L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno V. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...
Un film al giorno
LO SVITATO (Italia, 1956), regia di Carlo Lizzani. Soggetto: Dario Fo, Fulvio Fo, Carlo Lizzani, Bruno Vailati, Massimo Mida. Sceneggiatura: Dario Fo, Fulvio Fo, Carlo Lizzani, Bruno Vailati, Massimo Mida, Augusto Frassineti. Produttore: Bruno Vailati. Fotografia: Armando Nannuzzi. Montaggio: Enzo Alfonsi. Musiche: Roberto Nicolosi.
Cast
Dario Fo: Achille. Franca Rame: Diana. Giorgia Moll: Elena. Leo Pisani: Gigi. Alberto Bonucci: Un vigile urbano. Jacopo Fo - Franco Parenti: 'Mostro della Via Emilia'. Carlo Bagno. Umberto D'Orsi, Il giornalista. Giustino Durano. Anna Panattoni. Augusta Cicognini. Piero Vezzani - Giovanni Riva. Egidio Toninelli. Mario Pierovano. Raffaella Moro. Giorgio Barbafiera. Enrico Rame.
Achille, fattorino nella redazione di un giornale milanese della sera, è preso per un giornalista e riesce a mettere insieme un articolo sportivo-sentimentale, che in giorno di magra viene pubblicato dal giornale. Ha poi l'occasione di fare un reportage fotografico ed un'intervista col mostro della via Emilia, che gli fruttano una gratifica ed un elogio da parte del direttore. Nel frattempo la conosciuto Gigi, un maneggione, il quale ha visto subito quale partito egli possa trarre dalle velleità giornalistiche e dall'ingenuità di Achille. Egli induce quest'ultimo a preparare insieme a lui un furto in grande stile, per essere poi il primo a darne la notizia sul giornale con particolari di grande interesse. Si tratta di rubare dei cani di razza di gran valore esposti in una mostra, sostituendoli con cani bastardi. I cani di razza dovrebbero poi essere restituiti ed Achille avrebbe così l'occasione di scrivere un secondo magistrale articolo sul loro ritrovamento. In realtà Gigi si è proposto di rubare i cani per davvero, approfittando dell'ingenuità d'Achille; ma in seguito ad un incidente, le cose prendono un'altra piega. I cani vengono prelevati, ma poi fuggono e sono involontariamente scambiati con i bastardi. Così il colpo giornalistico è sfumato: Gigi però approfitta dell'occasione per portarsi via, insieme coi cani scambiati, Elena, la ragazza della quale Achille era innamorato. Il povero Achille riprende la sua grama vita: egli troverà conforto nell'amore di Diana, l'ex amica di Gigi, che gli dimostra un'affettuosa simpatia.
"Non si può non dare atto al regista di avere tentato una formula nuova nel genere comico. Purtroppo però molto rimane nelle intenzioni di Lizzani, in quanto il film ripete motivi precedentemente visti in altre opere. L'espressione del protagonista e la sua agilità tentano comunque di vivificare il film, che però insiste eccessivamente in trovate che a lungo andare stancano. Anche la satira contro i giornali scandalistici, che si procurano artificiosamente il materiale di cronaca, doveva essere presentata con maggiore sobrietà."
(Segnalazioni cinematografiche', vol. 39, 1956)
"Anche se non è venuto come doveva, "Lo svitato" rappresenta un evidente proposito di ispirarsi alle formule comiche del cinema classico. Però non senza uno sforzo di ripensarle e rielaborarle inserendole in un clima ambientale nostrano e attraverso un intelligente funzionamento del binomio regista - attore, in questo caso Lizzani e Dario Fo. Ci sono scene flosce e gag a vuoto (...) ma, quando il binomio marcia, saltano fuori brani farseschi di una cadenza insieme svagata e irresistibile (...)".
(Filippo Sacchi, "Al cinema col lapis", Mondadori, 1958)
“Un film insolito: diciamolo subito. È un film comico in cui niente è nuovo, ma tutto è rinverdito e rinnovato in un clima di allegria che, partendo dalla vecchia farsa dei primi tempi del “muto”, arriva a caricature e a parodie di sapore originale e modernissimo, con intenzioni quasi sofisticate. Il suo protagonista non è un vero personaggio: è una “maschera”, una di quelle tante “maschere” che, da Ridolini a Buster Keaton e, in tempi più recenti, a Jacques Tati, hanno sempre amabilmente riempito di sé le più divertenti “comiche” del cinema: si chiama Achille, è fattorino e factotum in un giornale milanese della sera, uno di quei giornali che vivono solo di fattacci, di scandali e di titoli a nove colonne.”
(Gian Luigi Rondi, Il Tempo)
«Lo svitato è stato colpito dalla critica perché sembrò, dopo due film come Achtung banditi! e Cronache di poveri amanti, il cambiamento immotivato di un regista, Carlo Lizzani, che era stato catalogato, seppur più giovane, come neorealista.»
“Achille lavora come factotum presso un quotidiano, ma ha il sogno di diventare giornalista. Dopo aver scritto un pezzo (in parte inventato) su un pugile dal cuore d’oro che gli viene sottratto da un collega e osannato dalla redazione, Achille prende coraggio e decide, spinto dall’amico Gigi, di creare una notizia per poi avere l’esclusiva. Decidono così di sequestrare i cani di una mostra canina e di liberarli dopo qualche giorno, in modo così di avere il doppio scoop del sequestro e del ritrovamento. Achille spera così di diventare un giornalista e di conquistare il cuore della bella Elena.
Milano cerca la sua identità
Sin dalla prima inquadratura, Lizzani vuole farci capire in che città ci troviamo, introducendoci in un contesto ben preciso. Non siamo nella Roma saldamente ancorata alla sue rovine (dell’Antichità e della Seconda Guerra Mondiale), ma siamo in una città che sembra priva di un passato ma affamata di futuro: Milano è una città neonata, che giorno dopo giorno, cresce e si sviluppa. Non è un caso che l’immagine di apertura del film sia proprio quella di un cantiere popolato da muratori e da enormi gru, macchinari che sembrano essere i numi tutelari del futuro della città. Gru vorticano sopra i cieli di Milano, mentre il suo terreno è costantemente trivellato: Milano è una città in costruzione, che non ha ancora trovato un suo equilibrio architettonico e sociale, che è alla continua ricerca di un’identità che finalmente incontrerà (e non poteva essere altrimenti) nello sguardo entusiasta e ancora positivo del boom economico. Milano e i suoi abitanti sembrano avere trovato qualcosa in cui credere, qualcosa su cui fondare l’identità della propria città: il denaro ed il successo. E Milano si muove, si muove velocemente e crea, costruisce, aggrega. Ci sono i bar, le osterie, le sale da biliardo, le palestre e i night club, luoghi in cui ribolle la vita e il commercio.
