“L’amico del popolo”, 19 ottobre 2017

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

THE COOK, THE THIEF, HIS WIFE & HER LOVER (Il cuoco, il ladro, sua moglie e l'amante, Regno Unito, Olanda, Francia, 1989) scritto e diretto da Peter Greenaway. Fotografia: Sacha Vierny. Montaggio: John Wilson. Musiche: Michael Nyman Con: Richard Bohringer, Arnie Breevelt, Ron Cook, Ian Dury, Michael Gambon, Roger Ashton-Griffiths, Emer Gillespie, Paul Russell, Willie Ross, Tim Roth, Liz Smith, Ewan Stewart, Ian Sears, Janet Henfrey, Ciarán Hinds, Alan Howard, Alex Kingston, Helen Mirren, Gary Olsen, Tony Alleff.

In un elegante ristorante londinese gestito dall'esperto cuoco francese Richard, ogni giorno si reca a mangiare il bandito Albert Spica con la moglie Georgina e i suoi scagnozzi. L'uomo è un essere volgare e violento che tiranneggia chiunque gli capiti a tiro e disprezza tutto e tutti. Le prime vittime sono sua moglie, che viene quotidianamente da lui umiliata e percossa in privato ed in pubblico, e i suoi uomini, che non osano ribellarsi per paura della sua collera. Infatti Albert è capace di compiere qualsiasi azione malvagia pur di vendicarsi e di far valere la sua volontà. Eppure proprio quest'uomo repellente Georgina osa tradire: si infatua di un cliente del locale, Michael, che mangia solo in un angolo, assorto nei suoi libri. I due, da una semplice attrazione, passano ad un amore vero; si amano nei sontuosi bagni del ristorante o nella dispensa dietro la cucina, complice in ciò il cuoco Richard che odia anche lui il perfido Albert. Tutto sembra filare liscio per i due colpevoli: Albert non si accorge di nulla tanto preso com'è ad ingozzarsi, a parlare senza sosta e a maltrattare i suoi subalterni. Senonché la ragazza di Cory, uno dei suoi uomini, fa la spia e rivela ad Albert il tradimento di Georgina. L'uomo quasi impazzisce per la rabbia, lancia una forchetta nella guancia della giovane e si getta alla ricerca dei due fedifraghi. Mette a soqquadro il locale ma, per l'abilità di Richard, non li trova poiché questi li ha nascosti in un furgone di carne avariata e li ha fatti portare in un magazzino di libri. Raccomanda loro di non muoversi e provvede a mandargli le provviste tramite un giovane sguattero del ristorante. Albert però non si arrende: segue il ragazzetto e lo cattura. Lo picchia e lo tortura selvaggiamente per farsi dire il nascondiglio dei due; ma il coraggioso resiste, ed allora il malvivente lo ferisce in modo grave all'addome. Si salverà solo perché verrà portato in ospedale. Per Michael però è la fine: Albert lo fa uccidere in modo atroce e quando Georgina lo scopre quasi esce fuori di senno per il dolore. Ma freddamente medita un'orrenda vendetta per suo marito. Convince, non senza fatica, Richard a cucinare Michael ed offrirlo ad Albert. Giunto il gran giorno, alla presenza di tutti coloro che hanno subito soprusi da Albert, l'uomo viene costretto da Georgina, che gli punta una pistola addosso, ad assaggiare la carne del suo amante, dopodiché lo uccide senza alcuna esitazione.

