L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno VI. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...
Un film al giorno
IL SOGNO DI ZORRO (Italia, 1952), regia di Mario Soldati. Soggetto: Mario Amendola, Ruggero Maccari e Marcello Marchesi. Sceneggiatura: Mario Amendola, Ruggero Maccari, Marcello Marchesi e Sandro Continenza. Casa di produzione: I.C.S. Fotografia: Carlo Montuori e Mario Montuori. Montaggio: Renato Cinquini. Musiche: Mario Nascimbene.
Cast: Walter Chiari, Raimondo. Delia Scala, Estrella. Vittorio Gassman, don Juan. Luigi Pavese, don Garcia. Carlo Ninchi, don Esteban. Juan de Landa, Pedro. Michèle Philippe, Marzia. Giacomo Furia, Panchito. Augusto Di Giovanni, don Formoso. Michele Malaspina, dottor Perez. Nietta Zocchi, donna Ermosa. Gisella Monaldi, Consuelo. Gualtiero Tumiati, don Cesarito. Giorgio Costantini, capitano. Sofia Lazzaro, Conchita.
Discendente diretto del leggendario Zorro, un anziano gentiluomo ha un unico figlio di nome Raimondo (Walter Chiari), nel quale non si nota traccia della fierezza originaria dei propri antenati. Raimondo è un giovane timido e pauroso, divenuto così già da piccolo, in seguito a una terribile caduta, nella quale ha battuto la testa. Quando il padre invita nella sua fattoria un amico con la figlia, che intenderebbe dare in sposa a Raimondo, questi ha un contegno tanto infantile e sciocco da mandare tutto all'aria.
Cacciato di casa decide di entrare in convento, ma sulla strada incontra un potente signore che congiura contro il Governatore e, coinvolto nella mischia fra questi e gli avversari, Raimondo è colpito alla testa. Raimondo recupera immediatamente gli arditi spiriti antichi: si trasforma in un abile spadaccino - nonché ardente seduttore - e, lanciandosi contro gli avversari del signore, li sbaraglia e li sconfigge.
Pieno di riconoscenza, il signore, che è un duca ed è rimasto ferito, lo incarica di una missione di tutta fiducia. Raimondo dovrebbe recarsi nel palazzo di un potente avversario del duca, del quale questi deve sposare la figlia Estrella (Delia Scala) e spacciarsi per il duca stesso. Raimondo esegue l'incarico, a tal punto da innamorarsi della fanciulla e passare vittorioso attraverso gli illimitati tranelli tesigli dagli avversari. Nel frattempo, Estrella viene rapita e, dopo alterne vicende, Raimondo riconquista la fanciulla. Con il suo intervento, il giovane fa trionfare la causa del duca che, nominato infine governatore, rinuncia a Estrella concedendola in sposa all’eroico Raimondo. "Il sogno di Zorro" è finalmente coronato.
“Anche il mito di Zorro doveva passare attraverso le forche caudine della parodia. Se ne incarica Mario Soldati in uno dei suoi film definiti dalla critica "alimentari", degli anni a cavallo tra i '40 e i '50. Non mancano spunti intelligenti, come la volontà di smontare il meccanismo dello Zorro divo hollywoodiano”.
(In www.filmtv.it)
- Il film: Il sogno di Zorro. 1952. Con Walter Chiari, Delia Scala, Vittorio Gasman, Luigi Pavese, Michèle Philippe…
Un’attrice: Michèle Philippe, nata il 17 gennaio 1926 a Parigi. Ha iniziato la sua carriera artistica durante l'occupazione tedesca attraverso la danza. Dopo una serie di galà di operette in provincia, si è unita per alcuni mesi alla famosa rivista Lido de Paris ed è stata notata da un produttore cinematografico, Paul Edmond de Charme, che le ha dato subito una possibilità.
Michèle Philippe inizia molto rapidamente "da star del cinema" con Georges Marchal in "Blondine" (1944) con un'artista già famosa, Nicole Maurey. Fino alla fine degli anni Quaranta seguì una serie di film con artisti prestigiosi: Raimu per "Les gueux au paradis" (1945) di René le Hénaff, Fernand Sardou per "Le voleur se bien" (1946), Bourvil per "Attraverso il finestra" (1947) e "Il cuore in mano" (1948), Madeleine Robinson per "La grande Maguet" (1947), Claude Dauphin per "Il ballo dei vigili del fuoco" (1948) e Jules Berry per "Testa bionda" (1949). In questo momento, ha avuto il suo primo matrimonio "fulmineo".
All'inizio del 1950, un importante incontro artistico: Michèle Philippe è nella "scuderia" di Olga Horstig, agente che ha una schiera di protagonisti: Michèle Morgan, Edwige Feuillère tra gli altri e una giovane esordiente di nome... Brigitte Bardot. Fino alla fine degli anni Sessanta, Olga Horstig, sacerdotessa del cinema, sarà una grande rivelatrice di talenti: Alain Delon, Gérard Oury, Charlotte Rampling... E rimarrà l'agente e l'amica di Michèle fino alla fine della sua carriera.