Achille pie’ veloce
È solo dopo questa sequenza di apertura che compare Achille (Dario Fo), il protagonista della pellicola, uomo alla continua ricerca di un’aderenza nei confronti di una città che, spontaneamente, lo rigetta. Achille corre, questo è chiaro. Subito dopo essersi svegliato, comincia a correre e non si ferma mai, catapultato incessantemente da casa al posto di lavoro, dalle commissioni alle uscite serali. Nella sua corsa non c’è la frenesia della Milano degli anni Cinquanta, c’è piuttosto l’entusiasmo del dopoguerra, entusiasmo quasi aprioristico, che investe qualsiasi cosa, dal lavoro, all’amore, dal divertimento all’architettare una truffa. «Il primo contatto con Milano è subito esaltante. Gran parte della città è in macerie, ma basta un primo contatto con l’ambiente giornalistico e artistico per farci sentire Roma lontana e provinciale»; è con queste parole che Carlo Lizzani descrive il suo arrivo a Milano nell’immediato dopoguerra, parole in cui sembra riflettersi in maniera limpida l’entusiasmo e l’euforia di Achille, la sua voglia di sentirsi parte di grande ingranaggio il cui scopo è quello di rendere più grande e più importante la città (e quindi ognuno dei suoi abitanti).
L’entusiasmo di Achille non conosce freno, nemmeno quello spietato e crudele dei meccanismi della città. Il successo che il ragazzo insegue con così tanto investimento di forze, è più il desiderio di sentirsi attivo nella costruzione di questa nuova Milano che speranza di scalare classi economiche e sociali. Al contrario dell’amico Gigi, la truffa che Achille architetta non è una semplice speculazione giornalistica, quanto l’unica e reale possibilità di diventare finalmente qualcuno e quindi degno di potersi definire parte attiva nella fondazione della città. Perché Milano non ha occhi di riguardo per i suoi abitanti, e solo la fortuna, la furbizia e un po’ di ingegno, può dar loro la possibilità di trovare un posto tra le sue vie, i suoi palazzi.
La maschera di Achille
L’esordio di Dario Fo sul grande schermo non venne accolto dalla critica in maniera positiva, che definì inadatta per il cinema la sua fisicità, il suo gesticolare e le sue espressioni di stampo teatrale. Rivista oggi invece, l’interpretazione di Dario Fo (che è anche sceneggiatore del film con Lizzani, il fratello Fulvio e Augusto Frassinetti, Massimo Mida, Bruno Vailati) rimane forse l’unico esempio nel cinema italiano di una comicità del tutto giocata sul corpo, i cui modelli sono sicuramente i comici del muto (più Keaton che Chaplin) e il più recente Monsieur Hulot di Jacques Tati, che tre anni prima si era fatto conoscere anche all’estero grazie al primo lungometraggio “Le vacanze di Monsieur Hulot”. E così Dario Fo corre a perdifiato per Milano superando tram stracolmi di persone, si agita gesticolando ed espone le sue emozioni con un misto di timidezza e risolutezza che fanno del suo Achille una maschera estremizzata ma al contempo profondamente umana. Questo aspetto lo rivela anche il finale della pellicola che, con i toni della favola, risistema la vita di Achille che, nonostante la sfortuna avuta (il colpaccio non è andato bene e Gigi è scappato con la sua innamorata) riesce lo stesso a trovare l’amore, dapprima ritenuto impossibile, per la femme fatale Diana (Franca Rame), fascinosa ma intelligente e soprattutto pronta a donare il suo amore senza alcun tornaconto.
Carta stampata
Un elemento importante del film è il ruolo dell’informazione. Lo stesso Lizzani, vide Milano la prima volta proprio grazie al giornalismo quando, nel 1945, vi si trasferì per un anno a lavorare nella redazione del settimanale “Film d’oggi”, nato dalle ceneri del fascista “Cinema” (di proprietà di Vittorio Mussolini) grazie all’iniziativa dello stesso Lizzani e di Giuseppe De Santis e Gianni Muccini (che ne diventò il direttore). Quella de “Lo svitato”, è però un giornalismo del tutto diverso da quello abitato da Lizzani. Achille lavora in un giornale della sera che fagocita pettegolezzi, notizie di poco conto gonfiate fino all’estremo e che obbedisce ciecamente alla regola che cane che morsica uomo non è una notizia, mentre uomo morsica cane invece lo è. La critica feroce (ma sempre divertita) mossa da “Lo svitato” nei confronti di questo giornalismo degenerato è uno degli aspetti più moderni e attuali della pellicola. L’idea stessa alla base del film è una critica in tutto e per tutto a questo sistema: Achille e l’amico Gigi non documentano un fatto, ma costruiscono una notizia, provocano direttamente il fatto per poi raccontarlo come meglio credono. L’altro momento in cui il giornalismo viene preso di mira, è l’incontro in redazione con il Mostro (interpretato da Franco Parenti, in quel periodo sodale di Dario Fo), una sequenza di assoluta comicità cinica e grottesca infarcita di una critica sociale proiettata nel futuro che, seppur slegata dalla struttura narrativa, è uno dei momenti meglio riusciti della pellicola.
Lo sguardo di Lizzani
Con alle spalle una decina di film, tra documentari e film di fiction a tema storico (e comunque improntati su un registro drammatico), Carlo Lizzani dirige nel 1956 “Lo svitato”, una delle sue poche incursioni nella commedia e, sicuramente, quella meglio riuscita. Se l’apporto di Dario Fo è riconducibile alle invenzioni comiche, al taglio moderno dell’umorismo e alla satira sociale, la mano di Lizzani si fa notare nella descrizione atipica di una Milano che parte dal basso ma la cui risalita è ancora un work in progress. Per questo lo sguardo di Lizzani si concentra quasi unicamente nella descrizione della Milano popolare con i suoi bar, i suoi tram e i suoi locali, ma sfruttando l’architettura della città per rendere più spettacolari alcune sequenze. Il contributo di Lizzani più importante è però riconducibile all’atmosfera realistica che si respira durante la visione: il film comico (soprattutto se sfruttava una comicità surreale come fa “Lo svitato”) all’epoca era sempre circondato da un’aurea naïve, un’atmosfera giocosa, teatrale. Lizzani cala la comicità sopra le righe di Achille in un contesto del tutto realistico, grazie anche all’uso di location reali (molte scene sono in esterna e poche sono girate in studio di posa) e di una precisione nella descrizione fisica dei luoghi.”
(Matteo Contin in www.rapportoconfidenziale.org)
- Il film: Lo Svitato - Carlo Lizzani, 1956
Uno sceneggiatore: “Fulvio Fo (Luino, 18 maggio 1928 - Roma, 17 novembre 2010) scrittore, produttore cinematografico, sceneggiatore e direttore di Teatri Stabili, italiano. Figlio di Felice Fo (Monvalle, 11 novembre 1898 - Luino, 1 gennaio 1987), capostazione e anche attore in una compagnia amatoriale e di Pina Rota (Sartirana Lomellina, 20 settembre 1903 - Luino, 6 aprile 1987) era il padre del poeta, latinista e traduttore Alessandro, di Laura (attrice e regista), di Giulia e di Federico. Durante l'infanzia e la prima giovinezza visse a Portovaltravaglia, sul lago Maggiore, sino al 1946, insieme alla sorella Bianca e al fratello Dario.
