L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno IV. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...
Un film al giorno
IL CARDINALE LAMBERTINI (Italia, 1954), regia di Giorgio Pàstina. Soggetto dal lavoro teatrale (1905) di Alfredo Testoni. Sceneggiatura: Giorgio Pàstina, Oreste Biancoli, Edoardo Anton. Produttore: Manlio Morelli. Fotografia: Rodolfo Lombardi. Montaggio: Renato Scandolo. Musiche: Carlo Rustichelli, dirette da Franco Ferrara. Cast: Gino Cervi, Cardinale Lambertini. Nadia Gray, Gabriella di Roccasibalda. Carlo Romano, Goffredo di Roccasibalda. Arnoldo Foà, Duca di Montimar. Sergio Tofano, Canonico Peggi. Paolo Carlini, Carlo Barozzi. Virna Lisi, Maria di Roccasibalda. Tino Buazzelli, Conte Davia. Gianni Agus, Conte Pepoli. Agnese Dubbini, la nutrice. Mario Mazza, Anastasio. Aldo Fiorelli, abate Cavalcanti. Loris Gizzi, conte Orsi. Piero Pastore, messaggero papale. Armando Migliari, dottore. Mario Siletti, maggiordomo. Emilio Petacci, Costanzo. Rita Glori, marchesa Gozzadini. Ignazio Balsamo: sergente. Tullio Altamura, Don Tinti.Gualtiero Isnenghi, Conte Aldovrandi. Alfredo Salvadori, Don Girolamo. Natale Cirino, notaio-Leonardo Severini, Zanotti. Corrado Annicelli, Fuentes. Pietro Tordi. Maurizia Ranzi. Libero Grandi. Teresa Moggi.
“Il film, ambientato nel 1739, tratteggia la figura del cardinale Prospero Lorenzo Lambertini, arcivescovo di Bologna (1731-1740), che nel 1740 verrà eletto papa con il nome di Benedetto XIV.
Il Cardinale, molto attento alle dinamiche politiche nella Bologna presidiata dalle truppe spagnole e alle sofferenze dei bolognesi, non esita ad interporsi tra questi ed una nobiltà inetta, manovrata dalla contessa Gabriella di Roccasibalda, donna spregiudicata ed intraprendente, ed il popolo, verso il quale era stata progettata una strage mascherata da tentativo di ribellione, che avrebbe dovuto creare il casus belli per una forte repressione e per l'instaurazione del gonfalonierato a vita di un fantoccio degli spagnoli.
Le truppe spagnole sono comandate dal duca di Montimar, il quale corteggia assiduamente la contessa di Roccasibalda, desiderosa di raggiungere una posizione egemonica sulla città. Per ottenere i suoi obiettivi, Gabriella decide di far sposare al duca la figliastra Maria: questa però è segretamente innamorata di Carlo, figlio del maggiordomo del Cardinale. Per sottrarsi alle odiate nozze, Maria pensa di fuggire con Carlo; ma quando un equivoco la convince che il suo fidanzato abbia una relazione con la matrigna, questa decide di ritirarsi in convento, per farsi suora. Il giovane riesce ad incontrarla, riuscendo a spiegargli l'equivoco e convincendola a lasciare il convento ed a rifugiarsi con lui nel Palazzo Arcivescovile.
Il Cardinale, prendendo a cuore il caso dei due giovani, fa in modo che possano nascondersi nel castello del conte Davia, fidato gentiluomo. Il duca manda le sue truppe ad assediare il castello, ma il Cardinale vi si reca e celebra il matrimonio dei due giovani. Il giorno seguente convince i soldati a deporre le armi. Soltanto un sergente, per rancore verso Carlo gli spara, ma colpisce Maria. Inizialmente si teme che il colpo sia stato mortale, ma fortunatamente non è così.
Il Cardinale lascia l'inferma, in via di guarigione, per recarsi a Roma, al conclave, dal quale uscirà Papa.
Nel film, improntato più a toni da commedia che non drammatici, il ruolo del protagonista è affidato a Gino Cervi che, con grande bravura, e grazie ad una genuina "emilianità" che lo accomuna al personaggio storico, riesce ad interpretare la figura del cardinale Lambertini tratteggiandone un carattere sornione, scherzoso, profondamente umano (si veda la scena in cui veglia la madre morente del giovane sacerdote), ma determinato e soprattutto ben consapevole di se stesso che afferma: «Questo vestito rosso non aumenta i miei meriti davanti al Signore.»
Gino Cervi tornerà ad interpretare la figura del cardinale Lambertini nell'omonima versione televisiva del 1963, diretta da Silverio Blasi.
L'egregia interpretazione di altri grandi attori contribuì al successo del film che, sebbene ormai datato, risulta tuttora estremamente godibile, fra questi figurano:
- Arnoldo Foà: il severo duca di Montimar, non insensibile al fascino femminile;
- Tino Buazzelli: il fidato conte Davia, non uno stinco di santo, ma tuttavia nemmeno un corrotto a detta del Cardinale;
- Nadia Grey: la conturbante, seduttiva, ambiziosa e manipolatrice contessa Isabella, secondo il Cardinale una come la Repubblica Veneta: perde le guerre ma si salva con la diplomazia;
- Carlo Romano: l'incapace conte Goffredo di Roccasibalda, succube della moglie Isabella;
- Sergio Tofano: il paziente e sempre attento canonico, i cui dialoghi con il Cardinale sono tutti da godere;
- Virna Lisi: la giovane figlia della contessa.
