“L’amico del popolo”, 22 gennaio 2018

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno II. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

A CORNER IN WHEAT (Usa, 1909), regia di D. W. Griffith. Sceneggiatura: D. W. Griffith, Frank Norris, Frank E. Woods. Fotografia: G. W. Bitzer. Montaggio: James Smith. Con: Frank Powell, Grace Henderson, James Kirkwood, Linda Arvidson, W. Chrystie Miller, Gladys Egan, Henry B. Walthall.

Il "re del frumento", uno speculatore in granaglie, ha organizzato un grande "accaparramento" acquistando di fatto il controllo del mercato mondiale del grano. Il film mostra il duplice effetto che ciò produce, sugli agricoltori che coltivano il grano senza riceverne i profitti e, contemporaneamente, sui consumatori che devono fronteggiare i prezzi inflazionati. I più duramente colpiti sono i più poveri, impossibilitati a sostenere il rialzo del prezzo del pane. Il fondo di carità per il pane non ce la fa, infatti, ad affrontare l'emergenza del rincaro dei prezzi. Molte persone soffrono la fame al punto da organizzare delle sommosse per procurarsi il pane quotidiano. Il "re del frumento", grazie ai suoi profitti, può organizzare per i suoi ospiti dei sontuosi banchetti offrendo vino e cibi a volontà. Egli conduce un gruppo dei suoi ospiti dell'alta società a visitare i silos dove viene stipato il grano. Quando gli ospiti se ne sono andati, esultando per un telegramma che lo informa di avere raggiunto il monopolio mondiale del settore, egli scivola e muore sepolto dal suo stesso grano. Dopo la scena della morte dello speculatore, si torna nuovamente sulla figura dell'agricoltore intento a seminare il prossimo raccolto.

  • Il 22 gennaio 1875 nasce D. W. Griffith, regista, produttore e sceneggiatore americano (morto nel 1948), lo ricordiamo con un capolavoro insuperabile e di sconvolgente forza politica: A Corner in Wheat

A Corner in Wheat è un breve film americano del 1909 che racconta di un magnate avido che cerca di conquistare il mercato mondiale del grano, distruggendo le vite di chi non può più permettersi di comprare il pane. E' stato diretto da D. W. Griffith e adattato da Griffith e Frank E. Woods dal romanzo The Pit (1903) di Frank Norris.

Alternando le scene dei poveri che cercano di procurarsi il pane e le sontuose scene della vita del ricco speculatore, anticipa in qualche modo il montaggio di contrasto che divenne un segno distintivo del cinema sovietico di protesta circa dieci anni dopo.
Nel 1994, A Corner in Wheat è stato selezionato per la conservazione nel National Film Registry degli Stati Uniti dalla Library of Congress come "culturalmente, storicamente o esteticamente significativo".

Per un caso del destino il 22 gennaio del 1898 nasce anche Sergei Eisenstein (morto nel 1948). Regista e sceneggiatore russo, montatore, scrittore, produttore cinematografico e scenografo, ritenuto tra i più influenti della storia del cinema per via dei suoi lavori, rivoluzionari per l'uso innovativo del montaggio e la composizione formale dell'immagine. Ha diretto capolavori della storia del cinema come La corazzata Potëmkin, Aleksandr Nevskij, Lampi sul Messico e Ottobre.

Lo ricordiamo con il suo corto d’esordio:

 

Una poesia al giorno

È l’ora in cui s’ode tra i rami, di George Gordon Byron (22 gennaio 1788 - 19 aprile 1824), conosciuto come Lord Byron, era un nobile inglese, un poeta, un pari, un politico e una figura di spicco del movimento romantico. È considerato uno dei più grandi poeti britannici e rimane ampiamente letto e influente).