Dopo esperienze di lavoro a Parigi e in Medio Oriente rientrò in Italia e iniziò l'attività in campo cinematografico, come sceneggiatore e come aiuto-regista di Henri-Georges Clouzot e di Carlo Lizzani. Il suo interesse era rivolto soprattutto al teatro, in qualità di organizzatore e anche di collaboratore negli spettacoli di suo fratello Dario. Fu collaboratore di Paolo Grassi, al Piccolo Teatro di Milano (1953 e 1966) e promotore di rassegne internazionali teatrali. Ricoprì l'incarico di condirettore dei Teatro Stabile di Torino dal 1955 al 1960. Fu direttore artistico del Teatro Stabile di Bologna (1961).
Nel 1968 è stato uno dei soci fondatori della Cooperativa teatrale Gli Associati, che segnò la nascita del sistema cooperativo in ambito teatrale, e ne restò presidente e direttore fino al 1978. Dal 1970 fu presidente dell'UNAT (Unione Nazionale Attività Teatrali), membro del Comitato di Presidenza A.G.I.S. (Associazione Generale Italiana dello Spettacolo) fino al 1980 e consulente del Centro Teatro Ateneo dell'Università di Roma La Sapienza. Ha ideato e diretto corsi di formazione, dal 1980 al 1983, per conto dell'Ente Teatrale Italiano, dell'A.G.I.S. e del Ministero del Turismo e dello Spettacolo: si trattava dei primi corsi professionali, realizzati in Italia, per organizzatori e amministratori teatrali.
Dal 1973 e fino al 1983 è stato membro della Commissione Ministeriale per il Teatro di prosa e membro della Commissione Paritetica Sindacale per il Teatro di prosa. Dal 1981 al 1983 ha ricoperto la carica di vice presidente dell'Ente Teatrale Italiano e dal 1984 al 1986 è stato amministratore delegato e direttore del Teatro di Roma (Teatro Argentina e Teatro di Ostia Antica). Dal 1988 al 1994 è stato direttore artistico del Teatro Metastasio di Prato e nel 1995 ha organizzato un corso di formazione professionale riservato alla provincia di Livorno.
Si è trasferito a Cagliari, per un incarico al Teatro di Sardegna e nel 1996, quando riteneva di avere concluso le sue attività, si è ritirato a Sinnai, dove al contrario ha iniziato una nuova esistenza, tutta legata al teatro locale. Nacque infatti un Teatro Civico a Sinnai, Comune di cui era diventato un cittadino attivo e partecipe. Divenne presidente della Associazione che prese in gestione questo nuovo teatro, riuscendo a farlo inserire nel contesto nazionale, garantendone la programmazione e stimolando la nascita di corsi di avviamento al teatro, per giovani e per bambini. Collaborò attivamente con l'Università di Cagliari e con varie realtà isolane, in campo teatrale, puntando in particolare alla formazione dei giovani, nella recitazione e nella regia teatrale.
La sua produzione letteraria ebbe inizio nel 1994 con il libro La valle onde Bisenzio si dichina. Fulvio Fo amava anche la letteratura non legata al teatro, in particolar modo la poesia. Nel 2002 pubblicò una raccolta di aneddoti e di brevi racconti autobiografici, dal titolo Pescatore di sogni. Itinerario di un animale teatrante e nel 2010 apparve la seconda serie di racconti - Gente di lago - ambientati a Portovaltravaglia e dintorni, cioè nei luoghi della sua gioventù. I racconti erano ispirati a fatti e a personaggi realmente esistiti da quelle parti, quindi di taglio autobiografico.
Dopo la pubblicazione di questo libro si manifestò il male che nel giro di pochi mesi lo avrebbe strappato alla vita e alla sua inesauribile vena creativa. Pochi giorni prima di morire chiese a un amico di procurargli materiale per un suo nuovo progetto teatrale e gli inviò un nuovo capitolo, aggiuntivo alla riedizione (pubblicata postuma nel 2011) di Pescatore di sogni, al fine di averne una opinione di riscontro. Espresse la volontà di rendere perenne il suo legame con Sinnai, scegliendo di essere sepolto nel locale cimitero: le sue ceneri vi sono state collocate in un loculo che, secondo il desiderio che aveva esplicitamente espresso, gli consentisse di continuare a «contemplare il paesaggio del golfo di Cagliari».”
(In wikipedia.org)
Una poesia al giorno
Limite, di Mario Ramous (Milano, 18 maggio 1924 - Bologna, 8 luglio 1999)
Una campana è il mio cuore più cupo
d’un disperato suonare a distesa.
Non c’è riposo alla vasta ossessione
dei grilli in questa notte già recisa
dal richiamo dei treni. E il tuo viso
appena sfiorato dal mio amore
ora è già smorto, caduto. Potranno
piangere gli uomini con il lamento
lungo delle strade, potremo piangere
che non ci è dato nulla oltre il nome.
Ricordo solo il tuo seno malato.
“E' morto a Bologna, dopo una lunga malattia, all'età di 75 anni, il poeta e critico Mario Ramous, considerato uno dei maggiori traduttori italiani di classici greci e latini del secondo dopoguerra. Si devono a Ramous, docente emerito di estetica all'università di Urbino, importanti edizioni di Esopo, Orazio, Virgilio e Catullo, pubblicate soprattutto con la casa editrice Garzanti. Attivo negli anni Quaranta come critico d'arte, collaborando soprattutto con periodici di sinistra (fu iscritto al Pci fino al 1956, quando abbandonò' per protesta contro l'invasione sovietica dell'Ungheria), l'esordio poetico di Ramous avvenne nel 1951 con la raccolta ''La memoria'', pubblicata da Cappelli con la prefazione di Salvatore Quasimodo, suo grande amico.
Direttore editoriale della casa editrice bolognese Cappelli per 25 anni (1950-75), il poeta è stato autore di numerose raccolte, alcune delle quali denunciavano il dissidio tra poesia e impegno sociale. ''Programma'' (1968), ''Macchina naturale'' (1975) ''A discarico'' (1976), ''Interferenze'' (1988) sono i titoli dei libri pubblicati da Feltrinelli e Garzanti. Alla fine degli anni Settanta Ramous ha imboccato apertamente la via della scomposizione delle unità metriche, da lui teorizzata con ''La metrica'' (1984), fino ai più recenti risultati sperimentali (testimoniati dalle ultime sette raccolte, la cui più recente, ''Remedia'', è stata pubblicata un anno fa).
