“L’amico del popolo”, 21 agosto 2017

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

CENTRAL DO BRASIL (Brasile, Francia, 1998), regia di Walter Salles. Sceneggiatura: Marcos Bernstein, Joao Emanuel Carneiro. Fotografia: Walter Carvalho. Montaggio: Felipe Lacerda, Isabelle Rathery. Musica: Jaques Morelembaum. Con: Fernanda Montenegro, Vinicius De Oliveira, Soia Lira, Othon Bastos.

Dora, ex insegnante e nubile, si è inventata un nuovo lavoro: scrive lettere per conto dei tanti analfabeti che si riversano ogni giorno nella principale stazione di Rio de Janeiro. Tra i clienti capitano la giovane Ana e suo figlio Josué di nove anni. Ana vuol far incontrare il figlio con il padre, che non ha mai conosciuto e che vive in una zona sperduta del Brasile nord-orientale. Quando esce dalla stazione, Ana viene investita da un autobus e muore. Josué rimane solo, Dora lo avvicina e pensa di trarne profitto, vendendolo ad un mercante d'infanzia. Ma poi capisce l'errore, torna a riprenderlo e, a quel punto, decide di accompagnarlo al paese del padre. Su mezzi di trasporto precari e di fortuna, i due attraversano territori sconosciuti, fanno conoscenze, rimangono senza soldi, superano momenti di tristezza, si trovano coinvolti in riti e processioni religiose, arrivano nel paese indicato: il padre è disperso, ma al posto suo, Josué trova due fratelli, una famiglia nuova e, soprattutto, il valore di un'esperienza affettiva che non potrà più dimenticare.

Dora, ex insegnante delle elementari, si è ridotta a scrivere lettere per gli analfabeti che affollano la più grande stazione di treni e bus di Rio De Janeiro. Sono lettere di diversa natura, d’amore, d’affari, di ringraziamento, di rabbia, che raramente Dora imbuca, preferendo vendicarsi in questo modo della solitudine di cui è afflitta. Tra queste, ci sono le lettere che Ana scrive al marito Jesus, alcolizzato e sperduto in chissà quale zona del Brasile, nelle quali spiega quanto il figlio Josué abbia voglia di conoscerlo. Proprio dopo la dettatura di una lettera, Ana muore, travolta da un camion poco fuori la stazione, sotto gli occhi di Josué e della stessa Dora. Josué non ha più nessuno nella capitale e vuole a tutti i costi raggiungere il padre, e non può che affidarsi per la ricerca alla scorbutica Dora. Quest’ultima, che in un primo momento approfitta della solitudine del ragazzino per venderlo ad un losco trafficante della stazione, si ravvede grazie ai consigli dell’amica Irene circa la possibilità che Josué venga usato per il commercio clandestino di organi, si riprende con la forza il ragazzo e decide di aiutarlo nella disperata ricerca del padre. Inizia per i due un viaggio lunghissimo nel Brasile nordorientale, la parte più povera del paese, che li porterà da una parte a superare le iniziali diffidenze e a vivere un rapporto profondo, dall’altra a trovare, per il piccolo Josué, una famiglia che non aveva mai avuto prima.

