L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno III. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...
Un film al giorno
STEAMBOAT BILL, JR (USA, 1928), regia di Charles Reisner, Buster Keaton. Prodotto da: Joseph M. Schenck. Sceneggiatura: Carl Harbaugh, Buster Keaton. Soggetto: Carl Harbaugh. Fotografia: Dev Jennings. Bert Haines. Montaggio: Sherman Kell. Cast: Buster Keaton as William Canfield, Jr. Ernest Torrence as William "Steamboat Bill" Canfield, Sr. Marion Byron as Kitty King. Tom McGuire as John James King. Tom Lewis as Tom Carter.
Due battelli fluviali si fanno da tempo una feroce concorrenza: lo Stonewall Jackson di Steamboat Bill, imbarcazione vecchia e scassata e la barca moderna e accessoriata di John King. Steamboat Bill viene avvertito da un telegramma che in città sta per arrivare suo figlio William jr, che non vede da anni perché studente al college: immagina sia grande e possente come lui, invece è magro e minuto. Il giovane è anche innamorato della figlia del rivale, Kitty.
King e Steamboat Bill sr vengono alle mani, quando il primo inguaia il secondo per via della barca non sicura: il padre finisce in prigione e William jr cerca di farlo evadere, inutilmente. Investito da un'auto, finisce in ospedale. Mentre è a letto, la città viene investita da un tremendo ciclone: la gente cerca di salvarsi come può, mentre le case crollano sotto la devastazione e il battello di King si inabissa. William stesso viene portato, con l'inondazione, sul battello del padre. Si improvvisa così alla guida dell'imbarcazione e salva il genitore che stava per annegare in carcere. Salva anche il rivale King e la figlia, oltre a un prete, per farsi sposare con Kitty.
“Il film, nel suo complesso, appartiene ancora in pieno al grande ciclo dei capolavori di Keaton, e non è inferiore a nessun altro: anzi, è dei migliori. Basterebbe, alla bellezza e alla gloria di questo film, la ricostruzione ambientale, dove l’umile America provinciale, ritardataria, ottocentesca, è sentita così poeticamente: il vecchio vaporetto in opposizione al nuovo; il villaggio sul fiume; la bottega del barbiere e quella del merciaio; il posto di polizia. E la definizione dei personaggi principali, così perfettamente individuati. Un grande ciclone risolve e chiude il film. Non possiamo non ricordare che Keaton nacque nel 1895 in un villaggio che si chiamava Pickway, o Piqua, nel Kansas. “In perfetto stile keatoniano - scrive Emilio Cecchi - “Pickway, il paesello natio, non appena i Keaton furono partiti, era stato soffiato via da un ciclone, e cancellato per sempre dalla carta geografica e dalla faccia del mondo”. Per questo Keaton diceva sempre, con aria comicamente sconsolata, che non era nato in nessun posto. L’idea originale del soggetto di Keaton ruotava attorno a un’inondazione. “Eravamo pronti a girare quando Harry Brand [supervisore di produzione] disse che l’idea non gli piaceva e andò dritto da Joe Schenck. Nel 1927 il Mississippi aveva rotto gli argini e i cinegiornali trasmettevano immagini di quel disastro in tutto il mondo. Dissi che al massimo potevo cambiare con un ciclone e avrei dovuto comunque ricostruire il set. Lui fu d’accordo, disse che era molto meglio. Era contento così e non ci fu nulla da fare. Provai a dirgli che era strano, che non c’era niente di più serio della guerra, eppure Chaplin nel 1918 aveva fatto un film chiamato Shoulder Arms. Forse non sapeva che negli Stati Uniti i cicloni e gli uragani fanno un numero di vittime quattro volte superiori alle alluvioni”.”
(Leggi tutto in: Mario Soldati, Maestri del cinema in TV: Buster Keaton, a cura di Simonetta Campana e Massimo Vecchi, Rai, Roma 1972)
- Il film: Steamboat Bill - 1928 - HD movie (Buster Keaton)
Una poesia al giorno
The Divine Image, di William Blake
To Mercy, Pity, Peace, and Love
All pray in their distress;
And to these virtues of delight
Return their thankfulness.
For Mercy, Pity, Peace, and Love
Is God, our father dear,
And Mercy, Pity, Peace, and Love
Is Man, his child and care.
For Mercy has a human heart,
Pity a human face,
And Love, the human form divine,
And Peace, the human dress.
Then every man, of every clime,
That prays in his distress,
Prays to the human form divine,
Love, Mercy, Pity, Peace.
And all must love the human form,
In heathen, Turk, or Jew;
Where Mercy, Love, and Pity dwell
There God is dwelling too.
La Divina Immagine, di William Blake
Grazia, Amore, Pace, e Pietà
Chi è negli affanni prega,
E ad esse virtù che liberano
Torna l'animo grato.
Grazia, Amore, Pace, e Pietà
È Iddio, Padre caro,
Grazia, Amore, Pace, e Pietà
È l'uomo, Suo figliuolo e Suo pensiero.
La Grazia ha cuore umano;
Volto umano, Pietà;
Umana forma divina, l'Amore,
E veste umana, Pace.
Ogni uomo, d'ogni clima,
Se prega negli affanni,
L'umana supplica forma divina,
Amore e Grazia e la Pietà e la Pace.
