“L’amico del popolo”, 16 aprile 2021

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno V. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

GARDIENS DE PHARE (Guardiani del faro, Francia, 1929), regia di Jean Grémillon. Produzione: Société des films du Grand Guignol. Sceneggiatura: Jacques Feyder. Soggetto dall’opera teatrale omonima di Paul Autier e Paul Cloquemin. Fotografia: Georges Périnal. Montaggio: Jean Grémillon. Scenografia: André Barsacq. Interpreti: Paul Fromet (Bréhan padre), Geymond Vital (Yvon Bréhan), Génica Athanasiou (Marie), Gabrielle Fontan (la madre di Marie). Prima proiezione: 25 settembre 1929.

“Il mare mosso, con le onde che si abbattono violente sugli scogli di una terra inospitale. Il dettaglio di un fazzoletto agitato da una mano e poi un volto femminile di quinta che indossa il tipico copricapo bianco bretone. Quindi il dettaglio di un altro fazzoletto, tenuto in mano da un giovane; un’inquadratura, quest’ultima, mossa in maniera incontrollata e ondeggiante. Con tre stacchi Jean Grémillon ci fa entrare in maniera folgorante in Gardiens de phare, suo film del 1929: un giovane insieme a suo padre si allontana in barca dalla terra, la Bretagna, mentre le donne restano ad attendere il ritorno dei loro uomini. I due sono chiamati a svolgere l’incarico di sostentare per un mese la luce di un faro sito in un’isoletta…”

(da quinlan.it)
 

Gardiens de phare è in origine la versione filmica di una pièce di successo di Autier e Cloquemin, appartenente al repertorio del Grand Guignol (Teatro dell’orrore e del macabro). Albert Décamps ricorda in apertura della sua rimarchevole analisi la professione di fede di Jacques Feyder che ne scriverà la sceneggiatura e l’adattamento: “Lo schermo che reclama delle immagini e non delle parole può esigere una rielaborazione totale del soggetto, può imporre all’adattatore la necessità di creare delle immagini che in apparenza sono molto lontane da quelle che, in una forma letteraria, si trovano nel libro o nella pièce… Il dinamismo straordinario del cinema, la sua estrema mobilità nel tempo e nello spazio autorizzano anche il cineasta a modificare l’ordine del movimento e dell’azione… Tutto gli è permesso dacché è in gioco la perfezione visiva della sua opera. Il cineasta che traduce visivamente un’opera letteraria non ha che uno scopo, fare del cinema, fare un film. Deve rifiutare ogni altra considerazione: il contrario è una confessione d’impotenza da parte sua”.

Nella fattispecie, si vede subito che il cinema ha potuto farci vedere quello che non è raccontato nella pièce, ma l’essenziale, per i nostri occhi, è che il dramma sia fortemente calato in un quadro marino. La sorte dei personaggi qui - come più tardi in Lumière d’été - sembra iscritta nel paesaggio. Dall’inizio il mare, le dune, il faro impongono una presenza magica che fa del luogo una sorta di trappola. Questi connotati visivi sono al centro del film e gli altri - in particolare la luce riflessa sulle lame di vetro della lanterna del faro - hanno senso estetico e drammatico proprio perché legati alla scenografia. Il mare, il faro definiscono spazialmente e moralmente una solitudine ed è l’espressione iniziale e costantemente rinnovata della solitudine che crea il tragico, come sottolinea Albert Décamps: “Ciò che ci sconvolge, che ci colpisce al più profondo di noi stessi, è innanzitutto la solitudine di due uomini, e la loro impotenza che deriva da questa solitudine. Quale che sia la definizione che si attribuisce alla situazione in cui si trovano, che si invochi il destino, la fatalità, un concorso di circostanze, una volontà malefica ostinata a perderli, il dramma che vivono nasce dal loro isolamento. Ciò che è tragico, non è che il figlio sia stato morso da un cane rabbioso, è che essendo stato morso, si trovi in condizioni tali da essere privato di qualsiasi soccorso. Non può comunicare con la terraferma, e anche se potesse, la tempesta impedirebbe che si possa soccorrerlo. È tragica la sua presa di coscienza del male che lo divora e gli sforzi impotenti che tenta per dominarsi”.

(Henri Agel, Jean Grémillon, Lherminier, Paris 1984 in festival.ilcinemaritrovato.it)
 

“A partire da un post di Dominique Daniel del sito “Gardien de phares” ho avuto modo di scoprire un film muto di cui non avevo ancora sentito parlare. Si tratta di Gardiens de phare (Guardiani del faro), di Jean Grémillon, regista della bassa Normandia, che si avvicinò all’avanguardia francese partendo dall’ambiente musicale, per poi passare a quello cinematografico. Alla sceneggiatura c’era addirittura Jacques Feyder che si era ispirato all’opera teatrale omonima di Paul Cloquemin e Paul Autier (1905). La trama, non molto originale, ricorda per altro da vicino Finis Terrae sebbene non ne condivida il lieto fine. Il film venne iniziato nel 1928, ma Gilbert Dalleu, l’attore inizialmente scritturato per la parte del padre, fu vittima di un incidente automobilistico che lo costrinse a dare forfait. Quando, circa un anno dopo, si riprese a girare venne scelto Paul Fromet per interpretare quello stesso ruolo.

