L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno IV. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...
Un film al giorno
AGUIRRE, DER ZORN GOTTES (Aguirre, furore di Dio. RFT, 1972), regia di Werner Herzog; produzione: Werner Herzog per Werner Herzog/Hessischer Rundfunk; soggetto: dal diario di Gaspar de Carvajal; sceneggiatura: Werner Herzog; fotografia: Thomas Mauch; montaggio: Beate Mainka-Jellinghaus; musiche: Popol Vuh.
Cast: Klaus Kinski (Don Lope de Aguirre), Helena Rojo (Inez de Atienza), Julio E. Martínez Del Negro (Gaspar de Carvajal), Ruy Guerra (Don Pedro de Ursúa), Peter Berling (Don Fernando de Guzman), Cecilia Rivera (Flores de Aguirre), Daniel Ades (Perucho), Edward Roland (Okello), Armando Polanah (Armando), Justo González (González), Alejandro Repullés (Gonzalo Pizarro), Daniel Farfán, Alejandro Chavez, Antonio Marquez.
“Nel 1560 un piccolo esercito di soldati spagnoli e schiavi indios guidato da Gonzalo Pizarro valica le Ande per addentrarsi nella foresta amazzonica alla ricerca del mitico regno di Eldorado. Giunto sulle rive dell'Urubamba al termine di un'estenuante marcia nella giungla, Pizarro decide di mandare in avanscoperta una spedizione su zattere al comando di Pedro de Ursúa, cui affianca Lope de Aguirre, con lo scopo di reperire viveri e saggiare le reali possibilità di riuscita dell'impresa. La violenza del fiume, che causa la morte di dieci uomini e la distruzione delle zattere, convince Ursúa a ritirarsi. Alla decisione si oppone Aguirre che, esautorato il comandante, proclama il proprio tradimento della corona di Spagna e nomina imperatore di Eldorado il nobile ma rozzo Fernando de Guzman. L'equipaggio, terrorizzato dalla violenza di Aguirre, ma al tempo stesso affascinato dalla sua lucida follia, decide di seguirlo nell'impresa. Dopo un processo sommario che condanna a morte Ursúa, si costruiscono nuove zattere per riprendere la discesa del fiume. Colpiti dalla fame, dalle malattie, dagli indios che li bersagliano con frecce avvelenate, gli uomini muoiono uno dopo l'altro: Aguirre rimane solo in mezzo a un'orda di scimmie, a gridare al nulla assurdi proclami di gloria.
Primo successo internazionale di Werner Herzog, Aguirre, der Zorn Gottes è anche il film che meglio riassume le caratteristiche del cinema di questo autore: una pratica artigianale e antiaccademica, efficacissima tanto nel rendere con crudele compiacimento i lati più grotteschi dell'agire umano quanto nel restituire il senso di timoroso stupore di fronte alla maestosità dei paesaggi naturali, contrapposta a un desiderio di assoluto vicino a una mistica romantica che ben si rispecchia nella sproporzione tra i mezzi tecnici utilizzati e gli ambienti selvaggi ai quali si accosta di volta in volta il regista. Fu proprio il desiderio di confrontarsi con un paesaggio primordiale, che riuscisse a tradurre in 'visioni assolute' la folle epopea di Aguirre, a spingere Herzog a calarsi in un'impresa sovrumana, pari quasi a quella dell'eroe del suo film: realizzare le riprese nella foresta amazzonica con un budget modesto, coinvolgendo la troupe tecnica e gli interpreti in un tour de force che riproducesse le sofferenze fisiche dei personaggi, per arrivare a esprimere l'inutilità della loro lotta.
Gli intenti di Herzog, tuttavia, non erano orientati a produrre un calco naturalistico della vicenda reale (tra l'altro per lo più ignorata nei suoi particolari dallo stesso regista, anzi, 'falsificata' dalla voce over che accompagna la narrazione leggendo un finto diario di viaggio), ma a liberarsi dagli obblighi della verosimiglianza e della fedeltà storica per concentrarsi sul tema dominante del film, quello della folle sete di dominio dell'uomo e del suo vano agitarsi messo a confronto con l'imperturbabilità della natura. Sia nella prima sequenza (di grande suggestione anche grazie alla musica ipnotica dei Popol Vuh), in cui una zoomata lentissima mostra l'esercito di Gonzalo Pizarro mentre scende i fianchi di un'impervia montagna avvolta nella nebbia, sia in quelle successive dove la macchina da presa avanza a fatica, partecipe dell'azione degli uomini costretti a trasportare inutili simboli del potere coloniale attraverso la foresta, si comprende che il senso del film sta nel progressivo annullamento delle figure umane in un paesaggio che le rende ridicolmente inadeguate all'impresa. Tale contrasto diviene sempre più evidente quando allo spazio delle zattere, claustrofobico e al tempo stesso esposto al pericolo, si contrappone l'inesplorato paesaggio fluviale, irreale nella sua silenziosa vastità. Herzog riesce a sfruttare magistralmente, per le scelte di ripresa, proprio i limiti materiali che si è imposto: alternando piani-sequenza ravvicinati sugli occupanti delle zattere con lunghe panoramiche sulla foresta dal punto di vista dei membri dell'equipaggio, il regista sottolinea la distanza di un ambiente più indifferente che ostile, dal quale la macchina da presa può solo lasciarsi soffocare, o più semplicemente essere respinta, ma che non riuscirà mai a racchiudere o a rappresentare. Una feroce lotta per il potere, la conservazione ipocrita di un apparato simbolico nelle sue forme più esteriori (la ridicola cerimonia di investitura di Don Fernando de Guzman, il processo-farsa a Don Pedro de Ursúa), l'illusoria presa di possesso di un territorio dal quale in realtà vengono posseduti, sono le sole risibili risposte che gli uomini sanno offrire di fronte al pericolo. Aguirre (reso straordinariamente dalla recitazione straniata di Klaus Kinski, qui alla prima tappa di un turbolento quanto proficuo sodalizio artistico con Herzog), esaltato dalla grandezza del proprio tradimento e ancor più della propria sconfitta, animato da un superomismo delirante e autodistruttivo, sintetizza il senso di inutilità dell'azione umana, la concezione della Storia come spettacolo grottesco e crudele cui la natura rifiuta di farsi costringere.”
(Fabrizio Colamartino - Enciclopedia del Cinema, 2004, in www.treccani.it)
“Nel 1560 una spedizione spagnola, guidata da Gonzalo Pizarro, fratello di Francisco, discende la Cordigliera delle Ande alla ricerca del mitico El Dorado. La giungla inestricabile la blocca. Si invia allora un pattuglione esplorativo, munito di zattere, sul fiume Urubamba al comando di Pedro de Urrua al cui fianco è l'ambizioso e spietato Lope de Aguirre. Finirà vittima della sua folle megalomania. Girato con pochi mezzi in Peru, il quinto film di W. Herzog è leggibile a tre livelli: 1) racconto di avventure e di viaggio che ha al centro il tema di una profanazione fallita, 2) tragedia di un eroe del male (con un Kinski strepitosamente nevrotico) sui temi della ribellione e della solitudine, 3) parabola politica sull'imperialismo coloniale. Vi coabitano uno straniamento epico di timbro brechtiano e una tensione onirica, allucinata. Fotografia di Th. Mauch.”