“Può darsi, come vogliono i suoi detrattori, che Peter Greenaway sia un grande dilettante e un grande snob: basta mettere l'accento sull'aggettivo grande. Dopo Il cuoco, il ladro, sua moglie e l'amante, appare comunque indubbia la sua appartenenza ad una categoria che può anche dispiacere ai timorati e ai devoti del gusto mediano, ma che molto piaceva, per esempio, a Mario Praz: quella dei grandi (e ancora una volta insisterei sull'aggettivo) eccentrici inglesi, come quel William Beckford (1760-1844) la cui delirante costruzione neogotica, Fonthill Abbey, è ricordata da Greenaway fra i luoghi mitologici che più hanno affascinato e ossessionato la sua adolescenza nel Witshire. Nel suo unico romanzo, Vathek (scritto in francese: e anche questo è significativo), Beckford mette in scena con lieta impassibilità un vero catalogo di orrori - sadismo, masochismo, necrofilia, omosessualità, incesto - e crea un vilain, il perfido califfo di cui al titolo (superato comunque in efferatezze dalla madre Carathis), che massacra fra orribili torture i suoi sudditi più devoti e mansueti, e che potrebbe essere, per più versi, un antesignano tardo settecentesco del Ladro di questo film. Al di là di eventuali somiglianze a livello di "trama" o di scenari - al ristorante Le Hollandais non ci sono torri, pinnacoli, minareti o scale rovinose alla Piranesi, ma senza dubbio l'effetto complessivo può risultare angoscioso e labirintico - colpisce comunque la singolare consonanza fra uno scrittore che era anche disegnatore e architetto (in questo non isolato, come attesta il caso Walpole) e un regista che è anzitutto pittore, ma ritiene ancor più importante l'architettura: "si può evitare di leggere o di ascoltare musica, non di vivere fra costruzioni". È evidente ormai che la “eccentricità” di Greenaway, sostenuta da una notevole capacità citazionistica e al tempo stesso da una quasi maniacale coerenza nei gusti e nelle predilezioni, fa di lui una sorta di unicum nel panorama del cinema inglese; da lui possiamo aspettarci tutto quello che un tempo si poteva sperare da Ken Russell e quello che l'approssimativo e furbesco Derek Jarman non ci darà mai (lo stesso Stephen Fears, purtroppo, sembra tentato da relazioni pericolose con i progetti multinazionali).
Architetto prima ancora che narratore, Greenaway di volta in volta costruisce una variante di Fonthill Abbey - il Giardino, lo Zoo, il Monumento a Vittorio Emanuele - e sotto i nostri occhi procede a ridurla a due dimensioni, rappresentandola graficamente su un foglio bianco, o su una tela, o in una serie di fotocopie (la serialità è un'altra delle sue ossessioni). Poi si tratterà di circoscrivere lo spazio, di "ripartirlo" secondo geometri rigorose e allusive. Il ristorane Le Hollandais, in questo film che è la summa della poetica greenawayana, è appunto composto da diversi settori, da aree ben distinte anche dal punto di vista cromatico - il blu del parcheggio sinistramente infestato dai cani randagi; il verdastro delle cucine, simili più che altro ad un hangar abbandonato; il rosso scarlatto della sala da pranzo; il candore kubrickiano delle toilettes - ciascuna delle quali riveste una funzione ben precisa, ma non subordinata al racconto: in una certa misura è vero il contrario, che la "trama" nonostante la vorticosa progressione che la sospinge al tableau finale imbocca ancora la via della ripetività seriale, e i personaggi, anche se magari come Albert si illudono di entrare da padroni nei "vari" settori, in realtà appaiono di volta in volta "modificati", anche a livello cromatico, man mano che passano da una zona all'altra (fra parentesi, si dovrà segnalare che i passaggi e le transizioni con la m.d.p. che sembra scivolare in avanti fra nere quinte invisibili, sono di straordinaria suggestione)”.

(Guido Fink, Cineforum, n. 292, gennaio-febbraio 1990)