Yvon Bréhan (Geymond Vital), giovane guardiano del faro locale, viene morso da un cane mentre si trova con la sua ragazza Marie (Génica Athanasiou). Quando Yvon si reca con il padre (Paul Fromet) sul faro, inizia ad accusare i primi sintomi della rabbia. Il mare in tempesta rende però impossibile l’arrivo di soccorsi… Gremillon mette in scena la storia tragica di un uomo impossibilitato ad aiutare la persona più cara. Nel corso del suo turno di guardia al faro Bréhan padre, costretto a compiere il suo lavoro per il bene della collettività, dovrà sacrificare tutti i suoi affetti. Belle ma angoscianti le scene finali in cui si alternano scene di gioia e speranza, sulla terraferma, da parte delle donne rincuorate dalla seppur tardiva accensione del faro, mentre sullo stesso faro va in scena la profonda disperazione di un padre. Un film molto interessante che presenta riprese e immagini particolari e ben studiate, ricche di primi piani suggestivi. Se, da un lato, abbiamo un’ambientazione bretone banale e stereotipata (tra i vestiti tipici e le solite feste con danze), dall’altra parte abbiamo invece una messa in scena molto originale, con giochi di luci, e inquadrature decisamente stuzzicanti. Bellissime, ad esempio, le riprese fatte sulle barche. Le riprese esterne del film vennero girate quasi completamente nel piccolo borgo di Saint-Guénolé, nel Finistère. Il faro dovrebbe essere quello de la Vielle.

Il film, a lungo considerato “disperso in mare”, per usare un’espressione dello stesso Grémillon, venne fortunatamente ritrovato in Danimarca nel 1954. Purtroppo, però, né la locandina originale dell’epoca, né la partitura musicale sono conservate. Negli anni ’90 il compositore Jean-Louis Agobet ha dato vita alla musica che attualmente accompagna l’opera.”

(Yann Esvan in emutofu.com)

 

 

Un’attrice francese: Gabrielle Fontan, nata il 16 aprile 1873 a Bordeaux e morta l'8 settembre 1959 a Juvisy-sur-Orge.

“Quando i fratelli Lumières organizzarono per la prima volta al mondo la proiezione di un film nel 1895, Gabrielle, che viveva a Parigi, era già un'attrice giovane e talentuosa, piena di esperienza. Era una giovane attrice più che affascinante, fresca giovane e vivace, oggetto di tutte le attenzioni e desideri degli uomini del tempo. In quei folli anni '20, la sua reputazione era tale che aprì il suo corso di recitazione, che fu frequentato in gran numero. Metà perché l'eccellenza del suo insegnamento era nota in tutta Parigi, metà perché per i più poveri era gratis. Allena in particolare la giovane rumena Jany Holt. Successivamente, altri attori come Serge Reggiani e Jacques Dufilho ricorderanno commossi le lezioni che lei dava loro gratuitamente.

Gabrielle interpretò il Gardiens de phare nel 1929. Il film, che racconta la storia dell'arrivo di una giovane ragazza in un piccolo paese di provincia e del suo alloggio nella casa di una vecchia zitella, riscosse un tale successo che Maurice Cloche ne farà una versione con sonoro nel 1937. Nel cast anche Alice Tissot, un'altra grande attrice. È per Gabrielle l'inizio di una lunga carriera cinematografica di quasi centotrenta film dove, a causa del suo fisico e della sua età, appare più spesso come una vecchia zia irascibile, una cameriera ficcanaso o una custode. Dalla salute delicata, l'attrice soffrì di reumatismi deformanti e a meno di 60 anni ne dimostrava molti di più. Ne compirà 80 durante il suo quarto di secolo di cinema, un cinema giubilante di cui è uno dei gioielli.

Conoscerà due Jean Valjean al cinema: Harry Baur e Jean Gabin, due ispettori Javert: Charles Vanel e Bernard Blier. Sarà in molti dei film di Gabin, anche se non sempre nelle stesse scene, come in Le Jour se lève (1939), La Marie du port (1949), Crime et chaâtiment (1956) o En cas de malheur (1958). Gabin sarà anche il suo ultimo compagno di recite in Maigret e l'affare Saint-Fiacre (1959). In tutto, sei film di Gabin con il suo nome, altrettanti con Gérard Philipe, ciò la rende l'attrice francese apparsa nel maggior numero di film dei due più grandi attori del suo tempo.

Morì, divorata dal cancro, l'8 settembre 1959 nella piccola città di Juvisy-sur-Orge a Essonne, ed è sepolta nel cimitero di Pantin a Seine-Saint-Denis.”

(Traduzione di Ugo Brusaporco da: www.notrecinema.com)

 

Una poesia al giorno

La mort d'une libellule, di Anatole France

Sous les branches de saule en la vase baignées
Un peuple impur se tait, glacé dans sa torpeur,
Tandis qu'on voit sur l'eau de grêles araignées
Fuir vers les nymphéas que voile une vapeur.

Mais, planant sur ce monde où la vie apaisée
Dort d'un sommeil sans joie et presque sans réveil,
Des êtres qui ne sont que lumière et rosée
Seuls agitent leur âme éphémère au soleil.