(Il Morandini)
“Allora, per comprendere «chi è Nosferatu», conviene ritornare al cinema di Herzog, soprattutto ad Aguirre furore di Dio (1972), che a suo tempo fu in parte sottovalutato. Aguirre - uno dei tanti conquistadores dell'America del sud - insegue un proprio sogno di potenza, omologo al «sogno» di una intera civiltà, di un intero sistema politico-economico, quello europeo che, nella prima espansione imperialistica, fonda l'inizio del proprio dominio mondiale. Aguirre, dunque, parte verso l'interno della foresta amazzonica, attraversando montagne umide e nebbiose e superando vertiginosi dirupi. Il suo «cammino», in un contesto storico diverso, è compiuto anche da Jonathan, per raggiungere il castello del conte Dracula-Nosferatu. Nel suo viaggio, il conquistador travolge uomini, cose e «valori», anche quando essi sono, apparentemente, il fondamento dello stesso sogno di potenza. Ribellandosi all'autorità (del re di Spagna), e proclamandosi imperatore, Aguirre mostra come essa sia solo la «forma» di un «impulso» più fondamentale, quello che spinge una civiltà intera a uscire dai propri «limiti» storici e culturali, per appropriarsi (dominandolo) di tutto ciò che è «altro» da lei. Il «sogno» di Aguirre diventa follia megalomane, che, al prezzo della morte di tutti i compagni, tenta di affermare al di là di ogni misura il dominio di una individualità, anche contro tutto un mondo assolutamente ostile come quello della «foresta» e dei «selvaggi» (cioè, dell'«altro»).
Con ciò, Herzog descrive l'inizio di una parabola storico-culturale (eurocentrica) che ha portato alla «smisurata» affermazione dell'occidente rispetto a ogni altra possibilità umana, a ogni altro valore. Il «sogno di potenza», del resto, non è solo esterno, ma anche interno; non riguarda solo i rapporti tra gli uomini, ma anche il rapporto dell'uomo con se stesso. Aguirre compie un viaggio che lo conduce alla totale repressione di quanto, in lui, non è ordinato all'auto- e all'etero-dominio, uccidendo sia quanto nella realtà esterna gli si oppone, sia quanto nella realtà interna costituisce ostacolo alla assolutizzazione di un solo impulso. Se si vuole, nel suo tragico viaggio, Aguirre si oppone anche alla morte, nel senso che prolunga la propria esistenza oltre qualsiasi limite legittimo (biologicamente, psicologicamente, culturalmente), sopravvivendo a se stesso e a tutto ciò che rappresenta. In altri termini, diventa un «mostro» che, proprio come Nosferatu, non riesce più a morire. É Aguirre, dunque, «il principe della notte». Solo sulla sua zattera invasa dalle scimmie - in Nosferatu un uguale ruolo, anche figurativo, è giocato dai topi, come già nel film di Murnau - il conquistador inizia la parte finale, ma anche la più lunga, del suo viaggio, che attraverso i secoli lo porta alla radicalizzazione del sogno di potenza e, insieme, all'impossibilità di morire, di «decomporsi» e ritornare all'interno dei «limiti legittimi» della storia. Il procedere di tale viaggio segna anche il radicalizzarsi dell'opposizione «esterna» e «interna» che, in Nosferatu, si manifesta ormai esplicitamente come angoscia e desiderio del «riposo della morte». Non è un caso che, come avverte Ernest Jones, in tutte le tradizioni relative alle diverse forme di vampirismo, vi sia un nesso antico e radicato tra decomposizione del cadavere (morte) e innocenza. Se non c'è la prima - e certo è questo il caso di Aguirre -, non c'è nemmeno la seconda.”
(Roberto Escobar, Cineforum n. 184 5/1979)
(…) E il tema della rivolta del singolo in Aguirre, furore di Dio (Aguirre, der Zorn Gottes, 1971/72) prende nuovo vigore dalla storia della follia di don Lope de Aguirre e della sua spedizione alla ricerca dell'Eldorado. La non-normalità di Aguirre viene subito presentata come tale, senza nessun "ma" che ne sminuisca la folle virulenza, e soprattutto perché messa a confronto fin dall'inizio con la razionalità di Pedro de Ursua: una scelta perdente, ma che all'interno di un universo dove per affermare la propria individualità si può solo autoesaltare il proprio io, ci sembra dotata di una sua ragione. Perché Aguirre non fa altro che vivere fino in fondo la propria figura di conquistador che, spogliata dei riferimenti storiografici, è una delle tante incarnazioni possibili del desiderio umano di sentirsi vivere. Vitalismo destinato ad autodistruggersi senza alternative (la suggestiva "carrellata" circolare finale) davanti al silenzio di un mondo ostile, ma che è anche l'unica tragica possibilità di sapersi vivo di chi non vuol ridursi immobilismo dei discorsi prudenti o rinunciatari.
(Ci sembra fuori luogo qualsiasi apprezzamento sulla mancanza di un possibile portatore di alternative a questa opposizione mortifera singolo/gruppo che Herzog non vede né nel passato né nella Germania di oggi: esistono gli indios, i vari Hombrecito di ogni tempo, ma a loro non resta che sopportare in silenzio la situazione di esclusi o forse gioire sulle rovine fatte della loro distruzione, come i nani). La tensione che unifica il film è proprio questa negatività, questo rifiuto cosciente da parte del regista di vedere una possibile via d'uscita tra l'azione del ribelle individuale o la certezza narcotizzante del gruppo, e l'aver dichiarato Fernando de Guzman imperatore in alternativa a quello di Spagna è la dimostrazione di questa spirale senza inizio che lega indissolubilmente il ribelle all'oggetto della sua ribellione per trascinarlo verso la morte.
In Aguirre esiste un personaggio ideologizzante, il frate, ma dare eccessivo peso al suo ruolo non ci sembra giusto: il film non è metafora dell'imperialismo (anche se a Herzog non sfugge questo lato) ma il racconto dell'avventura di un uomo che si pone in modo contraddittorio con la realtà: il film è su Aguirre e Klaus Kinski lo riempie splendidamente, perchè è lui il polo intorno a cui gravitano e vengono attirati tutti gli altri fattori. Naturalmente non è senza ragione che Werner Herzog abbia situato la storia durante la conquista spagnola dell'America e che il protagonista sia un conquistador perchè in quel periodo il fascino dell'azione attraverso cui si era tentati di dar vigore al proprio io aveva maggiori possibilità di affermazione, ma tutta la parte strettamente storica del film (quella appunto che dovrebbe permettere di parlare di critica o illustrazione dell'imperialismo) è completamente falsa: è inventata da Herzog la cronaca di padre Gaspar de Carvajal che scandisce cronologicamente la spedizione (per altro unico riferimento temporale in un film che sembra svolgersi fuori dal tempo) come frutto della fantasia del regista è la suggestiva ipotesi che Eldorado fosse una inesistente chimera inventata dagli indios per spingere verso la morte gli europei. Aguirre diventa così esclusivamente un itinerario di violenza che vuole essere riflessione sulla realtà dell'individuo. Se in tutto il film può esistere una alternativa, più immaginata che possibile, quella è la natura, come fatto reale che circonda e avviluppa la spedizione: il verde della foresta, l'azzurro del cielo e del fiume riempiono lo schermo con la loro bellezza (i paesaggi nel cinema di Herzog non sono mai sfondo ma veri e propri termini di riferimento per gli uomini) a mostrare un mondo dove non esistono contraddizioni, ma che forse è chiuso per sempre alle persone.