“Rinserrata nel suo egoismo gelido, Dora (Fernanda Montenegro) guarda con disprezzo gli infelici che le dettano lettere che non spedirà. Poi, con l'amica Irene (Manìlia Péra) esercita una maligna, paradossale onnipotenza che si alimenta dell'impotenza senza via d'uscita delle sue vittime. Le due s'arrogano il diritto di tagliare i fili delle loro illusioni, di decidere delle loro storie di vita. Mostrandole intente a sentenziare e condannare, Walter Salles ne fa quasi delle Parche miserabili che decidono e tagliano destini miserabili. Il prologo rarefatto di Central do Brasil (Brasile; 1998) suggerisce di non ridurre quel che segue a una semplice narrazione realistica. Della realtà infelice in cui vivono sia Dora sia Josué il film dà certo conto. E miseria, quella che Marcos Bernstein, Joào Emanuel Carneiro e lo stesso Salles descrivono in sceneggiatura: una miseria disperata. La regia si sarebbe potuta limitare a mostrarne le immagini, affidandosi alla loro pur terribile "superficie". Invece, ha scelto una strada più mediata, forse più profonda. Questa strada, dunque, passa da principio attraverso una specie d'allontanamento dello sguardo dalla tragedia. Senza alcuna apparente emozione, senza denunciare l'orrore che i fatti dovrebbero imporre, Salles descrive freddamente e quasi crudelmente la crudeltà e la freddezza con le quali Dora si difende dalla storia di Josué e di Ana, la madre. La donna la conosce bene, quella loro storia. Non solo le è capitato d'ascoltarla più e più volte dai suoi clienti: soprattutto, come poi sapremo, è lei stessa che, tanto tempo prima, l'ha già vissuta. Ora, ritrovandone i passaggi e intravedendone una conclusione troppo nota, rifiuta di farsene coinvolgere. Semplicemente, ne taglia i fili al suo modo solito. Lontano ed estraneo come lo sguardo di Dora, si mantiene anche quello della macchina da presa. Della miseria di cui è colmo il mondo che gravita attorno alla stazione centrale di Rio arrivano sullo schermo solo immagini raggelate: svuotate e scarnificate fino ad apparire neutre. Basti pensare alla sequenza in cui un ladruncolo viene assassinato da una specie di giustiziere. Nell'indifferenza di un'inquadratura in campo lungo, un colpo di pistola sentenzia e condanna, decide di una storia di vita, ne taglia i fili. Una descrizione affidata a un'emozione e a un orrore semplicemente realistici non ne avrebbe mostrato tanto a fondo il tragico e l'assurdo. Raggelato, svuotato e scarnificato è anche il riferimento al commercio turpe cui Dora per un soffio sottrae Josué. Salles niente concede all'orrore materiale: non un'immagine, non una frase. Eppure, per contrasto, in platea se ne vive un dolore anche più intenso, del tutto interiore. Poi, con la fuga della donna e del bambino attraverso il sertào, pian piano lo sguardo della macchina da presa si fa meno lontano, meno estraneo. Il risultato, tuttavia, non è un ritorno a un realismo tradizionale e di superficie. Piuttosto, la narrazione diventa quasi astratta. Nel loro viaggio, certo, Dora e Josué incontrano luoghi, situazioni, volti realissimi, ma in un succedersi che della realtà non ha più né i tempi né la plausibilità. Più che il territorio del Brasile, sembra che i due ne attraversino l'anima. Quest'anima, soprattutto, è la protagonista della festa in onore d'un santo miracoloso. Gli stessi uomini e le stesse donne che, disperati e miserabili, affidavano a lettere mai spedite le proprie illusioni, ora, in un trionfo di riti, che pare vengano direttamente da culti precristiani, affidano le stesse illusioni alla divinità. Sono storie di vita quelle che s'incontrano attorno alla speranza del miracolo e che, tutte insieme, tentano di vincere un'impotenza senza via d'uscita. C'è, in queste immagini d'una pietà antica come il dolore, l'espressione d'un desiderio ancor più forte della disperazione. Nello sguardo di Dora, di nuovo intenta a scrivere lettere, ora non c'è più l'antico disprezzo, non c'è più la paura che la spingeva a rinserrarsi nella malignità d'una paradossale, miserabile onnipotenza. Pare che la donna abbia imparato non solo a riconoscere apertamente in quelle storie la propria, ma anche a condividerne il dolore, e a sentirne il valore. Così, invece di giudicare, condannare e tagliare, trova il coraggio di restituire almeno al piccolo Josué la stoffa di vita e alla speranza che gli sono state rubate. Ancora una volta, non è semplicemente realistica la narrazione di Salles. L'incontro con i fratelli di Josué, Isaias e Moises, la loro casa e il loro lavoro, la loro memoria e la loro attesa del padre: tutto è immerso in una dichiarata dolcezza da favola. Vinto il gelo dell'inizio, la macchina da presa, forte d'un desiderio rinnovato di vita, immagina ora una via d'uscita dalla disperazione”.

(Roberto Escobar, Sole 24 Ore, 27/12/1998)

"Commovente, dolceamara favola brasiliana di un regista pressoché sconosciuto, che esplora con curiosità antituristica la sua terra povera e disperata e con una delicatezza priva di smancerie i sentimenti dei due nemici amici. Sotto lo sguardo prima indurito e poi amorevole, Fernanda Montenegro rivela un talento straordinario. Pazienza se non è miss Mondo".

(Massimo Bertarelli, 'Il Giornale', 15 aprile 2003)

