“L’amico del popolo”, 21 agosto 2017

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

CENTRAL DO BRASIL (Brasile, Francia, 1998), regia di Walter Salles. Sceneggiatura: Marcos Bernstein, Joao Emanuel Carneiro. Fotografia: Walter Carvalho. Montaggio: Felipe Lacerda, Isabelle Rathery. Musica: Jaques Morelembaum. Con: Fernanda Montenegro, Vinicius De Oliveira, Soia Lira, Othon Bastos.

Dora, ex insegnante e nubile, si è inventata un nuovo lavoro: scrive lettere per conto dei tanti analfabeti che si riversano ogni giorno nella principale stazione di Rio de Janeiro. Tra i clienti capitano la giovane Ana e suo figlio Josué di nove anni. Ana vuol far incontrare il figlio con il padre, che non ha mai conosciuto e che vive in una zona sperduta del Brasile nord-orientale. Quando esce dalla stazione, Ana viene investita da un autobus e muore. Josué rimane solo, Dora lo avvicina e pensa di trarne profitto, vendendolo ad un mercante d'infanzia. Ma poi capisce l'errore, torna a riprenderlo e, a quel punto, decide di accompagnarlo al paese del padre. Su mezzi di trasporto precari e di fortuna, i due attraversano territori sconosciuti, fanno conoscenze, rimangono senza soldi, superano momenti di tristezza, si trovano coinvolti in riti e processioni religiose, arrivano nel paese indicato: il padre è disperso, ma al posto suo, Josué trova due fratelli, una famiglia nuova e, soprattutto, il valore di un'esperienza affettiva che non potrà più dimenticare.

Dora, ex insegnante delle elementari, si è ridotta a scrivere lettere per gli analfabeti che affollano la più grande stazione di treni e bus di Rio De Janeiro. Sono lettere di diversa natura, d’amore, d’affari, di ringraziamento, di rabbia, che raramente Dora imbuca, preferendo vendicarsi in questo modo della solitudine di cui è afflitta. Tra queste, ci sono le lettere che Ana scrive al marito Jesus, alcolizzato e sperduto in chissà quale zona del Brasile, nelle quali spiega quanto il figlio Josué abbia voglia di conoscerlo. Proprio dopo la dettatura di una lettera, Ana muore, travolta da un camion poco fuori la stazione, sotto gli occhi di Josué e della stessa Dora. Josué non ha più nessuno nella capitale e vuole a tutti i costi raggiungere il padre, e non può che affidarsi per la ricerca alla scorbutica Dora. Quest’ultima, che in un primo momento approfitta della solitudine del ragazzino per venderlo ad un losco trafficante della stazione, si ravvede grazie ai consigli dell’amica Irene circa la possibilità che Josué venga usato per il commercio clandestino di organi, si riprende con la forza il ragazzo e decide di aiutarlo nella disperata ricerca del padre. Inizia per i due un viaggio lunghissimo nel Brasile nordorientale, la parte più povera del paese, che li porterà da una parte a superare le iniziali diffidenze e a vivere un rapporto profondo, dall’altra a trovare, per il piccolo Josué, una famiglia che non aveva mai avuto prima.