Un jour que je voyais ces sveltes demoiselles,
Comme nous les nommons, orgueil des calmes eaux,
Réjouissant l'air pur de l'éclat de leurs ailes,
Se fuir et se chercher par-dessus les roseaux,

Un enfant, l'oeil en feu, vint jusque dans la vase
Pousser son filet vert à travers les iris,
Sur une libellule; et le réseau de gaze
Emprisonna le vol de l'insecte surpris.

Le fin corsage vert fut percé d'une épingle;
Mais la frêle blessée, en un farouche effort,
Se fit jour, et, prenant ce vol strident qui cingle,
Emporta vers les joncs son épingle et sa mort.

Il n'eût pas convenu que sur un liège infâme
Sa beauté s'étalât aux yeux des écoliers:
Elle ouvrit pour mourir ses quatre ailes de flamme,
Et son corps se sécha dans les joncs familiers.

 

La morte di una libellula (tentata traduzione di Ugo Brusaporco)

Sotto i rami di salice bagnati dal fango
Un popolo impuro tace, congelato nel torpore,
Mentre vediamo sull'acqua ragnatele di ragni
Fuggire verso le ninfee velate da un vapore.

Ma, planando su questo mondo dove la vita pacifica
Dorme d’un sonno senza gioia e quasi senza svegliarsi,
Degli esseri che sono solo luce e rugiada
Soli muovono le loro anime fugaci al sole.

Un giorno ho visto queste snelle damigelle,
Come le chiamiamo noi, orgoglio delle acque tranquille,
Rallegrando l'aria pura con lo  splendore delle loro ali,
Scappare e cercarsi tra le canne,

Un bambino, con gli occhi di fiamme, è entrato nel fango
Spingendo la sua rete verde attraverso gli iris,
Su una libellula; e la rete di garza
Ha intrappolato il volo dell'insetto sorpreso.

Il bel corpetto verde fu forato con uno spillo;
Ma la fragile ferita, in uno sforzo feroce,
Si fece coraggio, e, prendendo questo volo stridulo,
Ha portato il suo spillo e la sua morte verso i giunchi.

Non avrebbe accettato che su un sughero infame
La sua bellezza si manifestasse agli occhi degli scolari:
Aprì per morire le sue quattro ali di fiamma,
E il suo corpo si seccò nei giunchi familiari.

 

Anatole France, grande scrittore francese di raffinata cultura, è stato insignito del Premio Nobel per la Letteratura nel 1921 con la seguente motivazione: «in riconoscimento della sua brillante realizzazione letteraria, caratterizzata da nobiltà di stile, profonda comprensione umana, grazia, e vero temperamento gallico».
Nelle sue opere si avverte il suo profondo pessimismo sulla natura umana che si traduce in disincantato scetticismo espresso ironicamente con sentimenti perennemente altalenanti tra comprensione e tristezza. Dietro la sua graffiante ironia si cela però il suo profondo coinvolgimento alla tragedia dell’uomo moderno che vede lo scrittore costantemente impegnato nella difesa della dignità umana. Per il suo dichiarato ateismo e la sua fede socialista, è stato messo all’indice dalla Chiesa cattolica e disprezzato dai surrealisti che considerano la sua opera banale e sterile. Il risultato di questo accanimento, dovuto più che a ragioni stilistiche al suo scomodo messaggio, è l’oblio in cui è precipitato lo scrittore dopo la sua morte. Ancora oggi la sua produzione letteraria non è facile da reperire perché, a causa della scarsa richiesta dei suoi libri, molti sono gli editori che non li ristampano.

(Leggi tutto l’articolo in lacapannadelsilenzio.it)

 

FRANCE, Anatole (François-Anatole Thibault). - Scrittore, nato a Parigi il 16 aprile 1844, morto alla Béchellerie presso Tours il 12 ottobre 1924. Il nome France non è uno pseudonimo, bensì il nome François pronunciato secondo l'uso dell'Anjou, e adottato dal padre, il libraio François-Noël Thibault (che firmava "France Thibault" e intestava i suoi cataloghi "France, Libraire") per amore verso il paese natale.
Anatole crebbe in una famiglia di piccola borghesia conservatrice. Il lungosenna, i bouquinistes, l'ambiente caratteristico della sua infanzia e adolescenza, sono stati troppe volte descritti con arte squisita dal F., nel Pierre Nozière, nel Petit Pierre, nel Livre de mon ami, nella Vie en fleur, perché sia il caso d'insistere sull'influsso che esercitarono sul suo temperamento. A otto anni, il F. redigeva già un fascicoletto di Nouvelles pensées et maximes chrétiennes, a quindici, una Légende de Sainte Radégonde reine de France; e dal 1854 al 1861, durante i suoi studî al Collège Stanislas, le note autobiografiche, le poesie satiriche, le traduzioni ragionate, dimostrano che il pigro e disuguale alunno conservava la precoce confidenza con la penna.