“Quando il cinema è un cannibale. È assolutamente lecito ritenere che il cinema degli anni Ottanta di Peter Greenaway sia un cinema particolarmente altezzoso. Assai superbo e sprezzante e intriso di simbolismi e riferimenti colti (alle volte anche un po’ fini a se stessi) è soprattutto un cinema propriamente cannibalico perché si nutre di se stesso, di quello che produce (e ha prodotto) visivamente e concettualmente. Forse è proprio per questo motivo che riusciamo a trovare ne Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante la sua esemplificazione definitiva. Il corpo dell’amante, cucinato da Richard, il cuoco de Le Hollandais, e servito forzatamente al ladro da sua moglie come punizione per le sue malefatte, rappresenta infatti perfettamente il corpo-cinema che ogni volta Greenaway serve al suo (sì, suo, perché in questo gioco perverso è come se cercasse di appropriarsene) spettatore cercando di fargli credere che sia una succulenta pietanza. Con questo non intendo dire che Greenaway abbia smerciato solo fuffa e che le sue produzioni siano oggetti sgargianti ma di poco valore. Al contrario mi pare di notare che l’accumulazione di rimandi a fonti pittoriche o teatrali, citate sempre in modo raffinato e funzionale anche se - devo ammetterlo - mai troppo coinvolgente, creino una materia decisamente cangiante; a seconda di come la si osservi, il senso muta. Ed è proprio questo il punto di tutta la questione: Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante è un’opera che va assimilata come se fosse un corpo da fagocitare. È senza dubbio quella la giusta prospettiva dalla quale osservarla. Perché è proprio nella sua corporalità, e in quella dei personaggi messi in scena, che organizza la sua grandezza. Come scriveva Domenico De Gaetano, che al regista inglese ha dedicato una interessantissima monografia, “I protagonisti del film sono infatti considerati non tanto dal punto di vista della loro personalità, ma per l’aspetto carnale dei loro corpi, la loro foggia, la mole che possiedono, il volume che occupano”. E più i volumi si gonfiano, più acquisiscono imponenza visiva e spaziale (più si gioca quindi sui piani medi e quelli americani piuttosto che su quelli lunghi), più ci viene voglia di “divorarli”. È cinema che cerca di sedurre i palati, che stimola l’appetito, che risveglia il cannibale cinefilo che è in noi. Che fa delle presenze fisiche sullo schermo qualcosa di sinesteticamente concreto, dimostrando come Greenaway sia stato non tanto un discreto narratore quanto un grande mostratore. Potere all’occhio, abbasso la parola. Ora e sempre, nei secoli dei secoli”.

(Gabriele Baldaccini, 1989, Mediacritica)