Il cardinale Prospero Lorenzo Lambertini verrà eletto papa con il nome Benedetto XIV, il 17 agosto 1740, dopo un lungo conclave durato ben sei mesi. La leggenda racconta che, prima di partire per Roma, con il suo consueto umorismo disse: «Se volete un santo eleggete Gotti, se volete un politico eleggete Aldrovandi (il cardinale Pompeo Marescotto Aldrovandi) e se volete un asino eleggete me.» ”
(In cathopedia.org)
“Remake dell'omonimo film diretto nel 1934 da Parsifal Bassi, tratto dalla commedia firmata da Alfredo Testoni, Il cardinale Lambertini è la terzultima prova registica di Giorgio Pàstina, che chiuderà prematuramente la sua carriera con due melodrammi/filmetti popolari (Una sera di maggio e Cantami buongiorno tristezza), l'anno seguente. Anche questa pellicola è indubbiamente un prodotto destinato all'intrattenimento per un vasto pubblico, ma va riconosciuta la buona fattura della confezione e il lavoro di scrittura nell'intreccio e nella definizione dei personaggi. Alla sceneggiatura hanno messo mano Oreste Biancoli (già impiegato da Bassi per il suo film, vent'anni prima), Edoardo Anton e il regista; se il personaggio centrale funziona a meraviglia è d'altronde merito in gran parte anche del suo interprete, un Gino Cervi raramente così in parte: bolognese di origine, veste i panni di un simpatico cardinale felsineo fino al midollo. Nel cast a ogni modo abbondano i nomi rilevanti: ci sono infatti anche Nadia Gray, Arnoldo Foà, Virna Lisi, Carlo Romano, Gianni Agus, Tino Buazzelli, Paolo Carlini e, in un ruolo laterale, Sergio Tofano, attore e fumettista noto come il padre del Signor Bonaventura. Il buon risultato complessivo spingerà la Rai a realizzare una nuova versione della commedia, in forma di sceneggiato televisivo, neppure dopo un decennio (1963), con la regia di Silverio Blasi; il protagonista sarà di nuovo Cervi.”
(In www.filmtv.it)
- Il film: Il Cardinale Lambertini, 1954
17 agosto 1740: Papa Benedetto XIV, precedentemente noto come Prospero Lambertini, succede a Clemente XII come 247° Papa.
La commedia:
Il Cardinale Lambertini, di Altredo Testoni,1963. Con Gino Cervi, Daniele Tedeschi, Adriana Vianello, Mario Pisu, Sabrina Loy, Francesco Sormano, Lia Angeleri, Camillo Pilotto, Maria Luisa Rossi, Diego Michelotti, Sandro Pellegrini, Diana De Ferrante, Linda Sini, Lucio Rama, Giorgio Bonora, Mario Maranzana, Nino Dal Fabbro, Claudio Gora, Luigi Pavese, Vittorio Duse, Armando Migliari, Antonio Pierfederici, Evar Maran, Claudio Sora, Mimmo Billi, Attilio Cucari, Olindo Parmiani, Paolo Bonacelli.
Una poesia al giorno
Canzoneta, di Lorenzo Da Ponte (dal dramma giocoso in tre atti “Il ricco d’un giorno”, musicata da Antonio Salieri. Atto secondo, Scena dodicesima, 1784)
Vegnì su la finestra,
vegnì cara Nineta,
sentì una canzoneta
che fata xe per vu.
Se non ve piase el canto
ve piasa chi lo fa,
l’è quello, che xe tanto
stracoto, e brustolà.
Vu sè del sol più bela,
più bianca dela Luna,
la matutina stela
tanto zentil no xe.
De rose avè el viseto,
de neve avè el nasin,
e par proprio un confeto
quel vostro bel bochin.
Vegnì caro tesoro,
lassè che mi ve veda,
vegnì se no mi moro…
Lorenzo Da Ponte (Ceneda 1749 - New York 1838). Nasce nel Ghetto di Ceneda con il nome di Emmanuel Conegliano, figlio di Geremia e di Anna Cabiglio che muore subito dopo il parto.
Con la conversione ed il battesimo del padre e dei due fratelli riceve anche un nome ed un cognome nuovi, quello del vescovo di Ceneda, Lorenzo da Ponte.
Profondo letterato, vive appieno la sua epoca nella libertina Venezia e da qui, poeta di Corte, giunge a Dresda e Vienna dove, infine, diviene librettista di opere liriche. Scrive per Mozart, Vicente Martin Y Soler, Antonio Salieri. Le note di Mozart nel “Così fan tutte”, “Don Giovanni” e “Le nozze di Figaro” scorrono immortali sui testi di Lorenzo da Ponte. Un vagabondo geniale che ha portato il talento da Vienna a Londra e quindi in America, a New York, dove lavora incessantemente fino alla morte per promuovere e valorizzare la lingua italiana.
Oggi la cattedra di lingua italiana alla prestigiosa Università di New York è intitolata al cenedese Lorenzo da Ponte.
Vittorio Veneto, oltre che con il teatro di Serravalle e l’omonima Accademia Teatrale, lo ricorda con una via a lui intitolata nel 1886 e con un busto che si può ammirare a Parco Papadopoli, davanti alla civica biblioteca.
“DA PONTE, Lorenzo. - Avventuriero e poeta di teatro. Nato a Ceneda, oggi Vittorio Veneto, nel 1749, da ebreo divenne senza vocazione prete cattolico (1773), visse vita misera e dissipata a Venezia, insegnò nel seminario di Treviso. Perduta la cattedra per certe idee ardite sullo stato di natura esposte in un'accademia poetica del seminario, tornò a Venezia, ove si diede a improvvisare e a fare il precettore in nobili case, e fu amico del Casanova. Nel 1779, denunciato per gravi scostumatezze e furfanterie, che gli procurarono una severa condanna, si rifugiò a Gorizia. Di là andò a Dresda e poi a Vienna, raccomandato al maestro Salieri. Ottenuta la protezione di Giuseppe II, ebbe l'ufficio, contesogli dal Casti, di poeta dei teatri imperiali. Raffazzonò vecchi libretti; alcuni ne scrisse per il maestro spagnolo Martini (Martin y Soler), altri per Mozart. Morto Giuseppe II (1790), non godendo il favore di Leopoldo, fu soppiantato dal Casti, eletto poeta cesareo, e dal Bertati, eletto poeta dei teatri imperiali. Nel 1792, dopo aver soggiornato alquanto a Trieste, partì per Londra, dove sposò col rito anglicano un'Inglese e dove visse undici anni, esercitando i mestieri di libraio, stampatore, agente e poeta teatrale, sempre alle prese con usurai, sbirri, avvocati. Partì nel 1805 per gli Stati Uniti e andò successivamente a Philadelpia e a New York, a Sundbury, di nuovo a Philadelphia e a New York, dove fece il droghiere, il libraio, con l'intento di diffondere i libri italiani, ivi allora ignoti, il professore d'italiano, il dantologo: sempre povero, sempre disgraziato, sempre affetto da mania di persecuzione. Morì nel 1838.