La passione per la traduzione dei classici fu condivisa da Ramous durante lunghe frequentazioni con il poeta Quasimodo, lui stesso curatore di numerose edizioni di testi greci e latini. Fanno parte di quest'ambito le traduzioni delle favole di Esopo, ''Il libro delle odi'' e le ''Epistole'' di Orazio, le ''Georgiche'' di Virgilio e tutte le opere di Catullo.”
(Pam/Gs/Adnkronos)
- Immagini: Mario Ramous, tutte le poesie - Biblioteca dell'Archiginnasio 27 settembre 2017
Un fatto al giorno
18 maggio 1869: resa della Repubblica di Ezo al Giappone e sua dissoluzione.
“La Repubblica di Ezo (蝦 夷 共和国, Ezo Kyōwakoku) era uno stato di breve durata fondato nel 1869 da una parte dell'ex esercito Tokugawa sull'isola di Ezo, ora conosciuta come Hokkaido. Ezo è noto per essere stato il primo governo a tentare di istituire la democrazia in Giappone, sebbene il voto fosse consentito solo alla casta dei samurai. La Repubblica di Ezo è esistita solo per 5 mesi. Dopo la sconfitta delle forze dello shogunato Tokugawa nella Guerra Boshin (1869) della Restaurazione Meiji, una parte dell'ex marina dello shōgun guidata dall'ammiraglio Enomoto Takeaki fuggì nell'isola settentrionale di Ezo (ora Hokkaido), insieme a diverse migliaia di soldati e una manciata di consiglieri militari francesi e il loro capo, Jules Brunet. Enomoto fece un ultimo sforzo per presentare una petizione alla Corte Imperiale affinché fosse autorizzato a sviluppare Hokkaido e mantenere indisturbate le tradizioni dei samurai, ma la sua richiesta fu respinta. Il 27 gennaio 1869 (New Style), la "Repubblica di Ezo" indipendente fu proclamata con un governo provvisorio e Enomoto come primo presidente (sosai). L'organizzazione governativa era basata sugli Stati Uniti. I diritti di voto erano limitati alla classe dei samurai. Questa è stata la prima elezione mai tenuta in Giappone, dove una struttura feudale sotto un imperatore con signori della guerra militare era la norma. Attraverso il magistrato Nagai Naoyuki di Hakodate, sono stati fatti tentativi per raggiungere le legazioni straniere presenti ad Hakodate per ottenere il riconoscimento diplomatico internazionale.
Lo stesso giorno, si è tenuta una celebrazione dell'insediamento di tutte le isole del territorio di Ezo (cerimonia di dichiarazione del territorio di Ezo), proclamando l'istituzione di un governo provvisorio con Enomoto come presidente.
Il tesoro comprendeva 180.000 monete d'oro ryo Enomoto recuperate dal castello di Osaka in seguito alla precipitosa partenza di Shōgun Tokugawa Yoshinobu dopo la battaglia di Toba-Fushimi all'inizio del 1868.
Durante l'inverno 1868-1869, le difese intorno alla penisola meridionale di Hakodate furono potenziate, con la fortezza stellare di Goryōkaku al centro. Le truppe erano organizzate sotto un comando congiunto franco-giapponese, comandante in capo Ōtori Keisuke essendo distaccato dal capitano francese Jules Brunet, e divise in quattro brigate, ciascuna comandata da un ufficiale francese (Fortant, Marlin, Cazeneuve e Bouffier). Le brigate stesse erano divise in due mezze brigate ciascuna, sotto il comando giapponese.
Brunet ha chiesto (e ricevuto) un impegno personale firmato di lealtà da tutti gli ufficiali e ha insistito affinché assimilassero le idee francesi. Un anonimo ufficiale francese ha scritto che Brunet si era preso cura di tutto:
“... dogana, municipalità, fortificazioni, esercito; tutto è passato per le sue mani. I semplici giapponesi sono burattini che manipola con grande abilità... ha compiuto una vera rivoluzione francese del 1789 in questo nuovo e coraggioso Giappone; l'elezione dei leader e la determinazione del rango in base al merito e non alla nascita: queste sono cose favolose per questo paese, e lui ha saputo fare le cose molto bene, vista la gravità della situazione... “
Le truppe imperiali consolidarono presto la loro presa sul Giappone continentale e nell'aprile 1869 inviò una flotta e una forza di fanteria di 7.000 uomini a Hokkaido. Le forze imperiali progredirono rapidamente, vinsero la battaglia di Hakodate e circondarono la fortezza di Goryōkaku. Enomoto si arrese il 26 giugno 1869, consegnando il Goryōkaku all'ufficiale di stato maggiore di Satsuma Kuroda Kiyotaka il 27 giugno 1869. Si dice che Kuroda sia rimasto profondamente colpito dalla dedizione di Enomoto al combattimento ed è ricordato come colui che ha risparmiato la vita a quest'ultimo dall'esecuzione. Il 20 settembre dello stesso anno, all'isola fu dato il suo nome attuale, Hokkaido (Hokkaidō, letteralmente "Regione del Mare del Nord").
Mentre i successivi testi di storia dovevano riferirsi al maggio 1869 come quando Enomoto accettò il governo dell'imperatore Meiji, il dominio imperiale non fu mai in discussione per la Repubblica Ezo, come reso evidente da parte del messaggio di Enomoto al Daijō-kan (太 政 官, Dajōkan) l'ora del suo arrivo ad Hakodate:
I contadini e i mercanti non sono molestati e vivono senza paura, andando per la loro strada e simpatizzando con noi; in modo che già siamo stati in grado di portare un po' di terra in coltivazione. Preghiamo che questa porzione dell'Impero possa essere conferita al nostro defunto signore, Tokugawa Kamenosuke; e in tal caso, rimborseremo la tua beneficenza con la nostra fedele tutela della porta settentrionale.
Quindi, dal punto di vista di Enomoto, gli sforzi per stabilire un governo a Hokkaido non erano solo per il bene di provvedere al clan Tokugawa da un lato (gravato com'era da un'enorme quantità di servitori ridondanti e dipendenti), ma anche allo sviluppo di Ezo per il bene della difesa per il resto del Giappone, cosa che da tempo era motivo di preoccupazione. Studi recenti hanno notato che per secoli Ezo non è stata considerata una parte del Giappone allo stesso modo in cui lo erano le altre isole "principali" del Giappone moderno, quindi la creazione della Repubblica di Ezo, in una mentalità contemporanea, non è stata un atto di secessione, ma piuttosto di "portare" l'entità politico-sociale del "Giappone" formalmente a Ezo.
Enomoto fu condannato a una breve pena detentiva, ma fu liberato nel 1872 e accettò un incarico come funzionario governativo nell'Hokkaido Land Agency recentemente ribattezzata. In seguito è diventato ambasciatore in Russia e ha ricoperto diversi incarichi ministeriali nel governo Meiji.”
