“L’amico del popolo”, 19 ottobre 2017

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

THE COOK, THE THIEF, HIS WIFE & HER LOVER (Il cuoco, il ladro, sua moglie e l'amante, Regno Unito, Olanda, Francia, 1989) scritto e diretto da Peter Greenaway. Fotografia: Sacha Vierny. Montaggio: John Wilson. Musiche: Michael Nyman Con: Richard Bohringer, Arnie Breevelt, Ron Cook, Ian Dury, Michael Gambon, Roger Ashton-Griffiths, Emer Gillespie, Paul Russell, Willie Ross, Tim Roth, Liz Smith, Ewan Stewart, Ian Sears, Janet Henfrey, Ciarán Hinds, Alan Howard, Alex Kingston, Helen Mirren, Gary Olsen, Tony Alleff.

In un elegante ristorante londinese gestito dall'esperto cuoco francese Richard, ogni giorno si reca a mangiare il bandito Albert Spica con la moglie Georgina e i suoi scagnozzi. L'uomo è un essere volgare e violento che tiranneggia chiunque gli capiti a tiro e disprezza tutto e tutti. Le prime vittime sono sua moglie, che viene quotidianamente da lui umiliata e percossa in privato ed in pubblico, e i suoi uomini, che non osano ribellarsi per paura della sua collera. Infatti Albert è capace di compiere qualsiasi azione malvagia pur di vendicarsi e di far valere la sua volontà. Eppure proprio quest'uomo repellente Georgina osa tradire: si infatua di un cliente del locale, Michael, che mangia solo in un angolo, assorto nei suoi libri. I due, da una semplice attrazione, passano ad un amore vero; si amano nei sontuosi bagni del ristorante o nella dispensa dietro la cucina, complice in ciò il cuoco Richard che odia anche lui il perfido Albert. Tutto sembra filare liscio per i due colpevoli: Albert non si accorge di nulla tanto preso com'è ad ingozzarsi, a parlare senza sosta e a maltrattare i suoi subalterni. Senonché la ragazza di Cory, uno dei suoi uomini, fa la spia e rivela ad Albert il tradimento di Georgina. L'uomo quasi impazzisce per la rabbia, lancia una forchetta nella guancia della giovane e si getta alla ricerca dei due fedifraghi. Mette a soqquadro il locale ma, per l'abilità di Richard, non li trova poiché questi li ha nascosti in un furgone di carne avariata e li ha fatti portare in un magazzino di libri. Raccomanda loro di non muoversi e provvede a mandargli le provviste tramite un giovane sguattero del ristorante. Albert però non si arrende: segue il ragazzetto e lo cattura. Lo picchia e lo tortura selvaggiamente per farsi dire il nascondiglio dei due; ma il coraggioso resiste, ed allora il malvivente lo ferisce in modo grave all'addome. Si salverà solo perché verrà portato in ospedale. Per Michael però è la fine: Albert lo fa uccidere in modo atroce e quando Georgina lo scopre quasi esce fuori di senno per il dolore. Ma freddamente medita un'orrenda vendetta per suo marito. Convince, non senza fatica, Richard a cucinare Michael ed offrirlo ad Albert. Giunto il gran giorno, alla presenza di tutti coloro che hanno subito soprusi da Albert, l'uomo viene costretto da Georgina, che gli punta una pistola addosso, ad assaggiare la carne del suo amante, dopodiché lo uccide senza alcuna esitazione.