I film si susseguono, Michèle Philippe partecipa a molti festival sia in Francia che all'estero. È una delle rappresentanti del cinema francese al festival di Punta del Este in Argentina e posa per i più grandi fotografi dell'epoca, come Harcourt e Sam Lévin. Un decennio di film minori diretti da André Berthomieu, Jacques Daroy e Raoul André, intervallati da grandi momenti come il "Cancan francese" (1954) di Jean Renoir con Jean Gabin, Maria Félix e Françoise Arnoul che ritrova nel "Palazzo di Parigi Hotel” (1956) di Henri Verneuil anche con Charles Boyer. Nel 1951 realizza in Italia due film d'avventura: "Mandrin, il cavaliere senza legge" con Raf Vallone e "L'erede di Zorro" con Vittorio Gassman.
Una vita sentimentale scandita da una separazione poi una relazione appassionata con l'attore Robert Lamoureux, suo compagno in "Chacun son tour" nel 1951. E, infine, l'incontro con la felicità, nel 1959, da un felice matrimonio con Claude Piau dit Claude Sainlouis, la sua compagna in "Hot Hours" (1959) di Louis Félix. Nonostante l'opinione dei medici affermasse che non avrebbe mai potuto essere madre, Michèle Philippe ha dato alla luce le sue due meraviglie: Frédéric il 31 luglio 1960 e Isabelle il 4 novembre 1962.
Le riprese hanno lasciato il posto a un'intensa vita familiare tra i suoi due figli e il ristorante che ha aperto con Claude, l'amore della sua vita, a Saint-Germain-des-Prés e che fino alla sua tragica morte causata dalla devastante leucemia il 23 settembre, 1972.”
(Isabelle Piau Marret, figlia dell'attrice. In www.cineartistes.com)
Una poesia al giorno
Così viveano, di Emilio Ricci (Torremaggiore, 17 gennaio 1891 - Doberdò del Lago, 27 agosto 1915)
Così viveano; io l’alma contristata,
stanco di veglia il corpo,
miravo pur che l’ultima tenèbra
impallidisse a l’oriente estremo.
Quindi uscivo al mattin; per la distesa
del turchin mare il luccicante sole,
l’aura odorata di salsedin fresca,
l’allegre frotte dei fanciulli, a gaudio
sollevavano il petto,
in quell’albergo di martirii oppresso.
Così gioisce chi lunga stagione
in orrida prigione
il viver trasse, quando alfin rimira
il ciel e i campi e il liber’aere aspira.
Ma perché poi all’inquiete piume
invan chiedea ristoro?
Perché all’usata mensa
mal volentieri assiso,
coi lieti amici invan fingea il sorriso?
Lento pareami il sol, l’ora tardava
ch’in quell’ospizio rimettessi il piede.
Sii benedetto, amor dell’uman seme,
amor che dal soffrire
prendi vigore, amor che non del mutuo
dei corpi godimento,
ma di te stesso sazii,
amor che al mondo esser dovresti solo
virtute, dio, religione, tutto!
(da: L’ospedale della Maddalena, 1910)
“Quest’anno nell’ambito del centenario della Grande Guerra, desidero ricordare il centenario ad essa legato della morte di Emilio Ricci, medico e poeta, che perì eroicamente a ventiquattro anni il 27 agosto 1915 nel bombardamento, da parte degli Austriaci, della chiesetta alpina di Doberdò, adattata a ospedale militare, mentre assisteva i soldati feriti (Croce al merito di guerra e Medaglia d’argento alla memoria).
Era nato a Torremaggiore (Foggia) il 17 gennaio 1891. Iniziò gli studi medi nel seminario di Capua, da dove si allontanò per contrasti con i superiori, e li concluse al Liceo di Santa Maria di Capua Vetere, da privatista. A Napoli, nel 1914, a soli ventitré anni conseguì la laurea in Medicina e Chirurgia. Uomo di acuto e versatile ingegno, padroneggiava ben dieci lingue e conosceva perfettamente varie opere, in prosa e in versi, antiche e moderne, tra cui l’intera cantica dell’Inferno di Dante. Di lui si ricordano i Canti, la tragedia in versi Luigi Serio eroe della repubblica partenopea, i poemetti Il Vesuvio (in frammenti) e Titanic, le opere in prosa incompiute Il sonno e La passione di Gesù Cristo, la traduzione in versi delle Georgiche di Virgilio, l’Epistolario.
