“L’amico del popolo”, 2 gennaio 2018

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno II. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

MOUCHETTE (Francia, 1967), scritto e diretto da Robert Bresson, basato sul racconto "Nouvelle Hisloire de Mouchette," di Georges Bernanos. Fotografia: Ghislain Cloquet. Montaggio: Raymond Lamy. Musiche: Jean Wiener. Con: Nadine Nortier, Jean-Claude Guilbert, Maria Cardinal, Paul Hebert, Jean Vimenet, Marie Susini, Marine Trichet, Suzanne Huguenin, Raymonde Chabrun.

Arsène, un cacciatore di frodo, è sorpreso da Mathieu, il guardiacaccia, ma riesce a fuggire. Passa Mouchette, una ragazza circondata da una misera realtà familiare: il padre e il fratello sono contrabbandieri di alcolici, la madre è costretta a letto da una penosa malattia e il fratellino dipende in tutto da lei. Anche a scuola vive tra le umiliazioni e l’isolamento. Nei pochi momenti liberi lavora in un bar, per pagare quello che il padre beve. Arsène e Mathieu sono entrambi innamorati della padrona del bar: questa però ama solo Arsène. Un giorno, tornando da scuola, Mouchette assiste a una colluttazione tra i due, nel bosco. Più tardi Arsène la trova bagnata e infreddolita. La conduce nella sua capanna e le va a prendere le scarpe che ha perso nel fango. Si sentono due spari nella notte. Arsène le racconta cose strane e le offre da bere: sta cercando un alibi, poiché pensa di aver ucciso accidentalmente Mathieu. Quando è colto da una crisi epilettica Mouchette lo aiuta con amore. Rinvenuto, Arsène violenta la giovane. Tornata a casa Mouchette trova la madre in punto di morte. L’indomani la gente dei paese commenta malignamente la sua apparente indifferenza: Mouchette si ribella alla loro curiosità. Mathieu, che non è morto, la interroga sull’alibi di Arsène, che intanto è stato catturato dalla polizia. La ragazza al rifiuto di rispondere alterna dati sconnessi e falsi, concludendo con l’affermare che Arsène è il suo amante. Tornando verso casa passa per il bosco, si sdraia sulla riva di un fiume e, come per gioco, vi si butta, scomparendo.

