“L’amico del popolo”, 17 aprile 2018

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno II. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

LIBERA, AMORE MIO! (Italia, 1973), regia di Mauro Bolognini. Sceneggiatura: Mauro Bolognini, Nicola Badalucco, Luciano Vincenzoni. Fotografia: Franco Di Giacomo. Montaggio: Nino Baragli. Musiche: Ennio Morricone Con: Tullio Altamura, Claudia Cardinale, Adolfo Celi, Bruno Cirino, Luigi Diberti, Bekim Fehmiu, Philippe Leroy, Rosalba Neri.

Zanoni Matteo vive a Roma insieme a Libera-Anarchia Valente, dalla quale ha avuto due figli: Carlo e Anna. La donna, figlia di un anarchico esiliato a Ustica dal fascismo, non è capace di tacere e, prima di finire a sua volta al confino per cinque anni, si fa spedire con la famigliola a Livorno e poi a Modena, ove viene presa di mira dal commissario politico Franco Testa. Scoppiata la guerra, Matteo cerca di tirare avanti in qualche modo trasferendosi a Padova. Carlo fattosi giovincello, milita nella Resistenza; Libera fornisce armi ai partigiani. Diversi compagni muoiono nelle rappresaglie o nelle sommarie e brutali esecuzioni dei nazifascisti. Finita la guerra, Carlo stesso libera la mamma dalla prigione padovana ove è finita. Ricostruita la famigliola, Libera scopre che il Testa siede nuovamente nell'ufficio alloggi del municipio. Sollevate inutili proteste, ella cade per strada sotto i colpi di un cecchino fascista.

“Capita a volte, all'interno di filmografie vaste di registi interessanti quali appunto Mauro Bolognini, di imbattersi in quei titoli a dir poco non fondamentali, lievemente stridenti con i canoni dei propri autori: Libera, amore mio rientra appunto in questa categoria. Rievocazione superficiale - seppur appassionata - degli anni della resistenza, il film (girato nel 1973, ma rimasto nel cassetto sino al 1975 perché scomodo sia alla destra che alla sinistra) è innanzitutto un atto d'amore, una dichiarazione di sottomissione completa e definitiva, ed è forse questa la chiave di lettura più funzionale alla visione. Atto d'amore, dicevamo, nei confronti di un corpo e di una donna, quella Claudia Cardinale che con il suo abbigliamento rosso fuoco attraversa tutta la pellicola contagiandola con la sua dirompenza e la sua forza d'animo: parzialmente ispirata alla figura della madre dello sceneggiatore Luciano Vincenzoni, Libera, figlia di un anarchico in confino, è una donna forte e determinata che non si piega alle volontà del regime fascista, causando per questo motivo non pochi problemi al marito e ai due figli. Tutto ruota intorno al suo personaggio, quindi ci interessa fino a un certo punto gli eventi narrati, troppi, si susseguano in maniera frenetica, senza mai dare la possibilità di soffermarsi sul qui, ora: lo spettatore è preso per mano da Libera e spetta a lui starle dietro in tutti i suoi pellegrinaggi e disavventure; anche quando, nella seconda parte, i toni virano sempre più verso la tragedia e la pellicola comincia ad imbarcare acqua. Il film fallisce perché i suoi personaggi non riescono mai ad entrare nella memoria, al punto che alcuni si riducono a mere macchiette nonostante l'alta professionalità del cast: da Adolfo Celi a Philippe Leroy, magnifici interpreti soffocati però da una scrittura eccessivamente epidermica. Quello che rimane, comunque, è la rappresentazione di un popolo e di una forza interiore, rievocati con gusto nostalgico e partecipe: Libera, amore mio è l'Italia che fu, l'Italia che oggi forse abbiamo dimenticato e che sarebbe bene celebrare più spesso”.