Mente vivida e cuore generoso, amante della libertà e della democrazia (chiese di partecipare alla spedizione di Ricciotti Garibaldi per l’indipendenza albanese); difensore degli umili (“siamo tutti uguali”), ebbe una fede profonda nella giustizia e nell’amore tra gli uomini, e tradusse i suoi alti sentimenti in una poesia profondamente umana.
Un anno dopo la sua prematura e tragica scomparsa, la madre riuscì a raccogliere buona parte del materiale inedito del figlio, inserendolo nel volume Versi e lettere di Emilio Ricci di Torremaggiore, contenente gli scritti poetici e le epistole, pubblicato nello stesso 1916 dalla casa editrice barese Giuseppe Laterza e con una bella prefazione del filosofo Benedetto Croce. Eccone un frammento: “Il linguaggio poetico del Ricci è quello corrente degli uomini; il suo canovaccio è lineare e si enuclea per sezioni simmetriche accessibili ad ogni sorta di cultura; le sue rappresentazioni, il nesso musicale e la sintassi lirica si rivelano immediatamente intuitivi. È una poesia che sa giungere direttamente al cuore e, sia che si presenti in veste polemica, sia che reciti in chiave emotiva o erudita o ideale, essa conquista subito la ragione, l’animo, la mente.
Scrive Pasquale Ricciardelli nel suo saggio La poesia di Emilio Ricci e un giudizio del Croce: “La poesia di Emilio Ricci fu piuttosto tradizionale, con lieve tendenza al classico. I movimenti letterari e poetici coevi (scapigliatura, simbolismo, ermetismo, futurismo, ecc.) non lo ebbero né discepolo, né militante. Preferì la poesia aulica e anche quella del miglior Romanticismo, accostandosi a volte al realismo, al verismo, al purismo… La sua lirica è calda, potente, espressiva e quasi sempre esce dal vero. Essa poi, si addolcisce in modo straordinario di fronte ai sentimenti umani e la sua facondia diventa commovente, elegiaca, idilliaca quando descrive la natura. Par di vedere dei quadri teocritei: tanta sincerità vi spira!”
Un fatto al giorno
17 gennaio 1945: il diplomatico svedese Raoul Wallenberg scompare in Ungheria, mentre è sotto la custodia dei sovietici.
“A Budapest sono andato sui luoghi di Raoul Wallenberg (Lidingö, Svezia, 4 agosto 1912, Mosca, Russia, 17 luglio 1947). Credevo di saperne quello che c'è da sapere: sbagliavo. È difficile trovare, almeno nella nostra parte di mondo, una storia personale del Novecento che sia più significativa di quella di Wallenberg. Prima di dire perché, la riassumo.
Wallenberg appartiene alla più influente famiglia svedese, e ha trentadue anni quando accetta di andare, con una copertura diplomatica, in Ungheria, ad alleviare la persecuzione degli ebrei di quel Paese. Quando arriva, nel luglio del 1944, la maggioranza degli oltre settecentomila cittadini ungheresi di origine ebraica, quelli che vivevano in provincia, è già stata deportata e sterminata ad Auschwitz, dalla primavera: è il capolavoro di Adolf Eichmann. Wallenberg si avvale della neutralità della Svezia per organizzare decine di centri di raccolta e assistenza agli ebrei di Budapest e fornire loro passaporti. Con altri diplomatici - come lo svizzero Lutz, l'italiano "spagnolo" Perlasca - e una rete di centinaia di collaboratori devoti, molti della comunità ebraica, riesce a salvare decine di migliaia di vite.
Nel gennaio del 1945 l'armata sovietica entra in città, Wallenberg e il suo autista ungherese, Vilmos Langfelder, vengono convocati al comando del generale Malinovsky, e scompaiono. I sovietici solo nel 1957 pubblicheranno la nota di un medico secondo cui Wallenberg è morto il 7 luglio del 1947 nella prigione della Lubyanka, di infarto; ma molte voci lo daranno in vita oltre quella data. Nel 1989 Gorbaciov fa consegnare alcuni effetti personali di Wallenberg: passaporto, un'agenda, un pacchetto di sigarette, valuta di diversi paesi. Notizie attendibili sul suo destino non verranno mai fornite. L'ultimo a tacerne è Putin.
Fin qui la storia è già tragicamente esemplare. L'uomo che ha soccorso una moltitudine di vite destinate allo sterminio, di volta in volta negoziando, corrompendo o tenendo testa ai nazisti tedeschi e alle bande delle Croci frecciate, viene sequestrato e assassinato dai "liberatori" russi. È l'epopea che ha fatto di Wallenberg il più glorioso fra i Giusti e gli ha innalzato monumenti in tanti paesi del mondo. Quest'anno è il centenario della sua nascita - il 4 agosto. Ma la storia è più dolorosa e istruttiva di così. L'Urss di Stalin sospettò Wallenberg di spionaggio per conto dei suoi alleati. A torto, secondo le testimonianze personali e di archivio finora condotte: Wallenberg venne a Budapest su impulso del War Refugee Board, costituito negli Stati Uniti, e nel suo operato si appoggiò alla Croce Rossa e ai servizi alleati antinazisti. Se fosse stato reclutato dall'intelligence americana o britannica, la sua attività non sarebbe stata meno meritoria.