Ben 36 libretti compose il Da Ponte e molte liriche: ma egli vive nelle interessanti e, qua e là, vivaci ma poco veridiche Memorie, pubblicate nel 1829-30, e specialmente nelle Nozze di Figaro (1786), nel Don Giovanni (1787) e in Così fan tutte (1790), coi quali libretti diede i migliori esempî, oltre quelli del Casti, di opera buffa italiana, e fu poeta degno del Mozart. La commedia del Beaumarchais diventa più briosa, più snella, più densa nella riduzione del Da Ponte. Quanto al vecchio tema Don Giovanni egli era disposto dalla stessa sua natura di avventuriero a rivivere e a ricreare quel personaggio: il conquistatore delle donne "pel piacer di porle in lista", il gaudente spavaldo, incurante del giudizio divino.”
(In: www.treccani.it)
- Immagini: The Life of Lorenzo Da Ponte
17 agosto 1838 muore Lorenzo Da Ponte, drammaturgo e poeta italiano (nato nel 1749)
Un fatto al giorno
17 agosto 1498: Cesare Borgia, figlio di papa Alessandro VI, diventa la prima persona nella storia a rassegnare le dimissioni dal cardinalato; più tardi quello stesso giorno, il re Luigi XII di Francia lo nomina duca di Valentinois.
“Cesare Borgia nacque, secondo ogni probabilità, nell'estate del 1475 da Rodrigo Borgia, allora cardinale vescovo di Albano e vice-cancelliere della chiesa, e da Vannozza Catanei, romana. Rivolto da prima a vita ecclesiastica, ebbe la dignità di protonotario (27 marzo 1482) e, dopo molti altri benefizî, il vescovado di Pamplona (12 settembre 1491).
Nella notte dopo il 14 giugno 1497, il duca di Gandía venne ucciso: la voce pubblica indicò variamente l'autore del delitto; più tardi, quando Cesare fu conosciuto meglio, lo attribuì a lui quasi concordemente. Il truce mistero che avvolse quel fatto, il repentino dileguarsi dei propositi di vendetta del papa, l'atteggiamento stesso di questo di fronte a Cesare rendono probabile il sospetto che Cesare volesse liberarsi di chi gli attraversava la via, ch'egli, ormai, voleva percorrere. Certo egli la percorse, d'allora in poi, risolutamente e trascinò dietro di sé il pontefice, che aveva per lui insieme amore e paura.
Il 17 agosto 1498, egli depone la dignità cardinalizia, qualche giorno dopo ha dal re di Francia la contea del Valentinois, che è eretta poco appresso in ducato e da cui gli viene il nome di duca Valentino. Si pensa per lui al matrimonio con una figlia di Federigo re di Napoli e a procurargli uno stato, se non forse l'eredità stessa del regno; ma poiché il re non vuole dare la figliuola a un semplice "fio dil papa" e il re di Spagna, ostile alla secolarizzazione del Valentino, si leva contro il nepotismo papale, Cesare piega definitivamente verso il re di Francia, da cui è stato accolto con grandissimo onore nel regno (ottobre 1498), e ha in isposa Carlotta d'Albret, sorella del re di Navarra (12 maggio 1499), e promessa d'appoggio ai suoi già vasti disegni.
Col titolo di luogotenente del re di Francia, con milizie fornite dal re o assoldate con il danaro del papa, Cesare imprende a spodestare i tirannelli di Romagna, col pretesto di sottomettere alla Chiesa la regione che dominava le vie dell'Italia centrale. Il primo assalto è alla signoria Sforza Riario; le città di Imola e di Forlì aprono subito le porte (24 novembre e 17 dicembre 1499); Caterina si difende fieramente nella rocca di Forlì, ma è costretta alla resa (12 gennaio 1500): Cesare assume nelle due città il titolo di vicario per la Chiesa.
Il ritiro delle truppe francesi, l'intervento dei veneziani costrinsero Cesare a sospendere l'impresa. Ritornò a Roma accolto in trionfo (26 febbraio 1500) ed ebbe dal papa l'investitura del vicariato (9 marzo), la rosa d'oro e il titolo di gonfaloniere della Chiesa (29 marzo). E già provvedeva a ordinare il governo delle città conquistate, promettendo di reggerle "cum iustitia et misericordia" (Alvisi, doc. 11) e stabilendovi governatore don Ramiro de Lorqua, spagnolo, energico e severo. Rimase tuttavia a Roma più mesi, e ora partecipava a feste carnevalesche, nelle quali apparivano carri rappresentanti il trionfo di Giulio Cesare, ora assisteva a cerimonie religiose del giubileo, ora combatteva una corrida di tori. Ma il 15 luglio di quell'anno Alfonso duca di Bisceglie, degli Aragonesi di Napoli, secondo marito di Lucrezia Borgia, era ferito in piazza San Pietro e il 18 agosto ucciso nello stesso palazzo papale: forse il primo attentato, certo il secondo erano opera di Cesare, il quale rompeva così ogni possibilità che il papa, ritornando a politica favorevole a Napoli, intralciasse i disegni del re di Francia e le ambizioni del Valentino.
Fatti danari con la creazione cardinalizia del 28 settembre, amicata Venezia con gli aiuti dati o promessi contro il Turco, sicuro dell'appoggio francese, il Valentino riprende, nell'ottobre 1500, le sua gesta in Romagna, dove, già dall'agosto, il papa ha costretto Cesena e Bertinoro ad acclamarlo signore: lo seguono nell'esercito baroni romani e signorotti dello stato papale, i quali trovano più sicuro aderire a lui che resistergli. Prima ancora che egli giunga, Pandolfo Malatesta cede Rimini (10 ottobre), Giovanni Sforza fugge da Pesaro: Faenza sola resiste per l'amore dei cittadini al giovanissimo Astorre Manfredi e gli aiuti di Giovanni Bentivoglio, signore di Bologna, e dei Fiorentini. Il 25 d'aprile del 1501 la città, dopo meravigliosa difesa, si arrende: Astorre, contro i patti, è mandato prigione a Roma, dov'è ucciso nel giugno dell'anno appresso. Il Bentivoglio patteggia col duca; Firenze, con le milizie di lui quasi alle porte, gli offre condotta con assegno di 36.000 ducati per tre anni (15 maggio). Poi, mentre, occupate già l'Elba e Pianosa, l'esercito ducale stringe Piombino, che sarà nel settembre costretta alla resa, Cesare rientra a Roma (13 giugno); e, poiché il papa ha approvato (25 giugno) la spartizione del regno di Napoli tra la Francia e la Spagna, segue secondo i patti l'esercito francese, partecipa alla presa e al saccheggio orrendo di Capua, entra, precedendo i Francesi, in Napoli; il 15 settembre è in Roma di nuovo e attende di spiccare altro volo.