È l’ora in cui s’ode tra i rami
la nota acuta dell’usignolo;
è l’ora in cui i voti degli amanti
sembrano dolci in ogni parola sussurrata
e i venti miti e le acque vicine
sono musica all’orecchio solitario.
Lieve rugiada ha bagnato ogni fiore
e in cielo sono spuntate le stelle
e c’è sull’onda un azzurro più profondo
e nei cieli quella tenebra chiara,
dolcemente oscura e oscuramente pura,
che segue al declino del giorno mentre
sotto la luna il crepuscolo si perde.

 

Parti dello straordinario saggio di Mario Praz nell’Enciclopedia Italiana (1930):

BYRON, George Gordon. Poeta inglese nato il 22 gennaio 1788 a Londra, morto il 19 aprile 1824 a Missolungi. Discendeva da un ramo di antica famiglia normanna (de Buron) stabilitosi a Newstead, nella contea di Nottingham, nel 1540 con sir John Byron, il cui pronipote fu elevato al rango di pari nel 1643. Il prozio del poeta, William, quinto lord Byron (1722-98), un violento resosi colpevole d'omicidio, fu soprannominato the wiched lord; il padre del poeta, il capitano John Byron, si guadagnò il nomignolo di mad Jack per la sua vita dissoluta. Costui ebbe, dalla prima moglie, Augusta (1783-1851), che nel 1807 si sposò col cugino, il colonnello George Leigh, e dalla seconda moglie, Catherine Gordon of Gicht, George Gordon, il poeta. Il nonno materno si era tolta la vita, e la madre era donna di passionalità e capricciosità anormali. Di una discendenza gravata di tante tare dovette risentire il poeta, che nacque anche con una deformità fisica, visibile specialmente nel piede destro (contrazione del tendine di Achille). Passò una fanciullezza agitata ad Aberdeen, tra ristrettezze economiche causate dalle dissipazioni paterne, presso la madre, che ne inasprì il carattere con alternative di moine e di strapazzate: dal soggiorno scozzese gli derivò amore per le montagne e per il mare, ammirazione per il Vecchio Testamento, e un cupo fondo di dottrine calviniste circa la predestinazione del peccato e della colpa. Un precoce amore per la cugina Margaret Parker, intorno al 1800, lo spinse a scrivere le prime poesie d'amore: già aveva dato prova di disposizioni per la satira. Nel 1798 successe nel titolo e nei beni del prozio. Studiò a Harrow (1801-5), dando prova di carattere sfrenato e pugnace, e facendo disparate letture. Nelle vacanze estive del 1803 frequentò una famiglia di lontani parenti, i Chaworth, e s'invaghì di Mary Ann Chaworth: codesto amore pare lasciasse tracce profonde nel poeta. Entrato nel 1805 al Trinity College, Cambridge, si distinse ben presto per la sua condotta stravagante, e per la sua abilità nel nuoto.
(...)
Ci restano copiose testimonianze del fascino che il volto pallido, dai nobili lineamenti, di lord B. esercitava, specie sulle donne. A rendere il B. accetto alle donne dovette contribuire parecchio anche quel certo che di femmineo in lui che non sfuggì ad alcuno di quanti lo avvicinarono: per le donne egli era, come piaceva a lui stesso definirsi, "una sorella prediletta, talora riottosa" L'aspetto del volto, cangevole come quello d'una donna, era specchio fedele dell'animo ombroso, capriccioso e contraddittorio, continuamente oscillante tra la tenerezza e lo scherno, abilissimo simulatore e amante di mistificazioni, e al tempo stesso incapace di serbare un segreto; infine soprattutto corrivo a effondersi in deliziose e interminabili ciarle, e in ancor più deliziose lettere. Cresciuto in un'epoca di dandies, ne copiò in parte i costumi, e si sottopose a terribili cure dimagranti: tra le grandi figure del passato guardava con ammirazione soprattutto ad Alcibiade. Dopo quanto s'è detto, non farà specie se l'atteggiamento che il B. si sforzò d'assumere, nelle prime opere, fu, per contrasto, tale da indurre il pubblico e i critici a vedervi forza, virilità, nervosa semplicità, maschia freschezza. In un primo tentativo il B. posa da pellegrino Aroldo, languente tra gli uomini come un falco selvaggio dalle ali mozze, dispregiatore del gregge vile. Il B. fu, prima di tutto, il creatore d'una moda, che attecchì tanto più rapidamente quanto, nell'Europa d'allora, il tipo del passionale ribelle alla società era, come suol dirsi, nell'aria, e già sufficientemente adombrato nella Schauer-Romantik. Fu questo il solo aspetto della poesia del B. che impressionò i critici del continente, presso i quali diventò dogma l'identificazione del B. con lo spirito rivoluzionario. Per il B. la poesia fu un modo come un altro di sfogare le sue reazioni immediate ai fatti del giorno, affrettatamente; e come negativo assoluto egli fu equivalente al suo opposto, e minacciò di cristallizzarsi in un'ipocrisia alla rovescia. Ma mentre il B., in Childe Harold, deliberatamente isolando e magnificando un solo aspetto di sé, riusciva insincero e astratto, nelle lettere egli metteva tutto se stesso, quel se stesso duttile, settecentesco, che il contatto con la vita meridionale, specie italiana, finì di perfezionare.