L'Urss di Stalin era un regime totalitario criminale, e oltretutto la salvezza di tanti ebrei non era ai suoi occhi un merito così prezioso. Ma il cinico silenzio dell'Urss sul destino di Wallenberg si accompagnò per decenni all'inerzia da parte di chi avrebbe più dovuto battersi: la Svezia, la famiglia allargata di lui, e anche l'opinione pubblica. Governanti svedesi si resero complici, mostrandosi alle autorità sovietiche paghi della convinzione che Wallenberg fosse morto e che non valesse la pena di scalfire i rapporti reciproci con una questione chiusa. E questo soprattutto fra il '45 e il '47, quando Wallenberg era certamente vivo. Fino ad anni recenti la conoscenza, e tanto meno la riconoscenza, della Svezia nei confronti di quel suo straordinario cittadino è stata più distratta che in altri paesi del mondo. Qualcosa di penosamente simile è successo con la famiglia, a eccezione dei famigliari diretti di Raoul.
La famiglia Wallenberg è da generazioni la dinastia economicamente e finanziariamente più potente della Svezia. Il padre di Raoul ne sarebbe stato l'erede, se non fosse morto prima ancora che lui venisse alla luce. La freddezza o l'aperta renitenza della famiglia alle pressioni per liberare e comunque esigere la verità sulla sorte di Raoul hanno spiegazioni diverse, come quelle dei governi, che possono ridursi a una: l'opportunismo. (Fin dal 1945 l'offerta di Averell Harriman di collaborare alla campagna per Wallenberg fu declinata dalla Svezia). Accanto a una triste realpolitik, pesava la neutralità bellica che si era tradotta in simpatie e favori del governo ai nazisti e in affari ingenti della famiglia (spesso dubbi rispetto agli obblighi del regime neutrale, come le forniture di cuscinetti a sfera della SKF). La famiglia fu messa sotto inchiesta nel dopoguerra, ma la Guerra fredda fece presto accantonare la questione.
Nel 1945 i Wallenberg erano in buoni rapporti con l'ambasciatrice sovietica, la famosa Alexandra Kollontai, richiamata però nel marzo. Kollontai aveva allora settantatré anni e una faccia da Simone Signoret vecchia: alla madre disse che Raoul era detenuto a Mosca e trattato bene. Il governo svedese, che era stato troppo filotedesco prima, fu troppo filosovietico dopo. Nel 2001, il primo ministro Göran Persson chiese scusa per il comportamento dei primi anni. La trilogia di Stieg Larsson deve molto alla vicenda di Wallenberg. Al contrario, i famigliari stretti ebbero la vita travolta. Un memorabile articolo di Joshua Prager per il Wall Street Journal l'ha raccontato nel 2009. La madre, rimasta vedova quando era incinta, sposò un prestigioso accademico che amò Raoul come un figlio proprio. Ebbero altri due figli, maschio e femmina. Essi dedicarono tutte le loro risorse alla speranza che Raoul fosse vivo e alla sua ricerca. La madre fece giurare ai figli che non avrebbero smesso di considerare vivo il loro fratellastro fino al 2000, ciò che avvenne, e anche oltre. Ormai vecchi, isolati e disperati, la madre di Raoul e suo marito morirono suicidi nel 1979. I figli poterono assistere al progressivo riconoscimento della grandezza di Raoul nel mondo, ma pagarono anche loro un prezzo altissimo, specialmente il fratellastro di Raoul, un fisico illustre, che finì col soccombere all'ossessione di quella ricerca. Nemmeno dopo la parziale apertura degli archivi russi si è venuti a capo della storia, e delle vere ragioni di comportamenti così apparentemente ignobili di tante parti coinvolte - salvo che l'ignobiltà sia la principale spiegazione. Si disse che Wallenberg se la fosse cercata; che avesse gettato nel caos la normale amministrazione diplomatica; che avesse disegnato per sé un futuro trionfale nell'Ungheria liberata. Più meditati studi hanno mirato a discriminare mito e storia nel culto di Wallenberg, intenzione legittima, ma sempre sul punto di diventare una meschina scontornatura dell'aura salvifica che attorno alla sua figura hanno costruito gli innumerevoli suoi salvati.