È dalla foresta che escono misteriosamente le frecce che uccidono, ed è sempre nella foresta che sparisce Inez de Atienza (le donne qui come nel mondo di Kaspar Hauser hanno sempre un posto privilegiato, di grazia e bontà) perché è la natura la vera antagonista di Aguirre, che distrugge la sua energia, e lo porta alla morte. (…)
A questo punto mi sembra chiara la germanicità delle opere di Werner Herzog, che in altre parole è il suo modo di porsi di fronte alla realtà contemporanea del suo paese: non è certo nel troppo fragile segno di uguaglianza messo da alcuni tra la spedizione dei conquistadores e il nazismo, ma molto più profondamente nella ricerca delle coordinate di una cultura che opprime e da cui non si sa liberare. Da una parte cultura come eccitazione vitale dello spirito, fascino dell'azione che porta Aguirre ad identificarsi con la collera di Dio, segni di vita che spingono le persone ad agire per trovare una loro ragione di esistenza (…). Solo che la disillusione di Werner Herzog non riesce ad immaginare la ribellione finale, ma solo la morte di tutti coloro che hanno potuto solo considerare "gli uomini come dei lupi e la loro apparizione nel mondo come una caduta brutale".
(Paolo Mereghetti, Cineforum n. 155, 6/1976)
- Il film: Aguirre, the Wrath of God 1973, Full Film by Werner Herzog
Un attore: “Klaus Kinski
Nome d'arte di Nikolaus Günther Karl Nakszynski, attore cinematografico e teatrale tedesco, nato a Zoppot (nel territorio della Città libera di Danzica; od. Sopot, in Polonia) il 18 ottobre 1926 e morto a Lagunitas (California) il 23 novembre 1991. Volto irregolare e affilato, labbra carnose atteggiate a ghigno beffardo, sguardo disperatamente febbrile e carico di un disagio selvaggio, K. sovrappose spesso la propria luciferina e incontenibile personalità ai personaggi interpretati. Attraversò il cinema internazionale per quarantatré anni con feroce aggressività e senza un sorriso, interpretando un numero enorme anche se difficilmente precisabile di film (tra i 150 e i 200), tra i quali moltissimi di genere, quasi sempre di scarso valore, e pochi d'autore (con registi come Sergio Leone, Douglas Sirk, Roberto Rossellini, Anatole Litvak, Billy Wilder, Andrzej Żuławski, David Lean). Il suo nome rimane tuttavia legato soprattutto a quelli diretti da Werner Herzog, di cui fu l'attore feticcio, e che in lui trovò un vero e proprio alter ego sulfureo e demoniaco: K. diede così corpo all'anima più notturna, visionaria ed espressionista del Neuer Deutscher Film, e anima a corpi che sullo schermo richiedevano un inquietante, perverso e titanico istrionismo.
Cresciuto in una famiglia piccolo-borghese (il padre, cantante d'opera divenuto poi farmacista, era polacco, la madre tedesca), nel 1930 K. si trasferì con i genitori a Berlino, dove compì studi classici al liceo Prinz-Heinrich. Arruolato nel 1944 nell'esercito, dopo pochi giorni di combattimento in Olanda fu fatto prigioniero dalle truppe inglesi e rimase oltre un anno in un campo di detenzione. Dal 1946 si avvicinò al teatro, divenendo in pochi anni uno dei più apprezzati attori tedeschi. Debuttò sul grande schermo nel 1948 con Morituri di Eugen York. Negli anni Cinquanta dovette accontentarsi di piccoli ruoli, in alcuni casi però di prestigio, come quelli in Decision before dawn (1951; I dannati) di Litvak, La paura (1955) di Rossellini, Kinder, Mütter und ein General (1955; All'Est si muore) di Laslo Benedek, Ludwig II. Glanz und Elend eines Königs (1955; Ludwig II) di Helmut Käutner, A time to love and a time to die (1958; Tempo di vivere) di Sirk.
Nel decennio successivo, invece, la sua carriera si sviluppò all'insegna dei generi: fu scoperto dall'industria cinematografica del suo Paese (dove interpretò diversi polizieschi di Alfred Vohrer, ma anche horror, film di spionaggio e di guerra), ma soprattutto da quella italiana, dove, dopo alcuni film di avventure esotiche (come Kali Yug, la dea della vendetta e Il mistero del tempio indiano di Mario Camerini, entrambi del 1963), divenne il volto crudele di un'ondata di western di produzione locale, tra i quali Per qualche dollaro in più (1965) di Leone, Quien sabe? (1966) di Damiano Damiani, Il grande silenzio (1968) di Sergio Corbucci, I bastardi (1968) di Duccio Tessari. Ma in quegli anni ci furono anche, da una parte, Doctor Zhivago (1965; Il dottor Zivago) di Lean e, all'estremo opposto, gli horror dello spagnolo Jess Franco (Jesús Franco Manera).
La svolta arrivò nei primi anni Settanta, quando nacque il suo straordinario (anche se tormentato) sodalizio artistico con Herzog, che lo diresse in cinque film, tra i più belli del Neuer Deutscher Film, e che nel 1999 gli ha reso omaggio con un sincero e appassionato ritratto, Mein liebster Feind - Klaus Kinski (Kinski - Il mio nemico più caro). Per lui K. interpretò il megalomane capo di un gruppo di conquistadores alla ricerca del mitico Eldorado (Aguirre - Der Zorn Gottes, 1972, Aguirre furore di Dio), un soldato oppresso, stritolato dal contrasto tra Ragione e Natura (Woyzeck, 1979), uno stanco e dolente vampiro che segue malvolentieri la propria inclinazione di mostro assetato di sangue (Nosferatu - Phantom der Nacht, noto anche come Nosferatu - Fantôme de la nuit, 1979, Nosferatu, il principe della notte), un avventuriero che oppone alla natura un'ossessiva forza di volontà per portare l'opera lirica nel cuore della natia Amazzonia (Fitzcarraldo, 1982), un sadico commerciante di schiavi diventato viceré di un regno africano (Cobra verde, 1987, il film che segnò la definitiva rottura tra attore e regista).
Nel 1974 Żuławski lo aveva voluto in L'important c'est d'aimer (L'importante è amare), mentre nel 1981 Wilder gli assegnò il ruolo di un demoniaco terapeuta sessuale in Buddy Buddy. Nel 1990 K. scrisse, diresse e interpretò in Italia Paganini, sovrapponendo alla figura del violinista la propria delirante immagine di artista.
Pubblicò due opere a carattere autobiografico, Ich bin so wild nach deinem Erdbeermund (1975) e Ich brauche Liebe (1989), fortemente critiche nei confronti dell'industria cinematografica; nel 2001, nel quadro delle celebrazioni per il decennale della morte, sono usciti due libri che raccolgono gli altri suoi scritti, Klaus Kinski: ich bin so wie ich bin e Fieber: Tagebuch eines Aussätzigen.”