“Dopo la narrazione scandita da giochi e numeri in Giochi nell'acqua, Greenaway affronta nel suo quinto film Il cuoco, il ladro, sua moglie e l'amante un argomento più «teatrale». Non soltanto per la vicenda, un triangolo amoroso che si trasforma in dramma della vendetta, ma per gli artifici spettacolari di matrice «teatrale» ravvisabili nelle scenografie, nell'uso dei colori e nelle tecniche di ripresa. Greenaway lo definisce un «melodramma contemporaneo», una storia «stravagante e improbabile, ma non impossibile, che si svolge in un ristorante dove è consuetudine che tutte le cose siano mangiate, anche a titolo di sperimentazione». Teatro dell'azione è infatti un ristorante alla moda di una qualsiasi metropoli occidentale dove i quattro protagonisti principali, presentati schematicamente nel titolo, decidono tra una portata e l'altra i propri destini.
Un Ladro volgare e brutale di nome Albert Spica (interpretato da Michael Gambon), la Moglie Georgina (Helen Mirren), maltrattata e seviziata dal marito, e la sua banda di scagnozzi (tra cui Tim Roth) frequentano abitualmente l'esclusivo ristorante Le Hollandais gestito dal raffinato Cuoco francese Richard (Richard Bohringer). In nove giorni, dal Prologo del Giovedì all'ultima cena spettacolare del Venerdì, corrispondenti a nove pasti serali introdotti da un ricco menù che illustra le specialità del giorno, nasce e si trasforma in tragedia la profonda passione tra Georgina e un cliente abituale del ristorante, l'intellettuale Michael (Alan Howard). I due amanti si incontrano durante ogni pasto nei bagni del ristorante e nelle dispense della cucina per dare sfogo alle pulsioni erotiche fino a quando, scoperti da Albert, si rifugiano nell'immensa casa-biblioteca di Michael. Deciso a vendicare l'adulterio, il Ladro mette a soqquadro il ristorante, tortura il lavapiatti Pup per farsi rivelare il luogo in cui si sono rifugiati i due amanti e infine raggiunge e uccide l'inerme Michael facendogli ingoiare i suoi stessi libri. Ma Georgina architetta un piano per vendicarsi a sua volta: convince il Cuoco a cucinare il corpo dell'Amante per il marito. Albert viene così invitato al macabro banchetto ed è costretto a consumare l'ultimo pasto prima di essere ucciso.
È una storia truculenta e passionale ispirata al gusto orroroso della tragedia classica e ai drammi giacobini ed elisabettiani del XVII secolo. Per Greenaway esiste un filo rosso che collega alcune esperienze della tradizione teatrale occidentale: «l'ossessione per la corporeità umana», che si ritrova nelle opere del poeta tragico Seneca come nei drammi erotici e violenti dei drammaturghi inglesi del '600: Thomas Kyd, Cyril Tourneur e John Webster. Questi ultimi, seguendo l'identica ispirazione dei contemporanei italiani e francesi, alla riscoperta del gusto stoico e malinconico, le vicende orrorose e lo stile retorico senechiano, unirono la ricerca della «meraviglia» nelle espressioni delle passioni morbose e nelle descrizioni più crude dei personaggi in opere come La tragedia del vendicatore (1607) di Tourneur e La duchessa di Amalfi (1614) di Webster.
Analoghe preoccupazioni si ritrovano in Greenaway che può spingersi oltre i drammi giacobini inglesi mostrando sulla scena i risvolti sanguinari e cruenti legati però alla fine del secondo millennio. I protagonisti del film sono infatti considerati non tanto dal punto di vista della loro personalità, ma per l'aspetto carnale dei loro corpi, «ciò che un inglese definirebbe la loro corporeità, la foggia che rivelano, la mole che possiedono, il volume che occupano». (...)
Ma il cibo è per Greenaway la metafora della nostra civiltà dei consumi che produce ogni tipo di merce e ingurgita tutto con la stessa semplicità merceologica e affaristica con cui l'occidente ricco e opulento ha fondato la propria economia sulla povertà dei paesi del Terzo Mondo. Come l'architettura «carnivora» di Roma nel film Il ventre dell'architetto, il consumismo contemporaneo divora le foreste e gli strati dell'atmosfera, brucia i libri, sfrutta i popoli più deboli e produce montagne di rifiuti: il suo approccio vitale è all'insegna del cannibalismo finanziario, culturale ed ecologico. Di conseguenza, al di là del melodramma passionale, Il cuoco, il ladro, sua moglie e l'amante esemplifica «come un decimo del mondo sia ipernutrito e nove decimi siano affamati. Non c'è bisogno di mostrare immagini di etiopi morti di fame per indicare questa enorme discrepanza tra gli ipernutriti e gli affamati».
L'antropofagia metaforica, unita al gusto scatologico, alle ossessioni culinarie e alle fantasie necrofile si converte nel film nella più grande oscenità che un essere umano possa perpetrare ai danni di un altro: il cibarsi di esso". Che il cannibalismo sia da intendersi in senso metaforico lo si intuisce in alcune scene del film, quando Albert, nel tentativo di istruire il giovane Mitchel, lo invita metaforicamente a cibarsi del corpo dell'Amante appena ucciso e questi si spaventa. Lo sfasamento tra livello metaforico e livello letterale è totale”.

(Domenico De Gaetano, Il cinema di Peter Greenaway, Lindau, 1995)

 

Una poesia al giorno

Written on the day that Mr. Leigh Hunt left Prison, di John Keats (1795–1821)

WHAT though, for showing truth to flatter’d state,
Kind Hunt was shut in prison, yet has he,
In his immortal spirit, been as free
As the sky-searching lark, and as elate.

Minion of grandeur! think you he did wait?
Think you he nought but prison walls did see,
Till, so unwilling, thou unturn’dst the key?
Ah, no! far happier, nobler was his fate!

In Spenser’s halls he strayed, and bowers fair,
Culling enchanted flowers; and he flew
With daring Milton through the fields of air;

To regions of his own his genius true
Took happy flights. Who shall his fame impair
When thou art dead, and all thy wretched crew?