L'influsso letterario del B. fu vasto sui minori e sui minimi tra i letterati inglesi. La reazione contro il gusto byroniano fu non poco inasprita dal fatto che poetastri oggi dimenticati non si stancarono di produrre a serie giaurri dal fiero aspetto, orde turchesche, descrizioni di solitudini e d'isole selvagge con ruinosi templi e romantici recessi, il tutto trattato melodrammaticamente. Su coloro che dovevano essere i veri poeti futuri l'influsso del B. fu o nullo, o debole, o presto superato. I casi più notevoli son quelli del Tennyson e del Browning giovanili, e, in parte, del Meredith. Un influsso costante si nota solo in poeti minori come James Thomson nei suoi momenti men felici, e in E. A. Poe (nei versi).
(...)
Invece dal 1850 in poi si nota un sensibile e progressivo ritorno d'interesse, dovuto in parte a circostanze politiche, tra cui l'impressione prodotta sugl'Inglesi dall'accelerarsi del Risorgimento italiano, che il B. aveva vaticinato. Si può dire che il saggio del Mazzini, Byron e Goethe, pubblicato a Lugano nel 1847, sia stato uno dei fattori determinanti, data la grande ammirazione inglese per il patriota italiano.
In Italia il B. salì subito a una fama superiore a quella di qualsiasi altro scrittore straniero, sia per la qualità della sua arte sia per la sua opera politica, e trovò schiere di traduttori e d'imitatori; il Pellico, il Leoni, Pellegrino Rossi, il Bertolotti furono i primi; poi il Parzanese, il Bini, il Guerrazzi, il Maffei, Pasquale De Virgili, e dozzine d'altri; libretti d'opera furon cavati dal Corsaro.
I romantici italiani inneggiavano al B. come a uno dei loro Santi Padri, i classici lo lodavano per le sue teorie antiromantiche, e il Monti affermava essere il suo romanticismo di un genere così sublime che Omero stesso gli avrebbe perdonato; ma il Leopardi (che pure byroneggiò in Consalvo) e il Tommaseo chiaramente mostrarono di non lasciarsi illudere dalla vistosità di quella musa: la quale ispirò, anche qui, soprattutto i minori, il Guerrazzi, il Dall'Ongaro, P. Ceretti, e una schiera di meridionali, soprattutto calabresi, che composero adattazioni paesane delle novelle in versi (p. es. Il brigante di B. Miraglia, 1844; l'Errico di D. Mauro, 1845; Valentino di V. Padula, 1845) byronizzando la fosca materia locale che vi si prestava. Anche nel resto d'Europa, e specie in Russia e in Polonia, l'influsso del B. fu vasto, se non profondo e duraturo.

Il 22 gennaio 1788 nasce Lord Byron, poeta e drammaturgo inglese (morto nel 1824)

 

Un fatto al giorno

22 gennaio 1506: arriva a Roma il primo contingente di Guardie Svizzere, composto da 150 uomini.

