“L’amico del popolo”, 16 ottobre 2018

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno II. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

CIELO SULLA PALUDE (Italia, 1949), regia di Augusto Genina. Soggetto: Elvira Psorulla. Sceneggiatura: Augusto Genina, Suso Cecchi d'Amico e Fausto Tozzi. Fotografia: Aldo Graziati. Montaggio: Otello Colangeli e Edmondo Lozzi. Musiche: Antonio Veretti. Cast: Inés Orsini: Maria Goretti. Rubi Dalma: contessa Teneroni. Michele Malaspina: conte. Domenico Viglione Borghese: dottore. Assunta Radico: madre di Maria. Giovanni Martella: padre di Maria.

La famiglia di Luigi Goretti, bracciante agricolo, composta di padre, madre e sei figli, viene alloggiata per intercessione dei proprietari, nel casolare abitato dai coloni Serenelli, padre e figlio, nella malsana zona paludosa, vicino a Nettuno. I Serenelli accolgono con aperta ostilità i nuovi venuti. Luigi Goretti è un lavoratore instancabile, ma ben presto la malaria l'uccide. La famiglia, rimasta priva del suo capo, è esposta più che mai alle prepotenze dei Serenelli. Il vecchio, ubriacone e dissoluto, fa una corte assidua alla vedova; ma viene da questa risolutamente respinto. Il figlio Alessandro è preso da una passione morbosa per la figlia maggiore Maria, ancora quasi bambina. Dapprima cerca d'attirarla con qualche piccolo dono, poi tenta d'usarle violenza. Ma la piccola gli resiste decisamente e gli sfugge, eccitando sempre più le malvagie brame del giovane, che giunge al punto di minacciarla. In un giorno di luglio, nell'ora più calda, mentre tutti sono fuori a lavorare. Alessandro obbliga Maria ad entrare in casa ed accecato dall'ira per la ferma resistenza della fanciulla, la colpisce replicatamente con un punteruolo. Trasportata all'ospedale, la poveretta muore dopo atroci sofferenze sopportate con ferma fede e dopo aver perdonato al suo assassino.

CIELO SULLA PALUDE (Italia, 1949), regia di Augusto Genina

“E' Augusto Genina, regista di Il cielo sulla palude, il film che rievoca il martirio della piccola Maria Goretti, uccisa tanti anni fa perché non volle cedere a un innamorato violento. Genina ha fatto col Cielo sulla palude una pellicola assai notevole. Nato con l'istinto del racconto cinematografico nel sangue, egli seppe darci, al tempo del muto, l'indimenticabile Paix de beauté, e, nel ventennio, uno dei pochi film validi dell'epoca, L'assedio dell'Alcazar. Come i maestri veri (ci occorre l'esempio, nelle arti figurative, di un Tiziano, di un Goya; nella letteratura di un Goethe, di un Gide) Genina ha saputo comprendere il messaggio delle nuove generazioni e adottare il linguaggio dei giovani.»

(Pietro Bianchi)

«La storia del martirio di Maria Goretti, narrata in termini agiografici, quasi di esaltazione religiosa, ma con agganci precisi al mondo umano e sociale in cui si è svolta, il mondo contadino gretto e chiuso, del principio del secolo, descritto in termini neorealistici. È il tema di questo film del dopoguerra diretto da Genina, dopo sette anni di silenzio. Ai film fascisti e bellicosi di prima si sostituisce ora un film di ispirazione cristiana, devoto, esaltato ed esaltante, ma il fondo del problema artistico non cambia.
Ora come allora l'interesse precipuo del regista va alla tecnica di ripresa, allo stile della narrazione, al decoro formale e alla cura artigiana, cosicché questo suo film, fin troppo esaltato, non è altro che un decoroso e dignitoso racconto popolare, ben condotto, ma tutto in superficie, tutto risolto nello splendore delle immagini e in un certo gusto realistico che può essere scambiato per approfondimento critico...»

(Gianni Rondolino su Catalogo Bolaffi del cinema italiano 1945/1955)

CIELO SULLA PALUDE (Italia, 1949), regia di Augusto Genina

“Inattivo dai tempi di Bengasi (1942), Augusto Genina dovette aspettare sette anni prima di tornare dietro alla macchina da presa. L’occasione gli arrivò alle porte del Giubileo, con il biopic dedicato a Maria Goretti, visto con più di un occhio di riguardo da settori perlomeno sospettosi della progressiva egemonia culturale che la sinistra stava allora esercitando sul cinema italiano. Sarebbe semplicistico e sicuramente sbagliato dire che da regista di regime (suoi i migliori film di propaganda) Genina divenne qui regista della repubblica, massimo esponente di un altro realismo agli occhi di chi intendeva lavare i panni sporchi in famiglia.

In realtà, la faccenda è molto più profonda, perché, s’è detto molte volte, il regista aveva un curriculum tanto eclettico quanto impeccabile. A suo modo, Cielo sulla palude rappresenta un unicum, certamente un film-cerniera e di frontiera nel percorso di Genina, che apre l’ultima stagione della sua carriera, dominata dall’interesse attorno al femminile e da una certa attenzione al periferico geografico quindi umano. Se superficialmente può sembrare il tipico prodotto da circuito parrocchiale, pensato per un consumo duraturo e rivolto ad un pubblico semplice e popolare, a scandagliarlo bene questo film forse un po’ sopravvalutato eppure complesso, fosco, allucinato - e soprattutto indicativo del periodo più di altri titoli - presenta elementi in apparenza contraddittori che però tendono ad una narrazione consapevolmente retorica.

La povera gente può contare sulla bontà di due nobili che appaiono, concedono e scompaiono, ma non sulla solidarietà di classe, come testimonia la volgare ostilità dell’anziano contadino ubriacone; la chiesa è un’istituzione più importante della scuola (siamo ai primi del Novecento, le politiche dell’istruzioni non hanno alcun effetto presso coloro che non considerano nemmeno l’obbligo scolastico), il sacramento della comunione merita l’attraversamento solitario di una palude piena d’insidie, ma niente vieta al disperato padre di affidarsi al responso di un’indovina o all’amichetta di accettare i baci del moroso.