(Alessandra De Luca - Enciclopedia del Cinema, 2003, in www.treccani.it)
Una poesia al giorno
On the Death of a young Lady of Five Years of Age, di Phillis Wheatley
From dark abodes to fair etherial light
Th’ enraptur’d innocent has wing’d her flight;
On the kind bosom of eternal love
She finds unknown beatitude above.
This know, ye parents, nor her loss deplore,
She feels the iron hand of pain no more;
The dispensations of unerring grace,
Should turn your sorrows into grateful praise;
Let then no tears for her henceforward flow,
No more distress’d in our dark vale below.
Her morning sun, which rose divinely bright,
Was quickly mantled with the gloom of night;
But hear in heav’n’s blest bow’rs your Nancy fair,
And learn to imitate her language there.
“Thou, Lord, whom I behold with glory crown’d,
By what sweet name, and in what tuneful sound
Wilt thou be prais’d? Seraphic pow’rs are faint
Infinite love and majesty to paint.
To thee let all their graceful voices raise,
And saints and angels join their songs of praise.”
Perfect in bliss she from her heav’nly home
Looks down, and smiling beckons you to come;
Why then, fond parents, why these fruitless groans?
Restrain your tears, and cease your plaintive moans.
Freed from a world of sin, and snares, and pain,
Why would you wish your daughter back again?
No—bow resign’d. Let hope your grief control,
And check the rising tumult of the soul.
Calm in the prosperous, and adverse day,
Adore the God who gives and takes away;
Eye him in all, his holy name revere,
Upright your actions, and your hearts sincere,
Till having sail’d through life’s tempestuous sea,
And from its rocks, and boist’rous billows free,
Yourselves, safe landed on the blissful shore,
Shall join your happy babe to part no more
(Traduzione di Rina Brundu in rinabrundu.com)
Sulla morte di una giovane donna di cinque anni di età
Da antri bui alla chiara luce celeste
l’estasiante innocente ha spiccato il volo:
sul tenero seno dell’amore eterno
Lei trova lassù beatitudine ignota
Sappiatelo, voi genitori, non rammaricatevi per la sua perdita,
Lei non sente più il pugno di ferro del dolore;
I favori della grazia infallibile,
Dovrebbero trasformare le vostre tristezze in lode riconoscente;
Non piangete più per lei d’ora in poi,
Non angosciatevi in questa nostra valle oscura,
Il suo sole del mattino, che è sorto divinamente luminoso,
È stato subito avvolto dall’oscurità della notte;
Ma sappiate che nel paradiso dei beati s’inchinano alla vostra bella Nancy,
E lì imparano a imitarla.
“Tu, Signore, che io scorgo incoronato di gloria,
“Con quale dolce nome, e con quale suono melodioso
“Vuoi essere lodato? Le potenze celestiali sono incapaci
di rendere l’infinito amore e la maestà.
“Lascia che verso di te tutte le loro voci aggraziate si levino,
“E i santi e gli angeli uniscano i loro canti di lode.”
Perfetta nella beatitudine, lei, dalla sua casa celestiale
Guarda in basso, e sorridente vi invita a venire;
Perché allora, genitori affettuosi, perché questi infruttuosi lamenti?
Trattenete le lacrime, e cessate i vostri gemiti tristi.
Liberata da un mondo di peccato, di insidie, e di dolore,
Perché vorreste indietro vostra figlia?
Nessun inchino rassegnato. Lasciate che la speranza si curi del vostro dolore,
Dominate il crescente tumulto dell’anima.
Siate sereni nella prosperità e nella sfortuna
Adorate il Dio che dà e che toglie;
Seguitelo in tutto, onorate il suo santo nome,
Siano rette le vostre azioni e sinceri i vostri cuori,
Finché, avendo navigato nel mare tempestoso della vita,
liberi dalle sue asperità, e dai tempestosi marosi,
Voi stessi, approdati sani e salvi sulla spiaggia beata,
ritroverete la vostra bimba felice per non lasciarla mai più.
“Phillis Wheatley (Senegal o Gambia, 8 maggio 1753 - Boston, 5 dicembre 1784) è stata una poetessa statunitense di origine africana. È stata la prima scrittrice afrostatunitense a veder pubblicata una propria opera, e i suoi scritti rappresentano la nascita del genere noto come letteratura afroamericana.
Nata in Africa, fu catturata e venduta come schiava all'età di sette anni e fu acquistata dalla famiglia Wheatley di Boston. I suoi padroni le insegnarono a leggere e scrivere e la incoraggiarono e sostennero nelle sue aspirazioni letterarie.
La pubblicazione, nel 1773, di Poems on Various Subjects, Religious and Moral le diede la fama e personalità di rilievo come George Washington lodarono il suo lavoro. La Wheatley fece anche un viaggio in Inghilterra e fu celebrata dal poeta afrostatunitense Jupiter Hammon in un suo componimento. Dopo che ebbe raggiunto il successo come poetessa i suoi proprietari le concessero la libertà, ma scelse di restare con la famiglia fino alla morte del suo primo padrone e alla conseguente diaspora della famiglia. Sposò quindi un nero anch'egli libero, che però la lasciò ben presto. Morì in miseria nel 1784, mentre stava lavorando ad un secondo libro di poesie, andato poi perduto.
Nata verso il 1753 nell'attuale Senegal la Wheatley fu rapita e portata in America nel 1761 a bordo di una nave negriera chiamata "Phyllis", dalla quale prese il nome di battesimo. A Boston fu acquistata da una ricca coppia di commercianti, John e Susanna Wheatley. I Wheatley la educarono e istruirono, incoraggiandola a studiare anche lingue straniere come il latino e la storia. Il suo principale tutore fu il figlio dei Wheatley, Nathaniel, che le insegnò inglese, latino, storia, geografia, religione e la Bibbia. Phillis Wheatley fu battezzata presso la Old South Meeting House.
La popolarità di Phillis come poetessa raggiunta sia negli Stati Uniti che in Inghilterra, le garantì l'emancipazione dalla schiavitù, ottenuta il 18 ottobre 1773. Nel marzo 1776 fu ricevuta dal generale Washington e, durante la guerra di indipendenza americana fu una grande sostenitrice della causa dell'indipendenza.
Sposò quindi John Peters, un nero libero che faceva il droghiere. Dal matrimonio nacquero tre bambini, due dei quali però morirono prematuramente. Il marito decise di lasciarla e la Wheatley si guadagnò da vivere lavorando come domestica. Dal 1784 finì a vivere in una misera pensione e, nel dicembre di quello stesso anno, lei e l'unico figlio rimastole morirono e furono sepolti in una tomba anonima. Il figlio morì solo poche ore dopo di lei. Al momento della morte aveva quasi finito un secondo libro di poesie, ma nessun editore volle pubblicarlo.
Nel 1768 la Wheatley scrisse "To the King's Most Excellent Majesty", in cui lodava Giorgio III per aver abrogato la legge sul pagamento del bollo (Stamp Act). Tuttavia, man mano che il movimento rivoluzionario prendeva forza, la poetessa prese a scrivere di tematiche vicine al punto di vista dei coloni.