“Il 22 gennaio 1506 è la data ufficiale della fondazione, il giorno il quale 150 Svizzeri dal Canton Uri entrarono, sotto il Comando del Capitano Kaspar von Silenen, dalla “Porta del Popolo” per la prima volta nel Vaticano e furono benedetti dal Papa Giulio II”.

Guardie svizzere (Schweizergarde, in lingua tedesca) è il nome dato ai mercenari svizzeri, che hanno prestato servizio come guardie del corpo, guardie cerimoniali e guardie del palazzo presso le corti d'Europa, sin dal tardo XV secolo. Erano tenute in grande stima, sia per il valore militare, sia per la disciplina e la fedeltà nei confronti del signore cui giuravano obbedienza. Al giorno d'oggi, per "Guardie svizzere" s'intendono solitamente i membri della Guardia svizzera pontificia ancora operativa nella Città del Vaticano. La Svizzera, nei tempi passati, un paese povero e montagnoso, prettamente agricolo, ha fornito mercenari per i campi di battaglia europei fin dal XIV secolo.
Fanti elvetici sono stati regolarmente assoldati dal Regno di Francia, dal Regno di Spagna e dal Regno di Napoli durante tutta l'Età Moderna. Furono per primi i Francesi, a selezionare un corpo di mercenari svizzeri, deputato alla difesa della figura del sovrano, con la creazione della "Guardia dei Cento" (Cent Suisses in lingua francese) nel 1497. A partire dal Cinquecento, nei torbidi dell'Europa dilaniata dalle Guerre di religione e dai tradimenti dei vari Signori della Guerra mercenari, re e regine del Vecchio Continente vollero circondarsi di fedeli guardie elvetiche per difendere l'incolumità propria e delle loro famiglie.

Nel XVIII secolo quasi tutte le corti d'Europa mantenevano un contingente di guardie svizzere.
Il 1° agosto 1291, gli abitanti di Uri, Svitto e di Untervaldo, i cosiddetti Waldstätte o paesi forestali, siglarono il patto eterno confederale e si unirono nella lotta contro la Casa d'Asburgo, a quel tempo la potenza dominante nelle Alpi orientali. Quest'alleanza gettò le basi di quella che sarebbe stata la Confederazione svizzera come oggi la conosciamo e, al contempo, fece della guerra un'occupazione precipua di ogni abitante dei cantoni, chiamato a difendere in prima persona la propria terra senza contare sulla nobiltà (cavalleria feudale) o su mercenari.
Il valore militare degli svizzeri, raffinato durante tutto il corso del XIV secolo e caratterizzato da una rivoluzionaria rivalutazione della fanteria a discapito della cavalleria pesante, venne dimostrato nel XV secolo, quando gli elvetici stroncarono l'esercito di Carlo il Temerario, nelle battaglie di Grandson, Morat (1476) e infine Nancy (1477), dove lo stesso Carlo perse anche la vita.

Le guardie svizzere non furono solo impiegate come scorta personale del papa, ma parteciparono a numerose battaglie, prima fra tutte quella avvenuta il 6 maggio 1527, durante il sacco di Roma, da parte delle milizie di Carlo V, permettendo con il loro sacrificio, a papa Clemente VII di avere salva la vita. Dei 189 svizzeri se ne salvarono solo quarantadue, cioè quelli che all'ultimo momento avevano accompagnato Clemente VII nella fuga lungo il Passetto di Borgo, il passaggio che collega il Vaticano a Castel Sant'Angelo.
Durante la presa di Roma da parte delle truppe italiane nel 1870, le guardie svizzere rimasero a difesa personale di papa Pio IX nei suoi alloggi.
A differenza dell'esercito papalino, il corpo non fu sciolto e rimase a garantire l’incolumità della persona fisica del Papa, la sicurezza dei palazzi del Vaticano e della Villa pontificia di Castel Gandolfo...”