“Può darsi, come vogliono i suoi detrattori, che Peter Greenaway sia un grande dilettante e un grande snob: basta mettere l'accento sull'aggettivo grande. Dopo Il cuoco, il ladro, sua moglie e l'amante, appare comunque indubbia la sua appartenenza ad una categoria che può anche dispiacere ai timorati e ai devoti del gusto mediano, ma che molto piaceva, per esempio, a Mario Praz: quella dei grandi (e ancora una volta insisterei sull'aggettivo) eccentrici inglesi, come quel William Beckford (1760-1844) la cui delirante costruzione neogotica, Fonthill Abbey, è ricordata da Greenaway fra i luoghi mitologici che più hanno affascinato e ossessionato la sua adolescenza nel Witshire. Nel suo unico romanzo, Vathek (scritto in francese: e anche questo è significativo), Beckford mette in scena con lieta impassibilità un vero catalogo di orrori - sadismo, masochismo, necrofilia, omosessualità, incesto - e crea un vilain, il perfido califfo di cui al titolo (superato comunque in efferatezze dalla madre Carathis), che massacra fra orribili torture i suoi sudditi più devoti e mansueti, e che potrebbe essere, per più versi, un antesignano tardo settecentesco del Ladro di questo film. Al di là di eventuali somiglianze a livello di "trama" o di scenari - al ristorante Le Hollandais non ci sono torri, pinnacoli, minareti o scale rovinose alla Piranesi, ma senza dubbio l'effetto complessivo può risultare angoscioso e labirintico - colpisce comunque la singolare consonanza fra uno scrittore che era anche disegnatore e architetto (in questo non isolato, come attesta il caso Walpole) e un regista che è anzitutto pittore, ma ritiene ancor più importante l'architettura: "si può evitare di leggere o di ascoltare musica, non di vivere fra costruzioni". È evidente ormai che la “eccentricità” di Greenaway, sostenuta da una notevole capacità citazionistica e al tempo stesso da una quasi maniacale coerenza nei gusti e nelle predilezioni, fa di lui una sorta di unicum nel panorama del cinema inglese; da lui possiamo aspettarci tutto quello che un tempo si poteva sperare da Ken Russell e quello che l'approssimativo e furbesco Derek Jarman non ci darà mai (lo stesso Stephen Fears, purtroppo, sembra tentato da relazioni pericolose con i progetti multinazionali).
Architetto prima ancora che narratore, Greenaway di volta in volta costruisce una variante di Fonthill Abbey - il Giardino, lo Zoo, il Monumento a Vittorio Emanuele - e sotto i nostri occhi procede a ridurla a due dimensioni, rappresentandola graficamente su un foglio bianco, o su una tela, o in una serie di fotocopie (la serialità è un'altra delle sue ossessioni). Poi si tratterà di circoscrivere lo spazio, di "ripartirlo" secondo geometri rigorose e allusive. Il ristorane Le Hollandais, in questo film che è la summa della poetica greenawayana, è appunto composto da diversi settori, da aree ben distinte anche dal punto di vista cromatico - il blu del parcheggio sinistramente infestato dai cani randagi; il verdastro delle cucine, simili più che altro ad un hangar abbandonato; il rosso scarlatto della sala da pranzo; il candore kubrickiano delle toilettes - ciascuna delle quali riveste una funzione ben precisa, ma non subordinata al racconto: in una certa misura è vero il contrario, che la "trama" nonostante la vorticosa progressione che la sospinge al tableau finale imbocca ancora la via della ripetività seriale, e i personaggi, anche se magari come Albert si illudono di entrare da padroni nei "vari" settori, in realtà appaiono di volta in volta "modificati", anche a livello cromatico, man mano che passano da una zona all'altra (fra parentesi, si dovrà segnalare che i passaggi e le transizioni con la m.d.p. che sembra scivolare in avanti fra nere quinte invisibili, sono di straordinaria suggestione)”.

(Guido Fink, Cineforum, n. 292, gennaio-febbraio 1990)

