L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...
Un film al giorno
ADIEU, PLANCHER DES VACHES! (Addio terraferma, 1999), scritto e diretto da Otar Iosseliani. Fotografia: William Lubtchansky. Montaggio: Otar Iosseliani e Ewa Lenkiewicz. Musiche: Nicholas Zourabichvili. Con: Amiran Amiranachvili (barbone), Philippe Bas (ragazzo con la moto), Manu De Chauvigny (amante), Stephanie Hainque (ragazza del bar), Otar Iosseliani (padre), Mirabelle Kirkland (cameriera), Lily Lavian (madre), Joachim Salinger (mendicante), Nico Tarielashvili (figlio).
Nicolas, vent'anni, primogenito di una ricca famiglia governata dalla madre, decisa donna d'affari, la mattina lascia la grande villa in periferia e passa le giornate nella vicina Parigi. In città, svincolato dall'ambiente d'origine, Nicolas fa vari mestieri: un giorno lavavetri, un altro lavapiatti, e tra un lavoretto e l'altro ama bere vino, al pari del padre, che a casa si trastulla tra bottiglie e trenini elettrici. Nell'arco della giornata, Nicolas intrattiene contatti con alcuni emarginati che vivono sul Lungosenna, con altri poveracci e con dei coetanei dediti a piccoli furti. Nicolas è attratto anche da alcune ragazze, con una che lavora in un bar riesce ad uscire, dice al padre di lei che vorrebbe sposarla ma poi la ragazza preferisce un altro. Intanto la madre conduce i suoi affari ad alto livello, rimprovera aspramente il marito che, al contrario, si dedica nel bosco al tiro al piattello. Un giorno Nicolas si lascia convincere a seguire la banda in un'avventura più rischiosa. Il furto non riesce, arriva subito la polizia e tutti sono condannati. Nicolas passa un periodo in prigione. Quando esce, fuori dal carcere trova una splendida macchina inviatagli dalla mamma. Nicolas fa un giro per il quartiere, trova tutto cambiato, non riconosce più nessuno e allora fa ritorno a casa, deciso, come primogenito, a prendere in mano le redini della situazione. Il padre, insieme al mendicante Pierre, è salito su una imbarcazione e sta lasciando la terraferma.
“Iosseliani insegna che le cose che contano, nella vita, sono quelle che non sembrano avere importanza ma che, arrecandoci piacere, si dimostrano più utili di quelle che compiamo per dovere. Maestro dei paradossi, il regista georgiano espone direttamente la sua "filosofia" facendosene personalmente garante, interpretando cioè il personaggio del maturo castellano che molla gli ormeggi di un'esistenza diventata ormai difficilmente sopportabile, malgrado i tentativi di vivere a modo proprio (da merlo canterino, insomma), e parte insieme al maturo mendicante su una barchetta a vela, con una buona provvista di bottiglie di marca e di canzoni da intonare a voce spiegata. Un andare tranquillo con la forza del vento, tutto al contrario degli spostamenti rombanti e nevrotici in elicottero della padrona di casa. Il finale è metaforico quanto si vuole, ed è un invito preciso a valutare il peso specifico di quanto abbiamo fatto nella nostra vita e a prendere le decisioni più opportune per capire cosa conta davvero, se la ricchezza materiale, il potere, l'ambizione, la sopraffazione e l'inganno, o la capacità di viverla nel migliore dei modi possibili, la nostra esistenza. Dando importanza alle piccole cose capaci di farcela sorseggiare con sentimento, consci cioè della fatalità del suo scorrere, ma anche della necessità di goderla giorno per giorno in sintonia con le nostre personali inclinazioni. Bere vino buono vuol dire saper apprezzare le cose che contano. Coltivare una forma di lucida ebbrezza, necessaria per osservare il mondo nella sua veridicità, senza infingimenti: il velo che il vino generoso, e generosamente bevuto, frappone fra gli occhi del bevitore e il resto del mondo - ancora un paradosso - serve a vedere meglio la verità. La barca di Iosseliani e del suo amico barbone fila verso il mare aperto che è un piacere. Ma non è poi tutto così sereno e armonioso come potrebbe sembrare. Certo, i due vecchi hanno lasciato il plancher des vaches, ossia la stalla (cioè la terraferma, opposta al ponte della nave che traballa sotto i piedi: tra le attività svolte da Iosseliani c'è stata quella di marinaio), e alcuni dei personaggi maltrattati dai ricchi odiosi osservano la barca in navigazione dall'alto delle vette che hanno scalato, liberandosi da ogni meschinità.