Riordina intanto la Romagna, di cui il papa fin dal maggio lo ha creato duca, stendendone poi il confine da Imola a Fano, e vi pone governatore generale don Ramiro perché la tenga tranquilla contro i tentativi di riscossa dei signori spodestati e i maneggi nascosti dei Veneziani.
Nel giugno del 1502, fatti a spese della Chiesa grandi apparecchi di guerra, Cesare lasciò Roma di nuovo. Il momento era propizio: il re di Francia aveva bisogno del papa per le contese ormai sorgenti con la Spagna; Ferrara, dov'era andata sposa Lucrezia, era in lega con i B.; Venezia, occupata col Turco, faceva protestare a Cesare dal doge il "paterno suo amore"; Firenze aveva già sulle braccia la guerra con Pisa, e il Valentino, senza assalirla direttamente come protetta dal re di Francia, lasciava operare contro di lei i suoi condottieri, che le ribellarono Arezzo e occuparono la Valdichiana. La spedizione ducale pareva diretta contro Giulio Cesare Varano, signore di Camerino; ma Cesare piomba a tradimento sopra il ducato di Urbino che gli è necessario per dominare la Romagna.
Guidobaldo da Montefeltro fugge a stento; Cesare prende il titolo di duca d'Urbino e fa portare a Cesena le opere d'arte e la biblioteca feltresca. Niccolò Machiavelli, inviato ad Urbino come segretario dell'oratore fiorentino, ammira la prudenza, la celerità, l'eccellentissima felicità di quell'uomo vittorioso e formidabile. Nel luglio, Camerino è tolta ai Varano, che morranno poi in carcere o saranno uccisi, ed è data nominalmente a Giovanni B., un bambino asserito figliuolo di Cesare.
E già il duca pensava all'impresa contro Bologna, quando, ai primi d'ottobre, si raccolsero alla Magione, in quel di Perugia, con alcuni degli Orsini, con Ermete Bentivoglio, col rappresentante di Pandolfo Petrucci da Siena, due dei Baglioni e Vitellozzo Vitelli, avversarî o condottieri di Cesare, tutti egualmente paurosi di essere "a uno a uno devorati dal dragone" (Villari, Machiavelli, 2ª edizione, I, 395). Parve allora crollare il dominio di Cesare: Urbino si ribellava e l'esercito ducale era vinto dagli Orsini a Calmazzo (15 ottobre); rientrava nei suoi stati acclamato il duca Guidobaldo; Camerino era pure ribelle e Fano minacciata. Ma Cesare raccoglie in Romagna un nuovo esercito, si riaccosta a Firenze, che gli manda oratore a Imola il Machiavelli, si fa forte della protezione del re di Francia. A capo della Romagna mette, in luogo del Lorqua, Antonio del Monte, lodato per dottrina, per senno e bontà, e poco appresso fa porre "a Cesena, in dua pezzi, in sulla piazza" don Ramiro, sia per fare "satisfatti e stupidi" quei popoli (Machiavelli, Principe, VII, 8), sia per ammonire i servitori malfidi. Intanto, con un'astuzia che sconcerta lo stesso Machiavelli, tratta con alcuni dei congiurati della Magione ancora titubanti; e, mentre Guidobaldo abbandona di nuovo il ducato e i condottieri di Cesare occupano in nome suo Senigallia, questi entra nella città con forze inferiori alle loro e, tradendo chi forse si apprestava a novamente tradirlo, li fa prigionieri (31 dicembre 1502). Oliverotto da Fermo e il Vitelli sono uccisi la stessa notte, il duca di Gravina e Paolo Orsini alcuni giorni appresso (18 gennaio 1503): Niccolò Machiavelli narra alla Signoria con ammirazione quei fatti memorabili e ne scriverà più tardi, colorendoli in parte diversamente dal vero, la Descrizione. A Roma gli Orsini sono fatti arrestare dal papa e Battista cardinale muore con sospetto di veleno (22 febbraio 1503); le terre loro sono per gran parte occupate; i tirannelli dell'Umbria fuggono come innanzi all'idra; Perugia e Città di Castello vengono in mano di Cesare, il cui esercito devasta le terre paurosamente.
La Romagna era ormai saldamente organizzata e sicura. Alle città erano stati accordati o confermati privilegi diversi; ma in ciascuna era un governatore ducale; le maggiori cariche erano date a Romagnoli. Per l'amministrazione della giustizia fu creata una Rota, corte suprema d'appello, composta di dottori scelti dal duca uno per ciascuna città: il 24 giugno del 1503, con grandi feste e rappresentazioni sacre e profane, nelle quali apparve il carro trionfale di Cesare e Cleopatra, si aprì, sotto la presidenza di Antonio del Monte, la prima sessione; furono norma le Costituzioni egidiane. E in Romagna si armavano fanti dell'ordinanza con la divisa ducale, esempio di milizia paesana, più tardi largamente imitato. La terra, che poco innanzi era spartita fra molti piccoli tiranni e lacerata da fazioni, sentiva ora e già apprezzava il forte governo d'un solo e rapidamente s'avviava a formare uno stato.
E già Cesare si andava staccando dalla Francia, sconfitta nel Napoletano, e s'avvicinava alla Spagna vittoriosa, raccoglieva con mezzi più o meno leciti o delittuosi nuovo danaro, si diceva pensasse a occupare Siena e Pisa e Firenze, non più protetta efficacemente dal re di Francia: all'uomo, che da più anni portava sulla sua spada il motto Cum nomine Caesaris omen, si attribuiva il disegno di cingere la corona di re. Il raccogliersi a Parma di un nuovo esercito francese interruppe i nuovi disegni, la morte del papa (18 agosto 1503) li infranse. Disse Cesare al Machiavelli "che aveva pensato a ciò che potessi nascere morendo el padre, et a tutto aveva trovato remedio, eccetto che non pensò mai, in su la morte, di stare ancora lui per morire (loc. cit., 12). Infermo, poté tuttavia rimanere a Roma più giorni, ma dovette pacificarsi con i Colonna, e giurare obbedienza al Sacro Collegio (22 agosto); solo il 2 settembre, dopo lunghe trattative con i cardinali, lasciò la città, ponendosi sotto la protezione del re di Francia. I signori spodestati tornavano nelle loro terre; ma rimaneva ferma la Romagna, e il nuovo papa Pio III, eletto il 22 settembre per un accordo tra cardinali francesi e spagnuoli, mostrava favore a Cesare fino a confermargli i diversi vicariati e l'ufficio di gonfaloniere, scrivere brevi per lui, consentirgli il ritorno in città (3 ottobre).