Da tutti amata sia l'umana forma,
In Turchi si mostri o in Ebrei;
Dove trovi Pietà, l'Amore e Grazia,
Iddio sta di casa.
“William Blake (Londra, 28 novembre 1757 - Londra, 12 agosto 1827) fu poeta, pittore e incisore inglese. Figura complessa di artista, abbinò pittura e poesia, con le immagini grandiose della sua produzione letteraria, nutrita di un profondo spirito mistico, aprì la strada al romanticismo in Inghilterra. Visionaria, caotica e spesso contraddittoria nelle idee portanti, la sua opera è tuttavia dotata di poderosa forza.
La vita
William Blake nacque a Londra da un commerciante di tessuti; frequentò una scuola di disegno e, in seguito, avendo notevole predisposizione per l'arte figurativa, la bottega dell'incisore J. Basire. Per quattro anni lavorò su incarico della Society of Antiquaries; ultimato l'apprendistato, studiò alla Royal Academy of Arts, dove divenne amico e discepolo del pittore svizzero H. Füssli, dalla cui tecnica pittorica visionaria e onirica fu influenzato. Sposò Catherine Boucher, che gli fu compagna per tutta la vita. Lavorò come illustratore e aprì (1784) un negozio di stampe. Aiutato da alcuni amici, pubblicò il suo primo volume di poesie. Tutte le successive pubblicazioni furono accompagnate da sue incisioni a stampa colorate a mano, secondo una tecnica che egli stesso definì illuminated printing (stampa miniata). Blake fu un sostenitore entusiasta della rivoluzione francese, che cantò nella poesia The French revolution (La rivoluzione francese, 1791), ma il suo itinerario artistico fu più profondamente influenzato dalle opere del teosofo svedese Emanuel Swedenborg e del mistico tedesco Jacob Böhme, oltre che dalla Kabbalá (la corrente mistica dell'ebraismo) e dalla Bibbia. Fondamentali sono i "libri profetici", composti in diversi periodi della sua vita, mentre ininterrotta proseguiva la sua attività di illustratore di libri altrui. Gli ultimi anni di vita sono avvolti nell'oscurità; certamente fino all'ultimo eseguì incisioni, come dimostrano le illustrazioni per la Divina Commedia (1825-27). Morì a Londra.
L'opera poetica
La poesia giovanile di Blake mostra gli influssi delle sue letture: Shakespeare, Spenser, Milton, la Bibbia, Ossian e gli scrittori mistici. La sua ispirazione, però, non veniva tanto dai libri quanto da una inner light (luce interiore) che ne fece un veggente e un profeta. Blake sostenne di aver avuto visioni di Dio e degli angeli già da piccolo e, crescendo, si convinse di essere oggetto di visite da parte degli spiriti dei grandi uomini del passato (Omero, Virgilio, Dante, Milton e Voltaire). Per lui, quindi, l'immaginazione era quella percezione soprasensoriale che, negando l'esperienza dei sensi, metteva il poeta-profeta in contatto diretto con l'Essere Divino facendolo identificare con l'universo. Il poeta o l'artista risultava capace di una visione che univa l'uomo e l'universo, il profeta indicava la verità nascosta e le relazioni mistiche esistenti tra l'uomo, la natura e la divinità.
Le sue opere più conosciute sono tre raccolte di componimenti: Poetical sketches (Schizzi poetici, 1783), la sua prima raccolta poetica, comprende una serie di componimenti tutti scritti prima del 1778, cioè quando il poeta non aveva neppure ventun anni, e benché le liriche mostrino segni d'imitazione di poeti quali Collins e Gray hanno una freschezza che le avvicina alle poesie di Shakespeare e degli elisabettiani. Più interessanti sono i Songs of innocence (Canti dell'innocenza, 1789) e i Songs of experience (Canti dell'esperienza, 1794), entrambi in forma di ballate in rima facili e spontanee: i primi parlano dell'infanzia come simbolo di un'innocenza intatta, condizione di una suprema felicità e libertà; i secondi dell'esperienza, quella del male e della schiavitù, conseguenza delle leggi e delle istituzioni create dall'uomo. Innocenza ed esperienza, condizioni opposte dell'anima dell'uomo, sono come i due poli opposti del paradiso e dell'inferno, della felicità e del dolore, dell'amore e dell'odio. Ma né il bene (sentito come ragione passiva) né il male (sentito come energia attiva) possono essere negati, poiché essi esistono in un'eterna unità di contrasto e complementarietà; così innocenza ed esperienza sono entrambe necessarie alla pienezza della vita dell'uomo.
Più complessi sono i Prophetic books (Libri profetici, alcuni pubblicati postumi), dei quali fanno parte, tra gli altri, The marriage of heaven and hell (Il matrimonio del cielo e dell'inferno, 1793), The book of Urizen (Il libro di Urizen, 1794), The song and book of Los (Il canto e il libro di Los, 1795), Vala or the four Zoas (Vala o i quattro Zoa, 1797), Milton (1804) e Jerusalem (1804). In queste opere, nelle quali si avvicendano talora parti in prosa e in versi di vario metro, passi gnomici e lirici, grandiose "apparizioni" di profeti, angeli e demoni, confluiscono motivi gnostici e neoplatonici. Blake vi dispiega la sua cosmogonia: il mondo temporale è opera di Urizen, l'intelletto, uno dei quattro principi (Zoa) del cosmo, in lotta con gli altri tre (emozione, sensazione, immaginazione), ciascuno alla ricerca del sopravvento.