LIBERA, AMORE MIO! (Italia, 1973), regia di Mauro Bolognini

(Giacomo Calzoni in www.sentieriselvaggi.it)

“Ci sono più idee nel fucile di un brigante che nella testa di un democratico”. Ora, immaginate che vostro padre vi cresca con frasi come questa e che abbia la faccia, la voce e la presenza di Adolfo Celi. Immaginate anche che vi abbia chiamato Libera, anzi nome completo: Libera Amore Anarchia. Così, tanto per essere chiari. Infine, immaginate che, cresciute così, vi ritroviate in pieno ventennio fascista, con squadre di picchiatori che girano la mattina del primo maggio, gente vestita tutta uguale, saluti romani e bambini che a scuola studiano la biografia di Mussolini.
“Libera amore mio” è un film di Mauro Bolognini del 1975 che racconta la storia di una giovane anarchica, interpretata dalla bellissima Claudia Cardinale. Figlia di un anarchico che ha passato metà vita in galera e l’altra metà al confino, Libera è cresciuta come una rivoluzionaria, anche se cerca di condurre una vita che per comodità definiremo normale. Cioè fa la mamma, la moglie e la casalinga. “Ma come posso fare la casalinga quando fuori c’è la gente che combatte?” si chiede.
Tutto il film ruota attorno a questa difficoltà: come può una rivoluzionaria avere una famiglia? Come si può coniugare l’amore e la rivoluzione? Perché se è vero che la rivoluzione non è un pranzo di gala, anche il rapporto di coppia non è mica una passeggiata.
In un certo senso il vero protagonista della storia è suo marito Matteo, che la ama incondizionatamente. Non a caso il titolo è “Libera amore mio”, una frase che il bravissimo Bruno Cirino – che interpreta il marito di Libera – ripete più volte durante il film. A causa delle sue idee infatti Libera e famiglia vengono cacciati di città in città, finché non si fermano a Modena.
Ma anche nella tranquilla e sonnecchiante Modena (fino a un certo punto: assistiamo a una fucilazione in Piazza Grande), Libera si scontra con i fascisti e viene mandata al confino. Il marito più volte dice “basta, non ne posso più” ma i due ritornano sempre insieme. Lui la raggiungerà perfino su un terreno di battaglia tra partigiani e nazisti, senza nemmeno accorgersi delle pallottole, accecato com’è dall’amore. Quando tutto sembra finito, colpo di scena.
Il film venne girato nel 1973 ma uscì solo due anni dopo per problemi con la censura. Ovviamente problemi di tipo politico. Non piaceva a destra, ma nemmeno tanto a sinistra, visto che metteva in luce le contraddizioni di entrambe le parti.

(Martino Pinna in www.notemodenesi.it)

LIBERA, AMORE MIO! (Italia, 1973), regia di Mauro BologniniLibera, amore mio è stato un film a lungo ingiustamente sottovalutato rispetto ad altri film di tema resistenziale. E invece, a rivederlo dopo anni, conserva una sua freschezza e modernità di toni magari sconosciute ad altri film più celebrati e meglio ricordati. E’ la storia di una anarchica (una splendida Claudia Cardinale veramente ben calata nella sua parte), segnata da episodi negativi relativi al padre anarchico perseguitato dai fascisti, che porta avanti la sua battaglia privata contro gli abusi del regime, trovandosi spesso incautamente nei guai, ma senza mai tirarsi indietro. Tra l’altro Libera aveva partecipato attivamente alla Resistenza aiutando molti fuggitivi e rischiando di persona. Sarà a sua volta condannata al confino ad Ustica (proprio come era accaduto al padre) ove il fedelissimo compagno, il sarto Matteo (un ispirato Bruno Cirino), decise di sposarla, dopo aver pienamente maturato la propria coscienza democratica. Caduto il fascismo, Libera saluta con gioia la libertà, ma quando va a chiedere una nuova casa al commissariato alloggi scopre che ne è responsabile proprio l’ex fascista che l’ha perseguitata.
Ancora un finale (anzi in questo caso un pre-finale) che indugia polemicamente sul tema del riciclaggio di loschi figuri del fascismo all’interno del nuovo assetto democratico dell’Italia, proprio come in “La lunga notte del ’43” di Florestano Vancini, ma forse con un piglio ulteriormente polemico e protestatario. Non a caso il film di Bolognini fu osteggiato per questo motivo da una parte della sinistra ufficiale, oltre che naturalmente dalla destra e perciò ebbe serie vicissitudini con la censura “ideologica”, che ne impedì e poi ritardò di circa due anni l’uscita nelle sale dal 1973 al 1975. Si può giudicare come uno dei film più politici di Bolognini e certamente una delle opere più consapevoli del regista pistoiese, che non indietreggia di fronte ad una analisi anche scomoda e impopolare del trapasso dal regime fascista a quello democratico, con tutte le contraddizioni che ne derivano.
La rivalutazione di questo film risale al 1999, allorché la pellicola fu completamente recuperata e tale operazione fu accompagnata dalla pubblicazione, a cura di Pier Marco De Santi, di un volume monografico interamente dedicato al film. La successiva fondazione del “Centro Mauro Bolognini” ha portato, nel 2010 ad una giornata di celebrazione del Regista con la proiezione di un suo film, e la scelta è caduta proprio su “Libera, amore mio”, nel quadro di un ripensamento collettivo di quest’opera decisamente da rivalutare. Tale rivalutazione è tutt’ora in atto e la nostra scelta di offrirla ai nostri amici in occasione della odierna ricorrenza del 25 aprile, nel quadro della rassegna di film on-line, “Viaggio nel cinema italiano”, in cui è da tempo impegnata la nostra organizzazione “Rive Gauche-ArteCinema” vuole contribuire a tale rivalutazione, dando ragione alla entusiastica accoglienza che diede a questo film un grande del cinema italiano, Luchino Visconti, che, dopo aver visto il film, scrisse così a Bolognini: “Caro Mauro ieri ho avuto il privilegio di vedere con Franco Cristaldi et Claudia il tuo Libera amore mio stop Sento il bisogno irresistibile di dirti quanto il film mi sia piaciuto et quanto lo trovi bello impegnato forte et valido stop Sarebbe un vero delitto se questo film non dovesse uscire at parte il tuo merito per aver girato impeccabilmente una storia così affascinante et convincente non est bisogno di aggiungere la perfettissima ambientazione di Piero come sempre meravigliosa stop Aggiungo l’interpretazione di Claudia di primissimo ordine come non l’ho mai veduta stop Sono veramente entusiasta et commosso di questo tuo lavoro et ti abbraccio Luchino”. Telegramma di Luchino Visconti a Mauro Bolognini del 24 Febbraio 1975 (in BERENICE, Bolognini - Percorsi della memoria, Pistoia, Comune di Pistoia - Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, 1993, p. 28)”