“Quando il cinema è un cannibale. È assolutamente lecito ritenere che il cinema degli anni Ottanta di Peter Greenaway sia un cinema particolarmente altezzoso. Assai superbo e sprezzante e intriso di simbolismi e riferimenti colti (alle volte anche un po’ fini a se stessi) è soprattutto un cinema propriamente cannibalico perché si nutre di se stesso, di quello che produce (e ha prodotto) visivamente e concettualmente. Forse è proprio per questo motivo che riusciamo a trovare ne Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante la sua esemplificazione definitiva. Il corpo dell’amante, cucinato da Richard, il cuoco de Le Hollandais, e servito forzatamente al ladro da sua moglie come punizione per le sue malefatte, rappresenta infatti perfettamente il corpo-cinema che ogni volta Greenaway serve al suo (sì, suo, perché in questo gioco perverso è come se cercasse di appropriarsene) spettatore cercando di fargli credere che sia una succulenta pietanza. Con questo non intendo dire che Greenaway abbia smerciato solo fuffa e che le sue produzioni siano oggetti sgargianti ma di poco valore. Al contrario mi pare di notare che l’accumulazione di rimandi a fonti pittoriche o teatrali, citate sempre in modo raffinato e funzionale anche se - devo ammetterlo - mai troppo coinvolgente, creino una materia decisamente cangiante; a seconda di come la si osservi, il senso muta. Ed è proprio questo il punto di tutta la questione: Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante è un’opera che va assimilata come se fosse un corpo da fagocitare. È senza dubbio quella la giusta prospettiva dalla quale osservarla. Perché è proprio nella sua corporalità, e in quella dei personaggi messi in scena, che organizza la sua grandezza. Come scriveva Domenico De Gaetano, che al regista inglese ha dedicato una interessantissima monografia, “I protagonisti del film sono infatti considerati non tanto dal punto di vista della loro personalità, ma per l’aspetto carnale dei loro corpi, la loro foggia, la mole che possiedono, il volume che occupano”. E più i volumi si gonfiano, più acquisiscono imponenza visiva e spaziale (più si gioca quindi sui piani medi e quelli americani piuttosto che su quelli lunghi), più ci viene voglia di “divorarli”. È cinema che cerca di sedurre i palati, che stimola l’appetito, che risveglia il cannibale cinefilo che è in noi. Che fa delle presenze fisiche sullo schermo qualcosa di sinesteticamente concreto, dimostrando come Greenaway sia stato non tanto un discreto narratore quanto un grande mostratore. Potere all’occhio, abbasso la parola. Ora e sempre, nei secoli dei secoli”.

(Gabriele Baldaccini, 1989, Mediacritica)