I temi e lo stile
Blake intendeva essere portatore di un messaggio nuovo, in favore dell'istinto e della libertà contro ogni tipo di limitazione e repressione. L'esuberanza e l'eccesso diventavano scopi da perseguire, non difetti da evitare. Alla sua mente visionaria le due rivoluzioni (francese e americana) erano solo avvenimenti nell'emancipazione delle menti dell'uomo; secondo lui, infatti, la libertà dalle catene politiche non è sufficiente se non viene accompagnata da una parallela liberazione da tutte le inibizioni causate dalle istituzioni religiose e civili, fonti primarie dei mali dell'umanità.
Il linguaggio di Blake è relativamente uniforme e ristretto: il suo fascino nasce, infatti, non tanto da ricchezza od originalità lessicale, quanto dalla novità prepotente degli accostamenti, dalla grandiosità delle immagini e dalla progressiva rottura della metrica e delle strutture stilistiche tradizionali. Benché Blake non utilizzi mai nei suoi scritti una parola simbolo, la sua opera spinge a un'interpretazione simbolica; egli pensava e sentiva attraverso simboli e il mondo della natura gli offriva un'ampia scelta di verità simboliche. Di qui la preferenza per un linguaggio concreto, denso di molteplici significati.
La sua poesia cominciò a essere ammirata solamente con i preraffaelliti; la sua influenza è stata notevole su molti autori del Novecento: W.B. Yeats, D. Thomas, J. Joyce in Inghilterra; A. Ginsberg in America; A. Gide in Francia; G. Ungaretti in Italia.”
(Leggi tutto in: www.sapere.it)
Un fatto al giorno
28 novembre 1982: L'Opus Dei diventa Prelatura personale, la prima della Chiesa cattolica.
“La prelatura personale è un'istituzione della Chiesa cattolica, eretta dalla Sede Apostolica per attuare peculiari opere pastorali, per diverse regioni o per diversi gruppi sociali. Ad oggi, soltanto l'Opus Dei ha lo status di prelatura personale, richiesto nel 1969 e concesso nel 1982 da Giovanni Paolo II.
A capo della prelatura personale vi è un prelato che, aiutato dai presbiteri e diaconi del clero secolare incardinati nella prelatura, svolge la missione pastorale in favore dei fedeli della prelatura. Possono esserci anche laici che cooperino organicamente nella prelatura, secondo le modalità previste dagli statuti. La caratteristica principale è di non essere legata a un territorio, come la prelatura territoriale, ma di avere un popolo, anche distribuito in diverse diocesi, composto da fedeli che hanno qualcosa in comune (ad esempio: una provenienza nazionale, una vocazione specifica, una professione, una condizione sociale). Al prelato, che non è necessariamente un vescovo, sono riconosciute alcune prerogative proprie di chi è a capo di una circoscrizione ecclesiastica, come incardinare i chierici, erigere un seminario e, in generale, esercitare il governo pastorale della sua prelatura.
La Prelatura personale appartiene alla struttura gerarchica della Chiesa cattolica e non è un'associazione, come si può anche verificare dall'elenco delle Associazioni internazionali di fedeli pubblicato dalla Santa Sede, che non contiene l'unica Prelatura personale attualmente esistente. In quell'elenco invece è inclusa l'Associazione dei Cooperatori dell'Opus Dei, che non appartengono alla Prelatura dell'Opus Dei (a differenza dei fedeli incorporati organicamente), ma aiutano in varie forme le sue attività.
Anche i consacrati possono appartenere a una Prelatura personale, come è dimostrato dal fatto che questa figura giuridica è stata proposta anche per l'inquadramento giuridico dei cosiddetti lefebvriani qualora dovessero tornare in piena comunione con Roma. È noto infatti che la Comunità fondata da Marcel Lefebvre comprende al suo interno anche alcune comunità religiose.»”
(Leggi tutto in: it.wikipedia.org)
Una frase al giorno
“No, no, Orlando, gli uomini sono come il mese di aprile quando corteggiano, mentre diventano come dicembre una volta sposati. Le fanciulle invece sono temperate come il mese di maggio quando sono nubili, ma l'aria cambia quando son maritate.”
In “Come vi piace” (Rosalinda, atto IV, scena I) di William Shakespeare (Stratford-on-Avon, 1564 - idem, 1616), drammaturgo e poeta inglese.
La città di Stratford-upon-Avon, dove è nato Shakespeare nel 1564, è soltanto ad un centinaio di miglia da Londra. Questa vicinanza spiega il fatto che questo borgo, il cui nome significa “la strada che attraversa il guado”, fu il luogo fiorente di mercati, di fiere e di scambi, e dunque anche della peste, dalle cui epidemie fu decimato; per altro verso dalla capitale provenivano le compagnie ambulanti di attori protetti dalla regina o dalla nobiltà. Stratford era dunque il luogo di una fortuna mutevole, che segnò l’infanzia e l’adolescenza di Shakespeare.