Tutto, come agiografia comanda, è giustamente volto a celebrare l’immacolata figura della santa, la cui giovane attrice ha però turbato le fantasie erotiche Denys Arcand (la cita ne Le invasioni barbariche e la dice lunga sul non-detto che sottende il film). Assistito dal grande G. R. Aldo, che coglie la luce ora tenebrosa ora aspra dell’Agro Pontino, nonché reduce dall’antitetico e comunque adiacente La terra trema, Genina segue la tendenza neorealista di prendere non professionisti per i ruoli principali, ma più che un improbabile approccio al movimento è forse una scelta da leggere nella prospettiva del rispecchiamento, una sorta di rievocazione popolare di un racconto fondativo nell’immaginario cattolico novecentesco.”

(Lorenzo Ciofani in www.cinefiliaritrovata.it)

CIELO SULLA PALUDE (Italia, 1949), regia di Augusto Genina“Si sa che Cielo sulla palude è un film di circostanza, realizzato in occasione della canonizzazone della giovane Maria Goretti, assassinata a quattordici anni dal ragazzo a cui essa si rifiutava. Tali premesse potevano far temere il peggio. L’agiografia è in sé un genere pericoloso, ma insomma ci sono dei santi da vetrata e altri che sembrano fatti – quale che sia il loro rango in paradiso – per i gessi dipinti di Saint-Sulpice. [...] Niente di sorprendente che questa vita di santa abbia deluso, almeno in Francia, ancora più i cristiani che i non credenti. I primi infatti non vi trovano alcuna apologetica religiosa e i secondi nessuna giustificazione morale. Non c’è che la povera vita di una ragazzina stupidamente infranta, senza nessuno dei segni particolari che giustificano tutto. [...] Ma è appunto merito di Genina quello di aver fatto un’agiografia che non prova nulla e soprattutto non la santità della santa. Il suo merito: non solo artistico ma religioso. Cielo sulla palude è uno dei rari film cattolici validi.

Qual è stato infatti il partito preso di Genina? Non solo, questo va da sé, rifiutare gli abbellimenti di circostanza, il simbolismo dell’iconografia religiosa, e per dir tutto, il meraviglioso dell’agiografia tradizionale. [...] Il suo proposito va molto più lontano: è quello di una fenomenologia della santità. [...] Il problema che si pone al cinema come in teologia è quello della retroattività della salvezza eterna. Ora, in tutta evidenza, al presente non esiste un santo, ma solo un essere che lo diventa e che peraltro fino alla morte rischia di dannarsi. Il partito preso del realismo di Genina gli impediva per di più, sotto pena di tradire lo spirito della sua impresa, di supporre come data, in una qualsiasi delle sue immagini, la ‘santità’ della sua protagonista. [...]

Per questo Cielo sulla palude sembrerà agli spettatori abituati a un’apologetica che confonde la retorica con l’arte e le effusioni sentimentali con la Grazia, un film disorientante. In un certo senso Genina si fa avvocato del diavolo diventando il servitore della sola realtà cinematografica possibile.”

(André Bazin, “Che cos’è il cinema?” Garzanti, Milano 1999)

 

16 ottobre 1890 nasce Maria Goretti, martire e santa italiana (morta nel 1902)

CIELO SULLA PALUDE (Italia, 1949), regia di Augusto Genina

 

Una poesia al giorno

La ballata del carcere, di Oscar Wilde

In Memoriam C.T.W. Già soldato delle guardie reali a cavallo. Obiit nel reale carcere di Reading, Berkshire, il 7 luglio 1896

Il 16 ottobre 1854 nasce Oscar Wilde, drammaturgo, romanziere e poeta irlandese (morto nel 1900)

I. stanza

Egli non indossava più la sua tunica dal colore scarlatto, poiché il sangue ed il vino sono rossi ed il sangue ed il vino erano sparsi sulle sue mani, quando lo trovarono assieme con la morta, quella povera donna ch’egli amava e che aveva uccisa nel suo letto.

Egli camminava in mezzo agl’imputati, vestito d’un abito grigio logoro; aveva in capo un berretto da sport e gaio e leggero pareva il suo passo; - ma io non vidi mai un uomo fissare così intensamente la luce.

Mai io non vidi un uomo fissare con occhio così ardente quella esigua striscia d’azzurro che i prigionieri chiamano il cielo ed ogni nuvola che fluttuava e passava come vela d’argento.

Con altre anime in pena io camminavo in un altro recinto, domandandomi se quell’uomo avesse commesso un piccolo o un grande delitto, quando sentii qualcuno che mormorava a bassa voce dietro di me: quello sarà impiccato.

Ah! Cristo! Le mura stesse della prigione parvero improvvisamente vacillare e il cielo sulla mia testa divenne come una volta d’acciaio; e, benché io pure fossi un’anima in pena, la mia pena io non la potevo sentire più.

Io seppi solamente quale ostinato pensiero affrettava il suo passo e perché egli guardava la tormentosa luce del giorno con un occhio così intenso: l’uomo aveva ucciso colei che amava: e per ciò egli doveva morire.

Eppure ogni uomo uccide ciò ch’egli ama, e tutti lo sappiamo: gli uni uccidono con uno sguardo di odio, gli altri con delle parole carezzevoli, il vigliacco con un bacio, l’eroe con una spada!

Gli uni uccidono il loro amore, quando sono ancor giovani; gli altri, quando sono già vecchi; certuni lo strangolano con le mani del Desiderio, certi altri con le mani dell’Oro; i migliori si servono d’un coltello, affinché i cadaveri più presto si gelino.

Si ama eccessivamente o troppo poco; l’amore si vende o si compra; talvolta si compie il delitto con infinite lagrime, tal’altra senza un sospiro, perché ognuno di noi uccide ciò ch’egli ama - eppure non è costretto a morirne.

Non è costretto a morire d’una morte infamante in un giorno di tetra jattura, non ha intorno al collo il nodo scorsoio, né la maschera sulla sua faccia; non sente, attraverso il palco, i suoi piedi precipitare nel vuoto.

Non è costretto a vivere assieme a degli uomini taciturni che lo sorvegliano di giorno e di notte; che lo spiano quando vorrebbe piangere o quando tenta di pregare; che lo spiano per la paura ch’egli stesso defraudi la prigione della sua preda.