I Mercenari Svizzeri:
C'erano 15.000 uomini disponibili per questo tipo di lavoro, che era "organizzato" e sotto il controllo della piccola Confederazione dei Cantoni, la quale conferiva la autorizzazione per la leva di uomini e, come contropartita, riceveva grano, sale o altri privilegi commerciali. Gli svizzeri, in genere, concepivano la guerra come un'emigrazione temporanea, estiva e, perciò, partecipavano a guerre brevi e grandi, per poi tornare a casa a passare l'inverno con il "soldo" e il bottino: essi erano i migliori soldati del tempo. Senza cavalleria e con poca artiglieria, questa gente aveva inventato una tattica di movimento superiore a tutte le altre, e per questo essa era richiesta e invitata sia dalla Francia che dalla Spagna. Erano come delle muraglie semoventi, irte di ferro e impenetrabili. Non si capirebbe niente delle lotte in Italia, se non si tenesse conto di questi soldati mercenari. Già nel XIII e XIV secolo, dopo l'indipendenza svizzera, un gran numero di gente militava in Germania e Italia e poiché i Cantoni non erano capaci di impedire questo tipo di emigrazione, cercarono, perlomeno, di organizzarlo.

 

Una frase al giorno

“Anche il sacerdote che innalza l'ostia consacrata per il volgo è uno stregone, come la fattucchiera che fa suffumigi sotto il gufo imbalsamato. Interrogano ambedue il mistero, sono ambedue interpreti di un mondo soprannaturale che l'anima incolta e grossa del credente volgare (al quale sfugge il gioco delle forze umane razionali che regolano il destino del mondo e la storia degli uomini) crede gli sovrasti, schiacciandolo con la sua fatalità ineluttabile”.

(Antonio Gramsci, nome completo Antonio Francesco Sebastiano Gramsci, nato ad Ales, 22 gennaio 1891, morto a Roma, 27 aprile 1937. È stato un politico, filosofo, politologo, giornalista, linguista e critico letterario italiano. Nel 1921 fu tra i fondatori del Partito Comunista d'Italia, divenendone suo segretario e leader dal 1924 al 1927).

ANTONIO GRAMSCI - I GIORNI DEL CARCERE (1977). Film storico di Lino Del Fra. Sceneggiatura: Lino Del Fra, Cecilia Mangini. Fotografia: Gábor Pogány. Montaggio: Silvano Agosti. Musiche: Egisto Macchi. Con: Pino Ammendola, Andrea Aureli, Paolo Bonacelli, Pier Paolo Capponi, Riccardo Cucciolla, Mismy Farmer, Jacques Herlin, Franco Graziosi, Lea Massari, Biagio Pelligra, Luigi Pistilli, John Steiner.

Antonio Gramsci, uomo politico italiano nato ad Ales (Cagliari) il 23 gennaio 1891, studiò a Torino dove, fin dal 1915, si schierò nell'ala sinistra del movimento socialista. Postosi a capo del movimento proletario più avanzato del dopoguerra, i consigli di fabbrica, nel 1919 fondò e diresse il periodico L'ordine nuovo; guidò direttamente lo sciopero generale politico del 1920 divenendo uno dei capi più amati e stimati della classe operaia. Avvenuta a Livorno il 21 gennaio 1921 la scissione del partito socialista (di cui era segretario), le sue qualità lo fecero designare segretario del partito comunista (1924). Deputato nella XXVII legislatura, venne dichiarato decaduto dal mandato e arrestato l'8 novembre 1926. Condannato a 20 anni di reclusione, nel carcere politico fascista di Turi finì per alienarsi i "compagni" di reclusione per le sue franche e acerbe critiche, tanto all'URSS di Stalin quanto al comitato centrale del PCI italiano. Le penose condizioni di salute indussero le autorità a trasferirlo in una clinica di Formia prima e in una di Roma poi, ove morì il 27 aprile 1937.