Una famiglia rispettabile
William era il terzo figlio di John e Mary Shakespeare. Cinque dei loro otto bambini sopravvissero, e due di loro diventarono attori: William stesso ed anche il fratello minore Edmund (nato nel 1580), che lo seguì a Londra. Quando il padre si installò a Stratford, era guantaio, e vi comperò la casa di Henley Street, luogo di nascita del poeta. Artigiano rispettato, scala i livelli della notorietà fino a diventare baglivo (sindaco) della città, nel 1568.
La famiglia di Shakespeare fu segnata dalla confusione religiosa che si verificò quando la regina Elisabetta succedette alla cattolica Maria Tudor nel 1558. La sorella maggiore di Shakespeare infatti fu battezzata nella fede cattolica, mentre William lo fu secondo il rito della chiesa anglicana. John Shakespeare aveva aderito infatti alla nuova chiesa. Fra i compiti che gli spettavano, doveva fare in modo che gli affreschi della volta del Guildhall, giudicati troppo papisti, fossero sbiancati con la calce. Sceglie un nuovo maestro per la scuola, che, in seguito alla Riforma, era diventata grammar school del re. William probabilmente vi fu ammesso verso l’età di quattro anni, e vi apprese a leggere nel libro di preghiere anglicano (Prayer Book). È soltanto verso sette anni che poté beneficiare della cultura umanista dei maestri di scuola usciti, per la maggior parte, da Oxford, centro d’irradiazione degli studi classici.
Rovesci di fortuna
Intorno al 1578, lo stimato John Shakespeare non osava più mettere piede in chiesa per timore di esservi arrestato per debiti. Quella che era stata una delle personalità più stimate di Stratford dovette rinunciare agli onori (si sono volute cercare le cause di questo declino nel suo passato cattolico ma, benché una professione di fede cattolica sia stata trovata nel tetto della sua casa, non si è mai potuto provare che John sia stato perseguitato per ragioni religiose). Non siamo certi se quando lasciò la scuola, William seguì uno dei suoi maestri nel Lancashire per diventarvi precettore. Ciò che sappiamo è che, a diciassette anni, era di ritorno a Stratford e fidanzato alla figlia di un agricoltore di Shottery, Anne Hathaway, di otto anni più grande, che sposò nel 1582. La coppia ebbe tre bambini: Susan, nata sei mesi dopo il matrimonio (sposerà nel 1607 un medico apprezzato, John Hall), e, nel 1585, i gemelli Hamnet e Judith.
Gli “anni persi”
Si ignora quasi tutto di Shakespeare dall’anno della nascita dei gemelli a quello dove lo sappiamo a Londra. Fu apprendista presso la bottega del padre, o nel Lancashire? Vi incontrò gli attori del conte di Derby, lord Strange? L’ipotesi non è inverosimile, poiché questi attori apparterranno più tardi, come Shakespeare stesso, alla compagnia del lord Ciambellano. Si è pensato ad un viaggio in Francia ed in Italia. Sarebbe forse ripartito verso Londra con gli attori della compagnia della regina, che erano passati a Stratford nel 1587? Shakespeare aveva una famiglia da mantenere, e gli attori potevano sperare di arricchirsi investendo nella costruzione di nuovi teatri. Così nacquero The Theatre nel 1576, la Courtine nel 1577 e The Rose nel 1587. Shakespeare si sarebbe inizialmente guadagnato da vivere custodendo i cavalli dei gentiluomini all’ingresso di questi teatri. Ciò che è certo, è che inizia a scrivere.
Da Stratford a Londra
Shakespeare divide la sua vita tra Stratford e Londra, dove sceglie le sue residenze secondo la loro vicinanza a questo o quel teatro. La leggenda vuole che si sia fermato in strada a Oxford in una locanda tenuta dalla famiglia Davenant, e che sir William Davenant sia suo figlio.
Il conte di Southampton. I Sonetti
Nel 1592, Shakespeare ha ventott’anni. Inizia già a farsi un nome grazie alle rappresentazioni di Enrico VI. Le prime commedie sono in gestazione, ma la peste infierisce, ed i teatri sono chiusi per due anni. Eccolo dunque intento a scrivere poemetti, Venere e Adone, poema erotico, e, in un genere più didattico, Il ratto di Lucrezia, il cui tema ispirerà la sua prima tragedia, Tito Andronico. Questi grandi poemi narrativi valgono a Shakespeare l’amicizia ed il sostegno di Henry Wriothesley, conte di Southampton, le cui iniziali W. H. lasciano pensare che si tratti del dedicatario dei Sonetti, pubblicati nel 1609, ma composti in questi anni. L’identità della “dark lady” dei Sonetti resta tuttavia misteriosa. La presenza presso il conte di Southampton di Giovanni Florio, traduttore di Montaigne, avrà certo i suoi influssi.
Alla fine del 1594, Shakespeare abita nella zona di Bishopsgate, non lontano dal “Theatre”; scrive in questo torno di tempo almeno due commedie, La commedia degli errori, La bisbetica domata e, certamente, I due gentiluomini di Verona, variazione sul tema dei Sonetti. Termina la sua prima tetralogia storica, le tre parti di Enrico VI, il loro seguito con Riccardo III ed il Re Giovanni. La prima tragedia, che descrive l’invasione di Roma da parte dei goti, Tito Andronico, miscela la violenza teatrale alla Seneca con una vena poetica ispirata a Ovidio.