Si è raccomandato di non interpretare la sua vita alla luce - alla tenebra - della sua morte: ma Wallenberg l'aveva messa nel conto, quando aveva di fronte i nazisti, e quando ricevette la convocazione sovietica. «Vado da Malinovsky, non so se da ospite o da prigioniero...». Soprattutto, si è ricostruita la sua vita precedente, segnalandone la distanza da una biografia esemplare di futuro eroe umanitario. Raoul aveva un nonno autorevole e a lui legatissimo, che lo mandò a studiare in America - lì il ragazzo fece una quantità di lavori - e ne seguì gli inizi imprenditoriali, in Sudafrica, in Palestina, dove Raoul incontrò storie di ebrei profughi senza mostrarsene particolarmente coinvolto. Da queste ricostruzioni, e dalla corrispondenza, esce una figura tutt'altro che eccezionale, così come dalle sue fotografie, un uomo dall'aspetto serio e ordinato, la riga di lato e un po' di riporto: una fisionomia difficile da trasferire nel bronzo delle statue. «Delicato, precocemente calvo, daltonico». Non un grand'uomo in attesa fremente della sua occasione. C'è un equivoco in questi scavi, e nel ricorso costante alla parola: enigma. L'enigma Wallenberg. Ci ho ripensato in questi giorni, al processo di Oslo, e i tanti commenti sull' "enigma Breivik". Il male e il bene ci sembrano un enigma - se non altro quando sono così smisurati. Il record vantato dall'assassino Breivik, il popolo messo in salvo da Wallenberg. Ci fu un altro processo, quello a Eichmann, l'antagonista di Wallenberg a Budapest. Eichmann si vantò lagnosamente del suo record, cinque milioni di morti sul suo conto personale. Hanna Arendt fu ed è attaccata per aver parlato di banalità del male. Fu anche quello un malinteso, e lei stessa ci restò impigliata al di là dell'intento iniziale. Banale non è il male, ma colui che lo compie, una volta che le circostanze lo rimettano ad altezza d'uomo.
Il punto è questo: come è possibile che il male più enorme venga compiuto banalmente, ordinariamente. Che sterminare diventi la norma, e che non farlo o non appoggiarlo o non esservi indifferenti diventi l'eccezione. Arendt scrisse: «Il male, nel Terzo Reich, aveva perduto la proprietà che permette ai più di riconoscerlo per quello che è - la proprietà della tentazione. Molti tedeschi e molti nazisti, probabilmente la stragrande maggioranza, dovettero essere tentati di non uccidere, di non rubare, di non mandare a morire i loro vicini di casa; e dovettero essere tentati di non trarre vantaggi da questi crimini e diventare complici: ma Dio sa quanto bene avessero imparato a resistere a queste tentazioni». Arendt non sembra notarlo, ma è il Padre nostro, «Non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male»! Rovesciato, così: «Non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal bene». Lo slogan della banalità sembra ripudiare il volto demoniaco del male. Ma qui c'è un vero Dio alla rovescia, il suo Pubblico ministero, il Tentatore, a parti invertite. È lui che guida la faccenda, e il Tentatore del bene è la possibilità debole - anzi, in questo contesto, quasi un'impossibilità. In questo Padre nostro capovolto non si ottiene, non che di sfuggire alla tentazione di operare il male, nemmeno di non farsene complici. Dunque, il male non è radicale («ora», dice Arendt, «non credo più che il male sia radicale, radicale è solo il bene»), ma è onnipotente e ordinario, e onnipotente perché ordinario. Il contesto ha tramutato il bene nell'eccezione più impervia. La democrazia dei cittadini dovrebbe essere il contesto in cui si prega di scampare alla tentazione del male, e la gente ordinaria «si comporta bene» - anche se non «fa il bene». Il totalitarismo fa sì che la gente «si comporti male». Eichmann «aveva una coscienza, ma la sua coscienza funzionava in senso opposto».
Si è sempre delusi quando l'autore di un grande crimine arriva a sedersi in una corte d'assise e sistema le cuffie per ascoltare la traduzione dei suoi capi d'imputazione, e gli chiedono: «Sente bene?». Successe con Eichmann, figuriamoci con Breivik. Ecco, possiamo lasciare da parte l'enigma, gli enigmi. Raoul Wallenberg ha ceduto senza riserve alla tentazione del bene. Troppo, pensarono alcuni suoi colleghi d'ambasciata, pensano probabilmente alcuni suoi biografi attenti a separare storia da leggenda. La leggenda dice che quest'uomo con poco passato e senza futuro salvò, in quattro mesi, centomila persone. La storia dice che fu decisivo per salvarne circa ventimila, forse anche per gli altri settantamila, i rimasti del ghetto che alla fine non fu distrutto.”