(Marino Demata)

Il 17 aprile 1981 moriva Bruno Cirino, all'anagrafe Bruno Cirino Pomicino (Napoli, 25 ottobre 1936 - Vercelli, 17 aprile 1981), grande attore italiano.

 

Una poesia al giorno

Chi ingrato mi lascia, cerco amante... di Juana Inés de la Cruz, nata come Juana de Asbaje y Ramírez de Santillana.

Al que ingrato me deja, busco amante;
al que amante me sigue, dejo ingrata;
constante adoro a quien mi amor maltrata;
maltrato a quien mi amor busca constante.
Al que trato de amor, hallo diamante,
y soy diamante al que de amor me trata;
triunfante quiero ver al que me mata,
y mato al que me quiere ver triunfante.
Si a éste pago, padece mi deseo;
si ruego a aquél, mi pundonor enojo:
de entrambos modos infeliz me veo.
Pero yo, por mejor partido, escojo
de quien no quiero, ser violento empleo,
que, de quien no me quiere, vil despojo.

Chi ingrato mi lascia, cerco amante;
l'amante che mi segue, lascio, ingrata;
fedele adoro chi il mio amor maltratta;
maltratto chi il mio amor cerca fedele.
Chi tratto con amor per me é diamante,
sono diamante per chi con amor mi tratta;
trionfante voglio vedere chi mi ammazza,
e ammazzo chi mi vuol veder trionfante.
Soffre il mio desiderio se a questo cedo:
se l'altro imploro, il mio puntiglio oltraggio;
infelice in entrambi i modi mi vedo.
Ma per mio buon profitto sempre mi ingaggio
a essere, di chi non amo, schivo arredo,
che, di chi non mi ama, vile oltraggio.