L’azionista della compagnia del lord Ciambellano
Il denaro guadagnato dalle poesie dedicate a Southampton permise a Shakespeare di comperare una quota nella società di attori del lord Ciambellano, che si era appena costituita nel 1594, l’anno della riapertura dei teatri. L’attività creatrice del drammaturgo prende allora un nuovo slancio. La recente esperienza lirica si fa sentire nelle pièce di questo periodo: Pene d’amore perdute, Sogno di una notte di mezz’estate, che, come Romeo e Giulietta, cantano il tema della separazione degli amanti. La poesia entra nella storia con Riccardo II, mentre le due parti di Enrico IV fanno alternare le scene comiche e le scene tragiche. Le divisioni in generi si attenuano sotto l’influenza della poesia.
Lutti e successo
Nel 1596, muore all’età di undici anni Hamnet, il figlio Shakespeare, la cui discendenza maschile ormai è estinta. Con un’ironia crudele della fortuna, alcuni mesi più tardi, il drammaturgo riceve il titolo di gentiluomo ed il blasone precedentemente ambito senza successo da suo padre. Acquista la casa di New Place, a Stratford, nel 1597. L’anno successivo, Francis Meres scrive che Shakespeare è da mettere sullo stesso piano di Plauto e di Seneca. Famoso a trentaquattro anni, non ha tuttavia ancora scritto quasi nessuna delle opere con le quali la posterità gli riconobbe il genio. Il mercante di Venezia e Molto rumore per nulla, commedie della maturità, possono esser fatte risalire a quest’epoca. Le commedie di Shakespeare sono recitate a corte, nei palazzi reali di Greenwich e di Whitehall, nei collegi di giuristi, Inns of Court, nei nuovi teatri della riva sinistra e della riva destra del Tamigi e la cui architettura si ispira alle strutture delle locande dove si esibivano precedentemente gli attori. Da poco, Shakespeare ha traslocato sulla riva destra del Tamigi. Manca un teatro di proprietà alla compagnia del Lord Ciambellano.
Il teatro del “Globe”
A seguito di una discussione tra il proprietario del terreno del “Theatre” e i Burbage - attori che lo avevano fatto costruire -, il teatro è smontato, ed il suo legname trasportato a sud del Tamigi. Queste tavole serviranno alla costruzione del “Globe”, di cui Shakespeare è uno degli azionisti. I tre ordini di gradinate coperti ed il parterre possono accogliere fino a 3.000 persone. Shakespeare ormai è sulla strada dell’arricchimento personale. La regina Elisabetta gli commissiona un seguito comico per Enrico IV con Falstaff come personaggio centrale. Sarà Le Allegre comari di Windsor. Shakespeare termina la seconda tetralogia dei drammi storici con Enrico V, dove fa menzione di questa “O di legno”, questo “Globe” tutto nuovo che simbolizza il mondo. Giulio Cesare è una delle prime pièce che vi viene recitata, e Come vi piace è scritta con l’idea di attirare al “Globe” il pubblico raffinato dei teatri privati.
Una querelle teatrale
Nel 1600 i teatri sono in guerra: tra i teatri privati, come il “Blackfriars”, dove si esibiscono le compagnia di bambini, di cui è fatto cenno in Amleto, ed i teatri pubblici, popolari, come il “Globe”, difeso da Shakespeare, scoppia un litigio che influisce sulla scrittura delle opere di questo periodo. Il ridicolo Aiace di Troilo e Cressida sarebbe forse Ben Jonson? I personaggi comici sono più sottili da quando Armain ha sostituito Kempe nel ruolo del matto: Feste, il buffone de La notte dei re, è concepito per soddisfare un pubblico mutevole. Nel 1601, il “Globe” è il luogo di un dramma politico: i partigiani di Essex pagano la compagnia del Lord Ciambellano perché sia dato il Riccardo II, allo scopo che la regina si riconosca nell’immagine di questo re sconfitto. Gli attori di Shakespeare escono indenni dalla prova. Il ribelle Essex è giustiziato e Southampton imprigionato. Lo stesso anno, il padre di Shakespeare muore. È l’anno di Amleto, dramma del padre morto e del teatro rivelatore di verità.
Shakespeare e Giacomo I
Nel 1603, quando Giacomo Primo sale al trono, la compagnia del Lord Ciambellano diventa quella del re. Ma, di nuovo, la peste devasta Londra: i teatri chiusi, gli attori ridiventano girovaghi. Tuttavia, nel 1604, Shakespeare si trova a Londra, alloggiato presso un protestante francese rifugiato. Le sue commedie si incupiscono: Tutto è bene ciò finisce bene e Misura per misura si avvicinano a Otello con la tematica del coniuge abbandonato o calunniato. Presto, è il momento della landa desolata di Re Lear. E per Giacomo I, assolutista e superstizioso, amico tuttavia degli artisti, Shakespeare scrive Macbeth. L’onesto Banquo vi è rappresentato come l’antenato degli Stuart. Le ultime tragedie greco-romane - Antonio e Cleopatra, Coriolano e Timone di Atene - denunciano un pessimismo politico ed un senso tragico dell’isolamento dell’individuo. Nel 1608, anno della morte della madre, Shakespeare crea il personaggio di Volumnia, la madre di Coriolano.