Mouchette di Robert Bresson è fra le opere più schiette, semplici e terribili, di gran lunga più raggiunta del precedente Au hasard Balthazar, che negli ultimi tempi si siano viste sullo schermo. Costruita con tale densità, nel breve spazio di un’ora e venti minuti, da racchiudere il senso di tutto l’itinerario di Bresson verso un cinema non tanto di edificazione religiosa quanto di spiritualità inquieta e bruciante - secondo l’esempio di quel cattolicesimo francese che ha raggiunto in Bernanos una delle massime vette dell’arte. Mouchette, come sapete, deriva appunto da Bernanos. Poco più di trent’anni fa, con la Nouvelle histoire de Mouchette, Bernanos prese partito contro la violenza esercitata sugli umili. E’ noto che egli la scrisse nei mesi in cui in Spagna cominciava a infuriare la guerra civile. Anche se l’epistolario ha smentito che Bernanos sia stato direttamente ispirato dalla vista d’un camion di spagnoli condotti alla morte, l’aver assistito, in quei tempi, a episodi terribili ebbe un valore determinante nello sviluppo del racconto. «Sono stato colpito - diceva - dall’impossibilità che ha la povera gente di capire il gioco spaventoso in cui la sua vita è implicata; dall’orribile ingiustizia dei potenti, che per condannare questi disgraziati parlano loro una lingua che per loro rimane straniera. E non saprei dire quale ammirazione mi hanno ispirato il coraggio e la dignità con cui ho visto questi disgraziati morire. Naturalmente - aggiungeva Bernanos - non ho preso la decisione di tirar fuori da tutto questo un romanzo. Non mi son detto: voglio trasferire ciò che ho visto nella storia di una ragazzina braccata dalla disgrazia e dall’ingiustizia. Ma è vero che, se non avessi visto queste cose, non avrei scritto la Nouvelle histoire de Mouchette» Ed è vero, potremmo aggiungere, che se Bresson, guardandosi oggi d’attorno, non avesse visto perpetuarsi la bestialità e la violenza non avrebbe tratto un film dalla Mouchette di Bernanos per cantare la potenza distruttrice e insieme redentrice della sventura. Perché Mouchette è molto di più d’una pittura dei costumi di provincia, d’una protesta sociale contro quanti non s’adoprano per eliminare la povertà (e nella sostanza è ben altro che un patetico racconto naturalista): è un’analisi agghiacciante di come il male si esprime nella solitudine umana, devasta l’innocenza, e tuttavia, nell’attimo in cui spinge al suicidio la sua vittima, se la vede sfuggire di mano, perché essa diviene l’agnello di Dio. Mouchette, umile moscerino, strumento misterioso della grazia, è povera, con un solo vestituccio per la festa, maltrattata dal padre, chiusa in una sofferenza che l’età ingrata (ha quattordici anni) acuisce. Va a scuola, non le sono amiche né la maestra né le compagne. Il suo maligno universo è un paese di gente meschina e alcolizzata, e una misera stanza in penombra, dove ai lamenti della madre morente rispondono gli strilli d’un fratellino in fasce. Mouchette resiste come può: ostinandosi nel silenzio quando a scuola c’è lezione di canto, insozzando di fango le compagne all’uscita. Ogni sua piccola gioia è umiliata: il padre si fa consegnare i pochi soldi che essa guadagna in un bar, la schiaffeggia quando in un giorno di festa è andata in un luna park, e ha innocentemente sorriso a un ragazzo. Così cresce, in Mouchette, l’odio verso il mondo: soltanto la presenza della madre e la coscienza d’essere indispensabile al bambino per ora la sorreggono. Un giorno, tornando da scuola, il temporale la sorprende nel bosco. Si perde, viene la notte; Arsenio, un bracconiere che ha avuto