Nel 1770 scrisse un omaggio in versi a George Whitefield che ricevette unanime consenso. La poetica della Wheatley è completamente permeata da tematiche cristiane, e dedica molte poesie a celebri personalità dell'epoca. Più di un terzo dei suoi scritti è costituito da elegie, mentre il resto tratta temi religiosi, classici o astratti. Raramente affrontò il tema della sua condizione sociale e della schiavitù; una delle poche eccezioni è "On being brought from Africa to America".
Twas mercy brought me from my Pagan land,
Taught my benighted soul to understand
That there's a God, that there's a Saviour too:
Once I redemption neither sought nor knew.
Some view our sable race with scornful eye,
Their colour is a diabolic dye.
Remember, Christians, Negroes, black as Cain,
May be refin'd, and join th' angelic train.´
Si serviva di uno stile formale popolare in quell'epoca, spesso ponendo l'attenzione su passi a sfondo religioso e moraleggianti.
Poiché all'epoca molte persone non riuscivano a credere che una donna nera potesse essere così intelligente da scrivere poesie, nel 1772 la Wheatley dovette difendere le proprie capacità letterarie in tribunale. Venne sottoposta ad un esame da un gruppo di eruditi e personalità di Boston, tra cui John Erving, il Reverendo Charles Chauncey, John Hancock, il governatore dello stato Thomas Hutchinson e il suo vice Andrew Oliver. Tale commissione concluse che aveva effettivamente scritto le poesie che le venivano attribuite e le rilasciò un attestato che fu poi inserito nella prefazione del libro Poems on Various Subjects, Religious and Moral pubblicato a Londra l'anno successivo.
Il libro uscì a Londra perché gli editori di Boston avevano rifiutato di darlo alle stampe, così lei e il figlio del suo padrone, Nathanial Wheatley, andarono in Inghilterra dove Selina Hastings, Contessa di Huntingdon e il Conte di Dartmouth la aiutarono a pubblicare.
Grazie alla pubblicazione di Poems on Various Subjects diventò "la più famosa africana sulla faccia della terra". Voltaire scrisse ad un amico che la Wheatley aveva provato che anche le persone nere potevano scrivere poesie. John Paul Jones chiese ad un suo sottoposto di consegnare alcuni suoi componimenti a "Phillis, l'africana favorita delle Nove Muse e di Apollo". Ricevette anche gli elogi di molti dei padri fondatori degli Stati Uniti, incluso George Washington.
Alla University of Massachusetts Boston c'è un edificio a cui è stato dato il suo nome.”
(In wikipedia.org)
18 ottobre 1775: la poetessa afroamericana Phillis Wheatley è libera dalla schiavitù.
Un fatto al giorno
18 ottobre 1977: AUTUNNO TEDESCO. Una serie di eventi che ruotano attorno al rapimento di Hanns Martin Schleyer e al dirottamento di un volo Lufthansa da parte della Red Army Faction (RAF) si concludono quando Schleyer viene assassinato e vari membri della RAF presumibilmente si suicidano.
“Autunno Tedesco è l'espressione coniata per definire l'atmosfera politica nella Repubblica Federale Tedesca tra il settembre e l'ottobre del 1977. Questo periodo fu caratterizzato dagli attentati compiuti dalla Rote Armee Fraktion, organizzazione terroristica di estrema sinistra nata pochi anni prima. La cosiddetta Offensiva '77 della RAF aveva come obiettivo la liberazione di alcuni membri fondatori della prima generazione della RAF e culminò nel rapimento e assassinio di Hanns-Martin Schleyer e nel dirottamento dell'aereo di linea della Lufthansa Landshut. In seguito alla liberazione degli ostaggi del Landshut i detenuti della RAF si suicidarono. L'Autunno Tedesco costituì una delle più gravi crisi nella storia della Repubblica Federale di Germania.
L'espressione "autunno tedesco" deriva dalla pellicola ad episodi "Germania in autunno" del 1978, un'opera collettiva in forma documentaristica di undici registi del "Nuovo cinema tedesco" che illustra in modo critico e da varie prospettive la risposta dello Stato al terrorismo.
Il 5 settembre 1977 il presidente della Confindustria tedesco-occidentale ed ex ufficiale delle SS Hanns-Martin Schleyer fu rapito a Colonia; l'auto di Schleyer fu bloccata dai militanti della RAF del cosiddetto Kommando Siegfried Hausner con uno stratagemma (una carrozzina che i due terroristi Sigliende Hofmann e Peter-Jürgen Boock spinsero al centro della strada costringendo l'autista dell'industriale a fermarsi), quindi altri due terroristi, Willy Peter Stoll e Stefan Wisniewski, aprirono il fuoco e uccisero, insieme alla Hoffmann ed a Boock, l'autista e i tre agenti di scorta. I sequestratori chiesero come riscatto la liberazione di undici membri della RAF, allora detenuti.
Poiché il Governo Federale, a differenza di quanto accaduto due anni prima in occasione del rapimento di Peter Lorenz, non si mostrò disponibile ad accordare uno scambio di prigionieri, i terroristi del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, alleati della RAF, il 13 ottobre del 1977 dirottarono il velivolo Landshut della Lufthansa. Al termine di un'odissea nei cieli di numerosi stati arabi durante la quale i dirottatori uccisero il capitano Jurgen Schumann, l'aereo fece scalo all'aeroporto di Mogadiscio, capitale della Somalia. Qui, intorno alle 00:30 del 18 ottobre, l'unità militare di élite tedesca GSG 9 fece irruzione nel velivolo. Alle 00:38 fu diramato dalla radio tedesca un comunicato straordinario che dichiarava: "tutti gli ostaggi sono stati liberati; al momento non è dato sapere se vi siano morti o feriti..." Gli 86 ostaggi erano stati liberati ed erano incolumi.
Poco dopo, durante la notte tra il 17 e il 18 ottobre 1977, la cosiddetta "notte della morte a Stammheim", i membri della RAF detenuti nel carcere di Stammheim (Stoccarda) Andreas Baader, Gudrun Ensslin e Jan-Carl Raspe si suicidarono. Un'altra detenuta dello stesso carcere, Irmgard Möller, sarebbe sopravvissuta nonostante quattro coltellate al cuore.
In risposta all'operazione con cui erano stati liberati gli ostaggi del Landshut, Hanns-Martin Schleyer fu ucciso dai suoi rapitori. Il suo corpo fu ritrovato la sera del 19 ottobre a Mülhausen, in Alsazia.