“Blackfriars” l’altro teatro
Nel 1609, la compagnia del re acquisisce “Blackfriars”, teatro coperto installato in un monastero sconsacrato. Shakespeare si ritira definitivamente a Stratford, e scrive ormai per questi due teatri. “Blackfriars” è un teatro coperto con luci artificiali. Vi si può recitare d’inverno. Questo nuovo luogo teatrale ha certamente contribuito a cambiare lo stile delle ultime sei commedie della carriera del Bardo, che comprendono quattro drammi, Pericle, Cimbelino, Il racconto d’inverno e La tempesta, una commedia scritta in collaborazione con Fletcher, I due nobili cugini, ed un ultimo dramma storico, Enrico VIII.
Shakespeare muore nel 1616. È sepolto a Stratford nella chiesa di Trinity Church. Si possono leggere sulla sua tomba i versi seguenti, probabilmente epitaffio da lui stesso dettato: “Cura, dolce amico nell’amore di Gesù/di smuovere la polvere qui contenuta /benedetto colui che custodisce queste pietre/e maledetto colui che disturba le mie ossa.”
La prima pubblicazione
Nel 1623, degli amici attori di Shakespeare, Heminges e Condell, fanno pubblicare un in-folio delle sue opere drammatiche (tre delle trentotto pièce non vi appaiono: Troilo e Cressida, Pericle, I due nobili cugini).”
La battaglia delle parole
La gravità poetica della maggior parte delle commedie shakespeariane obbliga a cercarne le fonti nella tradizione “romantica” medioevale piuttosto che nelle satire dal gusto antiquario tipico di Ben Jonson. Ma le commedie sono tuttavia tributarie delle fonti latine (La commedia degli errori deve molto a Plauto), come pure delle fonti italiane (La Bisbetica domata si ispira all’Ariosto). La prosa, piuttosto una novità della scena teatrale, avvicina di più gli attori al loro pubblico di quanto faccia il verso ieratico ed elegante destinato ad un pubblico aristocratico. Le commedie elaborano una riflessione sul potere della lingua, la cui artificiosità ed estrema rarefazione è chiaramente rivolta agli animi eletti (quanto l’azione cruenta o il comico spinto ammiccano ad un pubblico dal palato non troppo raffinato). La vita e la morte si consegnano a una battaglia di parole (Pene perdute d’amore). Le donne, padrone della retorica amorosa, vi svolgono un ruolo principale: Rosalinda (Come vi piace), Porzia (Il mercante di Venezia), Isabella (Misura per misura), Beatrice (Molto rumore per nulla). Vincono le vittorie della vita e dell’amore contro l’ipocrisia puritana e le trappole machiavelliche: Porzia ed Isabella salvano dei condannati a morte, Rosalinda e Beatrice denunciano la malinconia amorosa.
La commedia, una messa in scena del linguaggio
La commedia mette il mondo alla rovescia per fare riapparire l’armonia. Le donne si mascherano in uomini. Sul modello delle commedie di Plauto, sostituzione e dualità percorrono quelle di Shakespeare: i gemelli (La commedia degli errori, La notte dei re), i doppi (I due Gentiluomini di Verona, I due nobili cugini), la donna che si sostituisce a un’altra nel letto dell’amante (Tutto è bene ciò che finisce bene, Misura per misura). Sotto l’effetto del filtro di Obéron e delle metamorfosi di Ovidio, l’uno diventa l’altro nel Sogno di una notte di mezz’estate. La magia si scopre essere un classico stratagemma del teatro. La menzogna serve la verità, sia per denunciare il gioviale Falstaff (Allegre Comari di Windsor) o il sinistro Malvolio (La notte dei re). La morte è finta, e l’eroina calunniata resuscita (Molto rumore per nulla). Poiché mette in scena il linguaggio, la commedia, pur nutrendosi del tragico, ne evita i tormenti. Troverà la sua espansione nei drammi storici.
La legittimazione del potere
Shakespeare non ha seguito la cronologia scrivendo le sue pièce storiche. Con Enrico VI e Riccardo III, comincia dalla fine, come se volesse inizialmente raccontare l’arrivo dei Tudor al potere e analizzarne in seguito le cause. Situando le sue opere di carattere storico tra il 1199 (arrivo di Giovanni Senzaterra) e il 1547 (morte di Enrico VIII), fa rivivere la storia dei Plantageneti e dei Tudor, dal Re Giovanni a Enrico VIII.
Lo schema medioevale della caduta dei principi struttura i suoi drammi storici. Questo genere controverso dai tempi di Aristotele - la verità è nella poesia o nella storia? - e presto bandito, servendo alla propaganda dei Tudor, permette al poeta - che si ispira alla Historia regum Britanniae, di Goffredo di Monmouth (1100 ca -1155) e alle Cronache d’Inghilterra, di Scozia e d’Irlanda (1577), di Raphael Holinshed - di collegare la trattatistica medioevale alla riflessione politica del Rinascimento. Quando Shakespeare mette in scena la guerra delle Due Rose (1455 -1485), Machiavelli ha già scritto Il principe. La questione centrale è quella della morale in politica. La prima tetralogia (le tre parti di Enrico VI e il Riccardo III) tenta di spiegare la nascita del tiranno, mentre la seconda (Riccardo II, e le due parti di Enrico IV ed Enrico V) descrive l’arrivo dell’eroe nazionale. Ogni tetralogia si conclude con un matrimonio per sottolineare il ritorno dell’armonia. Affascinato dal tema del doppio, Shakespeare sfrutta poetizzandola la teoria dei due corpi del re, facendo di questi affreschi storici una riflessione sul potere e la legittimità che si riscontreranno nelle tragedie che seguiranno.
