“L’amico del popolo”, 21 aprile 2017

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

LA GRAINE ET LE MULET (Cous Cous, Francia, 2006), scritto e diretto da Abdellatif Kechiche. Fotografia: Lubomir Bakchev. Montaggio: Ghalia Lacroix. Con: Habib Boufares, Marzouk Bouraouïa, Faridah Benkhetache, Sabrina Ouazani, Alice Houri, Olivier Loustau, Bruno Lochet, Carole Franck. 64esima Mostra del Cinema di Venezia 2006 Gran Premio della Giuria.

Sète, cittadina vicino Marsiglia. Beiji, 60 anni, lavoratore portuale, si trascina stancamente sul cantiere navale del porto per un lavoro che, con l’età, è diventato insostenibile. Padre di famiglia, divorziato, continua a restare vicino alla sua ex moglie e ai figli, nonostante una storia familiare fatta di rotture e tensioni che le difficoltà finanziarie non fanno che acuire. Beiji attraversa un periodo delicato della vita e tutto contribuisce a far crescere in lui un sentimento di inutilità. Una sensazione di fallimento che lo accompagna da un po’ di tempo, e che ad un certo punto vorrebbe scrollarsi di dosso realizzando un sogno: metter su un ristorante di sua proprietà. Certo, l’impresa è alquanto improbabile visto che il suo stipendio, insufficiente e irregolare, non basta a offrirgli i mezzi per realizzarlo. Questo, tuttavia, non gli impedisce di sognare e di parlarne, soprattutto in famiglia. Una famiglia che pian piano si unisce intorno al progetto, diventato per tutti il simbolo della ricerca di una vita migliore. Grazie al loro senso di organizzazione e ai loro sforzi il sogno si avvia verso la realizzazione. O quasi... “La graine et le mulet”, il film del franco-tunisino Abdellatif Kechiche, colpisce al cuore. La "ricetta" del cinema di Kechiche è sapiente e saporita. Con il suo piglio documentaristico, sostenuto dalla macchina da presa incollata ai corpi, ai movimenti e alle espressioni dei protagonisti e dalla nutrita partecipazione di un gruppo di comprimari non professionisti, Kechiche inscena un racconto corale, tra commedia e neo-realismo, toccando temi come il razzismo nascosto dei francesi le contraddizioni e le invidie dentro la comunità tunisina, le relazioni uomodonna e quelle generazionali. Un respiro ampio e profondo, fatto di un rigoroso lavoro con gli attori. Il suo metodo risente della sua provenienza teatrale e dunque punta molto al lavoro sul set, mettendo in campo una veridicità di dialoghi e una giustezza di volti e di gesti davvero ammirevole e impressionante. Un racconto così semplice superficialmente ma così denso di significati simbolici in un film fino all'ultimo respiro che ci consegna momenti di autentico grande cinema.

(Cooming Soon)

Note di Abdellatif Kechiche
“L'intento era quello di raccontare un ambiente, in questo caso una famiglia maghrebina emigrata in Francia. Ed erano due le dimensioni che ero interessato a esplorare. L'ambiente familiare intorno al quale creare cose ordinarie e quotidiane con un piglio romanzesco. Conferire a questa famiglia naturalezza, senza cadere nei cli evitando spettacolarizzazioni e allo stesso tempo creare una dimensione contemplativa in cui i personaggi vivono, piangono, si disperano, in poche parole volevo cogliere l'istante vitale di un gruppo di persone. La vita stessa. Non volevo raccontare di Slimane in quanto operaio o immigrato, ma come essere umano con le sue difficoltà, i suoi silenzi, i suoi problemi sessuali, i suoi fantasmi. Non so dire se questo sia un film sugli emarginati. Non amo le categorizzazioni, io mescolo molte varianti. Una volta che comincio a girare so già cosa devo fare alla perfezione, proprio grazie al gran numero di prove svolte precedentemente. Qui la mia formazione teatrale emerge perentoriamente. Poi con la cinepresa mi prefiggo il compito di cogliere l’essenza di ciò che filmo, e la magia della storia e dei personaggi che racconto”.