Non è costretto a destarsi sul far dell’alba per scorgere delle spaventose figure raccolte nella sua cella; il Cappellano che trema, paludato di bianco, lo Sceriffo severo, in attitudine di compunzione e il Governatore tutto nero e cerimonioso - con una gialla faccia da Giudizio Universale.

Non è costretto a levarsi con una fretta che fa pietà, per indossare i suoi abiti di condannato, mentre il medico dalla bocca volgare lo cova cogli occhi e prende nota di ogni gesto grottesco e di ogni contrazione nervosa, maneggiando un orologio i cui deboli tic-tac somigliano ai colpi sordi di un orribile martello.

Non è costretto a conoscere la sete bruciante che strazia la gola, prima che il carnefice con i suoi guanti di ruvido cuoio entri per la porta ferrata e vi leghi con tre cinture, in modo che la vostra gola non abbia più sete.

Non è costretto ad inginocchiarsi per ascoltare il salmo dell’Ufficio dei Morti; e, mentre il terrore della sua anima gli accerta che non è morto, non incontra la sua bara, entrando nell’orrida baracca.

Né è costretto a gettare un estremo sguardo al cielo attraverso un piccolo pertugio di vetro; e non prega con delle labbra argillose che la sua agonia termini presto; e non sente sulla sua guancia che rabbrividisce il bacio di Caifa.

II. stanza

Durante sei settimane il condannato a morte fece la sua passeggiata nel cortile, vestito del suo abito grigio logoro; e in capo aveva il berretto da sport e il suo passo pareva gaio e leggero, ma io non vidi mai un uomo fissare così intensamente la luce.

Mai vidi un uomo guardare con un occhio così intenso quell’esigua striscia d’azzurro che i prigionieri chiamano il cielo e ciascuna delle nuvole vagabonde che trascinava nell’aria la sua capigliatura scarmigliata.

Egli non torceva le sue mani, come fanno quegli insensati che osano tentare di far vivere la Speranza, questo figlio maledetto, nella tomba della cupa Disperazione: non guardava che il sole e respirava l’aria del mattino.

Non si torceva le mani e non piangeva e non si tormentava, ma respirava a grandi sorsi l’aria, come se avesse contenuto qualche ignota virtù; con tutta la bocca aperta egli beveva il sole come se fosse stato del vino!

E le altre anime in pena ed io, che passeggiavamo nell’altro cortile, dimenticammo ad un tratto che noi stessi avevamo commesso un piccolo o un grande delitto e osservavamo con uno sguardo di freddo stupore l’uomo che doveva essere impiccato.

Ed era strano il vederlo passare con un’andatura così leggera e disinvolta - ed era strano il vederlo fissare così intensamente la luce - ed era strano il pensare ch’egli aveva un così gran debito da assolvere.

Perché l’olmo e la quercia hanno delle gaie fronde che erompono in primavera; ma orrendo a vedersi è l’albero della forca con le sue radici morse dalle vipere e, sia pur verde o secco, un uomo deve morire prima ch’esso rechi il suo frutto!

La più alta vetta è quel trono di grazia verso il quale tendono tutti gli sforzi degli uomini; ma chi vorrebbe trovarsi con una corda di canapa al collo, alto sul patibolo, e attraverso il collare dell’assassino, gettare l’ultimo sguardo al cielo?

Dolce è danzare al suono dei violini quando l’Amore e la Vita sono propizi: delicato e rarissimo è il danzare al suono dei flauti e dei liuti; ma non è troppo dolce danzare per aria con agile piede.

Così, con curiosi occhi e con paurose ipotesi, noi l’osservavamo di giorno in giorno e ci domandavamo se ognuno di noi non sarebbe finito nella stessa maniera – perché nessuno può dire in quale rovente inferno la sua anima si si può perdere.

Infine - l’uomo morto non passeggiò più con gl’imputati e seppi ch’egli si teneva in piedi nell’orribile e nera tana in cui compaiono gli accusati e che mai più in questo mondo soave del Signore io avrei veduto la stia faccia.

Come due bastimenti in pericolo che passano nella tempesta, noi ci siamo incontrati in cammino; ma non abbiamo fatto nessun segnale, non abbiamo detto la più piccola parola; non avevamo nulla da dirci; perché non ci siamo incontrati nella notte santa, ma nel giorno di vergogna.

Il muro di una prigione ci rinserrava entrambi; due diseredati eravamo: il mondo ci aveva rigettato dal suo cuore e Dio dalle sue cure: e l’insidia di ferro che attende il peccato ci aveva colti nella sua trappola.

III. stanza

Nella Corte degl’Indebitati ruvido è il lastrico e alte le mura fuligginose, ed era là ch’egli prendeva l’aria sotto il plumbeo cielo e da ogni lato un Guardiano gli camminava accanto per timore che l’uomo morisse.

Oppure egli si poneva a sedere con coloro che spiavano la sua angoscia di giorno e di notte; che lo sorvegliavano, quando s’alzava per piangere o quando s’inginocchiava a pregare; che lo spiavano per la paura che da sé medesimo si sottraesse al capestro.

Il Governatore era forte negli Articoli del Regolamento; il Medico diceva che la Morte non era che un fatto scientifico e due volte al giorno il Cappellano giungeva, lasciando un piccolo trattato.

E due volte al giorno egli fumava la sua pipa e beveva la sua tazza di birra; la sua anima era pronta e in nessun angolo avrebbe potuto insinuarsi la paura; spesso diceva ch’era contento del supplizio prossimo.

Ma per quale ragione egli dicesse una così strana cosa, nessun Guardiano osava di chiederglielo; perché colui che ha ricevuto dalla sorte il compito di custode deve sigillare le sue labbra e portare sul volto una maschera.

Altrimenti potrebbe commuoversi e che dovrebbe dunque fare la Pietà Umana chiusa nell’Antro degli Assassini? Quale parola di grazia in un tal luogo potrebbe confortare l’anima d’un fratello?

Con un’andatura pesante e cadenzata, intorno al cortile, noi formavamo la Parata dei Pazzi! Che importava a noi! Sapevamo d’essere la Brigata del Diavolo e le teste rase e i piedi di piombo facevano invero un’allegra mascherata.

A filo a filo laceravamo la corda incatramata con le nostre unghie logore e sanguinanti; strofinavamo le porte e lavavamo i pavimenti, e forbivamo le lucide sbarre e, a gruppi, insaponavamo le intelaiature, urtando con frastuono le secchie.