“Dopo la narrazione scandita da giochi e numeri in Giochi nell'acqua, Greenaway affronta nel suo quinto film Il cuoco, il ladro, sua moglie e l'amante un argomento più «teatrale». Non soltanto per la vicenda, un triangolo amoroso che si trasforma in dramma della vendetta, ma per gli artifici spettacolari di matrice «teatrale» ravvisabili nelle scenografie, nell'uso dei colori e nelle tecniche di ripresa. Greenaway lo definisce un «melodramma contemporaneo», una storia «stravagante e improbabile, ma non impossibile, che si svolge in un ristorante dove è consuetudine che tutte le cose siano mangiate, anche a titolo di sperimentazione». Teatro dell'azione è infatti un ristorante alla moda di una qualsiasi metropoli occidentale dove i quattro protagonisti principali, presentati schematicamente nel titolo, decidono tra una portata e l'altra i propri destini.
Un Ladro volgare e brutale di nome Albert Spica (interpretato da Michael Gambon), la Moglie Georgina (Helen Mirren), maltrattata e seviziata dal marito, e la sua banda di scagnozzi (tra cui Tim Roth) frequentano abitualmente l'esclusivo ristorante Le Hollandais gestito dal raffinato Cuoco francese Richard (Richard Bohringer). In nove giorni, dal Prologo del Giovedì all'ultima cena spettacolare del Venerdì, corrispondenti a nove pasti serali introdotti da un ricco menù che illustra le specialità del giorno, nasce e si trasforma in tragedia la profonda passione tra Georgina e un cliente abituale del ristorante, l'intellettuale Michael (Alan Howard). I due amanti si incontrano durante ogni pasto nei bagni del ristorante e nelle dispense della cucina per dare sfogo alle pulsioni erotiche fino a quando, scoperti da Albert, si rifugiano nell'immensa casa-biblioteca di Michael. Deciso a vendicare l'adulterio, il Ladro mette a soqquadro il ristorante, tortura il lavapiatti Pup per farsi rivelare il luogo in cui si sono rifugiati i due amanti e infine raggiunge e uccide l'inerme Michael facendogli ingoiare i suoi stessi libri. Ma Georgina architetta un piano per vendicarsi a sua volta: convince il Cuoco a cucinare il corpo dell'Amante per il marito. Albert viene così invitato al macabro banchetto ed è costretto a consumare l'ultimo pasto prima di essere ucciso.
È una storia truculenta e passionale ispirata al gusto orroroso della tragedia classica e ai drammi giacobini ed elisabettiani del XVII secolo. Per Greenaway esiste un filo rosso che collega alcune esperienze della tradizione teatrale occidentale: «l'ossessione per la corporeità umana», che si ritrova nelle opere del poeta tragico Seneca come nei drammi erotici e violenti dei drammaturghi inglesi del '600: Thomas Kyd, Cyril Tourneur e John Webster. Questi ultimi, seguendo l'identica ispirazione dei contemporanei italiani e francesi, alla riscoperta del gusto stoico e malinconico, le vicende orrorose e lo stile retorico senechiano, unirono la ricerca della «meraviglia» nelle espressioni delle passioni morbose e nelle descrizioni più crude dei personaggi in opere come La tragedia del vendicatore (1607) di Tourneur e La duchessa di Amalfi (1614) di Webster.
Analoghe preoccupazioni si ritrovano in Greenaway che può spingersi oltre i drammi giacobini inglesi mostrando sulla scena i risvolti sanguinari e cruenti legati però alla fine del secondo millennio. I protagonisti del film sono infatti considerati non tanto dal punto di vista della loro personalità, ma per l'aspetto carnale dei loro corpi, «ciò che un inglese definirebbe la loro corporeità, la foggia che rivelano, la mole che possiedono, il volume che occupano». (...)
Ma il cibo è per Greenaway la metafora della nostra civiltà dei consumi che produce ogni tipo di merce e ingurgita tutto con la stessa semplicità merceologica e affaristica con cui l'occidente ricco e opulento ha fondato la propria economia sulla povertà dei paesi del Terzo Mondo. Come l'architettura «carnivora» di Roma nel film Il ventre dell'architetto, il consumismo contemporaneo divora le foreste e gli strati dell'atmosfera, brucia i libri, sfrutta i popoli più deboli e produce montagne di rifiuti: il suo approccio vitale è all'insegna del cannibalismo finanziario, culturale ed ecologico. Di conseguenza, al di là del melodramma passionale, Il cuoco, il ladro, sua moglie e l'amante esemplifica «come un decimo del mondo sia ipernutrito e nove decimi siano affamati. Non c'è bisogno di mostrare immagini di etiopi morti di fame per indicare questa enorme discrepanza tra gli ipernutriti e gli affamati».
L'antropofagia metaforica, unita al gusto scatologico, alle ossessioni culinarie e alle fantasie necrofile si converte nel film nella più grande oscenità che un essere umano possa perpetrare ai danni di un altro: il cibarsi di esso". Che il cannibalismo sia da intendersi in senso metaforico lo si intuisce in alcune scene del film, quando Albert, nel tentativo di istruire il giovane Mitchel, lo invita metaforicamente a cibarsi del corpo dell'Amante appena ucciso e questi si spaventa. Lo sfasamento tra livello metaforico e livello letterale è totale”.

(Domenico De Gaetano, Il cinema di Peter Greenaway, Lindau, 1995)

THE COOK, THE THIEF, HIS WIFE & HER LOVER (Il cuoco, il ladro, sua moglie e l'amante, Regno Unito, Olanda, Francia, 1989) scritto e diretto da Peter Greenaway

 

Una poesia al giorno

Written on the day that Mr. Leigh Hunt left Prison, di John Keats (1795–1821)

WHAT though, for showing truth to flatter’d state,
Kind Hunt was shut in prison, yet has he,
In his immortal spirit, been as free
As the sky-searching lark, and as elate.

Minion of grandeur! think you he did wait?
Think you he nought but prison walls did see,
Till, so unwilling, thou unturn’dst the key?
Ah, no! far happier, nobler was his fate!

In Spenser’s halls he strayed, and bowers fair,
Culling enchanted flowers; and he flew
With daring Milton through the fields of air;

To regions of his own his genius true
Took happy flights. Who shall his fame impair
When thou art dead, and all thy wretched crew?

Scritto nel giorno in cui Leigh Hunt uscì di prigione

Benché imprigionato per aver detto il vero
a un principe adulato, il generoso Hunt,
in spirito immortale, libero si è serbato,
come nobile allodola richiamata dal cielo.