Ma Pio III venne a morte il 18 ottobre; Faenza e Forlì andarono perdute; Cesare stesso appariva all'oratore veneziano assai diverso da un tempo, "molto sbattuto", senza "l'arroganzia sua consueta" (Giustinian, Dispacci, II, 268). Poté ancora dal Castel Sant'Angelo, dove s'era ritratto, patteggiare con Giuliano della Rovere, promettendo a questo antico fierissimo avversario dei Borgia i voti dei cardinali spagnoli, purché egli avesse l'ufficio di gonfaloniere e protezione dal nuovo pontefice. Ma, eletto papa (i novembre), Giulio II non mantenne la fede, né poteva mantenerla senza che la Romagna cadesse intera nelle mani dei Veneziani. Cesare sembra ora "uscito del cervello... avviluppato e inresoluto" (Machiavelli, Disp., 14 novembre 1503). Mentre i Veneziani s'impadroniscono di Faenza e di Rimini, il papa, che vuole rivendicare la Romagna alla Chiesa, tenta di ottenere da lui la cessione delle terre che gli rimangono: a un suo rifiuto, lo fa arrestare a Ostia e condurre a Roma (novembre 1503). Dopo lunghi negoziati poco sinceri, il duca cede per gran parte: liberato senz'ordine del papa (aprile 1504), si rifugia a Napoli, dove Gonsalvo di Cordova prima lo accoglie con onore, poi, per ordine del suo re sollecitato dal papa, lo arresta come disturbatore della pace d'Italia (27 maggio); solo a questo modo e non subito, gli si strappa l'ordine al castellano di cedere la rocca di Forlì, ultima che fosse ancora tenuta per lui. E tuttavia Cesare è inviato prigioniero in Spagna, fugge il 25 ottobre del 1506 e ripara presso il cognato re di Navarra; muore combattendo sotto il castello di Viana il 12 marzo 1507.
Fu Cesare Borgia biondo, d'aspetto bellissimo, prima che le pustole, dovute a malattia o a dissolutezza, ne deformassero il volto, di corpo tanto robusto che si narrò potesse con le mani infrangere un'asta e stroncare una fune o un ferro da cavallo. Fu parlatore facondo, amante della cultura e dei libri, protettore di letterati. Il Pinturicchio fu preso al suo servizio, Leonardo fu per due anni suo "architetto et ingegnere generale" e attese per lui a opere di difesa militare e di utilità o decoro pubblico, particolarmente in Romagna. Ebbero per suo impulso notevole sviluppo le industrie; ebbe protezione la tipografia sonciniana di Fano; furono innalzati edifizî, fra i quali a Cesena il palazzo della Rota e il Ginnasio.
Pensò Cesare vasti disegni, li eseguì con audacia e fermezza, senza scrupolo nella scelta dei mezzi; giunto alla meta, seppe governare con severità e con giustizia, sicché il Machiavelli lo additò come ideale dei nuovi principi, e credette di vedere in lui uno "spiraculo", per la redenzione d'Italia (Principe, VII, 13; XXVI, 1). Ma fu dissoluto, crudele, orgoglioso; chi conobbe lui giovinetto, scrisse che ogni cortesia fatta a lui era poco apprezzata e i suoi modi avevano "del marano sconciamente" (Picotti, l. c., 679); dieci anni dopo, l'oratore veneto, che non riusciva ad averne udienza, lamentava "la difficile natura sua" (Giustinian, l. c., I, 23).
Si osservò che la fortuna di Cesare, sorta per opera di papa Alessandro, tramontò con questo; e certo gran parte del buon successo egli dovette al formidabile appoggio, che, pure in età di decadenza, poteva dare il papato; è tuttavia da riconoscere che i disegni e le azioni non furono di Alessandro, ma suoi. Può anche additarsi già ne' suoi tempi migliori un contrasto fra periodi di operosità intensa e di riposo, quasi di ozio, come se la ferrea natura propria di lui si alternasse con una natura molle e sensuale, ereditata dal padre. E più s'avverte il contrasto fra quei cinque anni gloriosi e l'abbattimento in cui cadde poi, nella cattiva fortuna. Forse lo aveva fiaccato la malattia? o fu Cesare Borgia uno di quegli uomini, che, quasi per fatalistica fede, seguono la loro stella, finché appaia luminosa, e si accasciano quando essa si oscuri?”
(Giovanni Battista Picotti - Enciclopedia Italiana (1930) in www.treccani.it)
- FILM: Il principe delle volpi (Prince of Foxes, 1949). Regia di Henry King.
Soggetto di Samuel Shellabarger. Sceneggiatura di Milton Krims e Samuel Shellabarger. Produttore Sol C. Siegel. Fotografia di Leon Shamroy. Musiche di Alfred Newman. Scenografia di Mark-Lee Kirk, Vittorio Valentini, Lyle Wheeler. Costumi di Vittorio Nino Novarese. Interpreti e personaggi: Tyrone Power, Andrea Orsini. Orson Welles, Cesare Borgia. Marina Berti, Angela Borgia. Wanda Hendrix, Camilla Baglioni, moglie di Marcantonio Varano. Everett Sloane, Mario Belli. Katina Paxinou, Mona Costanza Zoppo. Felix Aylmer, Marcantonio Varano. Leslie Bradley, Don Esteban. Joop van Hulzen, Duca Ercole D'Este. Eduardo Ciannelli, mercante d'arte. Franco Corsaro, Mattia.
È il 1500 e Cesare Borgia, il "principe" esaltato da Niccolò Machiavelli nel suo trattato, detiene pieni poteri sulla Toscana e sui territori del Centro Italia. Infatti Cesare, come i suoi fratelli e sorelle, è il figlio del corrotto e ricco Rodrigo Borgia, salito al trono pontificio come Papa Alessandro VI, il quale, pur consapevole di tutti i misfatti e gli omicidi che compie il figlio per il desiderio di potere, lo lascia fare ed inoltre occulta tutte le prove che potrebbero incastrarlo.