(Adriano Sofri in ricerca.repubblica.it)
Immagini:
- Raoul Wallenberg /100
- Wallenberg A Hero´s Story 1985 TV Mini Series
Una frase al giorno
“LE LIBRAIRE AU LECTEUR. Cet Ouvrage n'est pas tout d'une main. M. Quinault a fait les Paroles qui s'y chantent en Musique, à la réserve de la Plainte Italienne. M. de Molière a dressé le Plan de la Pièce, et réglé la disposition, où il s'est plus attaché aux beautés et à la pompe du Spectacle qu'à l'exacte régularité. Quant à la Versification il n'a pas eu le loisir de la faire entière. Le Carnaval approchait, et les Ordres pressants du Roi, qui se voulait donner ce magnifique Divertissement plusieurs fois avant le Carême l'ont mis dans la nécessité de souffrir un peu de secours. Ainsi il n'y a que le Prologue, le Premier Acte, la première Scène du Second et la première du Troisième, dont les Vers soient de lui. M. Corneille a employé une quinzaine au reste; et par ce moyen Sa Majesté s'est trouvée servie dans le temps qu'elle l'avait ordonné.”
(IL LIBRAIO AL LETTORE. Questo lavoro non è tutto da una mano. Il signor Quinault ha scritto le Parole che vi si cantano in Musica, con la riserva del Reclamo italiano. Il signor de Molière redasse il Piano del Pezzo, e ne regolava la disposizione, dove si attaccava più alle bellezze e al fasto dello Spettacolo che alla regolarità esatta. Quanto alla Versificazione, non ha avuto il tempo di fare tutto. Il Carnevale si avvicinava, e gli ordini urgenti del Re, che più volte volle fare questo magnifico Spettacolo prima della Quaresima, lo misero nella necessità di soffrire un piccolo aiuto. Così c'è solo il Prologo, l'Atto Primo, la prima Scena del Secondo e la prima del Terzo, di cui i Versetti sono di lui. M. Corneille ha impiegato una quindicina per il resto; e con questo mezzo Sua Maestà si trovò servita entro il tempo che aveva ordinato.)
(A proposito dell'opera Psychè di Molière, Corneille e Quinault, 1671)
“Psyché è un balletto-tragedia, della durata di cinque ore, scritto da Molière coadiuvato da Pierre Corneille e Quinault, con voci di balletto e intermezzi musicali composti da Lully, da esibirsi, su richiesta di re Luigi XIV, nella grande sala macchine della Tuileries durante il carnevale dell'anno 1671.
La creazione è avvenuta il 17 gennaio e lo spettacolo è stato riproposto nella stessa sala il 19 e 24 gennaio, poi il 3, 5 e 9 febbraio. Per poter riprendere uno spettacolo così sontuoso nella sua sala del Palais-Royal, la troupe di Molière fece eseguire notevoli lavori di ristrutturazione e Psyché fu offerto al pubblico parigino dal 24 luglio al 25 ottobre 1671, dal 15 gennaio al 6 marzo, 1672. e dall'11 novembre al 23 gennaio 1673. Matthew Lockes comporrà a sua volta Psyché su libretto di Thomas Shadwell che è la traduzione inglese (1675). Quando fu ripreso alla Comédie-Française dal 5 ottobre 1684 al 28 dicembre 1684, la musica era di Marc-Antoine Charpentier.
Sembra che Luigi XIV volesse dare vita alla grande sala delle Macchine delle Tuileries sfruttando le decorazioni di Ercole amante che dormiva nelle botteghe dall'inaugurazione della sala il 7 febbraio 1662. Secondo il resoconto molto tardo di Lagrange-Chance, apparso un secolo dopo, si dice che il re abbia chiesto “un soggetto in cui potesse entrare un'eccellente decorazione che rappresentasse il mondo sotterraneo. […] Racine propose il soggetto di Orfeo, Quinault il Rapimento di Proserpina […] e Molière, con l'aiuto del grande Corneille, tenne per il soggetto di Psiche, che aveva la preferenza”. Quel che è certo è che il racconto degli Amori di Psiche e Amore di La Fontaine aveva riportato in auge, un anno prima, nel 1669, una favola tratta dalle Metamorfosi di Apuleio, già nota al pubblico di corte per essere stata la oggetto di un balletto di corte nel 1656. Come di consueto per i grandi spettacoli reali, le musiche degli intermezzi erano di Jean-Baptiste Lully, i balletti erano stati arrangiati da Pierre Beauchamp, le scenografie ei macchinari costruiti da Carlo Vigarani; quanto ai sontuosi costumi, erano stati disegnati da Henry de Gissey. Poiché il re aveva preso la sua decisione in ritardo e quell'anno il carnevale era molto breve (la quaresima iniziava l'11 febbraio, la Pasqua cadeva il 29 marzo), i termini erano estremamente stretti. Tanto più stretto perché, per la brevità del carnevale, era previsto l'inizio del giorno dell'Epifania: "Stiamo preparando un grande spettacolo, che sarà dato all'Epifania al teatro delle Tuileries" scriveva Vigarani il 12 dicembre 1670. Il carteggio Vigarani suggerisce che tutti gli artisti avevano solo sei o sette settimane e che furono presto sopraffatti ed esausti. Questo è il motivo per cui lo spettacolo non era pronto per l'Epifania (6 gennaio) e non poteva essere presentato in anteprima fino al 17 gennaio.