“Ora che gli europei devono ingoiare la loro progressiva islamizzazione, arriva nelle nostre sale Cous cous, amara commedia del nizzardo, d’origine maghrebina, Abdellatif Kechiche, che per due ore e mezza mescola semola, cefali e verdure, raggrumandoli in un pentolone di malinconia, chiacchiere e sughi. Tutto qui? Naturalmente no, perché quando tutto sobbolle, un’indiavolata danza del ventre finale, che nulla invidia alla taranta calabra, tra possessione e tamburello, leva il coperchio a una lentezza narrativa d’altri tempi.
Preceduto dalla consacrazione veneziana di quest’anno (pubblico e critica) e accompagnato dall’entusiasmo della platea francese, che premia questo film dal sapore anni Settanta, Cous cous si ambienta a Marsiglia, ai giorni nostri. E prende le mosse dall’umana avventura del sessantunenne Slimane (l’emaciato Habib Boufares, tunisino ingaggiato direttamente dai pescherecci), che pur senza lavoro, divorziato e con vari figli a carico, decide d’essere il bastone della gioventù messa al mondo con Souad (Bouraouia Marzouk), un donnone di mezz’età molto abile ai fornelli. «L’amore? È fatto di cose di tutti i giorni: come il cous cous!», insegna l’islamica, mentre in una cucina, quasi un interno napoletano, serve il suo capolavoro a base di semola e pesce. Intorno al tavolo, le dita bisunte (i commensali se le leccano) e le bocche ciancicanti peperoncini e zucche vengono riprese in tempo reale, per dare il sapore del cinema-verità alla scena.
Intanto, lo spettatore riceve una lezioncina di lingua araba: tra Slimane e Souad c’è echrra, ossia amicizia e abitudine. Ce la farà il pied noir, in là con gli anni, deciso a lasciare un’eredità ai suoi figli, a farsi finanziare il progetto di ristorantino a bordo d’una vecchia barca? Se l’ex-moglie collabora, cucinando, la nuova compagna dell’anziano intraprendente se ne sta per i fatti suoi, mentre sua figlia Rym (Hafsia Herzi) aiuta il patrigno, né esiterà a lanciarsi in una scatenata belly dance, per intrattenere gli ospiti sul barcone, perché il mitico cous cous non arriva mai... «Avevo un flagrante desiderio di cinema, lo stesso che ha animato il vostro neorealismo. Ma, soprattutto, volevo rendere omaggio a mio padre e al padre di mio padre, che ammiro per come hanno saputo farsi largo nella vita», spiega Kechiche, che dopo Tutta colpa di Voltaire e La schivata, film cari agli amanti del cinema etnico, ha assunto l’aria dell’intellettuale a sud del sud del mondo”.

(Ilgiornale.it)

“Beiji, 60 anni, lavora alla riparazione delle imbarcazioni nel porto di Sète, vicino a Marsiglia. Poco disposto alla flessibilità che la nuova organizzazione impone, viene licenziato. Beiji è divorziato e ha una nuova compagna ma non ha perso i contatti con la famiglia. Ora l'uomo vuole realizzare un sogno: ristrutturare una vecchia imbarcazione e trasformarla in un ristorante in cui proporre come piatto forte il cuscus al pesce. Nonostante le difficoltà economiche Beiji trova l'aiuto di tutti i familiari e l'impresa pare destinata al successo.
Abdel Kechiche, dopo quel film particolarmente interessante e 'nuovo' che è stato La schivata, torna a parlare del mondo che conosce meglio e cioè di quello degli arabo-francesi integrati da decenni nella società dell'area marsigliese ma comunque, in qualche misura, visti sempre come 'diversi'. Non c'è però alcun pietismo buonista nel suo cinema. C'è piuttosto, in particolare in questo film, la voglia di raccontare le dinamiche familiari in un ambito in cui gli uomini pongono problemi ma non li risolvono. Sono le donne, pur con le loro invidie reciproche e le frustrazioni più o meno espresse, a prendere in mano le situazioni anche nei momenti di maggiore crisi cercando una via d'uscita, talvolta traumatica e talaltra propositiva.
Kechiche si muove in un contesto sociale che è già stato ampiamente analizzato da Robert Guediguian (il porto in area marsigliese) ma lo fa con una grande leggerezza che non permette di avvertire la lunghezza del film offrendo un racconto corale che parla di uomini e donne, della loro fatica di vivere ma anche del desiderio di riscatto e dell'imprenditorialità familiare che lega le persone con i sentimenti e con un obiettivo da raggiungere insieme nonostante i contrasti personali. Nello sguardo di Beniji si può leggere un'intera vita fatta di lavoro, un passato che però non conta più nulla dinanzi ai nuovi ritmi produttivi e alle esigenze del 'mercato'. Ma Beniji non vuole, come gli suggerisce il suo capo, 'avere più tempo per i nipotini' (che pure adora). Vuole sentirsi un uomo che ha ancora da dare qualcosa alla società. Il cous cous potrebbe essere la soluzione. Potrebbe.”