Obiettivo di Cesare è quello di conquistare il Ducato di Ferrara governato da Alfonso d'Este, figlio del grande Ercole I e marito di Lucrezia, sorella incesta di Cesare. Per impadronirsi definitivamente del trono estense, Cesare progetta di uccidere con una congiura Alfonso e, a tale scopo, assolda Andrea Orsini, il quale però disobbedisce e fugge a Venezia, dove si innamora della nobildonna Camilla Baglione e cerca di rubare un prezioso quadro. Intanto il duca Alfonso assume come guardia del corpo e sicario Mario Belli.
Fuggito da Venezia perché riconosciuto da alcune spie, Orsini giunge nei pressi di Ferrara, dove ritrova i suoi veri genitori e scopre le sue povere origini, sebbene sia stato chiamato per anni col nome "Orsini". Per conto di Don Esteban, rivale di Borgia, intraprende una nuova missione, ovvero quella di infiltrarsi nella corte estense e scoprire i piani di Alfonso. Cesare Borgia sospetta un nuovo tradimento di Andrea, ora ridefinito "Lo Zoppo", e assolda segretamente Mario Belli per compiere una nuova spedizione in Emilia-Romagna. Anche Camilla Baglione interviene in aiuto del suo amato Andrea contro Cesare Borgia.
Durante uno scontro, Belli e Andrea superano la loro rivalità e stringono un rapporto di amicizia che si consolida nel tempo, portando l'uno a cospirare contro Don Esteban per derubarlo e l'altro a cercare di uccidere Cesare Borgia. Ma i rispettivi piani falliscono, e a farne le spese è Camilla, che viene catturata da Cesare Borgia, rinchiusa in prigione e condannata a morte.
Andrea e Belli, ormai alleati, si scontrano con i due padroni nella battaglia decisiva per sconfiggere l'Emilia-Romagna. Don Esteban viene ucciso da Andrea, mentre Borgia si ritira, anche lui sconfitto. Andrea e Camilla possono coronare il loro sogno d'amore sposandosi, mentre Cesare Borgia finirà progressivamente in miseria, fino a perdere la sua ultima guerra.
Una frase al giorno
“L'Uomo è l'unica creatura che consumi senza produrre. Non dà latte, non depone uova, è troppo debole per tirare l'aratro, non corre abbastanza veloce da catturare un coniglio. Però è padrone di tutti gli animali. Li fa lavorare e in cambio concede loro il minimo necessario alla sussistenza, tenendo il resto per sé. Il nostro lavoro dissoda la terra, il nostro escremento la fertilizza, tuttavia non c'è fra noi chi possegga altro che la nuda pelle. Voi mucche, che vedo qui davanti a me, quante migliaia di litri di latte avete prodotto quest'anno? e che ne è stato di quel latte che avrebbe dovuto svezzare vigorosi vitelli? Ogni singola goccia è stata trangugiata dai nostri nemici.”
(George Orwell in Animal Farm)
“La fattoria degli animali (Animal Farm) è una novella allegorica di George Orwell pubblicata per la prima volta il 17 agosto 1945. Secondo Orwell, il libro riflette sugli eventi che portarono alla Rivoluzione russa e successivamente all'era staliniana dell'Unione sovietica. L'autore, un socialista democratico, fu critico nei confronti di Stalin e ostile allo stalinismo, atteggiamento che fu criticamente modellato sulla base delle sue esperienze durante la Guerra civile spagnola. Orwell era convinto che l'Unione sovietica fosse divenuta una dittatura brutale, edificata sul culto della personalità e retta da un regno del terrore. In una lettera a Yvonne Davet, l'autore descrisse La fattoria degli animali come una narrazione satirica contro Stalin («un conte satirique contre Staline»); inoltre, nel suo saggio Perché scrivo (1946), scrisse che La fattoria degli animali fu il primo libro in cui lui tentò, con piena consapevolezza di quanto stava facendo, «di fondere scopo politico e scopo artistico in un tutt'uno».
Il titolo originale dell'opera era Animal Farm: A Fairy Story, tuttavia gli editori statunitensi abbandonarono il sottotitolo quando venne pubblicata nel 1946 e solo una delle traduzioni lo mantenne durante la vita dell'autore. Altri sottotitoli riportano A Satire e A Contemporary Satire. Orwell suggerì, per la traduzione francese, il titolo Union des républiques socialistes animales, abbreviato in URSA, parola latina per «orso», un simbolo della Russia. Il titolo fa riferimento anche al nome dell'Unione sovietica in francese: Union des républiques socialistes soviétiques.
Orwell compose La fattoria degli animali tra il novembre 1943 e il febbraio 1944, quando la Gran Bretagna era un'alleata dell'Unione sovietica e il popolo e l'intelligencija britannici tenevano Stalin in grande considerazione, cosa che Orwell odiava. Il manoscritto fu inizialmente respinto da un certo numero di editori britannici e americani, incluso uno di Orwell, Victor Gollancz, che ne ritardò la pubblicazione. Quando apparve, l'opera divenne un grande successo commerciale, in parte a causa delle mutate relazioni internazionali che, dall'alleanza militare, avevano ceduto il passo alla Guerra fredda.
Time ha designato il libro come uno dei cento migliori romanzi in lingua inglese (1923-2005); venne inoltre inserito nella Modern Library List of Best 20th-Century Novels. Vinse anche un Retro Hugo nel 1996 ed è incluso nella selezione dei Grandi Libri del Mondo Occidentale.