“Nel 1998, Central do Brasil di Walter Salles ha conteso a La vita è bella di Roberto Benigni l’Oscar per il miglior film straniero, dopo aver vinto numerosi premi tra cui l’Orso d’oro al festival di Berlino e il Sundance International Award. Come nel film del comico toscano dove si narra la relazione tra un adulto e un bambino e il tentativo, da parte del più grande, di dare al più piccolo un futuro diverso dal suo (il padre cercherà, infatti, di salvare il figlio dalle brutture di un campo di concentramento), anche nell’opera dell’autore brasiliano si racconta lo sforzo di una donna matura, un’ex insegnante senza la possibilità di un futuro felice e sereno, di regalare al piccolo orfano che ha accanto un avvenire diverso e più roseo rispetto a quello meritato dalla generazione che ella rappresenta. L’infanzia, in entrambe le produzioni, in una attraverso il linguaggio della comicità, nell’altra attraverso quello della drammaturgia emozionale, è il veicolo simbolico con cui si tratteggia l’innocenza insita nelle nuove generazioni e incontaminata dalle colpe dei padri (in un caso colpevoli dell’olocausto, nell’altro della povertà di una nazione), l’elemento principale di commozione e identificazione dello spettatore. Central do Brasil racconta la storia di un viaggio che chiude in sé numerosi altri viaggi: non solo quello di Josué, dunque, alla scoperta di un padre che non conosce, che ostinatamente si immagina buono e affettuoso a dispetto delle numerose descrizioni dei conoscenti che lo vogliono alcolizzato e dedito al gioco d’azzardo, ma anche quello di Dora, in fuga da un destino che l’ha resa piena di rabbia e frustrazione e alla ricerca di un padre che l’ha abbandonata e di cui invece sente, ora più che mai, il bisogno della sua vicinanza, quello dei fratelli di Josué, Moises e Isaia, anche loro ad un bivio della loro vita, titubanti se rimanere ancora appesi ad un passato che non si fa mai presente (il ritorno del padre, promesso nella lettera, ma non ancora avvenuto), o se proseguire da soli nella costruzione della loro vita, quello di Cesar con il suo tir di illusioni e paure, sicurezze e esitazioni. Central do Brasil è il film di un popolo in viaggio, di una massa di gente indistinta, ben rappresentata dalle scene ambientate nella stazione di Rio, dove migliaia di persone salgono e scendono da bus, metro, treni, che nel contempo è portatrice di piccole e significative storie anche in questo caso simboleggiate eloquentemente dai primi piani che Salles dedica alle persone che si fanno scrivere le lettere da Dora, depositaria, in quanto alfabetizzata, del loro stesso destino. Il viaggio di Dora e Josué è un itinerario che parte dal centro e va alla periferia del mondo, dalla massa al deserto e in questo modo descrive un’intera società e le sue contraddizioni. In un’operazione stilistica che si avvicina agli esempi del neorealismo, tanto che il film potrebbe essere una rivisitazione sudamericana di Ladri di biciclette, le incongruenze di un Paese sono inserite sullo sfondo dell’intreccio filmico, con la consapevolezza di metterle, in tal modo, ancora più in rilievo. I temi sono molteplici: l’ingiustizia (si pensi alla fredda e sommaria esecuzione del ladro), la povertà, il commercio di bambini e di organi, la devozione religiosa, superstiziosa, liturgica, quasi pagana, l’analfabetismo. Quest’ultimo tema è senz’altro il più graffiante del film. L’iterazione delle scene dove povere persone affidano ad una sconosciuta le proprie sofferenze, le proprie gioie, vale a dire la propria vita e la stessa speranza che ripongono nella forza della parola scritta, che per magia sopravvive a loro e cambia il destino di un’esistenza (sono molti coloro che mentono nelle lettere per superare le proprie debolezze o apparire in maniera differente), descrivono, meglio di tanti discorsi o immagini toccanti, il Brasile. Il desiderio di essere altro è l’impulso che spinge la gente a muoversi, a pregare, a rubare, a scappare. E questo stimolo al cambiamento è principalmente sulle spalle di Josué, della sua giovane età, della sua paradossale possibilità di cominciare da capo senza impedimenti, una possibilità di ricominciare che è preclusa a tutti gli altri a cominciare da Dora - interpretata da una bravissima Fernanda Montenegro, vicina alle performance di attrici come Anna Magnani e soprattutto Giulietta Masina, cui è simile anche nell’aspetto - la cui lettera finale è una sorta di testamento, inteso nel suo senso più nobile di richiesta di ricordo, di lotta contro l’oblio”.

(Marco Dalla Gassa)

 

Una poesia al giorno

Prima casa, di Natalia Toledo

Da bambina dormii nelle braccia di mia nonna
come la luna nel cuore del cielo.
Il letto: cotone che uscì dal frutto del pochote.
Feci degli alberi olio, e ai miei amici vendetti
come pagro il fiore dell'albero del fuoco.
Come si asciugano i gamberetti al sole, così ci stendevamo sopra una stuoia.
Sopra le nostre palpebre dormiva la croce del sud.
Focacce di comiscal, fili tinti per le amache,
il magiare si faceva con la felicità della pioggerellina sulla terra,
battevamo la cioccolata,
e in una tazza enorme ci servivamo l'alba.

(Natalia Toledo, figlia del celebre pittore Francisco Toledo è nata nel 1968 a Yucatán nell'Oaxaca. Fin da piccola studia poesia nel laboratori della Casa della cultura di Yucatán, dove si sono formati promotori e maestri di scrittura in zapoteco, tra cui Gloria de la Cruz, sorella del poeta Victor de la Cruz).