Tali condizioni di emergenza spiegano perché Molière, che tre giorni alla settimana (una settimana su due) recitava nel suo teatro Le Bourgeois gentilhomme, fosse costretto a chiamare i collaboratori anche per rispettare le scadenze. Cominciò affidando a Philippe Quinault il compito di comporre le parole per le arie composte da Lully per gli intermezzi - mentre se ne era occupato lui stesso nei grandi spettacoli degli anni precedenti, sia in Le Grand Divertissement royal di Versailles nel 1668, in cui George Dandin era intervallato da una pastorale musicale le cui parole erano di Molière, che nel Divertissement royal del 1670 che sancì The Magnificent Lovers. Per la parte declamata del dramma, ebbe tempo di mettere in versi solo il prologo e il primo atto, così come la prima scena del secondo e la prima scena del terzo; tutto il resto era in prosa e aveva bisogno dell'aiuto di un versificatore dotato e veloce. Ha chiamato Pierre Corneille, la cui troupe suonava La Bérénice (Tite et Bérénice) a settimane alterne da novembre, in alternanza con Le Bourgeois gentilhomme. Nella misura in cui il pubblico sapeva che il pezzo era il risultato di una collaborazione del tutto inedita (nel 1664, in condizioni simili, Molière non aveva potuto completare la versificazione dei tre quinti de La Princesse d'Élide ma Luigi XIV aveva quindi accettato di vedi uno spettacolo di mezzo verso e mezzo in prosa), Molière fece mettere un avviso in cima all'edizione dell'opera apparsa nell'ottobre dello stesso anno 1671, per rendere nota l'esatta distribuzione dei ruoli di ciascuno. Precisione tanto più importante che Molière e Corneille gareggiavano in grazia in questi versi, al punto che sarebbe impossibile riconoscere la quota spettante a ciascuno se non si fosse informati.
La collaborazione di Corneille si limitò quindi a mettere in versi la prosa di Molière su un'area di poco più di tre atti, ovvero millecento versi. Questo spiega perché l'opera sia apparsa sotto il solo nome di Molière e che Corneille non abbia mai pensato di includere tutto o parte di Psyché nelle sue opere: era solo dalle grandi edizioni del XIX secolo, che ha cercato di raccogliere tutti i versi scritti da Corneille, che l'opera teatrale iniziò ad essere inclusa nelle sue Opere complete.
“Mlle Molière è l'adorabile interprete di Psyché. La piccola Esprit-Madeleine ha debuttato all'età di cinque anni con una gonna rosa e un corpetto di taffetà verde. Il Barone, nella radiosa bellezza dei suoi diciotto anni, interpreta il ruolo dell'Amore.”
“Il gigantesco organico musicale comprendeva tredici cantanti solisti, un grande coro, sessantasei danzatori e non meno di centoventi strumentisti.”
"Il fascino della favola mitologica, l'ingegno sorprendente delle scenografie e dei macchinari, la ricchezza dei costumi, l'incanto della musica, la perfezione di un'orchestra di trecento musicisti e un balletto di sessanta-dieci maestri di ballo, tutti di questo fa di Psyché il più straordinario degli spettacoli prodotti fino ad allora e il grande argomento di conversazione nei salotti di Parigi e nelle Corti d'Europa.”
Durante la vita di Molière, questo spettacolo è stato rappresentato 82 volte, per un incasso totale di 79.128 sterline.”
(In wikipedia.org)
Immagini:
- Amour Et Psyche (2017) Teaser long
- Le Ballet Royal de la Nuit (Correspondances / Sébastien Daucé) dalla Psyche
17 gennaio 1671: viene rappresentata per la prima volta a Palazzo delle Tuileries a Parigi, l'opera Psychè di Molière, Corneille e Quinault.
Un brano musicale al giorno
Wilhelm Kienzl (1857-1941) Piano Trio in F minor, Op. 13
- Allegro moderato 0:00
- Scherzo: Allegro molto - Trio: Langsamer - Tempo I 10:30
III. Adagio (Sehr aufdrucksvoll) 15:00
- Allegro vivace 19:30
Evgeny Sinaiski, piano
Thomas Christian, violino
Attila Pasztor, violoncello
“Wilhelm Kienzl (1857 - 1941) è stato un compositore austriaco. Nacque nella piccola e pittoresca cittadina di Waizenkirchen, nell'Alta Austria. La sua famiglia si trasferì a Graz, capitale della Stiria, nel 1860, dove studiò violino sotto Ignaz Uhl, pianoforte sotto Johann Buwa e composizione dal 1872 sotto lo studioso di Chopin Louis Stanislaus Mortier de Fontaine. Dal 1874 studiò composizione con Wilhelm Mayer (noto anche come WA Rémy), estetica musicale con Eduard Hanslick e storia della musica con Friedrich von Hausegger. Successivamente è stato inviato al conservatorio di musica dell'Università di Praga per studiare sotto Josef Krejci, il direttore del conservatorio. Successivamente andò al Conservatorio di Lipsia nel 1877, poi a Weimar per studiare con Liszt, prima di completare gli studi di dottorato presso l'Università di Vienna.