Uscito dallo Stanislas nel 1862, non riuscì a diventare baccelliere che nel 1864, dopo ripetuti insuccessi, ma il diploma non portò nessuna variante nella sua esistenza di dilettante erudito, che tra un'incombenza e l'altra relativa al commercio del padre rimava, con l'amico Étienne Charavay, dei versi per l'attrice Madeleine Brohan. Col 1867 incominciò a dare articoli di bibliografia e di erudizione all'Amateur d'autographes fondato dal Charavay, alla Gazette bibliographique di A. Lemerre, al Bibliophile français illustré, alternando questi saggi con abbozzi poetici. Durante la guerra del'70, dichiarato inabile al servizio di campagna, rimane a Parigi sino a quando non teme di essere arruolato dai comunardi, e nel maggio-giugno 1871 se ne va a Ville-d'Avray, conservando il suo atteggiamento di spettatore e di curioso. Terminata la bufera, riprende i suoi lavori: è assunto come lettore e consulente dal Lemerre, ed entra così decisamente nel gruppo parnassiano (il Parnasse aveva pubblicato due suoi poemi nel 1869). Il più notevole di tutti gli scritti di questo periodo (da lui ripresi, rifatti, rielaborati e ripubblicati di rivista in rivista con un procedimento che è caratteristico della sua maniera di lavorare, e che durerà sino all'ultimo) è l'Alfred de Vigny (1868), che egli riscriverà per intero nel 1924. Ma occorre attendere il 1873 perché i Poèmes dorés comincino a mettere in luce il F. e costituiscano il suo esordio letterario vero e proprio. La diversità dei soggetti, la composizione scolastica, la trattazione retorica di temi moderni, rendono disuguale e in complesso ingrata la raccolta, ma molte poesie "antiche" (La part de Madeleine) ci dànno già l'atmosfera mistica e sensuale delle Noces corinthiennes (1876), il tono all'André Chénier (uno Chénier che ha letto Renan)...

(Leggi tutto l’articolo di Arrigo Cajumi - Enciclopedia Italiana, 1932, in www.treccani.it)

16 aprile 1844 nasce Anatole France, scrittore francese (morto nel 1924)

 

Un fatto al giorno

16 aprile 1941: Seconda guerra mondiale, battaglia del convoglio Tarigo.

In Tunisia un convoglio navale italiano, il Duisburg, diretto in Libia, alle 02:20 del mattino è attaccato da una squadra navale inglese. Nessuna nave italiana si salva, affondati anche i cacciatorpedinieri italiani Lampo, Luca Tarigo, Baleno e il cacciatorpediniere inglese HMS Mohawk con quattro navi da trasporto inglesi. Circa 1800 marinai italiani morti.

“La battaglia del Convoglio Tarigo fu combattuta il 16 aprile 1941 fra tre cacciatorpediniere della Regia Marina e quattro della Royal Navy durante la seconda guerra mondiale. La battaglia prese nome dall'unità italiana caposcorta, il cacciatorpediniere della Classe Navigatori, Luca Tarigo e si svolse presso le isole di Kerkennah, in prossimità della costa tunisina prospiciente Sfax.

Il controllo del tratto di mare fra Italia e Libia fu pesantemente conteso fra le forze dell'Asse e gli Alleati, poiché entrambe le parti avevano necessità di salvaguardare i propri convogli e, nel contempo, impedire il transito a quelli nemici. I convogli dell'Asse verso il Nordafrica erano cruciali per rifornire e rinforzare gli eserciti italiano e tedesco e, d'altra parte, le forze di interdizione aeronavale alleate erano basate a Malta, la quale a sua volta dipendeva dai convogli per gli approvvigionamenti. Da questa situazione scaturì in pratica tutta la guerra navale nel Mediterraneo, perciò nota anche come Battaglia dei convogli.

La sera del 13 aprile 1941 un convoglio formato da quattro trasporti truppe tedeschi (Adana, Arta, Aegina e Iserlhon) e il mercantile italiano Sabaudia carico di munizioni salpò da Napoli diretto a Tripoli. Era scortato da un cacciatorpediniere Classe Navigatori, il Luca Tarigo (caposcorta), comandato dal capitano di fregata Pietro de Cristofaro, nato a Napoli il 1 settembre 1900, e da due cacciatorpediniere classe Folgore, il Baleno (capitano di corvetta Giuseppe Arnaud, nato a Torino il 14 maggio 1906) e il Lampo (capitano di corvetta Enrico Marano, nato a Cittaducale il 3 ottobre 1903). Supermarina aveva ricevuto rapporti sul rafforzamento della presenza navale inglese a Malta e aveva pianificato il viaggio e il supporto dell'aviazione in modo da superare il passaggio alla distanza minima dall'isola in orario diurno, quindi in condizioni più favorevoli per difendersi da eventuali attacchi dal mare o dall'aria. La prima parte della navigazione fu regolare e tranquilla ma, superate le Isole Egadi, il maltempo imperversò sul convoglio rendendone difficile il procedere in formazione, disperdendolo e ritardando quindi il procedere verso la destinazione. Inoltre, la ricognizione aerea non ebbe modo di operare come previsto, al contrario di quella inglese che invece la mattina del 15 aprile avvistò il convoglio italiano e lo segnalò a Malta. Supermarina, intercettata la comunicazione inglese, richiese nuovamente l'intervento della nostra aviazione, la quale però continuò a essere bloccata dal maltempo. Il convoglio Tarigo giunse quindi nella zona pericolosa verso la mezzanotte del 15 aprile. Privi della ricognizione aerea, gli italiani non si accorsero che da Malta erano intanto usciti quattro cacciatorpediniere della 14ª squadriglia (HMS Jervis - caposquadriglia, HMS Janus, HMS Nubian e HMS Mohawk) sotto il comando del capitano di corvetta Philip Mack. I caccia britannici, indirizzati dalla propria ricognizione aerea e con l'ausilio del radar non ebbero difficoltà ad intercettare il lento convoglio italiano e a manovrare con calma per mettersi nelle condizioni più favorevoli per l'attacco.