“Rinserrata nel suo egoismo gelido, Dora (Fernanda Montenegro) guarda con disprezzo gli infelici che le dettano lettere che non spedirà. Poi, con l'amica Irene (Manìlia Péra) esercita una maligna, paradossale onnipotenza che si alimenta dell'impotenza senza via d'uscita delle sue vittime. Le due s'arrogano il diritto di tagliare i fili delle loro illusioni, di decidere delle loro storie di vita. Mostrandole intente a sentenziare e condannare, Walter Salles ne fa quasi delle Parche miserabili che decidono e tagliano destini miserabili. Il prologo rarefatto di Central do Brasil (Brasile; 1998) suggerisce di non ridurre quel che segue a una semplice narrazione realistica. Della realtà infelice in cui vivono sia Dora sia Josué il film dà certo conto. E miseria, quella che Marcos Bernstein, Joào Emanuel Carneiro e lo stesso Salles descrivono in sceneggiatura: una miseria disperata. La regia si sarebbe potuta limitare a mostrarne le immagini, affidandosi alla loro pur terribile "superficie". Invece, ha scelto una strada più mediata, forse più profonda. Questa strada, dunque, passa da principio attraverso una specie d'allontanamento dello sguardo dalla tragedia. Senza alcuna apparente emozione, senza denunciare l'orrore che i fatti dovrebbero imporre, Salles descrive freddamente e quasi crudelmente la crudeltà e la freddezza con le quali Dora si difende dalla storia di Josué e di Ana, la madre. La donna la conosce bene, quella loro storia. Non solo le è capitato d'ascoltarla più e più volte dai suoi clienti: soprattutto, come poi sapremo, è lei stessa che, tanto tempo prima, l'ha già vissuta. Ora, ritrovandone i passaggi e intravedendone una conclusione troppo nota, rifiuta di farsene coinvolgere. Semplicemente, ne taglia i fili al suo modo solito. Lontano ed estraneo come lo sguardo di Dora, si mantiene anche quello della macchina da presa. Della miseria di cui è colmo il mondo che gravita attorno alla stazione centrale di Rio arrivano sullo schermo solo immagini raggelate: svuotate e scarnificate fino ad apparire neutre. Basti pensare alla sequenza in cui un ladruncolo viene assassinato da una specie di giustiziere. Nell'indifferenza di un'inquadratura in campo lungo, un colpo di pistola sentenzia e condanna, decide di una storia di vita, ne taglia i fili. Una descrizione affidata a un'emozione e a un orrore semplicemente realistici non ne avrebbe mostrato tanto a fondo il tragico e l'assurdo. Raggelato, svuotato e scarnificato è anche il riferimento al commercio turpe cui Dora per un soffio sottrae Josué. Salles niente concede all'orrore materiale: non un'immagine, non una frase. Eppure, per contrasto, in platea se ne vive un dolore anche più intenso, del tutto interiore. Poi, con la fuga della donna e del bambino attraverso il sertào, pian piano lo sguardo della macchina da presa si fa meno lontano, meno estraneo. Il risultato, tuttavia, non è un ritorno a un realismo tradizionale e di superficie. Piuttosto, la narrazione diventa quasi astratta. Nel loro viaggio, certo, Dora e Josué incontrano luoghi, situazioni, volti realissimi, ma in un succedersi che della realtà non ha più né i tempi né la plausibilità. Più che il territorio del Brasile, sembra che i due ne attraversino l'anima. Quest'anima, soprattutto, è la protagonista della festa in onore d'un santo miracoloso. Gli stessi uomini e le stesse donne che, disperati e miserabili, affidavano a lettere mai spedite le proprie illusioni, ora, in un trionfo di riti, che pare vengano direttamente da culti precristiani, affidano le stesse illusioni alla divinità. Sono storie di vita quelle che s'incontrano attorno alla speranza del miracolo e che, tutte insieme, tentano di vincere un'impotenza senza via d'uscita. C'è, in queste immagini d'una pietà antica come il dolore, l'espressione d'un desiderio ancor più forte della disperazione. Nello sguardo di Dora, di nuovo intenta a scrivere lettere, ora non c'è più l'antico disprezzo, non c'è più la paura che la spingeva a rinserrarsi nella malignità d'una paradossale, miserabile onnipotenza. Pare che la donna abbia imparato non solo a riconoscere apertamente in quelle storie la propria, ma anche a condividerne il dolore, e a sentirne il valore. Così, invece di giudicare, condannare e tagliare, trova il coraggio di restituire almeno al piccolo Josué la stoffa di vita e alla speranza che gli sono state rubate. Ancora una volta, non è semplicemente realistica la narrazione di Salles. L'incontro con i fratelli di Josué, Isaias e Moises, la loro casa e il loro lavoro, la loro memoria e la loro attesa del padre: tutto è immerso in una dichiarata dolcezza da favola. Vinto il gelo dell'inizio, la macchina da presa, forte d'un desiderio rinnovato di vita, immagina ora una via d'uscita dalla disperazione”.

(Roberto Escobar, Sole 24 Ore, 27/12/1998)

"Commovente, dolceamara favola brasiliana di un regista pressoché sconosciuto, che esplora con curiosità antituristica la sua terra povera e disperata e con una delicatezza priva di smancerie i sentimenti dei due nemici amici. Sotto lo sguardo prima indurito e poi amorevole, Fernanda Montenegro rivela un talento straordinario. Pazienza se non è miss Mondo".

(Massimo Bertarelli, 'Il Giornale', 15 aprile 2003)