Mentre Kienzl era a Praga, Krejci lo portò a Bayreuth per ascoltare la prima rappresentazione del Ring Cycle di Richard Wagner. Ha avuto un'impressione duratura su Kienzl, tanto da fondare con Hausegger e con Friedrich Hofmann la "Graz Richard Wagner Association" (ora "Azienda austriaca Richard Wagner, ufficio di Graz"). Sebbene in seguito abbia litigato con "The Wagnerites", non ha mai perso il suo amore per la musica di Wagner. Nel 1879 Kienzl partì per un tour in Europa come pianista e direttore d'orchestra. Divenne direttore della Deutsche Oper di Amsterdam nel 1883, ma tornò presto a Graz, dove nel 1886 assunse la guida dello Steiermärkischen Musikvereins und Aufgaben am Konservatorium. Fu ingaggiato dall'allenatore Bernhard Pollini come maestro di cappella all'Hamburg Stadttheater per la stagione 1890-91, ma fu licenziato a metà gennaio 1891 a causa delle recensioni ostili che ricevette (il suo successore fu Gustav Mahler). Successivamente ha diretto a Monaco di Baviera.
Nel 1894 scrisse la sua terza e più famosa opera, Der Evangelimann, ma non riuscì a eguagliarne il successo con Don Chisciotte (1897). Solo Der Kuhreigen (1911) raggiunse un livello di popolarità simile, e molto brevemente. Nel 1917 Kienzl si trasferì a Vienna, dove nel 1919 morì la sua prima moglie, il soprano wagneriano Lili Hoke, e nel 1921 sposò Henny Bauer, il librettista delle sue tre opere più recenti.
Dopo la prima guerra mondiale compose la melodia a una poesia scritta da Karl Renner, Deutschösterreich, du herrliches Land (Austria tedesca, paese meraviglioso), che divenne l'inno nazionale non ufficiale della prima Repubblica austriaca fino al 1929. Consapevole dei cambiamenti nelle dinamiche della musica moderna, smise di scrivere grandi opere dopo il 1926, e la composizione abbandonata del tutto nel 1936 a causa di cattive condizioni di salute. A partire dal 1933, Kienzl sostenne apertamente il regime di Hitler.
Il primo amore di Kienzl è stata l'opera, poi la musica vocale, ed è in questi due generi che si è fatto un nome. Per un po' è stato considerato, insieme a Hugo Wolf, uno dei migliori compositori di Lieder (canzoni d'arte) dai tempi di Schubert. La sua opera più famosa, Der Evangelimann, meglio conosciuta per la sua aria Selig sind, die Verfolgung leiden (Beati i perseguitati), continua a essere ripresa occasionalmente. È un'opera popolare che è stata paragonata all'Hansel e Gretel di Humperdinck e contiene elementi di verismo. Dopo Humperdinck e Siegfried Wagner, i compositori di opere da favola, Kienzl è il più importante compositore d'opera dell'era romantica post-Wagner. Tuttavia, i punti di forza di Kienzl risiedono in realtà nella rappresentazione di scene quotidiane. Nei suoi ultimi anni, il suo ampio corpus di canzoni ha acquisito importanza, anche se da allora è stato in gran parte trascurato. Nonostante il fatto che l'opera sia stata la prima nella sua vita, Kienzl non ha affatto ignorato la musica strumentale. Ha scritto tre quartetti d'archi e un trio con pianoforte. Kienzl era un schietto sostenitore nazista. Ha elogiato Hitler davanti all'Anschluss austriaco nel 1938 come un personaggio "imponente" e "impressionante" che ha "il diritto di comandare i popoli del mondo". Kienzl morì a Vienna ed è sepolto in una tomba d'onore al Cimitero Centrale di Vienna. La sua morte durante il periodo nazista spiega la sua tomba d'onore, ma l'onore non è stato mediato da allora, in più di 70 anni di democrazia in Austria. Al contrario, nel 2007 la Repubblica d'Austria ha emesso un francobollo commemorativo in onore di Kienzl in occasione del 150° compleanno.”
(In www.youtube.com)
Ugo Brusaporco
Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.
INFORMAZIONI
Ugo Brusaporco
e-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.