Juana Inés de la Cruz, nata come Juana de Asbaje y Ramírez, de Santillana (San Miguel Nepantla, 12 novembre 1648 o secondo altri 1651 - Città del Messico, 17 aprile 1695)

Juana Inés si distingue fin dall’infanzia per la precocità intellettuale, la determinazione e il desiderio di conoscenza: a tre anni impara a leggere e scrivere; non mangia formaggio poiché convinta che ritardi l’attività mentale; si taglia i capelli ogni volta che non ha raggiunto un obiettivo di studio. Nel 1655, trasferitasi con la famiglia nella tenuta del nonno paterno, Juana Inés ha accesso alla ricca biblioteca di lui: un rifugio che la isola anche dalle turbolenze familiari.
Juana Inés de la Cruz, nata come Juana de Asbaje y Ramírez, de Santillana (San Miguel Nepantla, 12 novembre 1648 o secondo altri 1651 - Città del Messico, 17 aprile 1695)Dopo la morte del nonno (1656) viene mandata a vivere presso alcuni parenti a Città del Messico. Nonostante la solitudine la bambina trova consolazione nello studio cui si applica con impegno e dedizione. Genialità e cultura sempre più vasta fanno di Juana Inés una presenza ingombrante. Nel 1660 gli zii materni decidono di presentare a corte la nipote. Favorevolmente colpita dall’intelligenza e dalla grazia di Juana Inés, Leonor Carreto, marchesa di Mancera e consorte del viceré, la nomina “beniamina della signora viceregina”.
La vita di corte è determinante per la giovane Juana Inés nell’acquisizione di modelli e comportamenti che sempre influenzeranno la sua vita, il suo stile, le sue relazioni.
il 14 agosto 1667 entra come novizia nell’ordine delle Carmelitane Scalze. Lascerà il convento solo tre mesi dopo, incapace di sopportare il rigore della disciplina imposta dall’ordine. Solo presso il convento di San Jéronimo, meno rigido nelle regole, Suor Juana Inés de la Cruz (così cambia il suo nome) trova collocazione definitiva.
È il 1672 quando si ammala di tifo, ma riesce a sopravvivere, restando sempre cagionevole nella salute. Due anni dopo muore la marchesa Leonor Carreto: la monaca scrive tre sonetti funebri in suo omaggio. Scrive anche i testi del Neptuno Alégorico (1680), che andranno a completare l’arco trionfale eretto in onore dell’arrivo dei vicereali, il marchese de la Laguna, Tomas de la Cerda e la marchesa Maria Luisa Manrique de Lara. Con quest’ultima la monaca stringe un’amicizia particolare e intensa che molti definiranno amorosa.
L’importanza della propria produzione è tale che con la lettera Autodefensa Spiritual Suor Juana licenzia il suo confessore, padre Antonio Nuñez de Miranda, che la osteggia nella sua attività di letterata, cercando di indurla a rinunciarvi. Nel 1685 scrive il poemetto Primero Sueño: è l’unica opera non commissionata della monaca-poetessa, un’originale descrizione onirica che racconta il libero viaggio dell’anima, sola e disillusa (l’anima di Suor Juana), verso un aldilà che si dissolve non appena raggiunto.
Il 1688 è un anno decisivo e difficile. Muore la madre, Isabel Ramìrez, e scade il mandato vicereale: Maria Luisa Manrique torna in Spagna con il marito. Suor Juana perde una preziosa amica e al contempo la protezione che l’ha messa al riparo dai suoi persecutori, tra cui l’arcivescovo Aguiar y Seijas.
Grazie a Maria Luisa Manrique, viene pubblicato in Spagna (1689) il primo volume delle sue opere Inundación Castalida. Lo scritto raggiunge nove edizioni in breve tempo facendo conoscere la monaca-poetessa in tutta la Spagna.
Nel 1690, a Puebla, a spese dell’arcivescovo Manuel Fernandez de Santa Cruz, viene pubblicato Carta Atenagórica. È l’unica opera puramente teologica di Suor Juana la quale confuta uno dei sermoni del famosissimo predicatore gesuita Antonio Vieyra. Una lettera di monito, carica di elogi e rimproveri, del vescovo di Puebla - protetto dallo pseudonimo di Suor Filotea - precedeva la Carta Atenagórica. Suor Juana risponde a questa lettera dopo tre lunghi mesi di sofferta riflessione. La Risposta a Suor Filotea si caratterizza subito come un’apologia che la monaca fa di se stessa, difendendo e giustificando strenuamente le proprie scelte, la propria vita, l’innato talento.
In seguito a un mutato scenario, che vede il potere religioso rivalersi su quello politico, Suor Juana, perde la protezione aristocratica, e resta in balìa del suo peggior nemico, il vescovo Aguiar y Seijas, desideroso di punire la sua arditezza e umiliare il suo talento. È il 1693 quando Suor Juana richiama presso di sé il padre confessore Antonio Nuñez de Miranda. Quest’ultimo, si dimostra ora inflessibile e crudele: il perdono è una grazia possibile solo dopo la rinuncia alle lettere.
Suor Juana presenta diversi umilianti documenti (1694) attestanti la sua rinuncia all’attività di letterata. È inoltre costretta a consegnare tutti i libri e gli strumenti musicali e scientifici ricevuti in dono all’arcivescovo Aguiar y Seijas, perché li venda devolvendo il ricavato ai poveri. Atterrita e psicologicamente annientata Suor Juana inizia a castigare il proprio corpo con cilici e flagelli.
Nel 1695 un’epidemia di natura sconosciuta colpisce improvvisamente Città del Messico causando ovunque una terribile mortalità. Nel convento di San Jerònimo nove monache su dieci restano uccise. Anche Suor Juana contrae la malattia ma fino alla morte, il 17 aprile, alle cinque del mattino, si prende cura delle consorelle con generosità e compassione.
Suor Juana è una delle più importanti fonti religiose femminili, e merita un atteggiamento di grande sensibilità interpretativa. Affermò con l’esempio della Bibbia (la giudice Debora, le regine Saba ed Ester, la profetessa Abigaele) il diritto delle donne allo studio delle sacre Scritture e a costruirsi un’identità più consona alle esigenze della propria spiritualità e cultura”.