Si cucivano i sacchi, si spezzavano le pietre, e si girava il trapano polveroso; si urtavano le carrette e si sbraitavano gl’inni e si sudava al mulino; ma nel cuore d’ognuno il terrore era nascosto e tranquillo.

Tanto tranquillo esso era che ogni giorno si trascinava come un’onda carica d’àlighe; e noi dimenticavamo il crudo destino che attende la vittima e il birbante, sino a che, una volta, ritornando da una «corvée» passammo accanto ad una tomba aperta.

Con la bocca, spalancata la fossa giallastra sbadigliava nell’attesa del suo vivente pascolo; perfino il fango chiedeva del sangue al cortile d’asfalto e sapemmo che prima della bionda alba uno di noi penderebbe dal capestro.

Direttamente rientrammo, con l’anima assorta nell’idea della Morte, dello Spavento e del Destino; il carnefice passò, recando il suo piccolo sacco, con i piedi strascicanti nella tenebra e ciascun prigioniero tremava, entrando nella sua tomba numerata.

Quella notte i corridoi deserti furono ingombri di paurose immagini e dall’alto al basso della Città di Ferro s’indovinavano dei passi furtivi che non si potevano distinguere e attraverso le sbarre che nascondono le stelle, delle facce livide sembravano guardare con curiosità.

Egli riposava come qualcuno che dorme e sogna sulla dolce erba d’un prato; i custodi esaminavano il suo sonno e non riuscivano a spiegarsi come si possa dormire d’un sonno così quieto con il boia alla porta.

Ma non esiste sonno, quando è giunto il momento di piangere per coloro che non hanno mai versato delle lagrime: così noi - le vittime, i farabutti e i malfattori - interminabilmente vegliammo e attraverso ogni cervello, strisciando sulle sue mani di Dolore, filtrò la pena dell’altro.

Ahimé! E’ una spaventevole cosa il provare il delitto di un altro! Infatti, diritta all’anima, la spada del Male penetrava dentro di noi sino alla sua impugnatura avvelenata e come del piombo fuso furono le lagrime che spandemmo per il sangue che non avevamo versato.

I custodi con le loro calzature di feltro scivolavano dinanzi ad ogni porta sbarrata; osservavano e scorgevano, attraverso gli sportelli, con occhi di stupore e di paura, delle forme indistinte al suolo; e si domandavano perché mai s’inginocchiassero per pregare coloro che non avevano mai pregato.

Durante l’intera notte, inginocchiati noi pregammo, come dei folli che portano il lutto d’un cadavere. Le ali agitate di mezzanotte erano simili ai pennacchi d’un carro funebre e come un aceto di cui s’imbeve una spugna era il sapore del Rimorso.

Il gallo grigio cantò e cantò il gallo rosso, ma non si fece mai giorno: e delle forme stravolte di Terrore si accucciarono negli angoli dove noi stavamo; ed ogni spirito maligno che volteggia nella notte sembrava giocare con la nostra paura.

Scivolavano essi e passavano, scivolavano rapidi, come trascorrenti nella nebbia imitavano la luna in una serie di figure, di contorsioni delicate; e con delle movenze cerimoniose e delle grazie di odiosa smanceria i fantasmi arrivavano al loro convegno.

Li vedemmo passare, labili ombre, stretti per mano, con smorfie e con buffonate; intorno intorno con una ridda fantastica essi ballarono una sarabanda; e i dannati grotteschi disegnavano degli arabeschi come fa il vento sulla sabbia!

Con piroette da burattini danzavano leggermente sulla punta dei piedi; ma coi flauti della Paura assordavano le orecchie, guidando la folle mascherata e rumorosamente cantavano e cantavano assai lungamente - poiché essi cantavano per destare colui che era morto.

«Oh! - essi gridavano - il mondo è grande, ma le membra impacciate barcollano - e lanciare i dadi una volta o due volte è un gioco corretto e comme-il-faut, ma colui che gioca col Peccato nella misteriosa Casa della Vergogna non vincerà mai».

Ma non erano affatto immagini aeree quegli esseri grotteschi che se la sgambettavano con tanta allegria davanti a coloro che restavano incatenati ed immobili. Ahi Piaghe di Cristo! Erano purtroppo vivi e terribili a vedersi.

Intorno intorno - essi ballavano il valzer e turbinavano; alcuni giravano avvinti in coppie leziose; altri con passi affettati di mezze virtù sfioravano le scalee e con sarcasmi sottili e occhiate languide ciascuno di loro ci assisteva nelle nostre orazioni.

Cominciò a gemere il vento del mattino, ma la notte continuò: sul gigantesco telaio la trama delle tenebre scivolò fino a che ogni filo non fu tessuto; e, mentre stavamo pregando, fummo presi dalla paura della Giustizia del Sole.

Il vento con i suoi gemiti venne ad errare intorno alle mura della prigione; fino a quando, come una ruota d’acciaio che giri, noi sentimmo i minuti che penetravano nelle nostre carni: O vento lamentoso! Che avevamo dunque fatto per avere un tal compagno d’insonnia?

E infine io vidi l’ombra delle sbarre, simile ad un traliccio di piombo ben tornito, proiettarsi sulla parete bianca di calce in faccia al mio letto di tavole e seppi che in qualche parte del mondo la terribile alba di Dio sorgeva color di sangue.

Alle sei ciascuno spazzò la sua cella, alle sette tutto era in calma, ma il soffio fremente d’una potentissima ala parve riempire la prigione, poiché il Signore della Morte dall’anelito di ghiaccio vi era penetrato - per uccidere.

Egli non passo adorno d’una fastosa porpora e non cavalcava un destriero dal candore lunare. Tre metri di corda e un palco scanalato - ecco tutto ciò che occorre alla forca: così con la sua corda d’obbrobrio l’Araldo venne a compiere la sua opera segreta.

Noi eravamo come gente che proceda a tastoni in uno stagno d’oscurità immonda; non osavamo sospirare una prece, né abbandonarci alla nostra angoscia; qualcosa era morto in ognuno di noi e ciò che era morto era la Speranza.

La Giustizia selvaggia dell’Uomo va diritta per la sua via, senza permettersi la minima deviazione; essa colpisce il debole, essa colpisce il forte; il suo cammino é implacabile: con un tallone di ferro schiaccia il forte, la mostruosa parricida!