Alle ore 02:20 del 16 aprile la squadriglia inglese aprì il fuoco contro l'ignaro convoglio dalla distanza di soli 2000 metri, tra le boe nº1 e nº2 che delimitano le secche di Kerkennah. Lampo e Baleno furono colpiti per primi e, messi subito fuori combattimento, finirono arenati sulle secche. Il Sabaudia, colpito quasi contemporaneamente, esplose inabissandosi e poco dopo vennero colpiti e affondati anche gli altri mercantili. Solo l'Arta rimase quasi indenne e anzi tentò di speronare senza riuscirvi un caccia britannico, per poi andare ad arenarsi sulle secche (verrà poi affondato dal sommergibile Upholder il 26 aprile).

Il Tarigo essendo in testa alla formazione, fu attaccato tra gli ultimi ma immediatamente reagì lanciandosi all'attacco delle unità nemiche. Bersagliato da breve distanza dalle bordate inglesi, fu presto ridotto ad un relitto in preda alle fiamme e agli scoppi con buona parte dell'equipaggio morto o gravemente ferito. Nonostante le gravi ferite, il Comandante Pietro De Cristofaro continuò fino alla fine a dirigere le operazioni di combattimento e di governo della nave, mentre alcuni siluristi, per quanto feriti, riuscirono ad armare con mezzi di fortuna (tutti i circuiti elettrici erano saltati) l'unico complesso lanciasiluri rimasto e a lanciare, colpendo e affondando il Mohawk. Le altre unità britanniche si allontanarono rapidamente dal luogo dello scontro.

Marilibia (il comando marittimo italiano in Libia) organizzò immediatamente una massiccia operazione di soccorso che vide impegnati i cacciatorpediniere Malocello, da Noli, Vivaldi e Dardo, le torpediniere Centauro, Clio, Partenope, Perseo e Sirtori, la nave soccorso-aerei Orlando, la nave ospedale Arno e i piroscafi Antonietta Lauro e Capacitas. Furono recuperati 1271 naufraghi dei circa 3000 uomini imbarcati. Il Comandante De Cristofaro affondò insieme alla nave e fu insignito della Medaglia d'oro al valor militare alla memoria. Medaglia al valor militare anche per il comandante di macchina del Baleno, Cap. G.N. Edoardo Repetto da Borgonovo, ufficiale più alto in grado ferito ma sopravvissuto all'attacco.

Nei mesi successivi si procedette al recupero del Lampo e tre spedizioni subacquee vennero effettuate dai palombari italiani sul relitto del Mohawk consentendo di recuperare importanti documenti militari.”

(In wikipedia.org)
 

“L'operazione Pesca di beneficenza fu un'operazione militare condotta dalla Regia Marina nella primavera del 1942, durante la seconda guerra mondiale. Il suo obiettivo era recuperare i codici segreti contenuti nel cacciatorpediniere inglese "Mohawk" affondato nella Battaglia del convoglio Tarigo del 1941 al largo delle secche di Kerkennah. Fu l'ammiraglio Alberto Lais, del Servizio informazioni e sicurezza della Marina (SIS), a organizzare la difficile operazione, che doveva svolgersi la costante osservazione degli inglesi e sotto le batterie francesi di capo Bon. Due ufficiali italiani, travestiti da pescatori, si fecero carico del difficile recupero, effettuato al limite della resistenza in acqua: riuscirono così a recuperare così il libro dei segnali e il regolamento di servizio della marina inglese, ma non i codici che erano nascosti dietro una paratia piegata dalla pressione dell'acqua.”

(In wikipedia.org)

 

Una frase al giorno

“Quando la Duse venne a Los Angeles, nemmeno l'età e la fine incombente poterono oscurare il fulgore del suo genio. L'accompagnava un'eccellente compagnia italiana. Prima della sua entrata in scena un giovane e bell'attore fornì una prestazione superba, tenendo magnificamente il palcoscenico. Come avrebbe fatto la Duse a superare la straordinaria prestazione di questo giovanotto?

Poi, dal fondo del palcoscenico, all'estrema sinistra, la Duse entrò in scena sbucando da un archivolto, piano piano, quasi senza farsi notare. Si fermò dietro un cestello di crisantemi bianchi che troneggiava su un pianoforte a coda e, silenziosamente, cominciò a rimetterli a posto. Un mormorio percorse la platea, e la mia attenzione lasciò immediatamente il giovane attore per concentrarsi sulla Duse. Ella non guardò né il collega né alcuno degli altri personaggi, ma continuò silenziosamente a disporre i fiori nel cestello e ad aggiungerne altri che aveva portato con sé. Quand'ebbe finito attraversò diagonalmente il palcoscenico, sedette in una poltrona accanto al caminetto e guardò il fuoco. Solo una volta fissò il giovanotto, e quell'occhiata racchiudeva tutta la saggezza e il dolore dell'umanità. Poi continuò ad ascoltare e a scaldarsi le mani: quelle mani così belle, così sensibili.