Da Il Manifesto: “A settantanove anni dalla scomparsa, avvenuta il 27 aprile 1937, Antonio Gramsci non è solo il pensatore italiano contemporaneo più letto e conosciuto nel mondo, ma anche un personaggio capace di ispirare film, letteratura, teatro, luoghi in cui la potenza del pensiero e l’esperienza umana estrema si fondono. Per questo, fra le tante celebrazioni organizzate per il 27 aprile, in due luoghi simbolici come Roma e Turi vi sono anche la proiezione di Gramsci 44 di Emiliano Barbucci (2016) e la rappresentazione di Gramsci Antonio detto Nino, di Francesco Niccolini e Fabrizio Saccomanno, organizzate con la partecipazione della International Gramsci Society Italia.

Ho conversato con Cecilia Mangini, sceneggiatrice, regista, documentarista, fotografa, nel suo book-bar preferito, a Ponte Milvio. Lei e suo marito Lino Del Fra sono stati fra i primi, alla metà degli anni Settanta, a pensare a Gramsci come personaggio, in un tempo molto ideologico che fu anche tra i momenti di maggiore diffusione della figura e dell’opera pensatore sardo. Il loro Antonio Gramsci - i giorni del carcere, con Riccardo Cucciolla e Lea Massari, vinse il festival di Locarno nel 1977, ed è un film di ragionamento e di corporeità insieme, concentrato sul tema del rapporto fra Gramsci e il partito, attraverso la vita e la relazione dei detenuti politici di Turi.

Come nacque l’idea del film “Gramsci - i giorni del carcere”?

Fummo molto colpiti dalla lettura, nei tardi anni Sessanta, delle testimonianze che pian piano ricostruivano il contesto della vita di Gramsci in carcere, e che in un certo senso illuminavano anche quelle omissioni o parziali censure dei testi gramsciani pubblicati fino ad allora. Poi, nel 1975, uscì l’edizione critica dei Quaderni del carcere di Valentino Gerratana, che non risultò immediatamente comprensibile come quella tematica togliattiana, ma che certo ne sanava le lacune. In quel periodo io e Lino presentammo all’Italnoleggio due diversi soggetti perché venissero valutati per un contributo. Uno era Se..., un mio film “utopistico”, mai più realizzato, contro il dogmatismo di allora, del quale ero terribilmente insofferente, e l’altro era il Gramsci. Solo perché eravamo sposati, l’Italnoleggio non volle considerarci come due registi distinti, e ci chiese di scegliere, avrebbe finanziato un solo film: scegliemmo Gramsci perché ci sembrò più giusto, per una forma di impegno.

E infatti è un film di impegno, direi di rovello. È film fatto di scelte molto precise: hanno spazio i personaggi di Tatiana Schucht, la cognata di Gramsci, e della moglie Giulia, rispettivamente interpretate da Lea Massari e Mimsy Farmer, mentre non compaiono Piero Sraffa o l’episodio della «strana lettera» di Grieco del 1928. Vi è poi l’episodio della visita del fratello Gennaro nel carcere di Turi, mandato da Togliatti per conoscere i giudizi di Antonio sulla «svolta» del 1929.

La presenza di Tatiana e di Giulia è fondamentale per ricostruire la complessità del personaggio Gramsci, e di Gramsci in carcere in particolare. Il mondo affettivo di Gramsci e le sue inquietudini, i sentimenti incrociati, la sensazione di sfaldamento dei rapporti. Erano persone molto appassionate, che testimoniavano anche che la storia del movimento operaio dei loro anni giovanili non era tutta politica, era anche fatta di grande umanità e di amore. L’uso dei flash back è servito proprio a questo, a restituire pezzi di vita. Per il resto, sì, abbiamo fatto scelte precise, Lino voleva concentrarsi su alcune cose specifiche e le ha selezionate, voleva un film molto compatto.

Che rapporti ci furono con il Pci a proposito della realizzazione del film?