col guardacaccia Mathieu un alterco finito nel nulla, la porta nella propria capanna. È ubriaco, s’accusa di aver ucciso Mathieu, chiede a Mouchette di sostenere l’alibi che egli intende presentare alla polizia. La giovane gli crede e lo soccorre quando egli è vittima d’una crisi epilettica: per lui, dolcemente, riuscirà persino a cantare. Ma l’uomo, esaltato dall’alcool, non capisce che essa, pur di spezzare la sua solitudine, ha accettato di essergli complice: l’aggira, l’afferra come un volatile spaurito, la violenta. Mouchette non si ribella. Tornata a casa, in lacrime, dando il latte al fratellino scopre un gesto materno. Vorrebbe confidarsi con la madre, ma le muore sotto gli occhi. Privata dell’ultima speranza, mortificata dalle donne del paese, Mouchette verrà infine a sapere che il guardacaccia è vivo, e che l’alterco fu provocato soltanto dalla rivalità per assicurarsi i favori della barista. Ora Mouchette è abbandonata da tutti. Basterà che una vecchia le dica che legge il male nei suoi occhi, basterà che assista, nel bosco, alla fine straziante d’una lepre colpita dai cacciatori perché anch’essa si senta una bestia braccata. C’è vicino uno stagno: rotolando dal prato come in un gioco infantile, Mouchette va incontro alla morte. Non la vediamo cadere nell’acqua: sentiamo il tonfo leggero, e il Magnificat di Monteverdi sigilla il suicidio. «Dio abbia misericordia di lei», invocava Bernanos. Bresson va oltre: la esalta come una martire. È improbabile che questo riassunto riesca a far indovinare la suprema poesia di un racconto tanto ricco nell’evocazione dei luoghi (l’azione è trasportata, modernizzando l’ambiente, dall’Artois alla Provenza), dei personaggi, dell’ambiguità di certe situazioni in cui si esprime, vero nodo lirico dell’opera, la vergogna e l’orgoglio di Mouchette. Ma quando vedrete il film capirete, se la grazia vi aiuta, che il miracolo di Bresson, oggi compiuto senza riserve, consiste nell’impiegare il cinema non più come spettacolo, ma come un vero e proprio linguaggio, autonomo da Bernanos, per dirci l’idea delle cose con l’evidenza dell’immagine e del suono. Finalmente la letteratura è dimenticata. Rispetto a Balthazar, col quale Mouchette è evidentemente imparentata nel tema dell’innocenza offesa dal mondo, Bresson ha fatto un gran passo avanti. Uno stile grave e ieratico che spesso rendeva quell’opera tediosa qui si è caricato d’una tale vibrazione visiva, riassunta nell’incrociarsi degli sguardi nell’essenzialità della concezione scenica, da potersi somigliare a un telaio di corde ottiche tese allo spasimo. Gli attori (come al solito non professionisti: Mouchette ha il volto infelice di Nadine Nortier) riducono al minimo la drammatizzazione. Bresson ha ragione di dire che li ha usati come modelli, al modo d’un pittore. I loro caratteri e le modulazioni psicologiche risultano, più che dallo scarno dialogo o dal gioco mimico, da come il regista li fissa, li muove, ne estrae la dinamica interiore, continuamente reinventando con l‘immagine l’emozione della parola. Mouchette è un film del quale non ci si stancherebbe mai di parlare. Agli spettatori futuri ricordiamo soltanto alcune scene: la luce che per un attimo brilla in Mouchette quando va sulle automobiline, simbolo di violenza e di gioia; la paura di lei, e poi le sue mani che annodano il bracconiere nel nomento dello stupro; quando stringe il fratellino fra le lacrime, e il gioco liberatore in cui essa si uccide. Momenti che bastano a compensare i piccoli difetti del film e a collocare Mouchette fra i capolavori del cinema contemporaneo”.