Una frase al giorno
“The one important thing I have learned over the years is the difference between taking one's work seriously and taking one's self seriously. The first is imperative and the second is disastrous.”
(“L'unica cosa importante che ho imparato nel corso degli anni è la differenza tra prendere sul serio il proprio lavoro e prendere sul serio se stessi. Il primo è imperativo e il secondo è disastroso.)
(Margot Fonteyn, Reigate, 18 maggio 1919 - Panama, 21 febbraio 1991, è stata una ballerina inglese, prima ballerina con il Royal Ballet, e considerata la più grande di tutti i tempi)
“Margot Fonteyn, il cui vero nome era Margaret Evelyn Hookham, nacque a Reigate, nel Surrey, in Inghilterra, il 18 maggio 1919, da padre inglese e madre irlandese. Suo nonno era l’industriale brasiliano Antonio Fontes. Iniziò a studiare danza a Londra all’età di quattro anni, ma all’età di otto anni si trasferì in Cina, a Shangai, dove la famiglia si era trasferita per seguire il lavoro del padre, che lavorava in una ditta di tabacco. Lì trascorse la sua infanzia e studiò danza con George Goncharov, ex danzatore del Bolshoi. Quando compì 14 anni, sua madre ritornò a Ealing in Inghilterra, mentre suo padre rimase a Shanghai e fu catturato e imprigionato dai soldati giapponesi durante la seconda guerra mondiale. Margot, che aveva studiato danza già a partire dai 4 anni, entrò a far parte della scuola del Sadler’s Wells Theatre di Londra (l’odierno Royal Ballet). Nel 1934, a Londra, studia con Serafina Astafieva, ex danzatrice del Mariinsky. Sotto la sua guida si entusiasma per il balletto classico, nonostante prima avesse preferito la danza di carattere.
Dopo avere passato un’audizione con Ninette de Valois, che aveva aperto una scuola annessa alla nuova compagnia del Vic Wells Ballet, a 16 anni fece il suo debutto nella compagnia londinese, danzando nel valzer dei fiocchi di neve dello “Schiaccianoci”. Nel 1935 interpreta il ruolo della sposa nel “Bacio della fata”, prima coreografia di Frederick Ashton creata appositamente per lei.
All’inizio della sua carriera, Margaret trasformò il cognome Fontes in Fonteyn (lo stesso fece suo fratello) e il nome Margaret in Margot, da qui il nome d’arte.
Quando la prima ballerina, la celeberrima Alicia Markova, decise di lasciare la compagnia nel 1935, all’interno del balletto si manifestò una forte preoccupazione su chi dovesse sostituirla. Ma, nel corso dei successivi due anni, apparve chiaro che l’unica sostituta possibile era proprio lei, Margaret, con il nome d’arte Margot Fonteyn, che veniva tenuta sotto costante osservazione, ancor prima di aver interpretato uno qualsiasi dei grandi ruoli classici. Fu quindi scelta per i primi suoi ruoli di protagonista, approdando al ruolo di Odette nel “Lago dei cigni”, con una collega più esperta nel ruolo di Odile. Robert Helpmann diventa suo partner e lo rimarrà fino a quando lascerà il Sadler’s Wells Ballet per fare a tempo pieno l’attore.
Inizia una carriera leggendaria: a 17 anni Margot Fonteyn balla nel ruolo della protagonista in “Giselle”, a 19 anni nel ruolo di Aurora in “La bella addormentata nel bosco”. Di lei vengono lodate la musicalità, la linea perfetta dell’arabesque, la padronanza scenica, distinguendosi soprattutto nei ruoli romantici.
Nel 1937 a Cambridge conosce Roberto Arias, figlio del presidente del Panama. Si frequentano per due estati, fino a che scoppia la seconda guerra mondiale.
Nel 1939, allo scoppio della seconda guerra mondiale, Margot aveva già danzato Aurora, Giselle ed entrambi i ruoli di Odette/Odile, in Il lago dei cigni. Inoltre era diventata la musa ispiratrice di Sir. Frederick Ashton, che creò una mezza dozzina di ruoli per lei nelle sue coreografie. Nei 25 anni successivi, lei avrebbe creato la maggior parte delle sue più grandi prime interpretazioni, lui la maggior parte dei suoi più grandi balletti. Tuttavia, ella lavorò anche con altri coreografi, tra cui Roland Petit.
Negli anni ‘40 ebbe una lunga storia d’amore con il compositore inglese Constant Lambert, che era sposato. Durante la guerra, con la compagnia, si esibisce per le truppe. Dopo la guerra approda sul palcoscenico del Covent Garden. La sera della prima di Sleeping Beauty al Covent Garden, Margot Fonteyn, all’età di 26 anni, esordì come prima ballerina, riscuotendo uno strepitoso successo. “Lei stessa crea la musica con i suoi movimenti, con i suoi piedi, un innato senso musicale che rende indimenticabili le sue apparizioni in scena”. Interpretò molti altri balletti, tra cui “Cenerentola” e la sua fama crebbe fino a farla diventare una étoile internazionale a partire dal 1949. Negli anni ’50 si esibì come Tamara Karsavina ne “L’Uccello di Fuoco” di Stravinsky, danzò in Les demoiselles de la nuit e in Petroucka di Fokine; interpretò i ruoli di Ondine e Chloë. Inizia a danzare in coppia con Michael Somes e partecipa alle creazioni di Ashton, di cui è la musa ispiratrice: “Symphonic Variations” (1946) e “Scènes de ballet” (1948).
Eugenio Montale commenta in un articolo del Corriere della Sera dell’11 marzo 1955 il balletto L’Uccello di fuoco, in scena al Teatro alla Scala: «L’interesse maggiore è la presenza, nell’Uccello di fuoco di Strawinsky, di Margot Fonteyn, danzatrice probabilmente impareggiabile (…). Vissuta fanciulla in Asia, sembra talvolta di intravedere nel gesto e nel ritmo della grande danzatrice - basti osservare i suoi morbidissimi movimenti di abbandono e l’alato gioco delle sue braccia nel balletto, quando il mitico “uccello di fuoco” conosce l’amplesso del Principe che lo tiene prigioniero - un riflesso di cadenze mimiche delle danze religiose asiatiche, (…) richiami di accenti lontani di palpiti remoti e vicini di una grazia che ha colori universali, danno continuamente nuova vita alla dama Margot Fonteyn». E continua: «Micheal Somes accompagnava Margot Fonteyn nelle sue apparizioni. Figura veramente da leggenda alata e morbidissima, acrobatica e tenerissima, appariva la danzatrice il cui virtuosismo quasi diabolico non soffoca mai lo spirito magicamente musicale di un corpo che sembra, in ogni gesto e in ogni cadenza, cantare misteriosamente. Le acclamazioni del pubblico sono state prorompenti e interminabili».