Praticamente nessuno. Ci muovevamo autonomamente fra le nostre letture e i nostri incontri. Lavorammo molto in fase preparatoria, per non trascurare nessun documento. Lino, era un ferreo marxista antistalinista, e non voleva rapporti con il Pci, e io ero invece anarchica e libertaria, convinta che lo strappo fra Bakunin e Marx fosse una ferita mai rimarginata. Il film era a tutti gli effetti un’opera antistalinista. Proprio per questo lo facemmo, proprio per questo ci piacque tanto Gramsci. D’altra parte, non si smette mai di imparare. Solo recentemente, leggendo il bel libro di Luciana Castellina, Guardati dalla mia fame, sui fatti di Andria del 1946, ho compreso fino in fondo l’antistalinismo di Giuseppe Di Vittorio, un uomo di straordinaria potenza.

E chi incontraste, chi furono i vostri riferimenti?

Ricordo una grande partecipazione al lavoro da parte di Alfonso Leonetti, che aveva conosciuto Gramsci ai tempi di Torino e dell’Ordine Nuovo. Una volta Leonetti venne sul set e vide Cucciolla con la divisa carceraria e la gobba: fu impressionato, gli sembrò di vedere davvero Gramsci. Io e Lino ci dividevamo il lavoro, per esempio io incontrai gli anarchici compagni di carcere a Turi e lui vide Giuseppe Fiori, l’autore della famosa biografia che fu decisiva per alcuni passaggi, in particolare la visita del fratello Gennaro in carcere. Lavoravamo così, ognuno di noi due sceneggiava una sequenza e l’altro la verificava e poi le discutevamo insieme. Ma posso dire che questo film è prima di tutto di Lino, è davvero il suo film. Io ci ho lavorato molto, ma non quanto ad Allarmi siam fascisti!, un altro film che realizzammo insieme.

E dopo l’uscita del film?

Gerratana accolse il film con un doppio paginone su l’Unità, sottolineando l’aderenza e l’adesione del film al pensiero gramsciano. Callisto Cosulich su Abc sostenne che dopo il titolo «fine» si dovesse aggiungere come per i saggi critici - la sua era un’idea bella e impossibile -, la lunghissima bibliografia essenziale di cui ci eravamo avvalsi per la sceneggiatura. Tuttavia l’Unità non lo ha mai segnalato nella pagina dei cinema con le stellette del massimo gradimento, in altri termini con un incitamento a vederlo. Il nostro non è un film facile, si rivolge a chi vuole conoscere il pensiero di Gramsci, in antinomia con la linea stalinista e nello scontro anni ’20 con Togliatti e con il Comintern: volevamo che fosse così, un film che si sceglie lucidamente di vedere e di rivedere. Gramsci non è un personaggio accattivante, il Gramsci di Lino è il dirigente di un proletariato sconfitto dal fascismo e che costruisce il suo riscatto: il «cazzotto nell’occhio», le sue conversazioni coi prigionieri del carcere di Turi dimostrano il suo talento pedagogico che si scontrava col credo stalinista dei compagni. In questi ultimi decenni, in America Latina, sottotitolato in spagnolo e portoghese, il film ha ottenuto un successo straordinario, proiettato nelle scuole-quadro e nelle università. Un segno sintomatico è che su YouTube il film è stato postato nella sua interezza. Recentemente la Casa del cinema ha dedicato una giornata a Lino Del Fra proiettando La Torta in cielo, Gramsci e All’armi siam fascisti!: nonostante gli applausi, sotterraneamente ma in modo percepibile è affiorato il distacco, meglio, per usare un termine alla moda, la non condivisione dell’impegno critico di Lino. Non per All’armi!: l’antifascismo è oggi un credo ossificato e circoscritto al duce, alle aquilazze e alle camicie nere.

Intanto ti racconto che anche a Mosca c’è stato recentemente interesse nei confronti del film, da parte di una associazione di studiosi gramsciani. Ma il tuo Gramsci di oggi che figura è?