(Francesca Zinetti in www.enciclopediadelledonne.it)

Juana Inés de la Cruz, nata come Juana de Asbaje y Ramírez, de Santillana (San Miguel Nepantla, 12 novembre 1648 o secondo altri 1651 - Città del Messico, 17 aprile 1695)

Immagini: Sor Juana Inés de la Cruz, la peor de todas

Un film:Yo, la peor de todas.Peli” (Io, il peggio di tutti), di María Luisa Bemberg, con Assumpta Serna, Dominique Sanda, Héctor Alterio, Lautaro Murú. Argentina, 1990. Opera ispirata al saggio "Le trappole della fede", di Octavio Paz.

17 aprile 1695 muore Juana Inés de la Cruz, poetessa e studiosa messicana (nata nel 1651)

 

Un fatto al giorno

17 aprile 1797: i cittadini di Verona iniziano una infruttuosa ribellione di otto giorni contro le forze di occupazione francesi.

Le Pasque veronesi furono un episodio di insurrezione della città di Verona e dei suoi dintorni contro le truppe di occupazione francesi, comandate dal generale Napoleone Bonaparte. Furono così chiamate anche per assonanza con i Vespri siciliani. La rivolta, scoppiata per via dell'oppressione francese in città (durante il loro soggiorno a Verona vi furono confische di beni ai cittadini e complotti per tentare di rovesciare l'amministrazione locale) iniziò la mattina del 17 aprile 1797, Lunedì dell'Angelo: la popolazione esasperata riuscì a mettere fuori combattimento più di mille soldati francesi, soprattutto nelle prime ore della battaglia, mentre i militi francesi cercavano di rifugiarsi nei castelli della città, successivamente presi d'assalto. L'insurrezione terminò il 25 aprile 1797 con l'accerchiamento della città da parte di 15.000 soldati: le conseguenze immediate a cui la città e i cittadini dovettero far fronte furono le condanne a morte e a pene detentive per i protagonisti dell'insurrezione, la deportazione in Francia di 2.500 combattenti, il pagamento di ingenti somme e le razzie di beni e di opere d'arte, ancor oggi nei musei francesi.
Le Pasque veronesi furono un episodio del più vasto movimento delle insorgenze antifrancesi e antigiacobine, che scoppiarono in tutta la penisola italiana dal 1796 al 1814, assieme alla lotta dell'Armata della Santa Fede che, guidata dal cardinale Ruffo, riuscì nella riconquista del regno di Napoli, le azioni delle bande Viva Maria in Toscana e Liguria, e le vittorie di Andreas Hofer in Trentino e Alto Adige. Questi moti furono numerosi, si trattò quindi di un fenomeno vasto: le stime, da parte di storici di area cattolica, parlano di almeno 280.000 insorti e 70.000 morti.
Queste rivolte contro la dominazione francese, secondo la storiografia di parte cattolica italiana, ebbero come principale miccia la politica religiosa francese di ispirazione giacobina, contraria dunque ai valori sentiti come fondamentali dalla componente più legata alla Chiesa cattolica nella società italiana di quel periodo, legata alla influente presenza attiva, anche in ambito civile, della Chiesa cattolica...”