Nel 1949 debutta al Metropolitan di New York. La sua interpretazione della principessa Aurora è un trionfo e le riviste Time e Newsweek le dedicano la copertina. Nel corso della terza stagione della compagnia a New York, Margot Fonteyn rivede Roberto Arias, allora ambasciatore del Panama presso l’ONU, sposato con 3 figli. Riescono a sposarsi nel 1955 a Parigi. Il matrimonio fu piuttosto burrascoso a causa delle infedeltà del marito e della sua attività politica contro il governo. Da quel momento in poi, dovette condividere la sua carriera di ballerina con il compito di moglie di un ambasciatore, cosa che le procurò grandi problemi. In quello stesso anno Pietro Annigoni realizza il ritratto di Margot Fonteyn che indossa un abito tradizionale panamense, mentre Roberto Arias diventa ambasciatore del Panama in Gran Bretagna, carica da cui si dimetterà un paio d’anni dopo. Nel 1956 a Margot Fonteyn viene conferita l’onorificenza di Dama dell’Impero Britannico.
Quando i coniugi vengono accusati di attività rivoluzionarie a Panama, Margot Fonteyn viene portata in carcere. Esce dopo 24 ore e vola negli USA, mentre il marito chiede asilo all’ambasciata del Brasile a Panama. Riescono a tornare entrambi a Londra e lei debutta nel ruolo di Ondine. In questo stesso ruolo e in quello di Aurora danza in tournée in Russia nel 1961 per uno scambio con la compagnia del Mariinsky. Intorno al 1960 iniziarono a correre voci di un suo possibile ritiro dalle scene a causa della impossibilità di conciliare la carriera di ballerina internazionale con i doveri della moglie di un ambasciatore. Mentre si trova a S. Pietroburgo corrono voci della defezione di Rudolf Nureyev. La conferenza stampa di presentazione del giovane russo ai giornalisti britannici avviene qualche mese dopo proprio a casa della Fonteyn. Il ballerino russo era in tournée in Europa col Balletto Kirov e chiedeva asilo politico in Francia, scappando dalla Russia. Margot Fonteyn invita Nureyev a un gala di beneficenza a Londra. Correvano voci che Margot Fonteyn, ormai quarantenne, stesse per ritirarsi dalla scena, ma, quando Nureyev entra a far parte del Royal Ballet, lei sceglie di rimandare il ritiro dalle scene, propiziato da quello del suo partner Somes, per dar vita ad una storica coppia che si esibirà per 17 anni con successo ancor oggi ineguagliato.
Nel 1961, Margot Fonteyn e Rudolf Nureyev danzarono insieme in Giselle a Londra. Fu un grande, strepitoso successo. Per il mondo del balletto, questo connubio fra due geni, fu una vera e propria rivelazione. Durante le chiamate alla ribalta, Nureyev si inginocchiò davanti alla Fonteyn e le baciò la mano, cementando un’unione che durò una vita, sia sul palco che fuori. Nureyev era di vent’anni più giovane e apparentemente fra i due non poteva esserci compatibilità, né fisica, né caratteriale. Tuttavia la tensione “elettrica” che si veniva a creare fra loro creava un qualcosa di ineguagliabile e di memorabile. Nonostante la differenza di storia personale, temperamento ed età, furono amici e leali l’uno all’altra fino alla fine. Margot negò che tra loro ci fosse anche un sentimento più romantico e passionale dell’amicizia, anche se Rudolf non lo confermò mai. La coppia diventò famosa per le ripetute chiamate alla ribalta e per i lanci di bouquet di fiori sul palco da parte del pubblico ad ogni rappresentazione.
Negli anni Quaranta, Margot e il ballerino australiano Robert Helpmann formarono una coppia artistica molto acclamata. Insieme andarono in tournée per molti anni. Negli anni Cinquanta, danzò con Michael Somes, ballerino inglese del Royal Ballet e co-direttore della compagnia. Ma la coppia che resta tutt’oggi ineguagliata fu proprio Margot Fonteyn e Rudolf Nureyev. La loro capacità di tradurre le emozioni in movimento e di affascinare il pubblico provoca immediatamente un’esplosione d’interesse che supera i confini della danza. I due danzatori si ispiravano a vicenda, raggiunsero un’intesa perfetta che permise loro di dare un accento di vigore e freschezza a tutti i loro lavori. I media traboccano di loro immagini e interviste, i teatri vengono bombardati di richieste sulle date dei loro spettacoli e i biglietti vengono freneticamente acquistati a qualsiasi prezzo. C’è la consapevolezza che si tratta di eventi imperdibili e che è una fortuna assistervi. Solo per loro, Frederick Ashton coreografò il celebre balletto Marguerite and Armand (1963, Covent Garden di Londra). Con due brani al pianoforte di Frantz Liszt, il balletto inizia con Marguerite sul letto di morte, e la storia prosegue con flashback fino al momento in cui arriva Armand che la sostiene per l’ultima volta prima dell’addio. Di fronte alla Regina Madre e alla Principessa, i ballerini ricevono ventuno chiamate alla ribalta. Lo danzarono altre volte, ma nessun’altra coppia di danzatori interpreterà questo balletto fino al XXI secolo: non c’è dubbio che in pochi se la sentissero di farsi carico di un confronto così importante e difficilmente eguagliabile.
Debuttarono nel Romeo e Giulietta di Kenneth MacMillan, anche se il coreografo l’aveva concepito per Lynn Seymour e Christopher Gable. Margot Fonteyn e Nureyev danzarono insieme per la versione filmata de Il lago dei Cigni, così come Les Sylphides e il pas de deux dello schiavo da Le corsaire.
Margot Fonteyn era famosa per la sua professionalità e la lealtà verso colleghi e amici. Il suo modo di danzare emergeva per il lirismo, la grazia, la passione e la musicalità. Non era tecnicamente molto dotata (i suoi piedi non erano eccezionali) ma aveva in sé qualcosa di magico che, in palco, la rendeva speciale. La critica tuttavia non è unanime, il critico del Daily Telegraph scrive che sono “creature provenienti da due pianeti differenti” e John Martin scrive che per il Royal Ballet l’arrivo di Nureyev è stato un “giorno nero” e vederlo ballare con Fonteyn “una triste esperienza”. Nel 1964, alla vigilia dell’apparizione al Festival di Bath, la Fonteyn viene raggiunta dalla notizia che il marito Roberto Arias, che si trovava a Panama per la campagna elettorale, era stato gravemente ferito in un attentato da un rivale politico. Questo episodio lo rese tetraplegico per il resto della vita. Subito dopo lo spettacolo lei volò a trovarlo, poi riprese le prove di “Raymonda”, che dovette abbandonare alla vigilia della generale per un aggravamento delle condizioni del marito. Nel successivo lustro per la Fonteyn e Nureyev è un susseguirsi ininterrotto di esibizioni ovunque, nuove produzioni, titoli cubitali, eventi passati alla storia. Per pagare le spese mediche del marito, Margot fu costretta a danzare fino ai 60 anni, nonostante un’artrosi al piede.