Dopo l'arresto dei membri della prima generazione della RAF, nel 1972, il capitolo del terrorismo di sinistra sembrava ormai concluso, ma ben presto si constatò che la RAF aveva dato vita a una seconda generazione. Grazie al sostegno di alcuni avvocati, tra cui Klaus Croissant e Siegfried Haag, in seguito condannati per terrorismo, la RAF riuscì a reclutare nuovi combattenti armati. Inoltre gli avvocati fornivano informazioni sempre aggiornate sui membri incarcerati della prima generazione non solo agli attivisti politici di sinistra, ma anche ai media. Lo stato venne accusato di tenere i prigionieri in regime di isolamento e venne invocato per loro lo status di prigionieri di guerra. Tra il 1972 e il 1977 vi furono sei scioperi della fame, a cui parteciparono circa 90 detenuti. A seguito di uno di questi Holger Meins, nel 1974, perse la vita nel penitenziario di Wittlich. Nel 1975 iniziò una nuova serie di attentati. I nuovi eventi polarizzarono l'opinione pubblica e la RAF e le sue operazioni divennero un tema centrale nel panorama mediatico tedesco. Le forze dell'ordine ricorsero a nuovi metodi investigativi, tra cui l'analisi incrociata delle banche dati informatiche. In questo modo fu possibile identificare alcuni terroristi, ma divennero oggetto delle indagini della polizia anche cittadini completamente estranei ai fatti. Inoltre i blocchi stradali, i controlli dei documenti di identità e la presenza diffusa di poliziotti armati erano ormai parte della quotidianità, come anche la paura di nuovi attentati.
Sia la sinistra extraparlamentare, sia vasti settori sociali di impronta socialdemocratica o liberale temevano di veder lesi i propri diritti fondamentali e avrebbero preferito il confronto ideologico con la RAF. Coloro però che si interrogavano sulle ragioni che avevano portato alla nascita del terrorismo venivano accusati di non avere il necessario distacco dagli eventi, se non addirittura di essere simpatizzanti della RAF. Così si espresse l'allora ministro degli Interni, nell'aprile del 1977, in un discorso alla commissione giustizia e affari interni del Bundestag: "Occorre dare il via a una campagna che miri a privare la RAF della solidarietà di cui ancora gode in vasti settori della popolazione, a privarla dei suoi fiancheggiatori o, quanto meno, dei suoi simpatizzanti. I terroristi si nutrono di questo humus. E si nutrono anche del consenso che riscuotono in certi circoli benestanti ed elitari che, di fatto, non tracciano una chiara linea di demarcazione [tra chi sta con lo Stato e chi sta contro lo Stato]"
“17 ottobre 1977, «verso la mezzanotte un commando delle truppe speciali tedesche, il GSG 9, assaltò l’aereo uccidendo tre dei quattro dirottatori e ferendo la quarta (il dirottamento del Boeing 707 della Lufthansa della linea Maiorca Francoforte, con 86 passeggeri a bordo era avvenuto il 13 ottobre da parte di un commando palestinese del PFLP/SC per chiedere la liberazione di una lista di prigionieri politici, la stessa che la Raf chiedeva in cambio della vita di Hans Martin Schleyer sequestrato dalla Raf il 5 settembre 1977 a Colonia. Dopo il sequestro Schleyer il governo attuò il blocco totale dei contatti di 41 prigionieri della RAF con esterni, familiari e perfino avvocati).
La mattina seguente nelle loro celle di massima sicurezza del carcere di Stammheim (Stoccarda) vennero trovati morti Andreas Baader, Jan Karl Raspe e Gudrun Ensslin, I primi due a seguito di colpi di arma da fuoco, la terza impiccata. Irmgard Moeller fu ferita gravemente da quattro coltellate al petto.
Ecco la sua testimonianza di quanto avvenne in quella notte:
… Negli anni, hai riflettuto di un possibile scenario, di cosa poté essere successo in quella notte?
Ero e sono convinta che fu un’azione dei servizi. Il BND poteva entrare ed uscire liberamente da Stammheim ed aveva (dimostrato) installato da noi le apparecchiature per le intercettazioni ambientali. Era anche risaputo che il personale del carcere non era ritenuto abbastanza degno di fiducia per un’azione del genere. Alcuni hanno sempre raccontato qualche nostra ridicola storia al “Bunten”, “Quick” o allo “Stern” e se qualcosa doveva succedere doveva essere fatta senza coinvolgerli. In relazione a ciò è importante che il personale fu cambiato, anche se non tutto, durante il blocco dei contatti. Le telecamere del corridoio poi non funzionavano la notte
Pensi che il governo federale fosse coinvolto in quest’azione omicida o è solo opera autonoma dei servizi?
Penso che il governo fosse coinvolto e che anche all’interno della NATO se ne fosse discusso. Al tempo c’era l’unità di crisi anche negli USA, che si teneva in continuo contatto con Bonn. Loro avevano un grosso interesse che noi non ci fossimo più. Il metodo di far apparire un omicidio per un suicidio è proprio della CIA.
Nella discussione all’interno della sinistra su Stammheim, c’è per lo meno da parte della sinistra la tendenza a non considerare importante la risposta alla domanda se si tratti di omicidio o suicidio. In ogni caso la morte dei tre è da attribuirsi allo Stato che o ha provveduto direttamente o ha portato i tre a suicidarsi.
Le condizioni carcerarie erano terribili e nello sciopero della fame vennero uccisi prigionieri con la sottoalimentazione. Holger Meins per esempio. Ma è comunque una grossa differenza se qualcuno si spara, si impicca si pianta un coltello nel petto o se lo fanno gli altri. Si tratta dei fatti. Non volevamo morire, volevamo vivere.
Come fu la situazione dopo quelle morti per te, cambiò rispetto a prima?
Certamente sì. Ero improvvisamente sola. Ero ferita gravemente e sopravvissuta per un pelo. Erano di base altre condizioni rispetto a prima. D’altra parte Ulrike e Holger erano già morti e sapevamo da molti che l’apparato voleva vederci morti piuttosto che vivi. Le condizioni carcerarie erano orientate al fatto che noi fossimo spezzati, non pensassimo più ciò che volevamo, perdendo così la nostra identità, oppure morissimo.
Per te la notte tra il 17 e il 18 ottobre 1977 fu un taglio netto pur non portando cambiamenti decisivi?
Le condizioni, per com’erano, furono palesate quella notte.
Hai tenuto conto che le cose potessero andare avanti? O che avrebbero ritentato di ucciderti?
Non lo potevo escludere. Il modo in cui fui trattata mostrava la loro intenzione di liquidarmi, e che io perdessi la ragione con questa sorveglianza continua, col controllo totale. La cosa migliore per loro sarebbe stato ridurti pazza con quel trattamento. Così sarebbe dovuto provarsi che solo i pazzi entrano nella RAF e intraprendono la lotta armata. Oppure avrei dovuto sostenere che era stato un suicidio. Forse sarebbe stato più importante che trovarmi cadavere. Per lo meno in quel periodo l’ho pensato. Per questo non trasalivo a ogni minimo rumore quando si apriva una porta o c’era rumore in corridoio. Ma che non mi si vuol lasciar vivere, lo sapevo già da tanto. Questo presunto pericolo che io tentassi il suicidio, è stato utilizzato come pieni poteri generali per proibirmi tutto. Non potevo aver nulla in cella, non potevo incontrare nessun prigioniero, non potevo spegnere la luce, perché tutto ciò avrebbe aumentato il pericolo che mi uccidessi. Era inconcepibile e andò avanti per anni, fino a che nel 1980 sono arrivata a Lubecca…”
(In contromaelstrom.com)
Immagini:
- German Terrorism | Red Army Faction | 1977
- Ulrike Meinhof im Interview, 1968
- Gerhard Richter - October 18 1977 - Baader-Meinhof
Una frase al giorno
“Gli uomini possono apparire detestabili come società per azioni e come popoli; furfanti possono essere, sciocchi e assassini; gli uomini possono avere volti ignobili e insignificanti; l'uomo ideale tuttavia è una creatura tanto nobile e splendente, tanto grandiosa e luminosa che sopra ogni sua macchia ignominiosa tutti i suoi compagni dovrebbero affrettarsi a gettare i loro manti più preziosi.”