Dopo il veemente discorso di lui, ella parlò pacatamente guardando il fuoco. Non c'era traccia di istrionismo; la sua voce veniva dalle ceneri di una tragica passione. Non compresi una parola, ma mi resi conto di essere alla presenza della più grande attrice che avessi mai visto.”

(Charlie Chaplin in La mia autobiografia. Sir Charles Spencer Chaplin, attore, comico, regista, sceneggiatore, compositore e produttore cinematografico britannico, autore di oltre novanta film e tra i più importanti e influenti cineasti del XX secolo, nacque a Londra, il 16 aprile 1889 e morì a Corsier-sur-Vevey, il 25 dicembre 1977)
 

“Charlie Chaplin è stato a Vienna nei giorni scorsi, l'ho quasi conosciuto, ma era troppo freddo per lui e ci ha lasciato in fretta. Senza dubbio egli è un grande artista, certamente rappresenta sempre un'unica e medesima figura, quella del giovanotto non forte, povero, abbandonato, maldestro, che alla fine tuttavia ha successo. Ora forse Lei crede che per recitare questa parte debba dimenticare il suo Io? Al contrario egli rappresenta sempre e solamente se stesso, così come egli era nella sua triste giovinezza. Non riesce a liberarsi da quelle impressioni, e ancor oggi si prende la rivincita per le privazioni e umiliazioni di quell'epoca. Egli è, per così dire, un caso particolarmente semplice e trasparente.”

(Sigmund Freud, Lettera a Max Schiller, 26 marzo 1931, Saggi sull'arte, la letteratura e il linguaggio, Boringhieri, Torino 1969)
 

“Uno dei pochi grandi geni del cinema, che è stato paragonato da Delluc a Molière e da Élie Faure a Shakespeare. La sua infanzia, alla fine dell'epoca vittoriana, fa pensare a un romanzo di Dickens. Figlio di due attori e cantanti di music-hall caduti in miseria, conosce, col fratello maggiore Sidney, la vita nelle stamberghe, le notti passate per strada, la mendicità, gli orfanotrofi. All'età di sei anni sale per la prima volta su un palcoscenico per esibirsi in un numero di danza. Appena adolescenti, i due fratelli vengono poi assunti da Fred Karno, sostenitore delle grandi tradizioni della pantomima inglese. Varie tournées portano i due giovani nei music-hall di provincia, a Parigi e infine negli USA. Alla fine del 1913, scoperto da Mack Sennett, accetta senza entusiasmo di firmare un contratto. A Hollywood nel 1914 interpreta per la Keystone 35 film comici, a base d'inseguimenti e di torte in faccia. In essi adotta, con qualche esitazione, il personaggio che doveva renderlo più celebre: bombetta, baffetti, punte dei piedi in fuori, grosse scarpe, pantaloni troppo larghi. Con i 14 film della Essanay, 1915, i grossi effetti e la violenza passano in secondo piano; col nome di Charlot diventa l'omino disoccupato, innamorato, alle prese con le peggiori e costanti difficoltà, da cui riesce a uscire grazie all'umorismo, la dignità, le trovate impensabili: Charlot vagabondo (The Tramp), Charlot apprendista (Work), Charlot inserviente di banca (The Bank). Con i 12 cortometraggi della Mutual, 1916-1917, supera l'abisso che separa il talento dalla genialità. Con film robusti, ricchi di grazia come balletti: Charlot caporeparto (The Floorwalker), Charlot conte (The Count), Charlot al pattinaggio (The Rink) e La cura miracolosa (The Cure), s'avvia verso la polemica sociale ardita e a volte tragica: Charlot usuraio (The Pawnshop), La strada della paura (Easy Street), Charlot emigrante (The Immigrant), L'evaso (The Adventurer).

"Diventa celebre come Sarah Bernhardt e Napoleone", dice Delluc. Dopo aver accettato un milione di dollari, offertigli dalla First National, spinge ancora più avanti la sua critica sociale con la trilogia: Vita da cani (A Dog's Life, 1918), Charlot soldato (Shoulder Arms, 1918), Un idillio nei campi (Sunnyside, 1919). Ogni cortometraggio gli costa ormai parecchi mesi di duro lavoro. È diventato perfettamente padrone dei suoi mezzi drammatici che definisce così: "Mi sforzo d'economizzare i miei mezzi; in L'evaso, mangiando un gelato, lo lascio scivolare giù per i pantaloni e finisce per cadere dal balcone nella scollatura d'una signora elegantemente vestita; un solo fatto serve per mettere in imbarazzo due persone e provocare due risate distinte. Si tiene conto così di due elementi della natura umana: la tendenza dello spettatore a provare le medesime impressioni dell'attore e il piacere del pubblico nel vedere i ricchi nei guai. Se avessi fatto cadere il gelato nel collo d'una povera donna di servizio, non ne sarebbe nato il riso, ma un moto di simpatia per la poveretta". Un attacco permanente contro i "dignitari" indegni e la continua rivendicazione della dignità per ogni "poveraccio" (da lui incarnato) fanno del suo personaggio il fratello d'ogni altro poveraccio di questo pianeta. Venuto a presentare il suo primo lungometraggio Il monello (The Kid, 1921), in Europa, vi è accolto come un trionfatore. Pensa allora di diventare solamente regista con Una donna a Parigi (A Woman of Paris, 1923), che non ottiene però un successo di pubblico analogo a quello degli altri suoi film. Subito dopo ecco il ritorno trionfale di Charlot in La febbre dell'oro (The Gold Rush, 1925).