Il romanzo è ambientato in una fattoria nei pressi di Willingdon, in Inghilterra, dove gli animali, stanchi dello sfruttamento del loro fattore, il signor Jones, si ribellano, ispirati dal discorso del Vecchio Maggiore e guidato da Palladineve e Napoleone. La rivolta riesce, con il signor Jones che viene cacciato e gli animali che rinominano la fattoria come Fattoria degli Animali, dove scrivono i Sette Comandamenti, il più importante dei quali è "Tutti gli animali sono uguali". Mentre Palladineve insegna agli animali a leggere e a scrivere, Napoleone educa dei cagnolini ai principi dell'Animalismo. Ben presto, i maiali si ergono alla guida della fattoria. Poco dopo, però, Jones ritorna alla fattoria, stavolta in testa a una spedizione di altri fattori come lui; ne segue così una sanguinosa battaglia dove gli animali escono di nuovo vittoriosi, ma stavolta al prezzo di gravi perdite. In seguito, una sera, Palladineve annuncia i suoi piani di modernizzare la fattoria costruendo un mulino a vento, ma Napoleone si dichiara contrario, e ne segue un litigio che culmina con il secondo che fa inseguire il primo dai suoi cani, e si auto-dichiara così comandante supremo della fattoria. Con questo, Napoleone apporta un cambio governativo sostituendo le riunioni con un comitato di maiali a capo di tutto, e tramite un suo compagno, Piffero, diffonde una propaganda nella quale Palladineve intendeva in realtà aiutare il signor Jones a ritornare a essere il capo della fattoria, mentre Napoleone promette una vita più agiata in cambio di un duro lavoro, che tratta principalmente della costruzione del mulino, della quale egli si prende tutto il merito. Anche l'inno viene cambiato, da Animali d'Inghilterra a La Fattoria degli Animali, e viene ovviamente composto anche "Compagno Napoleone", un inno a favore di quest'ultimo, che sembra di adattare lo stile di vita di un umano. Rapidamente, il regime di Napoleone si fa sempre più brutale: molti animali che ammettono di aver aiutato Palladineve nelle sue "trame" (come definisce la propaganda di Napoleone) vengono giustiziati dai cani al suo servizio.
Napoleone si accorda con un fattore vicino, Frederick, il quale però li paga col denaro falso e poi attacca la fattoria, usando della polvere da sparo per far esplodere il mulino. Gli animali vincono di nuovo, ma tra i molti feriti vi è anche Boxer, il cavallo; quest'ultimo, pur guarendo, soccombe alla vecchiaia (che per i cavalli rappresenta il dodicesimo anno di vita), e viene portato via da un furgoncino. All'arrivo del mezzo, però, l'asino Beniamino capisce subito che intendono portarlo al macello per farci la colla; e infatti, con la scusa di portarlo al veterinario, Napoleone ha programmato la vendita di Boxer al macellaio per farci i soldi per acquistare del whisky. Passano gli anni, e al mulino che viene ricostruito se ne aggiunge un altro, che rende più ricchi gli animali, ma molti di loro sono morti o invecchiati, così come è morto il fattore Jones, spostatosi da un'altra parte. La Fattoria, però, è stata moralmente stravolta del tutto, ed è ritornata ad essere la Fattoria Manor, con gli ideali rivoluzionari completamente polverizzati: non ci sono più gli ideali proposti da Palladineve, i Sette Comandamenti sono stati sostituiti da uno solo, "Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri", la massima "Quattro gambe buono, due gambe cattivo" è rimpiazzata da "Quattro gambe buono, due gambe meglio" e i maiali iniziano ad assomigliare agli umani, poiché camminano dritto a due zampe, indossano abiti vistosi, dormono su enormi letti e bevono whisky. Una sera, Napoleone e gli altri maiali invitano a cena dei fattori locali, con i quali celebra un'alleanza; i due schieramenti giocano insieme a poker, finché sia Napoleone che il fattore Pilkington giocano allo stesso tempo l'asso di picche, generando un alterco tra i due; il tutto viene visto, dall'esterno, dagli altri animali, che non riescono più a distinguere il maiale dall'uomo…”
(Articolo completo in: wikipedia.org)
IL FILM:
- La fattoria degli animali, 1957, George Orwell
- La fattoria degli animali - George Orwell - Il film animato completo, 1954
“La fattoria degli animali (Animal Farm) è un film d'animazione del 1954 diretto da John Halas e Joy Batchelor, basato sull'omonimo romanzo di George Orwell. È il primo lungometraggio d'animazione britannico a distribuzione internazionale. Nel 1956 è stato nominato al premio BAFTA per il miglior film d'animazione.
Solo negli anni '80 venne pienamente alla luce il fatto che la CIA avesse contribuito in modo sostanzioso al finanziamento della produzione del film: furono versati 300.000 dollari come parte della offensiva culturale durante la guerra fredda, influenzando il modo in cui venivano presentate le idee di Orwell”
(In wikipedia.org)
17 agosto 1945: viene pubblicata per la prima volta la novella “Animal Farm” di George Orwell.
Un brano musicale al giorno
Luigi Boccherini (1743-1805), Stabat Mater, registrato dal vivo al Tel Aviv Museum of Arts il 23 gennaio 2015.
Ayano Schramm-Kimura (Soprano)
Shalev Ad-El (Direttore) & Netanya Kibbutz Orchestra.
1. Stabat mater dolorosa, Grave assai (0:00)
2. Cujus animam gementem, Allegro (5:28)
3. Quae moerebat et dolebat, Allegretto con moto (7:35)
4. Quis est homo, Adagio assai - Recitativo (10:39)
5. Pro peccatis suae gentis, Allegretto (11:52)
6. Eja mater, fons amoris, Larghetto non tanto (15:37)
7. Tui nati vulnerati, Allegro vivo (22:42)
8. Virgo virginum praeclara, Andantino (27:06)
9. Fac ut portem Christi mortem, Larghetto (32:20)
10. Fac me plagis vulnerari, Allegro commodo (35:14)
11. Quando corpus morietur, Andante lento (37:54)
17 agosto 1784: il compositore classico Luigi Boccherini riceve un aumento di stipendio di 12.000 real dal suo datore di lavoro, l'Infante Luis, conte di Chinchón.
“Luigi Boccherini compose due versioni dello Stabat Mater: la prima, per soprano, due violini, viola, violoncello obbligato e contrabbasso, venne scritta nel 1781 ad Arenas in Avila per ordine dell'Infante di Spagna Don Luis; la seconda versione del 1800 (forse dedicata a Luciano Bonaparte, ambasciatore di Francia a Madrid e suo ultimo protettore) è una rielaborazione della stesura originaria arricchita nell'organico vocale (due soprani, tenore e archi), ampliata in alcune sue parti (aggiunta di un'introduzione strumentale tratta dalla Sinfonia in fa maggiore op. 35 n. 4 del 1782; mutamenti apportati nella conclusione strumentale del versetto Eja mater; ampliamento dell'Amen nell'ultimo versetto Quando corpus) e modificata in diverse parti sul piano fraseologico, dinamico e timbrico.
Non è questa la sede per tentare un confronto tra le due versioni boccheriniane dello Stabat, tuttavia è necessario rilevare che proprio alcune modifiche, marginali in apparenza ma sostanziali nel risultato, hanno decretato ingiustamente maggior fortuna alla seconda versione a scapito della prima. Infatti, mentre la stesura del 1781 rimase manoscritta e pressoché sconosciuta fino a pochi anni fa, la seconda stesura venne immediatamente data alle stampe dallo stesso Boccherini, venne inserita nel catalogo come opera 61 e godette di tale considerazione da poter essere annoverata subito tra i capolavori del musicista e subito accostata allo Stabat Mater di Pergolesi, il modello assoluto del genere nella seconda metà del Settecento.