Attendemmo che battessero le otto. Le nostre lingue erano rosse e inaridite; perché il suono delle otto è il colpo del Destino che rende maledetto un uomo e il Destino adopera un nodo scorsoio tanto per l’uomo migliore, quanto per quello pessimo.

Non avevamo altro da fare che attendere il segnale; così, simili a pietre in una valle solitaria, eravamo seduti, immobili e silenziosi; ma il cuor di ciascuno batteva forte e rapido, come un pazzo sopra un tamburo.

Con un urlo improvviso l’orologio della prigione scosse l’atmosfera con un lungo fremito e da tutto il carcere s’innalzò un lamento d’impotente disperazione - simile al grido di qualche lebbroso nella sua tana, che già dovettero udire le paludi spaventate.

E come si vedono i più paurosi spettacoli nel cristallo d’un sogno, noi vedemmo la saponosa corda di canapa appesa al trave nerastro e afferrammo la preghiera che il laccio del boia mozzò in un grido di spasimo.

E tutto il dolore che lo scosse talmente da farlo erompere in quel grido spaventoso e il suo lancinante rimorso e i suoi sudori di sangue - nessuno li conobbe al pari di me, perché colui che vive più di una vita deve morire anche più d’una morte.

IV. stanza

Non si recita l’officio il giorno in cui si impicca un condannato: il cuore del Cappellano è troppo malato o il suo volto è troppo pallido o c’è scritto né suoi occhi ciò che nessuno, deve leggere mai.

Perciò fummo tenuti chiusi fin quasi a mezzogiorno e allora venne suonata la campana e i custodi colle loro tintinnanti chiavi aprirono ogni cella e scendemmo pesantemente la scala di ferro, liberi alfine dal nostro ben distinto inferno.

E - fuori - camminammo immersi nella viva aria di Dio, ma non secondo l’usata maniera, perché il viso dell’uno era bianco e quello dell’altro era cupo – e mai io non vidi degli uomini tristi guardare così intensamente la luce.

Mai io non vidi degli uomini tristi fissare con un occhio così intenso quella piccola striscia d’azzurro che noi, prigionieri, chiamavamo il cielo e ogni nuvola indifferente che navigava libera e felice.

Ma ce n’erano alcuni tra noi che camminavano colla testa bassa, perché sapevano che, se a ciascuno fosse data la parte che gli spetta, essi avrebbero pur dovuto morire: quell’altro non aveva ucciso che una cosa viva, mentre essi avevano assassinato una cosa morta.

Colui, infatti, che pecca una seconda volta richiama al mondo della sofferenza un’anima morta e la trae dal suo maculato sudario e la fa sanguinare di nuovo, e la fa sanguinare di larghe gocce di sangue – e la fa sanguinare invano!

Come delle scimmie o dei pagliacci, in mostruosa parata, tatuati di frecce in irregolari disegni, silenziosamente noi andavamo lungo il cortile di lubrico asfalto; silenziosamente andavamo intorno intorno e nessuno faceva motto.

Silenziosamente andavamo intorno intorno, e dentro ad ogni cervello vuoto, la Memoria di terribili cose s’ingolfava come un vento terribile e l’Orrore caracollava davanti a ciascuno e il Terrore assaliva ciascuno alle spalle.

Si pavoneggiavano, i Custodi, qua e là, sorvegliando il loro armento di bruti; le loro divise erano nuove di fiamma - ed era la tenuta dei giorni di festa; - ma noi ben sapevamo quale compito avevano assolto, guardando la calce viva delle loro scarpe.

La, infatti, dov’era stata scavata una tomba non c’era più tomba alcuna; soltanto un po’ di terra e di sabbia accanto all’orrido muro della prigione e un mucchietto di calce bollente - per dare un sudario a quell’uomo.

Ed ha un sudario, l’infelice! come non tutti ne possono avere: in fondo in fondo, al limite estremo d’un cortile di prigione, e ignudo per massima vergogna, egli giace, con delle catene strette ad ogni piede, ravvolto in un drappo di fiamma!

E per l’eternità la calce viva divora la carne e le ossa, corrode le fragili ossa durante la notte, corrode la tenera carne durante il giorno, avida a volta a volta di carne e di ossa, ma il cuore se lo mangia senza tregua.

Durante tre lunghi anni la sopra non semineranno e non pianteranno: durante tre lunghi anni l’angolo maledetto rimarrà sterile e ignudo e si rivolgerà al cielo meravigliato con uno sguardo senza rimproveri.

Essi credono che il cuore d’un assassino corromperebbe la buona semente che seminano. Oh, non è vero! La benevola terra di Dio è più generosa di quel che non pensino gli uomini - e la rosa rossa vi sboccerebbe più rossa e la rosa bianca più bianca ancora.

Dalla sua bocca una rosa, una rossa rosa di porpora! Dal suo cuore - una rosa bianca! Chi può dire in quale strana maniera Cristo esprima la sua volontà, poiché l’arido bordone del pellegrino si coperse di fiori alla presenza del grande Papa.

Ma né la rosa candida come il latte, né la rosa rossa di porpora possono fiorire nell’aere d’una prigione; frantumi, ciottoli e selci - ecco tutto quel che ci danno qui; poiché lo sanno bene che talvolta i fiori hanno calmato la disperazione dell’uomo semplice.

Perciò la rosa rossa come il vino, e la rosa bianca non si sfoglieranno mai, a petalo a petalo, su quel po’ di terra e di sabbia, accanto all’orrido muro della prigione - per dire agli uomini che passano nel cortile che il Figlio di Dio è pur morto per tutti.

Eppure, benché l’orrido muro della prigione lo serri ancora tutto intorno, benché non possa errare la notte uno spirito carico di catene e benché uno spirito che giace in una terra così empia non possa fare altro che piangere, egli è in pace.

Egli è in pace - lo sventurato! - egli è in pace o lo sarà tra poco: là non v’è nulla che lo possa impaurire e il Terrore non gli si mostra di pieno giorno, perché la Terra senza luce nella quale egli giace non ha né Sole, né Luna.

Lo impiccarono come s’impicca una bestia: non suonarono nemmeno un rintocco per confortare un poco la sua anima spaventata, ma precipitosamente lo trascinarono via e lo nascosero in una fossa.