Tragedie e drammi
Non si può ridurre l’opera tragica agli schemi della tragedia alla Seneca o alla tradizione del De casibus virorum illustrium di Boccaccio. Con l’ampiezza della sua visione e della sua coerenza tematica, Shakespeare rinnova la tragedia.
Si possono contrapporre le sei tragedie greco-romane - ispirate per la maggior parte alle Vite di Plutarco (Giulio Cesare, Antonio e Cleopatra, Coriolano, Timone di Atene) - alle cinque tragedie che traggono la loro sostanza narrativa dai racconti italiani (Romeo e Giulietta, Otello) o di cronache storiche o leggendarie d’ambiente nordico (Amleto, Re Lear, Macbeth).
Dalle cupe foreste di Tito Andronico, dove Lavinia, violata, la lingua strappata, reinventa mezzi d’espressione, all'oratoria loquace e tribunizia di Giulio Cesare e di Coriolano, i cui eroi rifiutano facili scorciatoie, ai campi di guerra dove gli atti sono anzitutto parole (Troilo e Cressida, Antonio e Cleopatra) fino alla muta riva dove muore il misantropo Timone, le sue tragedie greco-romane studiano la connessioni del linguaggio col corpo, col potere, con la guerra. Le cinque grandi tragedie mettono in scena i loro eroi di fronte ad un destino che assume una forma sempre ambigua - fantasma (Amleto), parole menzognere (Otello, Macbeth), malinconia ingannevole (Romeo e Giulietta), silenzio ambivalente (Re Lear).
I drammi sembrano essere un felice epilogo di tutta la sua opera. Certamente, ci sono sprazzi di pazzia che rammemorano le lande desolate del Lear ne La tempesta, in cui Calibano sembra un povero Tom del Nuovo Mondo. Ma se, nelle ultime opere, Shakespeare corteggia sempre la morte, integra le nuove correnti di pensiero, purifica la magia da qualsiasi superstizione, e sembra credere nella speranza di una pace europea concretizzata dal matrimonio di Elisabetta Stuart con l’Elettore Palatino. L’amore vi è messo alla prova, che sia per Ferdinando (La tempesta) o per Postumo (Cimbelino); quanto agli eroi di Pericle e del Racconto d’inverno, trovano l’amore soltanto dopo anni. I stratagemmi di conversione prendono andamenti sovrannaturali, come la statua viva di Perdita (Il racconto d’inverno). Quando Taisa si sveglia del sonno della morte (Pericle), la disperazione di Giulietta è dimenticata. All’alba della guerra dei Trent’anni, queste opere fanno rivivere il Rinascimento elisabettiano attraverso un linguaggio nuovo.
I quattro secoli che ci separano da Shakespeare si sono nutriti della sua opera. All’alba dell’Età Moderna, sulla scena popolare del suo teatro in legno come nei palazzi di Elisabetta Tudor e di Giacomo Stuart, Shakespeare ha reso accessibile all’Inghilterra l’Antichità, e, come Puck del Sogno di una notte di mezza estate, ha circondato l’universo della sua epoca col cerchio magico della sua poesia, rinnovando il linguaggio poetico e le sue figure retoriche e proponendoci nuovi e immortali miti.
Nessun’opera fu più letta e recitata. Riscritta, censurata o anche non attribuita al suo autore, giudicato talora troppo poco istruito per averla scritta, attribuita ad una ventina di autori differenti, recitata sulle grandi scene del mondo, ritorna ormai al suo legittimo autore. Dopo il fraintendimento dell’epoca classicista che poco poteva comprendere un autore irregolare e “asiano” come Shakespeare, toccò al romanticismo, consentaneo con molte tematiche “barocche”, a rivalutarlo. Voltaire si inchinò dinanzi al genio di colui che “creò il teatro”, ma non trovò “la minima scintilla di buon gusto” nelle “sue farse enormi” e in una lettera a La Harpe disse di trovare nelle sue opere delle "perle in un enorme letamaio". Manzoni, che l’amò, corresse il giudizio dello stesso Voltaire che lo aveva definito anche “barbaro” con l’espressione “quel barbaro di genio”. Goethe ne fu soggiogato e Victor Hugo lo indicò come “un uomo oceano” (e di oceanic mind parlerà S.T. Coleridge) all’altezza di Eschilo o di Dante. Flaubert lo venerò per tutta la vita. Enorme è stata l’influenza di Shakespeare fuori dai territori letterari: ispirò Marx (i versi di Timone d’Atene sul denaro furono commentati nel Capitale), affascinò Freud, e la sua opera funge ancora da riferimento per le grandi correnti della critica letteraria moderna.”