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, 12 maggio 1967)

“In Bernanos mi interessa la mancanza di psicologismo letterario”, ha detto Bresson in un’intervista già citata, e in altra occasione ha precisato che in lui “c’è pittura”. Anche se il giudizio risente di un’ottica soggettiva (leggere la Mouchette di Bernanos cogliendo la mancanza di psicologismo letterario è già interpretarla bressonianamente), la dichiarazione del regista ci interessa più che altro per chiarire il processo intenzionale. Il film è stato girato a nemmeno un anno di distanza da Balthazar (cosa rara in Bresson), quasi a mettere in luce che si tratta dei due film più “vicini”, pur nella generale omogeneità dell’opera; in effetti i richiami sono abbastanza evidenti, anche senza cercare forzate analogie: il clima di fondo, alcuni personaggi (Mouchette ricorda Maria, Arsenio Arnold, interpretato dallo stesso attore), la stessa struttura narrativa. L’andamento è ancora quello della “parabola”, la spinta viene dalla tensione di Mouchette (anche se vaga, ma non meno percepibile), dalla situazione di attesa. La scansione dei momenti ha un ritmo classico, con tipiche elisioni e abbassamenti di tono, anche la musica non sottolinea, affidata solo al brano di Monteverdi nel finale (già sentito all’inizio del film). Lo schema drammatico tende a rarefarsi (a diventare “elementare”), cercando la modulazione continua di poche note; e ciò proprio per dare il tragico dell’abitudine, la dimensione quotidiana, essendo la protagonista una “piccola eroina della quotidianità” (Bresson). Le linee di sviluppo mi pare si possano rintracciare su tre piani. Il primo, più propriamente narrativo, riguarda l’articolazione in blocchi, che determinano l’itinerario (il paese, il bosco, la casa, ancora il paese, gli incontri); più precisamente si può parlare di divisione in “capitoli”. Il primo dei quali riguarda la collocazione del film: gli altri, il contrasto. Da notare che nel libro manca la prima parte, descrittiva del paese, alcuni luoghi (il caffè) sono rivisti, cioè ricordati, narrati per cenni da Mouchette o Arsenio, altri (il Lunapark) non compaiono. Bresson inserisce prima questa indagine, la amplia, sia per dare le note dell’ambiente sia per definire i personaggi; Mouchette viene perciò dopo la situazione di contrasto. Anche in questo caso è da notate che l’ostilità tra Mathieu e Arsenio è posta all’inizio del film (la caccia di frodo), ed è fatta vedere, quindi messa più in risalto. Il secondo capitolo riguarda la notte, la violenza e il sogno. Il terzo il fatto emergente, la morte della madre. Dal quale parte la lenta progressione del quarto, la riduzione dell’immaginazione e la forza deterministica della morte. Quello che il desiderio di altro era riuscito a deformare e colorare si smonta, il “ciclone” è stato un semplice temporale; il significato della notte (la forza della “povera” fantasia) è però reso, da Bresson solo allusivamente, mentre Bernanos è assai più esplicito, parlando di “disinganno d’amore”. Dopo la morte lo sviluppo temporale si concentra, il tempo reale prende tutto il suo peso, la spinta deterministica («non meno implacabile di quella che regola la caduta di un corpo», direbbe Bernanos) si traduce in azione. L’incontro successivo delle tre donne è l’impatto col reale, la repulsa del pietismo e dell’inquisizione. E c’è anche una sorta di forza di accelerazione, data dalla visitatrice dei defunti, dalla sua familiarità pesante e ambigua con la morte. Quasi una premonizione, verso il fatto finale, l’ultimo capitolo. Il secondo piano di cui si parlava è quello della tendenziale “oggettività” del film: il di più di scrittura che c’è in Bernanos lascia il posto a una maggiore freddezza, in un certo senso una riduzione a fatto. Nello scrittore Mouchette vive la tragedia anche come scontro con l’immaginazione (la costante bernanosiana del sogno), nel regista questo è attutito, si scioglie maggiormente nell’evento. Bresson ha tolto gli interventi “riflessivi” (che mantenne invece nel Diario) per un andamento diverso, da cui scompaiono anche le digressioni interne. Il terzo piano è dato dal comportamento: quello che in Bernanos è movimento interno di Mouchette diventa comportamento, magari apparentemente “non significativo”. I tre piani, ma soprattutto gli ultimi due, chiariscono il privilegio dato ad alcuni elementi oggettivi, come le tonalità non drammatiche dei visi, le non sottolineature, gli sguardi (un solo esempio: la sequenza tutta muta dell’abbraccio della madre e dell’uscita di casa); e naturalmente i gesti: a questo proposito va notato come