(Giancarlo Zappoli)

“Il franco-tunisimo Kechiche, che si era creato un piccolo seguito di ammiratori con il precedente, La schivata, racconta nel suo nuovo film una saga familiare capace di rievocare la forza espressiva del nostro neorealismo; con cui condivide il rigore di una messa in scena essenziale, dove movimenti di macchina e scelta delle inquadrature esaltano volti e gesti dei personaggi, facce segnate e vere, lontane da ogni pittoresco gusto di una rappresentazione di maniera. Senza ricorrere a facili patetismi, ma seguendo le mosse dell'anziano e tenace Slimane (immigrato nordafricano che dopo anni di lavoro nei cantieri di una cittadina portuale vicino a Marsiglia viene licenziato) il regista ci fa entrare nella povera vita quotidiana di questi francesi d'adozione ancora ben lontani da una piena integrazione (ne è prova la diffidenza delle istituzioni nei confronti dell'iniziativa di Slimane, che cerca di reinventarsi ristoratore)”.

(Luisa Cotta, Ramusine)

“Se certe scene vi sembran lunghe, sappiate che nel primo montaggio erano ancora più lunghe. Venti minuti sono stati tagliati, prima di presentare il film a Venezia, dove la giuria ha indecentemente preferito a Bechiche "Lussuria" di Ang Lee. Mai nella vita abbiamo avuto voglia di vedere un director's cut con le scene eliminate. Fa eccezione finora soltanto Orson Welles. "Cous cous" merita una seconda eccezione, per sapere fino a dove riesce a spingersi un regista geniale, capace di mettere in scena un pranzo che dura venti minuti (e cinquanta pagine di copione: tutto è scritto, tutti parlano contemporaneamente attorno al tavolo, alzando i toni per farsi sentire, due macchine da presa non si perdono neanche una lisca di pesce tra i denti) o una chiacchiera sullo scandaloso prezzo raggiunto sui pannolini, con vasino in primo piano e moccioso a culetto nudo.”

(Mariarosa Mancuso)

 

Una poesia al giorno

Roma, di Eduardo de Filippo

L'orario
e 'a strada
pè truvà pace
e cammenà cuieto,
pè fa capì a te stesso
cumm'è 'o penziero
ca tu tiene ncapa,
si sàpe 'e sale
si ha pigliato 'e fummo
si vale 'a pena
invece
d''o penzà,
a Roma chesta strada ce sta sempe.
'A truove sempe 'a strada
'a piazza
'o vico:
se trova all'alba
'e juorno
'e notte, sempe.
Attuorno siente 'a musica d''e vvoce,
pè ll'aria
'a luce e ll'ombra d''e pparole:
parole grosse e chelli piccirelle.
Truove 'e mountagne
'o verde d''a campagna
'e ccase d'oro
ca se fanno rosse

'e ramma,
cumm'attone
e doppo 'argiento...
Te truove overamente ncopp' 'o munno
cuieto e sulo
e stienne 'o passo nzieme c' 'o nzieme c' 'o penziero.

 

Un fatto al giorno

21 aprile 753 a.C. è il Natale di Roma: secondo la leggenda, in questo giorno Romolo fonda la città di Roma. Il Natale di Roma, anticamente detto Dies Romana e conosciuto anche con il nome di Romaia, è una festività laica legata alla fondazione della città di Roma, festeggiata il 21 aprile. Secondo la leggenda, narrata anche da Varrone, Romolo avrebbe infatti fondato la città di Roma il 21 aprile del 753 a.C. La fissazione al 21 aprile, riportata da Varrone, si deve ai calcoli astrologici del suo amico Lucio Taruzio. Da questa data in poi derivava la cronologia romana, definita infatti con la locuzione latina Ab Urbe condita, ovvero "dalla fondazione della Città", che contava gli anni a partire da tale presunta fondazione. Il 21 aprile 2017 Roma compie 2770 anni.

 

Una frase al giorno

"Festina lente" (Affrettati adagio)

(Gaio Giulio Cesare Ottaviano, detto l'Augusto, primo imperatore romano, 63-14 a.C.)

 

Un brano musicale al giorno

La Clemenza di Tito. Act I Final. Quintet and Chorus di Wolfgang Amedeus Mozart.

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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