Ma non si tratta proprio di una favola alla "e tutti vissero felici e contenti", le cose amare abbondano. Il ragazzino che suona il violino dà le soffiate acconce perché il giovane mendicante derubi le vecchiette, magari prendendole ferocemente a colpi in testa. Altri vagabondi cercano nei muri delle vecchie case le cose nascoste dai proprietari, gettando all'aria preziosi ricordi. Il padroncino molla noncurante il compagnuccio di prigionia, quando i due vengono liberati. E quel finale: il figlio prenderà il posto del padre, nel castello della ricca damazza sua madre, anche lui vino e trenini, avendo capito che "tutto è vanità" (Iosseliani fa riferimento esplicito all'Ecclesiaste, e non è la prima volta), ma diventerà prigioniero del luogo, avendo rinunciato ai sogni amorosi e avendo constatato che il mondo da lui riconosciuto come suo - quello che lui ha scelto, non quello che ha subìto - è andato a gambe all'aria. Infatti, non solo la giovane barista di cui era innamorato ha sposato il gigolò ed è costretta a servirlo come una schiavetta, ma attorno al punto di ritrovo non ci sono più i soliti barboni; il veterinario ha traslocato e non c'è più il ragazzino che suonava il violino; il negoziante di arredi sacri, che ha fatto saltare in aria la mogliera insopportabile, ora è sposato alla negra maestosa che era soggetta ad un altrettanto maestoso marito, ma è lui adesso, il negoziante, a seguire lei come un cagnolino; il ragazzino che faceva lo sguattero nel bar-ristorante retto da una padrona autoritaria è ora il proprietario, e comanda a bacchetta la donna.
Cercare meticolosamente segni e significati, in un film di Iosseliani, è però pericoloso. Si rischia di perdere il cosiddetto piacere della visione, che in questo regista è determinante. I film sono da guardare, non da estrarne ad ogni costo una morale, anche se poi dopotutto quelli del regista georgiano sono delle morality plays. E anche se Addio terraferma non è una novità, nel senso che non ci sconvolge per l'originalità del suo assunto e dei suoi meccanismi, abituati come siamo alla concezione della vita di Iosseliani e alla ronde dei suoi personaggi. E' come ascoltare "Così fan tutte": non è una novità, ma è sempre un piacere. Non voglio con questo dire che Iosseliani è Mozart, voglio solo riferirmi ad un'opera che impasta amarezza e arguzia. Addio terraferma è un film brillantemente combinatorio. Basato su una sceneggiatura calibratissima e su una sapienza di racconto che ha con evidenza assorbito varie influenze. Non si può fare a meno di pensare a Buñuel, per la presenza un po' surreale di quell'uccello nel palazzo e per l'altra fauna strana che popola le vie di Parigi, oltre che per il capovolgimento delle situazioni "normali". Ma il film dimostra imperterrito la sua vitalità peculiare. Al di là dei reticoli significanti. Ultimo capitolo in ordine di tempo di un opus compatto, riconoscibilissimo, Addio terraferma non credo possa suscitare dubbi sulla sua utilità di teatrino tanto intelligente quanto buffo nello sbertucciare soprattutto il vizio più diffuso, la cupidigia, facendosi estremamente serio, anche quando non pare, nel bollare la rinuncia agli ideali e la perdita delle culture e della sacralità in nome del "progresso". Non credo, voglio dire, che ci si debba chiedere, di fronte alla "continuità" delle fatiche di Iosseliani, se si tratta di coerenza o di ripetitività: è proprio la grazia e la leggerezza del suo modo di raccontare il miglior lasciapassare di uno spirito libero, anticonformista, eccentrico ed estroso. Iosseliani sa cos'è la magia del cinema, ed è quello che conta, se a questa magia si salda il senso della vita”.
(Ermanno Comuzio, Cineforum n. 390 12/1999)
“Mi serviva un filosofo, nel mio film: così dice Otar Iosseliani. Una ben strana necessità, un ben strano filosofo. Nei suoi panni e anzi nelle sue penne, in Addio terraferma (Adieu plancher des vaches, Francia, 1999, 117’) c’è infatti un marabù. Si tratta d’un uccello molto intelligente, spiega il regista, certo «non d’un pollo». E poi ha il modo giusto di reagire alle porcherie che si vede capitare tutt’attorno: non reagisce affatto, a parte il vezzo elegante d’aprire appena un po’ le ali. Un comportamento, questo, che - per dirla ancora con Iosseliani - ne fa un «osservatore calmo», un saggio disincantato e ironico”.
(Roberto Escobar, Il Sole 24 ore)
Una poesia al giorno
Avvolgeva il vento le vette celesti, di Ana Kalandadze
“Avvolgeva il vento le vette celesti di nebbie lattee...
e mentre laggiù fiorivano le rose,
giaceva la neve sui monti di Javakheti
e giravano burrasche nelle foreste...”
“Affido mia vita agli immani uragani infranti
e dispersi nel cielo e sulla terra,
che dal mondo isolati gemono negli abissi! ...”