 

Un fatto al giorno

21 agosto 1940: in Messico in esilio il rivoluzionario russo Leon Trotsky muore fatalmente ferito da Ramón Mercader. “Trockij (in base ad altri criteri di traslitterazione, Trotski, Trotzki), Lev Davidovič fu lo pseudonimo del rivoluzionario e uomo politico russo Lejba Bronštein (Janovka, Cherson, 1879 - Coyoacán, Città di Messico, 1940). Durante la rivoluzione del 1905 presiedette il soviet di San Pietroburgo (nov.-dic.). Rientrato dall'esilio nel 1917, entrò nel Partito bolscevico e prese parte alla Rivoluzione d'Ottobre. Commissario del popolo agli Affari esteri, firmò la Pace di Brest-Litovsk (1918); commissario del popolo per l'Esercito e la Marina (1918-25), durante la guerra civile guidò l'Armata rossa. Dal 1923-24 entrò in urto con Stalin, assertore della strategia del 'socialismo in un solo paese', cui T. oppose quella della 'rivoluzione permanente'. Espulso dal partito (1927) e costretto a lasciare l'URSS, fu aspro critico dello stalinismo e tentò di organizzare i comunisti antistalinisti nella Quarta Internazionale (1938). Condannato a morte in contumacia già nel 1936, nel 1940 fu ucciso in Messico da un sicario di Stalin”.

(Treccani Studenti)

Tra le sue opere: Von der Oktober-Revolution bis zum Brester Friedensvertrag (1918); Vojna i revoljucija ("Guerra e rivoluzione", 1925); Die Fälschung der Geschichte der Russischen Revolution (1928); Moja žizn' ("La mia vita", 1930); Permanentnaja revoljucija ("La rivoluzione permanente", 1930); Geschichte der Russischen Revolution (1931-33); Stalin (1936). L'archivio T. è conservato presso la Harvard University.

Da un suo scritto dei primi anni 10 del XX secolo: “Le classi nostre nemiche sono abituate a lamentarsi del nostro terrorismo. Cosa esse intendono con ciò è piuttosto oscuro. A loro piacerebbe etichettare tutte le attività del proletariato dirette contro gli interessi del nemico di classe come terrorismo. Lo sciopero, ai loro occhi, è il principale metodo del terrorismo. La minaccia di uno sciopero, l'organizzazione di picchetti, il boicottaggio economico di un boss schiavista, il boicottaggio morale di un traditore dalle nostre stesse file - tutto questo e molto più è ciò che essi chiamano terrorismo. Se il terrorismo è inteso in questo modo, come ogni azione che ispiri paura o arrechi danno al nemico, allora certamente l'intera lotta di classe non è nient'altro che terrorismo. E l'unico interrogativo che resta da porsi è se i politici borghesi abbiano o meno il diritto di versare la loro piena indignazione morale sul terrorismo proletario quando il loro intero apparato statale, con le sue leggi, polizia ed esercito, non è nient'altro che l'apparato del terrore capitalistico!
Occorre però dire che, quando ci rimproverano di terrorismo, essi stanno tentando - per quanto non sempre in modo conscio - di dare a questo termine un significato più stretto. Il danneggiamento di macchinari da parte dei lavoratori, per esempio, è terrorismo in senso stretto. L'uccisione di un padrone, la minaccia di incendiare una fabbrica o una minaccia di morte al suo proprietario, il tentato omicidio, con revolver in pugno, contro un ministro - tutti questi sono atti terroristici nel pieno ed autentico senso della parola. Però, chiunque abbia un'idea della vera natura della Socialdemocrazia internazionale, dovrebbe sapere che essa si è sempre opposta a questo tipo di terrorismo e lo fa nel modo più irriconciliabile.
Perché? "Terrorizzare" con la minaccia di uno sciopero, o condurre realmente uno sciopero, è qualcosa che solo gli operai industriali possono fare. L'importanza sociale di uno sciopero dipende direttamente da: primo, la dimensione dell'impresa o della branca di industria che esso colpisce e, secondo, il grado nel quale gli operai che vi prendono parte sono organizzati, disciplinati e pronti all'azione. Questo è vero tanto per uno sciopero politico quanto per uno economico. Esso continua ad esser un metodo di lotta che scaturisce direttamente dal ruolo produttivo del proletariato nella società moderna”.

 

Una frase al giorno

Potrò essere crocifisso, potrò anche morire, ma voglio che i miei fratelli dicano: "è morto perché io sia libero".

(Martin Luther King, 1929-1968, pastore protestante, politico e attivista statunitense)

 

Un brano al giorno

Canción a Trotsky, Canzone dedicata a uno dei più brillanti rivoluzionari del XX secolo, Leone Trotsky. Musica e testi del gruppo pato cerpa SiKuS

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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