Gli tolsero gli abiti di tela e lo lasciarono in pasto alle mosche; si beffarono della sua gola rossa e gonfia e de’ suoi occhi puri ed assorti e con delle sghignazzanti risate fecero un mucchio del sudario nel quale il condannato riposa.

Il Cappellano non s’inginocchierebbe mai su quella tomba disonorata, né vi metterebbe la Croce benedetta che il Cristo santificò per i peccatori - perché quell’uomo era di coloro che Cristo venne a salvare.

Ma tutto è bene; egli non ha varcato che i limiti conosciuti della Vita; e - per lui - delle lagrime di estranei riempiranno l’urna della Pietà spezzata da molto tempo, perché coloro che lo piangeranno saranno i reietti, e i reietti sanno piangere sempre.

V. stanza

Io non so se le Leggi hanno ragione o se le Leggi hanno torto: tutto ciò che sappiamo – noi, i prigionieri del carcere - si è che il muro è ben solido e che ogni giornata equivale ad un anno, un anno i cui giorni sono molto lunghi.

Ma questo io so: che ogni Legge fatta dagli uomini per l’Uomo da quando un Uomo per la prima volta troncò la vita del suo fratello e da quando ebbe origine il mondo della sofferenza – ogni Legge disperde il grano buono e conserva la crusca, col peggiore crivello.

Ed anche questo io so - e quanto sarebbe saggio, se ciascuno lo potesse ugualmente sapere! - che ogni prigione edificata dagli uomini è costrutta con i mattoni dell’infamia ed è chiusa con le sbarre - per paura che Cristo veda come gli uomini straziano i loro fratelli.

Con delle sbarre essi sfigurano la graziosa luna e accecano il buon sole; e bene fanno a nascondere il loro Inferno, perché vi accadono delle cose che non dovrebbero mai esser viste né dal Figlio di Dio, né dal Figlio dell’Uomo.

Le azioni le più vili, simili ad erbe avvelenate, vigoreggiano nell’atmosfera del carcere; là dentro s’esaurisce e si sciupa soltanto ciò che è buono nell’Uomo; la pallida Angoscia vigila alla pesante barriera e la Disperazione ne è la Custode.

Vi si affanna il piccolo fanciullo spaventato sino a farlo piangere giorno e notte; vi si flagella il debole, vi si frusta l’idiota, vi si scherniscono i vecchi dai capelli bianchi e alcuni diventano folli e tutti diventano peggiori - e nessuno può aprir bocca.

Ogni angusta cella che noi abitiamo è un’infetta e cupa latrina, e il fetido, soffio della Morte vivente soffoca ogni abbaino sbarrato e tutto - tranne il desiderio - è ridotto in polvere nella macchina Umanità.

L’acqua salmastra che noi beviamo, filtra con una melma nauseabonda e il pane amaro che pesano con precauzione è pieno di calce e di gesso e il sonno mai non s’addorme, ma cammina con dilatati occhi - implorando grazia dal Tempo.

Ma quantunque la Fame sfinita e la livida Sete combattano tra di loro come l’aspide e la vipera, poco ci si preoccupa del cibo della prigione, perché ciò che estenua e uccide interamente si è che ogni pietra sollevata durante il giorno diviene il vostro stesso cuore durante la notte.

Sempre con la mezzanotte fosca nel cuore e col crepuscolo dentro la cella noi giriamo la manovella e sfilacciamo la fune, ciascuno nel suo separato inferno, e il silenzio è più terribile che il rintocco delle campane di bronzo.

E mai una voce umana si approssima per pronunciare una dolce parola e l’occhio che scruta attraverso gli sportelli e inesorabile e duro, e, dimenticati da tutti, noi imputridiamo e imputridiamo con l’anima e il corpo marciti.

Così arrugginiamo la catena di ferro della Vita, avviliti e solitari, e alcuni rompono in maledizioni e altri piangono - ed altri ancora non si lasciano sfuggire il minimo lamento; ma le eterne Leggi di Dio sono elementi e spezzano il cuore di pietra.

Ed ogni cuore umano che si spezza in un cortile o in una cella della prigione è simile a quel cofano spezzato che offerse il proprio tesoro al Signore e riempì dell’aroma del più ricco nardo l’impuro tugurio del lebbroso.

Ah! beati coloro i cuori dei quali si possono spezzare e guadagnar la pace del perdono! Altrimenti come potrebbe l’uomo purificare la sua anima dal peccato? Dove, dunque, se non in un cuore infranto, potrebbe entrare il Cristo Signore?

E l’uomo dalla gola rossa e gonfia, dagli occhi puri ed assorti, aspetta le mani sante che trasportarono il Ladro in Paradiso - perché il Signore non disprezza un cuore infranto e contrito.

L’uomo paludato di rosso che interpreta la Legge gli concesse tre settimane di vita per mettere la sua anima in armonia con la sua anima, e per purificare dalla più piccola goccia di sangue la mano che aveva impugnato il coltello.

E con delle lagrime di sangue egli purificò la sua mano, la mano che brandì l’acciaio; perché solamente il sangue può lavare il sangue e soltanto le lagrime possono guarire e la macchia vermiglia di Caino divenne il sigillo di Cristo candido come la neve.

VI. stanza

Nel carcere di Reading, della città di Reading, c’è una tomba d’infamia e vi giace un miserabile divorato da denti di fiamma - in un sudario ardente egli giace e la sua tomba non ha nome.

E là, fino al giorno in cui Cristo chiamerà i morti al Giudizio, egli riposa in pace; non c’è nessun bisogno di piangere e di sospirare: egli aveva ucciso colei che amava; e per questo ha dovuto morire.

Ma ognuno uccide la cosa che ama; lo sappiano tutti; gli uni uccidono con uno sguardo di odio, gli altri con delle parole carezzevoli, il vigliacco con un bacio, l’eroe con una spada!

(In www.liosite.com)

Il 16 ottobre 1854 nasce Oscar Wilde, drammaturgo, romanziere e poeta irlandese (morto nel 1900)

Il 16 ottobre 1854 nasce Oscar Wilde, drammaturgo, romanziere e poeta irlandese (morto nel 1900)

 

Un fatto al giorno

16 ottobre 1793: Maria Antonietta, vedova di Luigi XVI, è ghigliottinata al culmine della rivoluzione francese.