Nella sua avvertenza a Una donna a Parigi aveva scritto: "L'umanità non si divide in eroi e traditori, ma semplicemente in uomini e donne. Le loro passioni, buone o cattive, vengono dalla natura". Prendendo pretesto da un suo divorzio, i bigotti, che non gli avevano perdonato d'aver denunciato il loro tartufesco conformismo nel Pellegrino (The Pilgrim, 1923), lanciano contro di lui una vergognosa campagna d'opinione. Finisce col trionfare; ma in Il circo (The Circus, 1928) si sente un'amarezza che non lo lascerà più. Quando compare il sonoro, lo rifiuta decisamente. Dopo tre anni di accanito lavoro, porta finalmente a termine Le luci della città (City Lights, 1931), opera perfetta e straziante; parte allora per presentare il suo film in Europa, vi soggiorna a lungo, fa il giro del mondo. Al ritorno comincia a lavorare a Tempi moderni (Modern Times, 1936), ispiratogli direttamente dalla crisi economica del 1929. Poi, quando il fascismo e la guerra minacciano di nuovo il mondo, s'impegna in modo ancora più diretto con Il grande dittatore (The Great Dictator, 1940). Per la terza volta è vittima di persecuzioni. Alla fine della guerra abbandona finalmente Charlot per diventare Monsieur Verdoux (Id., 1947), lucido e feroce nel suo umorismo nero. Il maccartismo finisce per rendergli la vita impossibile a Hollywood e s'imbarca quindi per l'Europa, deciso a non ritornare più in America; qui, presentando Luci della ribalta (Limelight, 1952), dichiara: "Credo nella libertà: tutta la mia politica è qui; sono per gli uomini perché questa è la mia natura. Non credo ai virtuosismi tecnici, alle passeggiate della macchina da presa intorno alle narici delle dive; credo alla mimica, credo allo stile. Non pretendo d'avere una 'missione'. Il mio scopo è dar piacere alla gente".

Con la moglie Oona e i numerosi figli si ritira allora in Svizzera, presso Corsier-sur-Vevey. Dopo aver realizzato a Londra Un re a New York (A King in New York, 1957), scrisse dal 1958 al 1962 le sue memorie pubblicate nel 1964 in tutto il mondo col titolo “La mia autobiografia”. Nel 1966, ancora a Londra, realizza La contessa di Hong Kong (A Countess from Hong Kong), accolto molto freddamente dalla critica. Muore a Corsier-sur-Vevey la notte del 25 dicembre 1977.”

(Georges Sadoul, Il cinema. Vol. 1 - I cineasti, Sansoni Editore, Firenze 1981 in distribuzione.ilcinemaritrovato.it)

 

Un brano musicale al giorno

The Best Of Ray Ventura in: www.youtube.com

  1. Chez moi 00:00
  2. Ca vaut mieux que d'attraper la scarlatine 03:00
  3. Je voudrais en savoir advantage 06:22
  4. Vous permettez que j' deballe mes outils 09:18
  5. Le chef n'aime pas la musique (Le chef d'orchestre) 12:16
  6. Vive les bananes 14:51
  7. Le petite ile 17:20
  8. Tout va très bien madame la marquise 20:22
  9. C'est idiot, mais c'est marrant 23:41
  10. Le nez de Cleopatre 27:02
  11. Et puis d'abord, qu'est-ce que ça peut vous faire 30:04
  12. Les trois mandarins 33:01
  13. Les chemises de l'Archiduchesse 36:05
  14. Tchin kong 39:12

 

Raymond Ventura, noto come Ray Ventura, nato il 16 aprile 1908 a Parigi (Francia) e morto il 30 marzo 19791 a Palma di Maiorca (Spagna), fu un compositore francese, anche arrangiatore musicale, direttore d'orchestra, editore musicale e produttore di cinema, famoso per le improvvisazioni della sua orchestra e per gli spettacoli con i suoi “Collégiens”. Negli anni '30 ha svolto un ruolo significativo nella promozione del jazz in Francia. È lo zio del cantante e chitarrista Sacha Distel.
 

Raymond Ventura, nato il 16 aprile 1908 in 8 bis rue de Châteaudun, era figlio di Abraham Albert Ventura, gioielliere di origine turca, e Sarah Alice Landauer, entrambi di origine ebraica. È stato uno studente delle classi elementari del Lycée Molière (Parigi). Ancora studente delle superiori, Raymond Ventura creò un'orchestra jazz con gli amici del Lycée Janson-de-Sailly. Un certo Albert Cuisin, con sale di ricevimento a pochi metri dalla scuola, rue de la Pompe, prestò i suoi locali affinché il gruppo di giovani potesse esercitarsi. Ray Ventura si esibì per la prima volta in pubblico in occasione di eventi mondani organizzati da Albert Cuisin.