le mani sono gli unici particolari emergenti nei momenti-chiave, e inoltre sono proprio i gesti a denotare l’ambivalenza di Mouchette, la sua aggressività ma anche la sua femminilità (il latte, il fratellino, le lacrime non motivate). Anche Bernanos, singolarmente, richiama le mani: «Ognora intimidita dallo sguardo... aveva scoperto la prodigiosa facoltà d’espressione delle mani umane, mille volte più rivelatrici degli occhi perché non sono altrettanto abili a mentire, si lasciano sorprendere a ogni minuto, occupate come sono in mille faccende materiali, mentre lo sguardo, instancabile vedetta, veglia alle mura delle palpebre...» Per taluni «Mouchette è certamente il film di Bresson che dà al gesto il ruolo più importante». Perciò anche lo sfondo dei comportamenti acquista particolare rilievo, come gli interni (la casa di M., il bar, la casa della visitatrice dei morti), gli oggetti. La dialettica è tra questa spogliazione e la contemporanea ricerca di una precisa collocazione, quella campagna, quel paese (il film è stato girato in una località della Vauclause); il paesaggio diventa un microcosmo circoscritto, quel luogo di “chiusura” che altre volte era esplicito. Proprio per rendere questa situazione emblematica Bresson ha bisogno di partire dal dato, alla cui definizione contribuiscono vari elementi, come l’illuminazione, che va dagli sfondi cupi della capanna e del bosco ai grigi quotidiani alle diverse tonalità del paese prima e dopo la notte. Parte preminente hanno al solito suoni e rumori; si potrebbe davvero, a questo proposito, fare una sorta di inventario bressoniano: i passi di Mouchette che entra in classe (la sua “diversità”), il brusio dei ragazzi, l’ostilità dell’esterno (i rumori dei camion che passano fuori dalla casa), i rumori che denotano un ambiente (la scuola, il caffè, la chiesa, il bosco) o una situazione (la festa, con la musica che precede l’inquadratura del luogo), o sottolineano la spinta simbolica (gli animali). Dar corpo alle cose è una delle vie, già notate, attraverso le quali l’autore, con apparente paradosso, tende alla rarefazione del racconto. Ne risulta (almeno nelle intenzioni) un rafforzamento dell’articolazione tematica, tramata di un pessimismo che rifiuta le consolazioni. Già la prima sequenza dà il peso della situazione, la madre in lacrime di Mouchette (come nel Processo, sottolinea Sémolué, prima dei titoli di testa): «Che ne sarà di loro senza di me? Questo mi colpisce fin dentro nel petto...». Poi la sequenza del bosco sottolinea l’ostilità e la crudeltà, gli animali: con una accentuazione simbolica anche eccessiva ritornano simmetricamente nel finale, a rinchiudere nel cerchio (il richiamo ai film precedenti è a questo punto naturale); d’altronde per la protagonista lo stesso Bernanos usa espressioni in cui ricorrono similitudini con animali («Ora che non lotta più, Mouchette ritrova quella rassegnazione istintiva, incosciente che assomiglia a quella degli animali»). Come un’altra faccia di Balthazar, Mouchette è l’asse drammatico che coordina i vari episodi, attraverso i quali si disegna la preordinazione, l’ineluttabilità del male; Bresson, si sa, è di diverso avviso, e dichiara che il suicidio non è una fine, ma «deriva da un’attrattiva per il Cielo», ma credo si possa dire sia una sovrapposizione di intenzioni, per ricondurre l’opera a una religiosità personale che, in questo caso, è rimasta seconda – nel concreto dell’opera rispetto al pessimismo di base. Dietro al libro c’è (pure) un risvolto “politico”; scritto negli anni della guerra di Spagna voleva esprimere anche, a detta dello scrittore, l’«orribile ingiustizia dei potenti»; questo intento manca in Bresson, sia pure nel suo aspetto generale, essendo come sempre attento alla dimensione individuale; né, francamente, vedrei qualcosa di più o di diverso, come fa Cavallaro, il quale sottolinea «il peso rivoluzionario dell’immagine che Bresson, negli ultimi film, dà del mondo attraverso la provincia sordida della Francia gollista». Perché anche l’attenzione che il regista porta all’altro tema bernanosiano di tipo “sociale” («una miseria invalicabile quanto le mura di una prigione»), sembra in realtà essere motivata per il riflesso che porta alla dimensione individuale, e più ancora a una sua considerazione di ordine metafisico. Bresson è sì attento all’ «impronta maledetta della miseria», ma essa appare più lo sfondo concreto della parabola che una collocazione storicamente - e quindi socialmente - determinata. L’interesse, per intendersi, è più per temi di carattere ontologico, cui risalire dal riversamento esistenziale.”