(Articolo completo in: it.wikipedia.org)

 

Una frase al giorno

“Uno dei vantaggi del servizio militare, è che ti mette in contatto quotidiano con persone al di fuori del campo letterario, coloro che hanno letto solo un libro nella vita, L'isola del tesoro, e l'hanno dimenticato”.

(Thornton Niven Wilder, Madison, 17 aprile 1897 - Hamden, 7 dicembre 1975)

Thornton Niven Wilder (Madison, 17 aprile 1897 - Hamden, 7 dicembre 1975)

Thornton Niven Wilder è stato uno scrittore e drammaturgo statunitense. Ricevette tre premi Pulitzer: uno per il romanzo Il ponte di San Luis Rey e due per le commedie Piccola città e La famiglia Antrobus; inoltre ottenne il National Book Award per il romanzo The Eighth Day.

Immagini:

Un film:Our Town”, 1940, di Sam Wood

 

Un brano al giorno

Gianni Raimondi, tenore, dal Gugliemo Tell canta “Non mi lasciare”. Recitativo, Aria e Cabaletta (live 1966)

Gianni Raimondi (Bologna, 17 aprile 1923 - Pianoro, 19 ottobre 2008)

«Il ricordo di Gustavo Marchesi. "Gianni Raimondi (Bologna, 17 aprile 1923 - Pianoro, 19 ottobre 2008) è uscito di scena ieri a Bologna. Il grande tenore era nato nella città delle Due Torri nel 1923. Aveva soggiornato per qualche tempo anche nelle vicinanze di Parma, dove gli appassionati dell'opera lo tenevano nella maggiore considerazione e amicizia. Al Regio aveva cantato per cinque stagioni, nell'ultima delle quali, 1965-66, in Bohème, dove lo ammirai con indicibile soddisfazione.
Dico addio a Gianni e non vorrei perdermi in debolezze sentimentali. Lui non le avrebbe volute, la sua schiettezza, che mi colpì come un fiotto di luce limpida nelle recite del capolavoro, deve rimanere come il solo ricordo, affiancato ora al centenario pucciniano. Il suo Rodolfo veniva da una esperienza straordinaria a contatto con Karajan l'anno prima, a Monaco e a Mosca. Un personaggio rivitalizzato che Puccini avrebbe preso come un regalo. Le parole che scrissi allora, nel mio servizio di cronista, le riporto per omaggio alla sua memoria, uno dei cantanti che mi riportò al Quartiere Latino della gioventù, in scena, e con la pura musica.
"A capo di tutto lo spettacolo Gianni Raimondi, che ha rovesciato le parti in causa non autorizzando più lo spettatore a ritenerlo un succube di Mimì. Il mammismo è finito. Dietro la musicalissima, moderna, libera, elegante scia del tenore non rimane che il pulviscolo di neve e coriandoli. Convincente fin dal primo apparire, anticonvenzionale e antiretorico con le sue mani in tasca, riesce a persuadere scenicamente anche quando il gusto trasandato della routine vorrebbe forse che Rodolfo avesse qualche mossetta più passionale, qualche accento più esangue e manierato.
Perché è un artista e gli artisti si distinguono. A noi non importa che la tessitura sopra il rigo qualche volta pieghi a certi pericoli, che qualche appunto di gusto "vocale" gli si possa mettere davanti, come dicono già i testi che d'altronde lo consacrano ormai fra le grandi voci del secolo. A noi importa che la gigioneria e la falsità del genere melodrammatico, come ci viene propinato da coloro che non sanno cosa vibri di puro entro quelle simmetrie di cartapesta, a noi importa che questo una volta tanto venga meno, per sbarrare le porte poi, una volta per tutte, al teatro delle gole scoperte, della carne ululante in scena, dei caroselli sportivi dove il principio dell'idea viene umiliato dalle più basse pretese di esibizionismo personale. Se poi, come nel caso di Raimondi, il cielo delle ugole viene in aiuto, sia ringraziata l'arte che è dono degli uomini di libero spirito".»

(In www.operaclick.com)

 


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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web www.brusaporco.org

 

 

 

 

 

UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k