Influenzato dalle orchestre di Paul Whiteman negli Stati Uniti, dai Comedian Harmonists in Germania e Jack Hylton in Gran Bretagna, Raymond Ventura ha fondato una delle prime orchestre di sketch in Francia, "Ray Ventura et ses Collégiens" con alcuni dei suoi amici. Riunì così nella sua formazione musicisti di talento che segneranno la canzone francese: Paul Misraki (pianista, compositore, arrangiatore), Loulou Gasté (chitarrista, banjo, compositore), Grégoire Aslan, cantante e percussionista (vero nome Krikor Kaloust Aslanian detto Coco Aslan), nonché Philippe Brun, Alix Combelle e Guy Paquinet. Registrarono sotto il nome di "Ray Ventura and His Collegians" per la Columbia Records a partire dal 1928.

Nel 1929, il gruppo si esibì per un po' di tempo al casinò di Deauville, dove fu notato da uno dei direttori della Compagnie Générale Transatlantique, che offrì ai giovani una crociera di ritorno a New York, per il prezzo della loro partecipazione all'animazione di bordo. Ray Ventura, Paul Misraki e Loulou Gasté avevano tutti 21 anni all'epoca e questi giovani alti, simpatici e dinamici, che suonavano la loro musica con entusiasmo e buon umore, riscossero molto uccesso. Si esibirono in numerosi concerti dal 1931: a Salle Gaveau, a l'Impero, Bobino, l'Olympia, il Casino de Paris, e presto con tour in tutta la Francia, finché Ray Ventura aprì il suo cabaret sugli Champs-Élysées nel 1936 e la sua canzone, scritta da Misraki, Tout va très bien Madame la marquise, fu sulla bocca di tutti. Raymond Legrand (orchestrazioni) si unì al gruppo nel 1934, così come André Cauzard (trombone e arrangiamenti) e Guy Dejardin (orchestrazioni dal 1939). Anche il paroliere André Hornez giocò un ruolo di primo piano nella formazione di Ray Ventura, poiché la maggior parte dei grandi successi dei Collegians of Ray Ventura furono scritti da Paul Misraki (per la musica) e André Hornez (per i testi).

Quando fu dichiarata la guerra nel settembre 1939, l’orchestra fu incorporata nella spedizione dell'equipaggio nella Francia orientale. Dopo la sconfitta nel giugno 1940, Ray Ventura si rifugiò nella zona non occupata. Nel 1941, con la sua orchestra, fece diverse tournée in Svizzera dove registrò alcuni dischi. Di discendenza ebraica sefardita, subì persecuzioni antisemite con alcuni membri della sua orchestra. Lasciò la Francia nel novembre 1941 con, tra gli altri, Henri Salvador, Grégoire Aslan, Paul Misraki, Louis Vola, e andò in tournée in Sud America, in particolare in Brasile e Argentina, dove ha registrato dischi. Il loro ritorno in Francia alla Liberazione sarà trionfante. Ray Ventura creò quindi una nuova formazione (1945-1949) che ottenne di nuovo successo, dove entrarono suo nipote Sacha Distel e il giovane chitarrista-cantante Henri Salvador. Suonarono in diversi film, prodotti dallo stesso Ray attraverso la compagnia Hoche Productions, fondata nel 1947 con Bruno Coquatrix; questi film contribuiranno notevolmente alla loro popolarità e a trasmettere le loro canzoni sulla TSF in tutte le regioni della Francia.

Nel 1953 sposò Jacqueline Lemoine dalla quale ebbe due figlie, Carole e Anne. Nel 1959 promosse la grande orchestra del Caravelli, allora agli inizi. Ma gli anni Cinquanta sono ormai caratterizzati dalla sua attività di produttore cinematografico, in particolare Et Dieu crea la femme in compagnia di Raoul Levi, con Hoche Productions.

Durante gli anni '60, il successo di orchestre come la sua andò scemando e, di fronte all'importanza del disco e della radio, questa formazione con un gran numero di cantanti e musicisti divenne una formula troppo costosa per rimanere praticabile. Ray Ventura lasciò il palco per dedicarsi anche all'editoria musicale. Aiuterà così a lanciare Georges Brassens), mentre la maggior parte dei suoi “Collégiens” tentano l'avventura di una carriera da solista. Non tutti avranno successo, ovviamente, ma alcuni come Henri Salvador, Henri Génès, Jacques Hélian, Philippe Lemaire, André Ekyan o Sacha Distel si affermeranno.

Ritiratosi a Palma di Maiorca, Raymond Ventura vi morì nel 1979. In quegli anni, con la moda retrò degli anni Settanta, Le grand orchestre du Splendid restituì nel 1977 una seconda giovinezza allo stile e ai grandi successi prebellici di Ray Ventura. Intorno al 1993, suo nipote, Sacha Distel, registrò un nuovo disco con i principali successi di suo zio, con la partecipazione di Henri Salvador, Paul Misraki, Stéphane Grapelli e molte star. Ray Ventura è sepolto a Parigi nel cimitero di Batignolles.

(Traduzione di Ugo Brusaporco da: wikipedia.org)

 

 

Nous irons à Monte Carlo è un film francese girato in due versioni, una versione francese diretta da Jean Boyer e una versione inglese Monte Carlo Baby, co-diretta da Jean Boyer e Lester Fuller. Il film è uscito nel 1951. Musiche: Paul Misraki. Etichetta: Impéria. Canzoni: Tout mais pas ça, C'est que je t'aime, Oui mon amour interprétées. Nel cast, Ray Ventura interpreta se stesso con la sua orchestra".

 


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

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