“Nel 1998, Central do Brasil di Walter Salles ha conteso a La vita è bella di Roberto Benigni l’Oscar per il miglior film straniero, dopo aver vinto numerosi premi tra cui l’Orso d’oro al festival di Berlino e il Sundance International Award. Come nel film del comico toscano dove si narra la relazione tra un adulto e un bambino e il tentativo, da parte del più grande, di dare al più piccolo un futuro diverso dal suo (il padre cercherà, infatti, di salvare il figlio dalle brutture di un campo di concentramento), anche nell’opera dell’autore brasiliano si racconta lo sforzo di una donna matura, un’ex insegnante senza la possibilità di un futuro felice e sereno, di regalare al piccolo orfano che ha accanto un avvenire diverso e più roseo rispetto a quello meritato dalla generazione che ella rappresenta. L’infanzia, in entrambe le produzioni, in una attraverso il linguaggio della comicità, nell’altra attraverso quello della drammaturgia emozionale, è il veicolo simbolico con cui si tratteggia l’innocenza insita nelle nuove generazioni e incontaminata dalle colpe dei padri (in un caso colpevoli dell’olocausto, nell’altro della povertà di una nazione), l’elemento principale di commozione e identificazione dello spettatore. Central do Brasil racconta la storia di un viaggio che chiude in sé numerosi altri viaggi: non solo quello di Josué, dunque, alla scoperta di un padre che non conosce, che ostinatamente si immagina buono e affettuoso a dispetto delle numerose descrizioni dei conoscenti che lo vogliono alcolizzato e dedito al gioco d’azzardo, ma anche quello di Dora, in fuga da un destino che l’ha resa piena di rabbia e frustrazione e alla ricerca di un padre che l’ha abbandonata e di cui invece sente, ora più che mai, il bisogno della sua vicinanza, quello dei fratelli di Josué, Moises e Isaia, anche loro ad un bivio della loro vita, titubanti se rimanere ancora appesi ad un passato che non si fa mai presente (il ritorno del padre, promesso nella lettera, ma non ancora avvenuto), o se proseguire da soli nella costruzione della loro vita, quello di Cesar con il suo tir di illusioni e paure, sicurezze e esitazioni. Central do Brasil è il film di un popolo in viaggio, di una massa di gente indistinta, ben rappresentata dalle scene ambientate nella stazione di Rio, dove migliaia di persone salgono e scendono da bus, metro, treni, che nel contempo è portatrice di piccole e significative storie anche in questo caso simboleggiate eloquentemente dai primi piani che Salles dedica alle persone che si fanno scrivere le lettere da Dora, depositaria, in quanto alfabetizzata, del loro stesso destino. Il viaggio di Dora e Josué è un itinerario che parte dal centro e va alla periferia del mondo, dalla massa al deserto e in questo modo descrive un’intera società e le sue contraddizioni. In un’operazione stilistica che si avvicina agli esempi del neorealismo, tanto che il film potrebbe essere una rivisitazione sudamericana di Ladri di biciclette, le incongruenze di un Paese sono inserite sullo sfondo dell’intreccio filmico, con la consapevolezza di metterle, in tal modo, ancora più in rilievo. I temi sono molteplici: l’ingiustizia (si pensi alla fredda e sommaria esecuzione del ladro), la povertà, il commercio di bambini e di organi, la devozione religiosa, superstiziosa, liturgica, quasi pagana, l’analfabetismo. Quest’ultimo tema è senz’altro il più graffiante del film. L’iterazione delle scene dove povere persone affidano ad una sconosciuta le proprie sofferenze, le proprie gioie, vale a dire la propria vita e la stessa speranza che ripongono nella forza della parola scritta, che per magia sopravvive a loro e cambia il destino di un’esistenza (sono molti coloro che mentono nelle lettere per superare le proprie debolezze o apparire in maniera differente), descrivono, meglio di tanti discorsi o immagini toccanti, il Brasile. Il desiderio di essere altro è l’impulso che spinge la gente a muoversi, a pregare, a rubare, a scappare. E questo stimolo al cambiamento è principalmente sulle spalle di Josué, della sua giovane età, della sua paradossale possibilità di cominciare da capo senza impedimenti, una possibilità di ricominciare che è preclusa a tutti gli altri a cominciare da Dora - interpretata da una bravissima Fernanda Montenegro, vicina alle performance di attrici come Anna Magnani e soprattutto Giulietta Masina, cui è simile anche nell’aspetto - la cui lettera finale è una sorta di testamento, inteso nel suo senso più nobile di richiesta di ricordo, di lotta contro l’oblio”.

(Marco Dalla Gassa)

CENTRAL DO BRASIL (Brasile, Francia, 1998), regia di Walter Salles

 

Una poesia al giorno

Prima casa, di Natalia Toledo

Da bambina dormii nelle braccia di mia nonna
come la luna nel cuore del cielo.
Il letto: cotone che uscì dal frutto del pochote.
Feci degli alberi olio, e ai miei amici vendetti
come pagro il fiore dell'albero del fuoco.
Come si asciugano i gamberetti al sole, così ci stendevamo sopra una stuoia.
Sopra le nostre palpebre dormiva la croce del sud.
Focacce di comiscal, fili tinti per le amache,
il magiare si faceva con la felicità della pioggerellina sulla terra,
battevamo la cioccolata,
e in una tazza enorme ci servivamo l'alba.

(Natalia Toledo, figlia del celebre pittore Francisco Toledo è nata nel 1968 a Yucatán nell'Oaxaca. Fin da piccola studia poesia nel laboratori della Casa della cultura di Yucatán, dove si sono formati promotori e maestri di scrittura in zapoteco, tra cui Gloria de la Cruz, sorella del poeta Victor de la Cruz).