Nel 1967 vengono arrestati entrambe dopo una performance a San Francisco, a causa di un’irruzione della polizia in una festa a cui erano stati invitati nella zona di Haight-Ashbury. Nel 1970 John Cranko crea la coreografia “Poema dell’estasi” per la Fonteyn, da qui in poi sempre più impegnata in progetti diversi rispetto a quelli di Nureyev. Nel 1972 non ci sono più nuovi ruoli per la coppia e nel 1974 non ballano nemmeno una recita insieme. Nel 1975 partecipano ad un gala nel quale propongono un condensato di episodi estratti dal “Don Giovanni” di Neumeier e poi negli Stati Uniti fanno due incursioni nella danza moderna con “Lucifero” di Martha Graham e “La pavana del Moro” di José Limon. Ashton crea ancora per la Fonteyn “Amazon Forest”, questa volta in coppia con David Wall. Lo stesso passo a due ma con Nureyev è incorporato nel programma della stagione di “Nureyev and Friends” a New York.
Nel 1976 Margot Fonteyn pubblica la propria autobiografia. Nel 1977 per il giubileo d’argento della regina Elisabetta II porta in scena “Hamlet Prelude”, un nuovo passo a due coreografato per lei e Nureyev da Ashton. Nel 1978 partecipa ai gala della Royal Festival Hall ballando, oltre a “Le Silfidi”, con Ivan Nagy nel “Romeo e Giulietta” di Skibine e con Stephen Jefferies in “Amazon Forest”.
Nel 1979, un gala al Covent Garden per i suoi 60 anni viene annunciato dalla stampa come il suo addio alle scene. La compagnia le conferisce quindi il titolo di prima ballerina assoluta, un titolo che poche volte è stato attribuito ad una ballerina. La prima ad appropriarsi di questo titolo è stata Pierina Legnani, con il Balletto Imperiale di San Pietroburgo, spiega Anna Razzi, étoile e direttrice della Scuola di Ballo e della Compagnia di Balletto del Teatro San Carlo di Napoli. È stata la prima a unire i ruoli del cigno bianco (Odette) e del cigno nero (Odile) ne Il Lago dei cigni e a eseguire i trentadue fouettés. Per questo la nominarono prima ballerina assoluta, che i francesi chiamano étoile. Il titolo è rimasto da allora per coloro che, esclusivamente nel balletto classico, danzano il repertorio dell’Ottocento interpretando ruoli di primo piano». Peter Williams scrive che “dimostrava la metà dei suoi anni”. Tuttavia non si ritirò dalle scene. Solo poche settimane dopo appare al Nureyev Festival in “Lo Spettro della rosa” e “Pomeriggio d’un fauno”. Il totale dei titoli interpretati assieme arriva così a 26, molti dei quali brevi passi a due proposti una sola volta in occasione di un gala e mai più rappresentati. Nello stesso anno la Fonteyn pubblica un nuovo libro intitolato “A Dancer’s World” e conduce per la BBC il ciclo di 6 puntate dal titolo “La magia della danza”.
Nel 1980 torna a vivere a Panama per stare accanto al marito paralizzato. Con la restituzione dei beni confiscati acquistano una tenuta e costruiscono una casa. Si dedica ad un ciclo di conferenze la prima delle quali ha luogo a San Francisco. Inaugura nella sua città natale il monumento opera dello scultore Nathan David che la raffigura nel ruolo di Ondine. Viene nominata rettore dell’Università di Duhram. Dal 1981 al 1990 è stata presidente onorario della University of Durham. La sala principale di Dunelm House è stata nominata Fonteyn Ballroom in suo onore. Una scuola di balletto a nord di New York è intitolata a lei, Margot Fonteyn Academy of Ballet, ed è stata fondata dall’amico Ken Ludden che insegna lo stile classico del balletto ispirato a Margot. Negli ultimi venti anni di vita, insieme a Ludden, Margot ha cercato di sviluppare la sua idea di preparazione nelle belle arti in cui Musica, Danza, Pittura e Recitazione fossero studiate sotto un unico tetto, in quanto elementi di base del teatro. La sua convinzione era che i giovani artisti provenienti da campi diversi di espressione potessero entrare in contatto e, di conseguenza, sviluppare una comprensione profonda sui molteplici aspetti dell’arte.
Nel 1981, a Milano e a New York prende parte nel ruolo di Madonna Capuleti alle recite di “Romeo e Giulietta” nella versione coreografica di Nureyev con la compagnia della Scala.
In seguito apparirà solo in eventi legati alla storia della danza: nel 1984 a New York al gala di chiusura per il centenario del Metropolitan; nel 1988 ancora a New York ai festeggiamenti del Metropolitan per i 50 anni di Nureyev e a Londra ai festeggiamenti per i 90 anni di Ninette de Valois. Nello stesso anno infine si esibisce alla Festa di corte a Mantova per la RAI.
Rimane vedova nel 1989, dopo aver completato il documentario biografico diretto da Patricia Foy. Si ammala gravemente di cancro nel 1990, mentre tutti i risparmi sono stati prosciugati dalle spese per le cure mediche necessarie al marito. Così, nel 1990, il Royal Ballet organizza un gala a suo beneficio; a Londra le viene dedicata una recita di “Romeo e Giulietta” di MacMillan con Nureyev nel ruolo di Mercuzio. Durante la malattia, che si scoprirà essere un cancro, anche Nureyev si prende cura di lei in modo particolare, come solo un caro amico può fare. La visita spesso, nonostante i suoi tanti impegni di ballerino e coreografo, paga anche le sue spese mediche. Allo stesso modo si comporta lei, quando lui accusa problemi di salute.
Muore pochi mesi dopo, in un ospedale di Panama City, nel 1991.
Rudolf Nureyev ricorda con tenerezza, in un articolo del Corriere della Sera del 23 novembre 1992, il suo sodalizio con Margot Fonteyn: «È stata la mia partner ideale. Avevamo temperamenti diversi e c’era anche una differenza di età di venti anni. Ma i nostri corpi, i nostri movimenti, i nostri piedi e le nostre mani riuscivano sempre a incontrarsi e a fondersi meravigliosamente, in una sorta di equilibrio che credo sia stato irripetibile».
La sua notorietà ha travalicato i limiti temporali della sua carriera, peraltro durata oltre quarant’anni, e il suo nome è tuttora il punto di riferimento per l’intero movimento ballettistico inglese, ma non solo. Dalle sue vicissitudini, non ultima quella che la portò in prigione e il lungo periodo vissuto accanto al marito paralizzato, seppe trarre una sua propria filosofia: “La cosa più importante che io abbia imparato in tutti questi anni è la differenza tra fare il proprio lavoro seriamente e vivere la propria vita seriamente. Nel primo caso è imperativo e, nel secondo, disastroso”.”