“Maria Antonietta d'Asburgo-Lorena, regina di Francia, nacque a Vienna il 2 novembre 1755 da Francesco I e da Maria Teresa. In vista di quell'unione con il delfino di Francia che doveva coronare i nuovi rapporti tra Francia e Austria, dopo il rovesciamento delle alleanze, la sua educazione fu affidata all'abate di Vermond, scelto dal ministro francese duca E.-F. di Choiseul. Fu chiesta ufficialmente in sposa il 16 aprile 1770. Cinque giorni dopo, partiva da Vienna, e il 14 maggio s'incontrava con Luigi XV e col Delfino nelle vicinanze di Compiègne. Le nozze furono celebrate a Versailles il 16. Dapprima la grazia fanciullesca di M. A. conquistò tutti, ma presto incominciarono i dissensi e le difficoltà. Ragioni di dignità e di morale sono sufficienti a spiegare la repugnanza che M. A. dimostrò verso la Du Barry, ragioni di gratitudine giustificano le sue simpatie per Choiseul, artefice del suo matrimonio; ma di tutto questo approfittarono i seguaci del ministro per accaparrare la delfina e mescolarla in una lotta nella quale dignità e morale non entravano per nulla. L'ostilità contro la favorita Du Barry creò da principio a M. A. una larga popolarità. Ma la morte di Luigi XV trovò la nuova regina ancora diciannovenne, impreparata come il marito a sopportare le responsabilità della corona.

Maria Antonia Giuseppa Giovanna d'Asburgo-Lorena, nota semplicemente come Maria Antonietta (Vienna, 2 novembre 1755 – Parigi, 16 ottobre 1793)

Da questo momento ebbe inizio quel periodo di dissipazione che fu fatale al suo prestigio e al suo buon nome: non solo i balli e le partite di piacere, ma anche capricci più dispendiosi come l'acquisto di gioielli e il giuoco. Incosciente del pericolo, non usò alcun discernimento nella scelta degli amici. La sua simpatia per il conte d'Artois, il favore e la familiarità concessa alla principessa Maria Teresa di Lamballe e soprattutto alla cricca che faceva capo alla contessa di Polignac, le crearono implacabili nemici nelle grandi famiglie aristocratiche, e di riflesso dettero origine all'ostilità popolare. Dalla corte ebbe inizio la feroce campagna contro l' "Austriaca" che l'accompagnò fino al patibolo. La sua leggerezza e la sua imprevidenza davano buon giuoco agli avversarî. In un momento di acuta crisi finanziaria, anche spese non enormi, come il ristabilimento della carica di sovrintendente della casa della regina, a benefizio della Lamballe, e gli abbellimenti del Piccolo Trianon, erano senza dubbio inopportune, e la calunnia poté facilmente esagerarle fino a farle apparire delittuose. Alle sue amicizie M. A. rimase fedele con cieca ostinazione. L'influenza degli Choiseul la trasse alla scandalosa protezione del conte di Guines; la fece alleare con il conte J. F. Maurepas contro J. Turgot; la mise in urto con il migliore ministro di Luigi XVI, Ch. de Vergennes. La nascita della prima figlia, poi del delfino, sembrò ricondurla a una vita più assennata; ma non seppe neppure allora liberarsi dai Polignac, e l'odiosità delle loro inframmettenze, come per la nomina di Ch. A. Calonne e del marchese de Castries, ricadde sulla regina.

L'intensità degli odî accumulatisi contro M. A. apparve nel celebre affare della collana. La contessa de la Motte, falsificando lettere della regina, fece credere al cardinale di Rohan di essere incaricata da lei dell'acquisto segreto d'una collana di gran prezzo; e per meglio convincerlo gli procurò un appuntamento notturno con una sosia della regina. Il cardinale si fece garante presso i gioiellieri. Scoperto l'intrigo, il re volle la pubblicità del processo; la de la Motte fu condannata, ma il cardinale ebbe una trionfale assoluzione che fu un colpo mortale al prestigio della regina.

Durante la rivoluzione, la debolezza del re costrinse M. A. ad assumere una parte direttiva. Ma se dette prova d'una grande forza di carattere, mancò del tutto di chiaroveggenza e di pieghevolezza. Non seppe o non poté vincere le indecisioni del marito, e nemmeno le proprie antipatie. Accettò con repugnanza l'aiuto del Mirabeau, ma non ne seguì i consigli. Dopo Varennes iniziò trattative con i costituzionali ma le annullò praticamente, sconfessandole presso le corti europee. Rifiutò a più riprese l'appoggio di La Fayette, respinse Dumouriez. Dopo il 10 agosto 1792, e più dopo l'uccisione del re, tutto l'odio dei rivoluzionarî si rovesciò contro di lei che era stata imprigionata, sin dal 13 agosto 1792, nel Tempio. Il 1° agosto 1793 la Convenzione decise il suo processo, e il giorno seguente fu trasferita dal Tempio alla Conciergerie. Il 14 ottobre ebbe inizio il dibattimento, che durò due giorni. Ai giurati furono posti quattro quesiti, riguardanti l'esistenza d'intelligenze coi nemici esterni della repubblica e di un complotto per provocare la guerra civile, e la partecipazione dell'accusata. La risposta fu affermativa, all'unanimità, e M. A. fu condannata alla pena di morte, che fu eseguita il 16 ottobre, alle 12.