“Quando ai vespri la luna nel cielo s’inarca
e si addormenta ogni essere intorno,
cominciano a fiammeggiare gli occhi
teneri delle stelle e sfavilla la neve...
Estesa sui piè di monte
La sfiora, la bacia, la inquieta
La luna diafana dolcemente...
E di un’aureola di raggi
Il Caucaso maestoso Si imperla...”
Un fatto al giorno
19 aprile 797: Irene imperatrice d'Oriente organizza un complotto contro il figlio Costantino VI per prendere in mano il potere dell’Impero. Fu la sola donna che a Bisanzio tenesse in proprio nome il potere sovrano e portasse il titolo di "imperatore e autocrate dei Romani. Era ateniese di nascita e fautrice del culto delle immagini in quel tempo proscritto. Al trono pervenne per essere stata eletta sposa da Leone IV nel 768. In quella circostanza giurò che non avrebbe mai accettato il culto delle immagini; ma non mantenne il giuramento e poco dopo venne per questo in urto con il marito e con la corte. Morto nel 780 Leone IV, I. assunse la reggenza per il figlio minorenne Costantino VI. Da quel momento ella mirò a ristabilire il culto delle immagini sacrificando a questo fine non solo gli interessi della dinastia isaurica, ma anche i proprî sentimenti di madre. Per riuscire nell'intento, da un lato, pose fine alla guerra con gli Arabi (783), dall'altro riannodò le relazioni col papato e ai posti di comando nello stato e nella chiesa orientale, allontanati gl'iconoclasti, elevò uomini a lei fedeli e fautori del culto delle immagini. Nel 786 convocò a Costantinopoli un concilio; ma appena questo si fu adunato scoppiò una rivolta della guardia imperiale, nemica delle immagini, che disperse i padri adunati nella chiesa dei Ss. Apostoli. Irene si piegò alla forza; ma pochi mesi dopo allontanò dalla capitale i reggimenti della guardia e riconvocò il concilio prima a Nicea, poi nella stessa Costantinopoli (787). In esso furono revocati i decreti iconoclastici di Leone III e del concilio del 754 e fu restaurato il culto delle immagini. Era la rivincita non solo degli iconoduli, ma anche del monachesimo contro il quale la riforma iconoclastica era stata diretta. Appunto per questo le deliberazioni del concilio suscitarono una viva opposizione nell'esercito e in certi strati della popolazione, specialmente in Asia, favorevoli all'iconoclastia. Per far valere le decisioni dei concilî, Irene aveva bisogno di mantenersi al potere, tanto più che il figlio Costantino non pareva condividere le sue opinioni. Nel gennaio 790 Costantino ordì una congiura per abbattere il primo ministro Stauracio che era il principale sostegno d'Irene. La congiura fu scoperta e il principe fu messo agli arresti. L'esercito insorse e Irene fu costretta ad allontanarsi dalla capitale. Ma nel 791 ritornò in corte chiamatavi dal debole figlio che l'associò al trono. Con Irene tornarono al governo i suoi fautori. Madre e figlio regnarono insieme fino al 797 quando, approfittando dello scandalo sollevato da Costantino per il suo divorzio dalla moglie - divorzio al quale era stato spinto dalla stessa madre - Irene ordì un complotto contro il figlio che fu preso, deposto dal trono e accecato. Per cinque anni Irene regnò in proprio nome e senza colleghi. Per legalizzare questa anormale situazione, in Bisanzio si ricorse all'espediente di conferire alla sovrana il titolo di imperator (Βασιλευς) al maschile; ma in Occidente si considerò come vacante il trono; e ciò favorì i disegni del papato e di Carlo Magno che in Roma fu consacrato e proclamato imperatore. Sembra che in seguito a quest'avvenimento si sia progettato un matrimonio fra il re franco e l'imperatrice. Certo si è che in Oriente vennero degli ambasciatori franchi per trattare con Irene: ma quando essi giunsero scoppiò una rivoluzione militare contro l'imperatrice. Il 31 ottobre 802 il generale Niceforo occupò il Sacro Palazzo e si fece proclamare imperatore. Irene fu deposta e confinata prima nell'isola di Prinkipo e quindi a Lesbo, dove morì nell'agosto dell'803.
(Da Enciclopedia Italiana)
Una frase al giorno
“Missione mia è di difender, aiutante la divina misericordia, e all'esterno colle armi la santa Chiesa di Cristo contro ogni attacco de' pagani ed ogni guasto degli infedeli, e consolidarla nell'interno colla professione della fede cattolica”
(Carlo Magno)
Un brano al giorno
Io non compro più speranza, di Marchetto Cara (Verona, 1470 circa - Mantova, 1525 circa)
Ugo Brusaporco
Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.
INFORMAZIONI
Ugo Brusaporco
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