(Hermann Melville, in Moby Dick)
“Herman Melville, scrittore statunitense (New York 1819 - ivi 1891). Tra le maggiori personalità dell'Ottocento americano, esplorò problematiche basilari dell'esistenza quali il rapporto tra uomo e natura, i limiti della morale comune, l'essenza del male. Tali temi sono compiutamente espressi in Moby Dick (1851), che solo a distanza di molti decenni verrà indicata come una delle maggiori opere della narrativa di tutti i tempi. In essa, la dissennata caccia del capitano Ahab alla balena bianca acquista i contorni di un dramma faustiano in cui l'uomo, nel tentativo folle di trascendere i limiti propri della sua condizione, condanna se stesso e i suoi seguaci al baratro morale, all'annichilimento della ragione, alla morte.
VITA E OPERE
M. approdò alla letteratura dopo aver trascorso alcuni anni come marinaio nella marina mercantile prima, su una baleniera poi. A ventisette anni esordì con Typee (1846), romanzo a sfondo esotico basato sulle sue esperienze di viaggio, sul temporaneo inserimento nella primitiva armonia delle popolazioni indigene della Polinesia, sull'ambigua, avventurosa fuga verso la "civiltà". Questo stesso scenario fa da sfondo al successivo Omoo (1847), che accrebbe la notorietà di M. riaccendendo il dibattito sulle critiche da lui mosse all'operato dei missionarî in quelle terre, e al più ambizioso e composito Mardi (1849), in cui M. tenta, con risultati alterni, la via dell'allegoria religiosa e politica. Con Redburn (1849) e White jacket (1850), le dinamiche interne all'organizzazione gerarchica della vita di bordo, già vista come microcosmo turbato da un più ampio conflitto di passioni umane, divengono il nodo centrale dell'indagine critica di M., anticipando, seppure soltanto in embrione, il complesso sviluppo e la dimensione tragica cui quello stesso motivo verrà piegato in Moby Dick. La stratificazione di registri linguistici mutuati dalla Bibbia e dai modelli classici, dal teatro shakespeariano e dal linguaggio scientifico moderno, dà al testo melvilliano uno spessore mitico e un respiro che rendono quest'opera - che l'autore dedicò all'amico N. Hawthorne - unica nel suo genere.
Il naufragio editoriale di Moby Dick contribuì al precoce declino della vena narrativa di M., che col fallimentare esperimento nel genere psicologico, Pierre, or the ambiguities (1852), e con la scabra satira di The confidence man (1857) avrebbe concluso, non ancora quarantenne, la propria attività di romanziere. A The piazza tales (1856), una raccolta di racconti in cui compaiono lo splendido Bartleby, the scrivener e Benito Cereno (come Moby Dick tradotto in italiano da C. Pavese), faranno seguito le sue opere in poesia, Battle-pieces and aspects of the war (1866), Clarel (1876), i libri di viaggio e l'incompiuto Billy Bud (post., 1924), racconto lungo di cupa bellezza.”
(In: www.treccani.it)
- Immagini: il primo film su Moby Dick: The Sea Beast (1926) - full movie
18 ottobre 1851: Moby-Dick di Herman Melville viene pubblicato per la prima volta come The Whale, da Richard Bentley di Londra.
Un brano musicale al giorno
Baldassarre Galuppi, Concerto a quattro in sol minore, Concerto Italiano - Rinaldo Alessandrini
1. Grave e adagio 0:00
2. Allegro spiritoso 2:45
3. Allegro 5:25
“GALUPPI, Baldassarre, detto il Buranello, nacque a Burano, isola della laguna di Venezia, il 18 ottobre 1706.
Apprese le prime nozioni di musica dal padre Angelo, barbiere e violinista dilettante, che suonava abitualmente in piccoli complessi orchestrali in occasione di rappresentazioni di intermezzi e commedie nei teatri veneziani
Rivelò giovanissimo un naturale talento teatrale e, nel 1722, a soli sedici anni, compose l'opera La fede nell'incostanza, ossia Gli amici rivali, su libretto di G. B. Neri, rappresentata a Chioggia e a Vicenza lo stesso anno, tuttavia senza successo.
L'esperienza fu comunque salutare poiché lo convinse ad abbandonare per tre anni la composizione e a dedicarsi a studi seri, sembra su consiglio di B. Marcello, il quale lo avrebbe affidato alla severa guida di A. Lotti, di cui il G. divenne allievo prediletto studiando con lui composizione e clavicembalo.
Nel 1726 si recò a Firenze, scritturato come clavicembalista al teatro della Pergola; tornato a Venezia nel 1728, compose, in collaborazione con G. B. Pescetti, l'opera Gli odi delusi dal sangue (libretto di A. M. Lucchini) che fu rappresentata al teatro S. Angelo il 4 febbraio dello stesso anno; a essa fece seguito (sempre in collaborazione con il Pescetti, su libretto di A. Lalli), il 9 giugno 1729 al teatro S. Samuele, la Dorinda, che riscosse, infine, un notevole successo. Da questo momento, con una fortuna teatrale pressoché ininterrotta, il G. fu regolarmente presente sulle scene veneziane per oltre quarant'anni.
Il 7 luglio 1740 fu nominato maestro del coro dell'ospedale dei Mendicanti, funzione che mantenne fino all'agosto 1751; come primo incarico compose l'oratorio Sancta Maria Magdalena (22 luglio 1740). A questo periodo risale anche il suo incontro con C. Goldoni che gli fornì il libretto dell'opera seria Gustavo I re di Svezia (teatro S. Samuele, 22 maggio 1740) cui fece seguito, sempre su libretto del Goldoni, Oronte re de' Sciti (Venezia, teatro S. Giovanni Grisostomo, 26 dicembre 1740). Nel 1741 fu chiamato a Londra dal King's Theatre di Haymarket come "compositore serio dell'opera italiana".
Nei due anni trascorsi in Inghilterra il G. divenne un beniamino del pubblico inglese; la stagione al teatro di Haymarket, iniziata con l'opera Penelope (libretto di S. Rolli, 23 dicembre 1741), proseguì con Scipione in Cartagine (libretto di F. Vanneschi, 13 marzo 1742) ed Enrico (libretto dello stesso, 12 gennaio 1743), e si concluse con il Sirbace (libretto di C. N. Stampa, 20 aprile 1743).
Nel 1743 fece ritorno a Venezia, proprio nel momento in cui vi si cominciava a conoscere l'opera buffa napoletana: questa destò una profonda impressione nel G. tanto da indurlo a cimentarsi con il genere comico, rielaborando dapprima alcuni lavori di G. Latilla e Rinaldo Di Capua, componendo poi, su libretto di padre D. Panicelli, il dramma giocoso, La forza d'amore (Venezia, teatro S. Cassiano, 30 gennaio 1745) che, tuttavia, sul momento non ebbe particolare risonanza. La sua fama, comunque, aveva oramai ampiamente superato i confini veneziani e le sue opere venivano richieste da molte altre città italiane.