Nonostante le calunnie con le quali si cercò di denigrare la regina, la donna e perfino la madre, nel dare un giudizio su M. A. è più giusto parlare di errori che di colpe. Carattere impulsivo, ostinato, che un'educazione troppo indulgente non aveva saputo modificare, sposa a un giovane che impiegò diversi anni a superare la propria timidezza fisica e non riuscì mai a vincere quella morale; senza un solo consigliere disinteressato che la raffrenasse e la dirigesse (la madre le dava ottimi consigli, ma voleva soprattutto che ella servisse ai fini della politica austriaca) divenne facilmente preda e vittima delle fazioni che laceravano Versailles. D'indole diametralmente opposta a quella del marito, non ebbe con lui che un punto di contatto: l'odio dell'etichetta, e come lui non vide che il cerimoniale di Luigi XIV era uno dei pilastri della vecchia monarchia. Sebbene si dichiarasse sinceramente francese, non capì l'anima della sua nuova patria, e nella società che la circondava le sue simpatie andarono agli elementi peggiori: quei nobili incoscienti e fatui che spendevano le loro energie nei piaceri e nelle cabale di corte, dei quali si può, almeno per un certo tempo, prendere come tipo il conte d'Artois. Nella crisi suprema pensò di salvare la corona con l'aiuto dello straniero; non volle, almeno finché visse Luigi, né l'invasione armata, né la guerra civile, ma non comprese che l'intervento militare era una conseguenza inevitabile di quello diplomatico. La dignità veramente regale con cui percorse il suo calvario di dolore obbliga alla reverenza, ma si deve riconoscere che i suoi errori contribuirono a precipitare la catastrofe della monarchia”.

(Roberto Palmarocchi - Enciclopedia Italiana, 1934, in www.treccani.it)

Processo a Maria Antonietta

 

Una frase al giorno

“Lo stare insieme è nello stesso tempo per noi essere liberi come nella solitudine, essere contenti come in compagnia. (Jane Eyre, cap. XXXVIII)

"To be together is for us to be at once as free as in solitude, as gay as in company”.

(Charlotte Brontë, 21 aprile 1816 - 31 marzo 1855)

Charlotte Brontë, 21 aprile 1816 - 31 marzo 1855 

Charlotte Brontë fu una scrittrice e poetessa inglese, la maggiore delle tre sorelle Brontë sopravvissute all'età adulta e i cui romanzi sono diventati classici della letteratura inglese.
Entrò nella scuola di Roe Head nel gennaio del 1831, all'età di 14 anni. Lasciò l'anno dopo per insegnare alle sue sorelle, Emily e Anne, a casa, ritornando nel 1835 come governante. Nel 1839 assunse il ruolo di governante per la famiglia Sidgwick, ma dopo alcuni mesi lasciò per tornare a Haworth, dove le suore aprirono una scuola, ma non riuscirono ad attrarre alcun allievo. Invece si dedicarono alla scrittura e ognuno di loro pubblicò per la prima volta nel 1846 sotto gli pseudonimi di Currer, Ellis e Acton Bell. Il suo primo romanzo The Professor è stato rifiutato dagli editori, il suo secondo romanzo Jane Eyre è stato pubblicato nel 1847, anche se inizialmente non è stato ben accolto; un critico lo descrisse come una "composizione preminentemente anticristiana". Le sorelle accettarono i loro pseudonimi di Bell nel 1848 e l'anno seguente vennero celebrati nei circoli letterari di Londra. Brontë ha vissuto la morte prematura di tutti i suoi fratelli. Rimase incinta poco dopo il suo matrimonio nel giugno del 1854 ma morì il 31 marzo 1855 di tubercolosi o forse di tifo.”

(Articolo completo in: en.wikipedia.org)

Immagini:

16 ottobre 1847: il romanzo “Jane Eyre” di Charlotte Brontë è pubblicato a Londra.

 

Un brano musicale al giorno

Carlo Gesualdo da Venosa - Tristis est anima mea

16 ottobre 1590: Carlo Gesualdo, compositore, principe di Venosa e conte di Conza, uccide sua moglie, Donna Maria d'Avalos, e il suo amante Fabrizio Carafa, il duca d'Andria, nel Palazzo San Severo di Napoli.

Carlo Gesualdo, noto come Gesualdo da Venosa (Venosa, 8 marzo 1566 – Gesualdo, 8 settembre 1613), è stato un compositore italiano, cittadino del Regno di Napoli

“... Accanto alla carriera artistica, Gesualdo acquistò anche la triste fama di assassino. Si macchiò infatti del delitto della prima moglie (nonché cugina) Maria d'Avalos con il di lei amante, Fabrizio Carafa. ... Il 16 ottobre 1590 il principe avvertì Maria che, insieme ad alcuni suoi servi, sarebbe andato a caccia nel bosco degli Astroni, restando lontano per due giorni. Questa era solo l'ultima parte di un piano già preparato in ogni minimo dettaglio dal principe stesso. Nella notte fra martedì 16 e mercoledì 17 ottobre 1590 i due amanti vennero colti in flagrante adulterio nella camera da letto di Maria e barbaramente trucidati. Furono probabilmente le interessate delazioni che imponevano l'obbligo di "vendicare" col sangue l'offesa fatta al suo nome che spinsero il principe Carlo a compiere il delitto di Palazzo San Severo. Non è da escludere, comunque, l'eventualità che quel delitto potesse essere anche la conseguenza di oscure trame ordite contro il suo casato, in quegli anni assai potente e mal visto dal corrotto mondo della nobiltà napoletana. Le circostanze lo giustificavano dal punto di vista della legge e del costume del tempo, tanto che il viceré Miranda, dal quale Carlo si recò immediatamente a dare notizia personalmente dell'accaduto, lo esortò ad allontanarsi da Napoli non per sfuggire alla legge, ma per non esasperare il risentimento delle famiglie degli uccisi. Carlo fuggì da Napoli e si rifugiò nell'inaccessibile e inespugnabile castello-fortezza di Gesualdo. Il processo venne archiviato il giorno dopo la sua apertura: «per ordine del Viceré stante la notorietà della causa giusta dalla quale fu mosso don Carlo Gesualdo Principe di Venosa ad ammazzare sua moglie e il duca d'Andria.»

Carlo rimase a Gesualdo finché non venne accertato che il risentimento delle famiglie dei d'Avalos e dei Carafa si fosse sedato. In questo periodo, per sentirsi sicuro da eventuali attacchi di forze nemiche, si ritiene che abbia ordinato il taglio del bosco di querce e di abeti che ammantavano di verde la collina prospiciente il castello, per avere un orizzonte più libero e vasto.”

(In it.wikipedia.org

"Don Carlo Gesualdo, principe di Venosa, Conte di Conza: un compositore tanto grande quanto inquietante". Così scriveva Igor Stravinskji di Gesualdo da Venosa, ultimo discendente di una grande famiglia normanna e genio musicale senza tempo.”

(Articolo completo in: www.fondazionecarlogesualdo.it )

 


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

e-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
web www.brusaporco.org

 

 

 

 

 

UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k