 

Un fatto al giorno

21 agosto 1940: in Messico in esilio il rivoluzionario russo Leon Trotsky muore fatalmente ferito da Ramón Mercader. “Trockij (in base ad altri criteri di traslitterazione, Trotski, Trotzki), Lev Davidovič fu lo pseudonimo del rivoluzionario e uomo politico russo Lejba Bronštein (Janovka, Cherson, 1879 - Coyoacán, Città di Messico, 1940). Durante la rivoluzione del 1905 presiedette il soviet di San Pietroburgo (nov.-dic.). Rientrato dall'esilio nel 1917, entrò nel Partito bolscevico e prese parte alla Rivoluzione d'Ottobre. Commissario del popolo agli Affari esteri, firmò la Pace di Brest-Litovsk (1918); commissario del popolo per l'Esercito e la Marina (1918-25), durante la guerra civile guidò l'Armata rossa. Dal 1923-24 entrò in urto con Stalin, assertore della strategia del 'socialismo in un solo paese', cui T. oppose quella della 'rivoluzione permanente'. Espulso dal partito (1927) e costretto a lasciare l'URSS, fu aspro critico dello stalinismo e tentò di organizzare i comunisti antistalinisti nella Quarta Internazionale (1938). Condannato a morte in contumacia già nel 1936, nel 1940 fu ucciso in Messico da un sicario di Stalin”.

(Treccani Studenti)

Leon Trotsky

Tra le sue opere: Von der Oktober-Revolution bis zum Brester Friedensvertrag (1918); Vojna i revoljucija ("Guerra e rivoluzione", 1925); Die Fälschung der Geschichte der Russischen Revolution (1928); Moja žizn' ("La mia vita", 1930); Permanentnaja revoljucija ("La rivoluzione permanente", 1930); Geschichte der Russischen Revolution (1931-33); Stalin (1936). L'archivio T. è conservato presso la Harvard University.

Da un suo scritto dei primi anni 10 del XX secolo: “Le classi nostre nemiche sono abituate a lamentarsi del nostro terrorismo. Cosa esse intendono con ciò è piuttosto oscuro. A loro piacerebbe etichettare tutte le attività del proletariato dirette contro gli interessi del nemico di classe come terrorismo. Lo sciopero, ai loro occhi, è il principale metodo del terrorismo. La minaccia di uno sciopero, l'organizzazione di picchetti, il boicottaggio economico di un boss schiavista, il boicottaggio morale di un traditore dalle nostre stesse file - tutto questo e molto più è ciò che essi chiamano terrorismo. Se il terrorismo è inteso in questo modo, come ogni azione che ispiri paura o arrechi danno al nemico, allora certamente l'intera lotta di classe non è nient'altro che terrorismo. E l'unico interrogativo che resta da porsi è se i politici borghesi abbiano o meno il diritto di versare la loro piena indignazione morale sul terrorismo proletario quando il loro intero apparato statale, con le sue leggi, polizia ed esercito, non è nient'altro che l'apparato del terrore capitalistico!
Occorre però dire che, quando ci rimproverano di terrorismo, essi stanno tentando - per quanto non sempre in modo conscio - di dare a questo termine un significato più stretto. Il danneggiamento di macchinari da parte dei lavoratori, per esempio, è terrorismo in senso stretto. L'uccisione di un padrone, la minaccia di incendiare una fabbrica o una minaccia di morte al suo proprietario, il tentato omicidio, con revolver in pugno, contro un ministro - tutti questi sono atti terroristici nel pieno ed autentico senso della parola. Però, chiunque abbia un'idea della vera natura della Socialdemocrazia internazionale, dovrebbe sapere che essa si è sempre opposta a questo tipo di terrorismo e lo fa nel modo più irriconciliabile.
Perché? "Terrorizzare" con la minaccia di uno sciopero, o condurre realmente uno sciopero, è qualcosa che solo gli operai industriali possono fare. L'importanza sociale di uno sciopero dipende direttamente da: primo, la dimensione dell'impresa o della branca di industria che esso colpisce e, secondo, il grado nel quale gli operai che vi prendono parte sono organizzati, disciplinati e pronti all'azione. Questo è vero tanto per uno sciopero politico quanto per uno economico. Esso continua ad esser un metodo di lotta che scaturisce direttamente dal ruolo produttivo del proletariato nella società moderna”.

 

Una frase al giorno

Potrò essere crocifisso, potrò anche morire, ma voglio che i miei fratelli dicano: "è morto perché io sia libero".

(Martin Luther King, 1929-1968, pastore protestante, politico e attivista statunitense)

 

Un brano al giorno

Canción a Trotsky, Canzone dedicata a uno dei più brillanti rivoluzionari del XX secolo, Leone Trotsky. Musica e testi del gruppo pato cerpa SiKuS

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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web www.brusaporco.org

 

 

 

 

 

UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k