(In ballettoclassicoblog.wordpress.com)
- Immagini: Margot Fonteyn, a documentary
- Un film: Margot Fonteyn - Margot (Full Film) | Tony Palmer Films
Con: Rudolf Nureyev, Frederick Ashton, Robert Helpmann, Ninette De Valois, Roland Petit, Monica Mason, Lynn Seymour, Beryl Grey. Regia e montaggio: Tony Palmer. Produttore esecutivo: Arthur Reynolds. Produttore associato: Keith Money. Fotografia: Anne Dodsworth, Richard Numeroff. Suono: Lance England. Montaggio digitale: Roger Watling, David Hughes.
Un brano musicale al giorno
Gioacchino Rossini (1792-1868), TANCREDI, melodramma eroico in due atti. Libretto di Gaetano Rossi. Registrato al Teatro Verdi, Trieste, gennaio 2003.
“Tancredi è un'opera lirica musicata da Gioachino Rossini su libretto in due atti di Gaetano Rossi tratto dalla tragedia omonima di Voltaire (1760).
La prima ebbe luogo con successo il 6 febbraio 1813 al Teatro la Fenice di Venezia con Adelaide Malanotte ed Elisabetta Manfredini (anche se con il problema dell'indisposizione sia della Melanotte che interpretava Tancredi, sia della Manfredini che era Amenaide: così la recita si interruppe a metà dell'atto II e l'opera completa si ascoltò ancora con successo solo l'11 febbraio). Tancredi venne composto alla villa Pliniana sul lago di Como, e come altre opere rossiniane occupò il musicista per un tempo brevissimo (tre mesi e mezzo o addirittura tre giorni secondo la tradizione).
Una nuova versione, con finale tragico anziché lieto, andò in scena al Teatro comunale di Ferrara il 21 marzo 1813 con Marco Bordogni. I versi del nuovo finale furono scritti dal conte Luigi Lechi. Per l'occasione Rossini apportò alcuni cambiamenti al piano originario dell'opera, spostando, sopprimendo o sostituendo alcuni Numeri, ma il pubblico non gradì il nuovo finale.
Infine, il 18 dicembre dello stesso anno, l'opera fu rappresentata per l'inaugurazione del Teatro Re di Milano, in una terza e definitiva versione, nella quale Rossini ripristinò il lieto fine e inserì tre nuovi pezzi. In questa forma l'opera divenne per un certo periodo una delle più popolari, rappresentata in tutti i teatri d'Italia. Stendhal la considerava l'opera migliore di Rossini.
Verso la metà dell'Ottocento, con l'affermarsi di un nuovo gusto, Tancredi scomparve quasi completamente dalle scene. Sopravvisse solo la cabaletta "Di tanti palpiti", anche nella forma della parafrasi o della variazione strumentale.
A partire da una storica ripresa al Maggio Musicale Fiorentino nel 1952, Tancredi è gradualmente tornata ad affacciarsi sui più prestigiosi palcoscenici operistici e oggi è considerata tra i lavori più ispirati ed equilibrati del Rossini serio.
Il manoscritto è conservato presso il Museo Teatrale alla Scala di Milano.
Trama
Antefatto
Siamo a Siracusa, nel 1005, durante le lotte tra bizantini (sarebbe più corretto parlare di saraceni visto il libretto) e siciliani. La città mantiene la sua indipendenza, anche se è devastata dalle lotte intestine tra le famiglie di Argirio e Orbazzano. Il nobile Tancredi, amante della figlia di Argirio, Amenaide, viene esiliato perché ritenuto fedele a Bisanzio.
Atto I
Argirio, per fare pace con l'antico nemico Orbazzano, gli promette in sposa la figlia Amenaide, che però ama ancora Tancredi, ed è oggetto delle mire di Solamir, il nemico saraceno; egli infatti l'ha chiesta in sposa, ma Argirio la offre ad Orbazzano. Amenaide intanto ha scritto una lettera a Tancredi per farlo tornare; una lettera mai giunta a destinazione. Tancredi ritorna, credendo Amenaide ancora fedele; lei tenta di opporsi alle nozze, incontrando l'ira del padre, e cerca di far partire l'amato, ma Orbazzano mostra a tutti la lettera di Amenaide, che si crede rivolta a Solamir. Amenaide non svela la verità per non tradire Tancredi e viene arrestata.
Atto II
Argirio è combattuto tra ragion di stato e amore paterno, ma è costretto comunque a condannare la figlia. Allora si presenta un cavaliere sconosciuto (Tancredi) che difende Amenaide, e chiede un duello con Orbazzano per liberarla. Orbazzano viene sconfitto e ucciso, e così Amenaide è libera; ma Tancredi la crede ancora spergiura. Intanto i saraceni minacciano i siracusani, se Amenaide non sarà offerta sposa a Solamir, Siracusa verrà distrutta. Tancredi decide di combattere contro di loro per liberare la città, e le truppe infatti vincono. Argirio svela la verità a Tancredi, che torna da Amenaide, chiedendo scusa. L'opera si conclude col giubilo generale.
(Finale della versione di Ferrara: purtroppo, ferito in battaglia, Tancredi muore, ma spira, comunque, felice di sapere di essere amato sia da Amenaide che dalla sua città, grata per la vittoria).”
(In wikipedia.org)
Il librettista: Gaetano Rossi (Verona, Repubblica di Venezia, 18 maggio 1774 - Verona, Impero Austro-Ungarico, 25 gennaio 1855) librettista italiano. Iniziò la propria carriera librettistica operando come poeta a Venezia presso Teatro La Fenice e successivamente assunse anche la carica di direttore del Teatro Filarmonico di Verona. Nel 1810 lavorò al servizio di Napoleone Bonaparte (egli fu l'unico librettista ad operare alla corte dell'imperatore francese).
La sua opera ammonta a oltre 120 libretti d'opera: egli collaborò con quasi tutti i compositori italiani e anche con diversi compositori stranieri del suo tempo. Con i suoi lavori egli contribuì al rinnovamento del repertorio operistico italiano che avvenne tra gli ultimi anni del Settecento e i primi decenni dell'Ottocento….
Con oltre 200 opere, R. è stato il librettista più produttivo del suo tempo, che, in collaborazione con diverse generazioni di compositori, ha soddisfatto la domanda sempre crescente rinnovando e ampliando il materiale del repertorio.
Rossi ha svolto un ruolo importante nel successo di compositori come S. Mayr, Rossini ("Tancredi", 1813, "Semiramide", 1823), Meyerbeer (tra cui "Il crociato in Egitto", 1824), Mercadante, F. e L. Ricci (entrambi sd) e alla "Linda di Chamounix" di Donizetti (sd), che debuttò a Vienna nel 1842.
Ugo Brusaporco
Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.
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Ugo Brusaporco
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