Scritto nel giorno in cui Leigh Hunt uscì di prigione

Benché imprigionato per aver detto il vero
a un principe adulato, il generoso Hunt,
in spirito immortale, libero si è serbato,
come nobile allodola richiamata dal cielo.

Lacchè dei Grandi, che cosa ti aspettavi?
Ch'egli avrebbe fissato i muri della cella
finché tu controvoglia ne riaprissi la porta?
No! Più alta e felice era già la sua sorte!

Nelle corti di Spenser egli vagò, in pergole
leggiadre, colse magici fiori, audace risalì,
con Milton, i campi d'aria; e in feudi

a lui certi da vero genio fece inebrianti voli.
Chi potrà la sua fama funestare quando
sarete morti tu e la tua ciurma di mariuoli?

Leigh Hunt nacque nel 1784. La sua prima raccolta di poesie apparve nel 1801. Nel 1808, fondò e divenne editore del giornale The Examiner, il primo di molti da lui fondati. Nel 1813, Hunt e il fratello John furono condannati a due anni di prigione per aver diffamato sull’Examiner il Principe Reggente. Per tutta la vita fu un sostenitore del movimento romantico in generale e di Keats, Shelley e Byron in particolare. Il suo nome veniva collegato a quelli di Keats e Hazlitt negli attacchi contro la cosiddetta “Cockney School”. Nella sua casa radunò un gruppo con i più importanti poeti, scrittori e artisti. Nel suo giornale The Indicator pubblicò, nel 1821, la poesia di Keats "La Belle Dame Sans Merci", e in un giornale co-fondato con Byron, The Liberal, nel 1822, apparvero opere non solo sue ma anche di Shelley e Byron.

 

Un fatto al giorno

19 ottobre 1943: La nave da carico Sinfra viene attaccata dagli aerei alleati alla baia di Souda, Creta, e affondata; 2.098 prigionieri di guerra italiani affogano con esso. Nel suo libro (scritto 10 anni dopo gli eventi) Donato Dutto affermò che 523 italiani si salvarono (100 circa furono salvati dai pescherecci e almeno 400 furono tratti in salvo da dalla nave di scorta e dalle lance di salvataggio calate in mare dalla nave prima che affondasse). Il numero delle vittime: 2465. Superstiti: 535.

 

Una frase al giorno

“Se una norma morale generale mi conferisce il diritto nei confronti di tutti di non subire (per esempio) interferenze in una certa sfera della mia attività, allora ci sono letteralmente migliaia di milioni di persone che hanno verso di me un dovere in tal senso; e se la medesima norma generale riconosce lo stesso diritto a tutti gli altri, impone a me migliaia di milioni di doveri o, se si preferisce, dei doveri verso migliaia di milioni di persone. Personalmente non trovo nulla di paradossale in tutto ciò. Si tratta, in fin dei conti, di doveri negativi a cui posso ottemperare, una volta per tutte, semplicemente facendomi gli affari miei”.

Joel Feinberg (19 ottobre 1926 a Detroit, Michigan - 29 marzo 2004 a Tucson, in Arizona) fu un filosofo, politico e legale americano.

 

Un brano al giorno

Concerto per violoncello in mi minore op. 85 di Edward Elgar (1857 - 1934). Jacqueline du Pré; Daniel Barenboim, 1967. 

Jacqueline Mary du Pré (Oxford, 26 gennaio 1945-Londra, 19 ottobre 1987) è stata una violoncellista britannica. Famosa in tutto il mondo, oggi conosciuta come una delle più grandi virtuose del suo strumento, resa celebre soprattutto grazie alla sua esecuzione del concerto per violoncello di Elgar, la cui interpretazione viene spesso descritta come "leggendaria" e "definitiva". All'apice della carriera, nel 1973, all'età di 28 anni, si scoprì affetta da una sclerosi multipla, rivelatasi maligna. In breve tempo dovette smettere di suonare, ma continuò ad insegnare per qualche anno. La malattia la uccise il 19 ottobre 1987 all'età di soli 42 anni. La sua morte è considerata una delle tragedie più grandi nel mondo della musica.

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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