Una figura senza confronti nel presente, un esempio di coerenza e di lucidità, da leggere e da studiare. Non mi sembra che vi sia nella politica di oggi un erede di Gramsci.

Che ne pensi del recente film «Gramsci 44» di Emiliano Barbucci, sui 44 giorni trascorsi da Gramsci a Ustica?

Con l’anticipo di un anno Gramsci 44 rappresenta un’apertura forte alle riflessioni, analisi e approfondimenti dei testi gramsciani che si snoderanno lungo l’ottantesimo della sua morte. Mi è piaciuto molto anche perché è invito alla speranza che non sia invaso dalla solennità delle celebrazioni inutili.
Gramsci 44 è un testo cinematografico che porta alla luce il nostro passato occulto, storico, politico e sociale, e ci rende consapevoli della necessità urgente di affrontare il presente occulto odierno e il futuro occulto - occultati per le note volontà politiche. Ci riesce grazie anche alla riscoperta dell’inquadratura, vale a dire per l’importanza dell’immagine: 50.000 anni fa l’uomo preistorico ha raccontato la sua vita affrescando le caverne, molto prima dell’invenzione della scrittura, appena pentamillenaria. L’immagine lo ha accompagnato per tutti i millenni successivi, raggiungendo un potere iconico estremamente coinvolgente e significante: lo dimostra il senso di eternità che proviamo di fronte alla pittura, alla scultura e al mosaico.
Il secondo coefficiente di Gramsci 44 è la scelta del regista Emiliano Barbucci e del cosceneggiatore Emanuele Milasi di dichiarare apertamente allo spettatore l’angolazione del loro sguardo critico, di non ostentarlo mai come quella verità oggettiva che per lo strapotere di coinvolgimento dell’immagine obbliga a un consenso indiscriminato. Barbucci e Milasi dichiarano costantemente sottotraccia la loro adesione al pensiero gramsciano, lasciando allo spettatore la capacità di acconsentire o di dissentire, di criticare, di pensare e soprattutto di convincersi della necessità di studiare Gramsci. Il lascito è confermato anche da Daniele Ciprì, direttore della fotografia.

Prendiamo un caffè, le chiacchiere non finiscono mai, sul partito di allora, sul ruolo «duplice» di Togliatti nel far conoscere Gramsci all’Italia e al suo partito, sulla politica di oggi. La nostalgia non appartiene a Cecilia, lei guarda sempre in avanti: dice di voler prendere un «anno sabbatico», gira troppo. Non c’è da fidarsi, però, i suoi occhi hanno altri progetti”.

(da ALIAS, Antonio Gramsci, i giorni del carcere, di Lea Durante)

22 gennaio 1891 nasce Antonio Gramsci, filosofo e politico italiano (morto nel 1937)

 

Un brano musicale al giorno

Rosa Ponselle canta "My Old Kentucky Home"

Rosa Ponselle (22 gennaio 1897 - 25 maggio 1981)Il 22 gennaio 1897 nasce Rosa Ponselle, il grande soprano americano, venerato come una delle più grandi voci operistiche del XX secolo, in una canzone molto casalinga. Un tale repertorio, sebbene atipico, riflette tuttavia una parte della giovinezza di Ponselle in vaudeville con la sorella Carmela, dove hanno eseguito tutti i tipi di musica, nel periodo appena prima della prima guerra mondiale.

Rosa Ponselle (22 gennaio 1897 - 25 maggio 1981), era una soprano operistica americana con una voce ampia e opulenta. Ha cantato principalmente alla Metropolitan Opera di New York ed è generalmente considerata dai critici della musica uno dei più grandi soprani degli ultimi 100 anni. Rosa Ponselle amava farsi fotografare, e da vera e grandissima diva di un’epoca che abbandonate le sinuosità del liberty aveva abbracciato i non meno decorativi calligrafismi dell’Art déco prediligeva i gesti ampi, i panneggi, gli strascichi, i veli sapientemente disposti.

(Wikipedia)


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

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Ugo Brusaporco

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