(Alfio Squillaci in lafrusta.homestead.com)
28 novembre 1582: A Stratford-upon-Avon, William Shakespeare e Anne Hathaway pagano un tributo di 40 sterline per la loro licenza di matrimonio.
Un brano musicale al giorno
Daniel Barenboim: Beethoven Concerto per pianoforte e orchestra n. 5 in Mi bemolle maggiore Op. 73
Dal Festival del pianoforte Ruhr nella Jahrhunderthalle Bochum, 2007
Daniel Barenboim, solista e direttore
Staatskapelle Berlin
28 novembre 1811: anteprima del concerto per pianoforte e orchestra n. 5 in Mi bemolle maggiore Op. 73 al Gewandhaus di Lipsia.
“Il concerto per pianoforte e orchestra n. 5 di Ludwig van Beethoven fu composto tra il 1809 e il 1810. È detto "L'Imperatore", nome assegnatogli in via del tutto posticcia e non inerente a Napoleone Bonaparte cui si riferisce invece la Terza Sinfonia del 1804 detta "Eroica". Il concerto fu dedicato come il precedente dell'op.58 all'arciduca Rodolfo Giovanni d'Asburgo-Lorena. La prima di questo concerto non fu eseguita a Vienna ma a Lipsia, l'anno successivo a quello della sua stesura definitiva, il 28 novembre 1811, dal pianista Friedrich Schneider e sotto la direzione di Johann Philipp Christian Schulz. A Vienna fu eseguito l'anno dopo, con un pubblico che dimostrò una certa freddezza nei confronti del capolavoro beethoveniano, anche in considerazione della durata dell'esecuzione (circa 40 minuti).
Il concerto è in mi bemolle maggiore ed è suddiviso in tre movimenti:
- Allegro
- Adagio un poco mosso (in si maggiore)
- Rondò: Allegro
L'allegro apre con una cadenza che presenta carattere virtuosistico, a cui segue l'esposizione dei temi da parte di un Tutti orchestrale. Il primo è pomposo e gioioso e si differenzia nettamente dal secondo tema, interiore ed essenziale nella scrittura, che viene esposto dall'orchestra dapprima nella Tonica sul modo minore, più tardi dal pianoforte solo in si minore e nella ripresa in do diesis minore. Il percorso armonico in questo primo tempo risulta piuttosto articolato e complesso, così da sottolineare la frequente ricerca da parte di Beethoven di un approfondimento e reinterpretazione delle forme, che fin dalla giovinezza era uso modificare (come dimostrano alcune sonate giovanili e quelle che fanno parte del cosiddetto terzo periodo compositivo di Beethoven).
L'adagio un poco mosso presenta un tema dalla cantabilità estrema unita alla dolcezza sublime, tipica dei suoi tempi lenti centrali. È ricco di trilli, abbellimento utilizzato per rendere l'effetto del prolungamento altrimenti scadente nei pianoforti dell'epoca, alquanto poveri di sonorità. Anche in questo frangente il pianoforte non è mero strumento solista, ma appare splendidamente fuso con l'orchestra, che inizialmente accompagna il tema eseguito dal pianoforte e da ultimo lo espone da protagonista, accompagnato dal pianoforte nel registro acuto dello strumento.
Con una modulazione improvvisa tramite una discesa cromatica (si-si bemolle ovvero dominante di mi bemolle) avviene il collegamento col Rondò finale, che presenta nel tema principale un'emiolia che gli dona un carattere scintillante e gioioso. La zona centrale diventa una continua proposizione del tema da parte del pianoforte, con accenti particolarmente delicati, a cui segue sempre la risposta imperiosa dell'orchestra. Dopo una sorta di ripresa il dialogo tra pianoforte e orchestra diventa più stretto fino all'arrivo della breve cadenza finale, a cui segue un altrettanto stringata coda dell'orchestra a chiudere con effetto trascinante il concerto.”
(In it.wikipedia.org)
Ugo Brusaporco
Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.
INFORMAZIONI
Ugo Brusaporco
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UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.
È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.
Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.
“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”
(Wikipedia)
“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”
(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)
“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.
(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)
“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”
(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)
“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”
(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)
“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.
(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)
Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/
Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0
https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs
https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4
https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk
Una poesia al giorno
Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].
Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi
che certo guarderanno male la nostra gioia,
talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?
Andremo allegri e lenti sulla strada modesta
che la speranza addita, senza badare affatto
che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?
Nell'amore isolati come in un bosco nero,
i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,
saranno due usignoli che cantan nella sera.
Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,
non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene
accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.
Uniti dal più forte, dal più caro legame,
e inoltre ricoperti di una dura corazza,
sorrideremo a tutti senza paura alcuna.
Noi ci preoccuperemo di quello che il destino
per noi ha stabilito, cammineremo insieme
la mano nella mano, con l'anima infantile
di quelli che si amano in modo puro, vero?
Nous serons
N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants
Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,
Nous serons fiers parfois et toujours indulgents
N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie
Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,
Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.
Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,
Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,
Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.
Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible
Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,
S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.
Unis par le plus fort et le plus cher lien,
Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,
Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.
Sans nous préoccuper de ce que nous destine
Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,
Et la main dans la main, avec l'âme enfantine
De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?
Un fatto al giorno
17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.
(da Focus)
Una frase al giorno
“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”
(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)
Un brano al giorno
Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k