(Giorgio Tinazzi, Il cinema di Robert Bresson, Marsilio, 1976)

“Alla lunga gestazione del Balthazar subentra la gestazione brevissima di Mouchette, girato col contributo della televisione - primo esempio di coproduzione televisiva in Francia - pochi mesi dopo Balthazar, con una rapidità inconsueta per Bresson. E tutto lascia pensare a una scelta un po' improvvisata, per colmare in fretta il vuoto lasciato dall'ennesimo tentativo abortito di riprendere il vecchio progetto del Lancillotto. La Nouvelle histoire de Mouchette di Bernanos risale al 1937, l'anno successivo al Diario di un curato di campagna: con la “nuova storia” lo scrittore intende approfondire un personaggio già tratteggiato nella sua opera prima, Sotto il sole di Satana (1925), dandogli un maggiore spessore psicologico e assegnandogli un destino di morte che là era solo vagamente prefigurato”.

(Sergio Arecco, Robert Bresson. L'anima e la forma, Le Mani, Genova 1998)

 

Una poesia al giorno

For no goos reason, di Peter Redgrove (traduzione di Antonio Spagnuolo in “Poesie dei giorni dispari (2000-2003)”)

I walk on the waste-ground for no good reason
Except that fallen stones and cracks
Bulging with weed suit my mood
Which is gloomy, irascible, selfish, among the split timbers
Of somebody’s home, and the bleached rags of wallpaper.
My trouser-legs pied with water-drops,
I knock a sparkling rain from hemlock-polls,
I crash a puddle up my shin,
Brush a nettle across my hand,
And swear- then sweat from what I said:
Indeed, the sun withdraws as if I stung.
Indeed, she withdrew as if I stung,
And I walk up down among these canted beams, bricks and scraps,
Bitten walls and weed-stuffed gaps
Looking as it would feel now, if I walked back,
Across the carpets of my home, my own home.

Senza alcuna valida ragione attraverso macerie,
forse solo perché sia le pietre che le crepe, ormai
piene di erbaccia, si accostano al mio cattivo umore,
cupo, irascibile, attaccaticcio , fra travature
spezzettate della casa di uno sconosciuto
con i pezzi di parati amaramente stinti.
Le cosce sono picchiettate da gocce d’acqua,
colpisco una pioggia variopinta di strisce di cicuta,
mi imbratto con l’acqua di una pozzanghera,
un’ortica mi sfrega le mani,
e bestemmio, e sudo per tutto quanto ho detto:
forse anche il sole si ritira quasi io pungessi.

In verità fu lei ha sparire come se io pungessi,
e vado su e giù fra travate sbilenche, tra mattoni e frantumi,
mura diroccate ed intonaci stipati d’erbacce...
Cosa sarebbe ora, se io ritornassi
attraversare i tappeti di casa mia,
della mia povera casa?

  • Per conoscere di più William Redgrove (2 gennaio 1932 - 16 giugno 2003), poeta britannico, un radiodramma di Brian Miller: The Valley of Trelamia (1986), BBC Radio, di Peter Redgrove.

 

Un fatto al giorno

2 gennaio 1920: il secondo “Palmer Raid” si effettua su altri 6.000 sospetti comunisti e anarchici, arrestati e detenuti senza processo. Questi raid si svolgono in diverse città degli Stati Uniti.
“Red scare (ingl. «paura rossa»): nome dato a due campagne contro il radicalismo di sinistra negli Stati Uniti. La prima, accentuatasi tra il 1919 e il 1920, rappresentò lo sviluppo delle iniziative per soffocare il dissenso neutralista e pacifista durante la Prima guerra mondiale. Promossa dal procuratore A. Mitchell Palmer, prese di mira immigrati anarchici, socialisti e comunisti con l’intento di prevenire una replica della rivoluzione bolscevica negli Stati Uniti. Comportò l’arresto di circa 9000 presunti sovversivi e la deportazione di oltre 500, trovando un’ultima eco nella condanna a morte e nell’esecuzione di Sacco e Vanzetti...”

(Treccani.it)

Immagini:

 

Una frase al giorno

“Ah, quante ne abbiamo viste di genti varie, gli uni diversi dagli altri, e quale campo di studio interessante il mondo, quando si è prossimi a lasciarlo!”

(Teresa di Lisieux, detta anche Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo, al secolo Thérèse Françoise Marie Martin. Nata ad Alençon, 2 gennaio 1873. Morta a Lisieux, 30 settembre 1897, monaca, mistica, Dottore della Chiesa cattolica e santa francese. Buon compleanno dolce fanciulla!)