In questo periodo incominciò a lavorare anche sulla produzione comica del Goldoni con il quale intrattenne, per circa ventisei anni, una proficua collaborazione il cui frutto più noto doveva essere, nel 1754, Il filosofo di campagna, considerato il capolavoro del Galuppi.
Non meno intensa fu, nel medesimo torno di tempo, l'attività del prolifico G. come autore di musica sacra: compose gli oratori Isaac (1745) e Iudith (1746) per l'oratorio dei Mendicanti, nonché l'Adamo per la Congregazione dell'oratorio della Chiesa Nuova a Roma (1747). Il 24 maggio 1748 fu nominato vicemaestro di cappella della basilica di S. Marco e maestro del coro dell'ospedale degli Incurabili; nel 1762 divenne primo maestro a S. Marco.
Molto significativa l'attività svolta come direttore del coro della basilica veneziana, che rinnovò, assumendo nuovi cantori e scritturando famosi cantanti come G. Pacchierotti.
Frattanto la fama del G. aveva raggiunto la Russia ove varie compagnie italiane, come quella di G. B. Locatelli, attiva a Pietroburgo, avevano rappresentato sue opere, quali Il mondo della luna, Il filosofo di campagna, L'Arcadia in Brenta, Il conte Caramella, che avevano destato l'entusiasmo della corte imperiale; sicché, in seguito alle richieste prima dello zar Pietro III, poi della zarina Caterina II, il Senato veneziano, dopo lunghe trattative, acconsentì, con un compromesso stipulato il 9 giugno 1765, a che il G. si recasse a Pietroburgo, dove rimase sino al 1768 come maestro della cappella di corte e compositore della compagnia d'opera italiana.
Al G. fu accordato uno stipendio annuo di 4000 rubli più il vitto e l'alloggio; doveva però inviare ogni anno alla cappella di S. Marco una messa nuova per le funzioni natalizie, ricevendone una gratifica di 400 ducati per ogni lavoro. A Pietroburgo ottenne, infine, una sovvenzione annuale di 7000 rubli e la disponibilità di un teatro in cui doveva mettere in scena uno spettacolo settimanale gratuito per la corte e due repliche per il pubblico pagante.
La sua permanenza in Russia ebbe particolare incidenza e lasciò notevoli tracce: riorganizzò e diresse personalmente l'orchestra di corte, che aveva trovato indisciplinata e scadente, e diede nuovo impulso all'ottimo coro che utilizzò nella cantata a 5 voci La Virtù liberata, scelta per il suo esordio, il 24 novembre 1765, in occasione dell'onomastico della zarina. A essa fecero seguito la Didone abbandonata, la cantata La Pace fra la Virtù e la Bellezza (28 giugno 1766), Il re pastore (26 settembre 1767), l'opera buffa La governante astuta ed il tutore sciocco e deluso (Mosca, estate 1767) e, infine, unica opera composta in Russia, l'Ifigenia in Tauride, su libretto di M. Coltellini, rappresentata nel teatro di corte il 2 maggio 1768 con balletti di G. Angiolini. Compose, inoltre, sonate per clavicembalo e cantate, e si dedicò all'insegnamento, avendo allievi illustri, tra cui D. S. Bortnjanskij.
Nel 1768 rientrò in patria, ove il governo gli aveva mantenuto l'incarico a S. Marco e il relativo stipendio; il 22 dicembre 1768 riprese anche il suo posto come maestro del coro all'ospedale degli Incurabili per 400 ducati annui. Da questo momento, avendo pressoché abbandonato la composizione di opere teatrali (l'ultima fu La serva per amore; libretto di F. Livigni, teatro S. Samuele, autunno 1773), continuò a comporre musica strumentale e sacra, in prevalenza oratori che ebbero grande fortuna presso il pubblico veneziano; sappiamo dal Caffi che uno in particolare, il Tres pueri Hebraei in captivitate Babylonis, ebbe oltre 100 repliche. La stima di cui godeva presso le autorità veneziane fece sì che, a partire dal 1780, il suo compenso fosse portato a 600 ducati annui.
Il 16 giugno 1780 nominò erede del suo ricco patrimonio la moglie Adriana Pavan, avendo già provveduto ai tre figli Girolamo, Nicolò e Antonio, l'ultimo dei quali aveva intrapreso la carriera di librettista.
Morì a Venezia il 3 gennaio 1785 e fu sepolto nella chiesa di S. Vitale con esequie solenni a cui parteciparono autorità della Serenissima e personaggi noti del mondo musicale.
… Il G., che aveva praticato pressoché tutti i generi e gli stili della musica del suo tempo, fu, in vita, fra i compositori più noti e celebrati, anche se, all'inizio della carriera, essendo i teatri di Venezia dominati dai compositori napoletani e da A. Vivaldi, ebbe qualche difficoltà ad affermarsi.
Stimato da contemporanei, dopo la morte la sua fama andò gradatamente scemando e gran parte della sua produzione teatrale venne dimenticata, a eccezione della commedia lirica Il filosofo di campagna; tra i probabili motivi dell'oblio in cui cadde può essere senz'altro annoverato il prevalere dell'opera comica napoletana che contribuì a far dimenticare quella veneziana, pur non priva di meriti. Tuttavia, recentemente, numerosi interventi critici e la ripresa di alcune sua opere hanno portato a una riscoperta del G., nei cui lavori sono stati individuati elementi innovativi e significanti, in particolare proprio nel campo dell'opera comica, dove il suo contributo fu determinante per la definizione stilistica del genere.
J.-J. Rousseau, suo grande estimatore, nel Dictionnaire de musique, alla voce Génie ne sottolineava l'appartenenza allo stile pregalante, al pari dei grandi protagonisti della scuola napoletana che, ormai lontani dai caratteri del tardo barocco, appartenevano soltanto al "santuario del buon gusto e dell'espressione".
Al Caffi si deve, invece, la prima ricostruzione biografica del G., definito "rigeneratore del dramma serio e assoluto creatore del buffo", cui vengono ascritti lusinghieri giudizi sulle ottime qualità di concertatore e direttore d'orchestra per l'impegno nel dirigere, per la disciplina severa e, in genere, per la cura dei particolari, caratteristiche che fanno di lui un vero precursore della direzione d'orchestra modernamente intesa (M. Bruni, L'opera veneziana, in Storia dell'opera, I, p. 379). Ed è in particolare nella composizione della compagine orchestrale utilizzata dal G., ove i fiati si collocano accanto agli archi secondo una concezione strumentale che definisce il suo personalissimo stile - costantemente applicata in tutta la produzione senza sostanziali differenze tra comico e serio - che più chiaramente si evidenzia il passaggio dal barocco al sinfonismo classico…
(Leggi l’articolo completo di Raoul Meloncelli - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 51, 1998, in: www.treccani.it)
18 ottobre 1706 nasce Baldassare Galuppi, clavicembalista e compositore italiano (morto nel 1785)
Ugo Brusaporco
Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.
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Ugo Brusaporco
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