Lacchè dei Grandi, che cosa ti aspettavi?
Ch'egli avrebbe fissato i muri della cella
finché tu controvoglia ne riaprissi la porta?
No! Più alta e felice era già la sua sorte!

Nelle corti di Spenser egli vagò, in pergole
leggiadre, colse magici fiori, audace risalì,
con Milton, i campi d'aria; e in feudi

a lui certi da vero genio fece inebrianti voli.
Chi potrà la sua fama funestare quando
sarete morti tu e la tua ciurma di mariuoli?

Leigh Hunt nacque nel 1784. La sua prima raccolta di poesie apparve nel 1801. Nel 1808, fondò e divenne editore del giornale The Examiner, il primo di molti da lui fondati. Nel 1813, Hunt e il fratello John furono condannati a due anni di prigione per aver diffamato sull’Examiner il Principe Reggente. Per tutta la vita fu un sostenitore del movimento romantico in generale e di Keats, Shelley e Byron in particolare. Il suo nome veniva collegato a quelli di Keats e Hazlitt negli attacchi contro la cosiddetta “Cockney School”. Nella sua casa radunò un gruppo con i più importanti poeti, scrittori e artisti. Nel suo giornale The Indicator pubblicò, nel 1821, la poesia di Keats "La Belle Dame Sans Merci", e in un giornale co-fondato con Byron, The Liberal, nel 1822, apparvero opere non solo sue ma anche di Shelley e Byron.

John Keats ritratto da William Hilton

 

Un fatto al giorno

19 ottobre 1943: La nave da carico Sinfra viene attaccata dagli aerei alleati alla baia di Souda, Creta, e affondata; 2.098 prigionieri di guerra italiani affogano con esso. Nel suo libro (scritto 10 anni dopo gli eventi) Donato Dutto affermò che 523 italiani si salvarono (100 circa furono salvati dai pescherecci e almeno 400 furono tratti in salvo da dalla nave di scorta e dalle lance di salvataggio calate in mare dalla nave prima che affondasse). Il numero delle vittime: 2465. Superstiti: 535.

 

Una frase al giorno

“Se una norma morale generale mi conferisce il diritto nei confronti di tutti di non subire (per esempio) interferenze in una certa sfera della mia attività, allora ci sono letteralmente migliaia di milioni di persone che hanno verso di me un dovere in tal senso; e se la medesima norma generale riconosce lo stesso diritto a tutti gli altri, impone a me migliaia di milioni di doveri o, se si preferisce, dei doveri verso migliaia di milioni di persone. Personalmente non trovo nulla di paradossale in tutto ciò. Si tratta, in fin dei conti, di doveri negativi a cui posso ottemperare, una volta per tutte, semplicemente facendomi gli affari miei”.

Joel Feinberg (19 ottobre 1926 a Detroit, Michigan - 29 marzo 2004 a Tucson, in Arizona) fu un filosofo, politico e legale americano.

 

Un brano al giorno

Concerto per violoncello in mi minore op. 85 di Edward Elgar (1857 - 1934). Jacqueline du Pré; Daniel Barenboim, 1967. 

Jacqueline Mary du Pré (Oxford, 26 gennaio 1945-Londra, 19 ottobre 1987)

Jacqueline Mary du Pré (Oxford, 26 gennaio 1945-Londra, 19 ottobre 1987) è stata una violoncellista britannica. Famosa in tutto il mondo, oggi conosciuta come una delle più grandi virtuose del suo strumento, resa celebre soprattutto grazie alla sua esecuzione del concerto per violoncello di Elgar, la cui interpretazione viene spesso descritta come "leggendaria" e "definitiva". All'apice della carriera, nel 1973, all'età di 28 anni, si scoprì affetta da una sclerosi multipla, rivelatasi maligna. In breve tempo dovette smettere di suonare, ma continuò ad insegnare per qualche anno. La malattia la uccise il 19 ottobre 1987 all'età di soli 42 anni. La sua morte è considerata una delle tragedie più grandi nel mondo della musica.

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

e-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
web www.brusaporco.org

 

 

 

 

 

UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k