  • Un grande film su lei:Therese”, di Alain Cavalier, del 1986

 

Un brano musicale al giorno

Mily Balakirev, Tamara, poema sinfonico (1867-82). Orchestra: The State Academic Symphony Orchestra Direttore: Evgeny Svetlanov (Mosca, 6 settembre 1928 - Mosca, 3 maggio 2002)

Milij Alekseevič Balakirev (Nižnij Novgorod, 2 gennaio 1837 – San Pietroburgo, 29 maggio 1910) è stato un compositore, pianista e direttore d'orchestra russo, fondatore del Gruppo dei Cinque, che ebbe grande rilevanza nella storia della musica russa.

«Mentre in Glinka l'esigenza di una strada musicale russa si presentava in modo embrionale, in Balakirev era chiara la necessità di un rinnovamento che si allontanasse dalle influenze italiane e francesi allora dominanti e fissasse canoni che caratterizzassero la musica russa. Balakirev fu in contatto con i circoli progressisti della Russia zarista e fu considerato un rivoluzionario nell'ambiente della vita musicale russa che gli fu ostile in quanto lo vedeva come destabilizzatore dello status quo. Questa intuizione lo portò a costituire il famoso Gruppo dei Cinque il quale, seppur di vita effimera, pose le basi per la nascita di una delle più importanti scuole musicali nazionali dell'Ottocento».

(Wikipedia)

P.S.: Per un buon anno la mia amica Elena ha voluto consigliare agli amici un cortometraggio di Ermanno Olmi: «Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere» (1954, Italia; Sezione Cinema della Edisonvolta, B/n, 10’. Con: Paolo Pampurini, venditore, e Enzo Tarascio, passeggiere).

SINOSSI: Il soggetto tratto dalle "Operette morali" di Giacomo Leopardi, racconta di un breve scambio di battute tra un venditore di almanacchi ed un passeggiere, suo potenziale cliente. Il dialogo verte intorno l’anno che verrà, che sarà sicuramente meglio di quello in cui stanno vivendo. Il venditore afferma, rispondendo alle domande del passeggiere, che, pur vendendo almanacchi da vent’anni, potendo sperare che l’anno che verrà sia uguale ad uno degli ultimi venti non ne sceglierebbe nessuno e potendo tornare indietro, preferirebbe non fare la vita che ha fatto, ma sceglierne un’altra. Così pensa anche il viaggiatore, affermando che così pensano tutti: il caso ha trattato male tutti fino a quel momento. Poi compra l’almanacco più caro e il venditore continua il suo giro.
Nel corso di un’intervista il regista Ermanno Olmi racconta così le motivazioni che lo hanno portato alla scelta del testo leopardiano. “La caratteristica tecnica più evidente di tutti i miei documentari - e non solo dei miei, perché all’epoca lavoravamo tutti così - è la post-sincronizzazione del sonoro. A un certo punto, comincio a vagheggiare l’idea di fare un film in presa diretta, cioè un racconto dove le persone parlano e tu registri quello che dicono. E dunque ho bisogno di una macchina sonora e non della Arri che era rumorosa. Così chiedo alla direzione generale di acquistare una nuova macchina da presa. Era un investimento importante, che corrisponderebbe oggi a 150-200 milioni di lire. Ma all’epoca producevamo documentari che, a volte, godevano dei premi governativi, venivano abbinati ai film in sala e potevano dunque avere una notevole diffusione. L’acquisto venne autorizzato direttamente dal direttore generale. Arriva la nuova Eclair 300, una bellissima macchina da presa, con cui poi faccio Il tempo si è fermato. Così, per collaudare la macchina - e collaudare anche noi stessi - decido di girare un piccolo dialogo. Scelgo Leopardi perché l’autorevolezza dell’autore giustificava il provino di una macchina così importante. Poi mi interessava l’intreccio di varie nozioni di tempo: quello del calendario, il tempo del pensiero, delle aspirazioni del futuro.”

Naturalmente lo consiglio anch’io. Buon proseguimento. Ugo

 


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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