimaneva del resto una costante del suo dogato. L'8 giugno 1358 sottoscrisse il trattato di pace con i signori di Milano voluto da Carlo IV (dal quale, in cambio dell'appoggio dato alla politica italiana dell'imperatore, fu anche nominato vicario imperiale e ammiraglio dell'Impero) e il 22 agosto dello stesso anno firmò l'accordo per combattere le compagnie di ventura. Ma già nel 1360 si schierò nuovamente a fianco del papa contro i Visconti nella questione di Bologna.
Nel suo atteggiamento antivisconteo alle ragioni politiche si univano risentimenti e motivi di inimicizia familiare: il B. aveva dato in sposa la propria figlia Maddalena a Luchinetto Visconti, figlio di Luchino e di Isabella Fieschi, costretto a fuggire dal Milanese insieme con la madre per l'ostilità dei congiunti Galeazzo e Barnabò, che lo consideravano un impostore e non riconoscevano le sue pretese sull'eredità paterna, nonostante l'appoggio dato a Luchinetto dal papa e dal suocero.
Proprio al genero e al fratello Bartolomeo il B. affidò nel 1362 il comando delle forze genovesi inviate nell'Oltregiogo, dove si dovevano unire alla compagnia di ventura dell'inglese Alberto Sterz assoldata dagli avversari dei Visconti. La spedizione non ottenne però i risultati sperati: dopo aver devastato il Tortonese e fatto razzie, al sopraggiungere della cattiva stagione, le truppe fecero ritorno a Genova senza aver tentato la conquista di Milano, come era nelle intenzioni dei coalizzati, e non erano neanche riuscite a riconquistare tutti i territori dell'Oltregiogo occupati dai Milanesi.
Maggior successo ebbe invece la politica del B. nei confronti della Corsica dove, per merito suo, i Genovesi, che prima occupavano solo alcune basi commerciali e pochi castelli, iniziarono una penetrazione in tutto il territorio sostituendosi ai Pisani ed agli Aragonesi. Nel 1358 infatti i Corsi, dopo aver organizzato una ribellione antifeudale, chiesero aiuti contro i nobili al B., che inviò il proprio fratello Giovanni come governatore dell'isola. Agli isolani fu permesso di organizzarsi in un governo di tipo comunale, pur rimanendo l'isola sotto la sovranità genovese.
Per appianare i contrasti insorti con Pietro IV d'Aragona, soprattutto a causa dell'occupazione genovese della Corsica, il doge si rimise all'arbitrato del marchese del Monferrato, il quale, nel marzo del 1360, dopo circa un anno di trattative, pose termine alla vertenza tra Genova e l'Aragona.
Anche con Venezia, nonostante che in Oriente continuasse la rivalità commerciale tra le due repubbliche, il doge cercò di appianare ogni divergenza e soprattutto di unire in una lega le forze genovesi e veneziane contro il pericolo turco: la morte gli impedì di portare a termine questo grandioso progetto che aveva l'appoggio dell'imperatore d'Oriente e del papa.
Per far fronte a questa vasta attività sul piano internazionale e per fronteggiare i nobili ribelli, il B. fu costretto a ricorrere frequentemente a prestiti forzosi tra i cittadini, indebitando in loro favore tutte le gabelle e le entrate dello Stato. Ben presto, mentre la nobiltà non desisteva dal ricorrere ad ogni mezzo per eliminarlo, il popolo cominciò a rinfacciargli gli stessi difetti del primo dogato: la estrema durezza nel reprimere ogni opposizione, l'avidità, il nepotismo, le spese eccessive. Nonostante che il doge, avuto sentore del malumore popolare, avesse allontanato dalla città anche Leonardo Montaldo, il suo più prezioso consigliere, sospettandolo di tramare contro di lui, nell'ottobre e nel novembre 1362 due congiure, ordite contro di lui proprio dai popolari, dimostrano come ormai il governo del B. volgesse al termine. Il B. morì improvvisamente il 14 marzo 1363 dopo aver partecipato, il giorno precedente, a un banchetto in onore del re di Cipro, Pietro di Lusignano, in casa del genovese Pietro Marocello. Appare così comprensibile l'ipotesi, avanzata dai contemporanei, che il B. fosse stato avvelenato.”
(Giovanna Balbi - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 11, 1969, in www.treccani.it)
Ugo Brusaporco
Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.
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