Allo Stabat Mater del 1781 toccò l'avversa sorte di essere considerato manchevole rispetto alla versione del 1800. L'analisi della partitura rivela viceversa quanto più ricca di contenuti spirituali, di spunti originali e di ricchezza interiore appaia la prima versione rispetto alla seconda e come le due stesure vadano collocate in un contesto storico e sociale appropriato per comprenderne il significato.
Nel 1800, nell'urgenza di accattivarsi nuovi protettori, Boccherini rimaneggiò la composizione originaria per destinarla alle stampe; apportò dunque tutte quelle modifiche d'ordine timbrico, formale, dinamico, espressivo che andavano nella direzione di una maggiore accondiscendenza al gusto di un pubblico ben più vasto della ristretta cerchia di Las Arenas e, soprattutto, abituato a pretendere anche nel genere sacro la sonorità piena e la retorica gestualità del melodramma.
Viceversa nella raffinata cornice di un'esecuzione privata, nell'essenzialità dei mezzi a disposizione, nella perfetta aderenza alla spiritualità del testo poetico va letta la partitura dello Stabat Mater del 1781.
Com'è noto, non è certa l'attribuzione del testo dello Stabat Mater a Jacopone da Todi che l'avrebbe composto tra il 1303 e il 1306: sicuramente la sua origine va comunque ricercata nella produzione poetica francescana del XIII secolo.
La struttura metrica è quella della sequenza: un distico ottonario in rima baciata e un senario sdrucciolo; ciascun gruppo di tre versi legato al successivo forma una strofa, secondo lo schema aab aab. L'intero testo è costituito da dieci strofe che nel canto piano originario davano luogo a dieci frammenti melodici diversi. Come sequenza fu dapprima inserito nella liturgia, da questa poi abolito in seguito alle norme del concilio tridentino, che introdussero invece la consuetudine di far recitare o cantare lo Stabat Mater nell'Ufficio del Venerdì Santo, venne infine ripristinato nell'uso liturgico nel 1727 per la celebrazione della festa dei Sette Dolori della Beata Vergine.
Le prime quattro strofe hanno un contenuto descrittivo e rappresentano il dolore della Madre ai piedi del Figlio crocifisso. Dalla quinta strofa, Eja mater, il testo da contemplativo si trasforma in una sorta di meditazione e di riflessione interiore, di partecipazione emotiva, di preghiera. Al mutamento del contenuto corrisponde un mutamento nel ritmo musicale del verso: le prime quattro strofe sono infatti caratterizzate da un lungo lamento che si esaspera e si conclude sull'ultimo verso per riprendere nella strofa successiva verso un nuovo culmine; le altre strofe sono invece pervase dall'insistenza della supplicazione interrotta ritmicamente da un'impulsiva veemenza.
La perfetta aderenza all'espressività del verso è attestata già a livello macrostrutturale dalla suddivisione che Boccherini fa del testo poetico. Le strofe vengono infatti ripartite irregolarmente in undici sezioni musicali; a ciascuna sezione è assegnato un tristico, una strofa intera, oppure una strofa e mezza. La quantità di testo assegnata a ogni sezione non è casuale ma dettata da una coerenza «affettiva» che, come nell'aria dell'opera in musica, connota drammaturgicamente uno stato d'animo secondo categorie tipologiche prestabilite.
Anche la scelta della tonalità d'impianto, fa minore, non è casuale ma va probabilmente ricondotta alla cosiddetta «teoria degli affetti» che attribuiva un diverso carattere a ogni tonalità. Johann Joachim Quantz, per esempio, nel suo Versuch einer Anweisung die Flõte traversiere zu spielen (1752) afferma che le tonalità di la minore, do minore, re diesis maggiore e fa minore sono quelle che meglio di altre esprimono il sentimento della malinconia; e ancora, agli inizi dell'Ottocento, nel Trattato dell'influenza della musica sul corpo umano di Pietro Lichtental si legge che la tonalità di fa minore esprime profonda malinconia, lamenti di morte e urlo d'infelici.
Stabat Mater - [Grave] - fa minore - testo: prima strofa, vv. 1, 2, 3.
Il senso di scoramento della Madre ai piedi della croce è reso immediatamente dall'effetto languido e doloroso prodotto dalle brevi figurazioni d'accompagnamento del violoncello e del secondo violino, come un sospiro gemente che fa da contrappunto alla sinuosa melodia discendente del primo violino che nella prima battuta dell'introduzione strumentale anticipa, ornandola, l'entrata del soprano.
In corrispondenza del terzo verso l'improvviso passaggio ad altra tonalità (la bemolle maggiore) dissolve il clima cupo dell'inizio, e rapide figurazioni, ritmi puntati, brevi trilli dei violini sostengono e ornano la parte vocale che qui si distende in un fraseggio di più ampio respiro. In questa sezione centrale la dolcezza cullante della melodia del soprano, con il suo andamento oscillante su piccoli intervalli e su gradi congiunti, viene ulteriormente enfatizzata dalla ripetizione di uno stesso frammento melodico di tre note per ben quattro volte sulle parole «Stabat mater / dolorosa / juxta crucem / lacrimosa», ripreso poco più avanti sulle stesse parole in ordine differente.
Un'incisiva figurazione dei violini in ritmo puntato e in arpeggio ascendente, come un gesto retorico, una sorta di exelamatio di grande efficacia, anticipa il ritorno della sezione iniziale e ci riporta improvvisamente nell'oscuro clima tonale dell'inizio. Nella ripresa variata la tensione emotiva è rafforzata dall'insistente ripetersi di uno stesso frammento melodico, ancora una volta sulle stesse parole del testo citate sopra, prima di cedere definitivamente al senso di abbandono sottolineato dall'arpeggio discendente, eseguito dai violini, e dal procedere degradante per semitoni della parte vocale.
La conclusione strumentale, uguale all'introduzione, termina con cadenza sospesa...
(Leggi l'articolo completo di Marina Vaccarini Gallarani in: www.flaminioonline.it)
Ugo Brusaporco
Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.
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Ugo Brusaporco
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