“L’amico del popolo”, 22 gennaio 2018

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno II. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

A CORNER IN WHEAT (Usa, 1909), regia di D. W. Griffith. Sceneggiatura: D. W. Griffith, Frank Norris, Frank E. Woods. Fotografia: G. W. Bitzer. Montaggio: James Smith. Con: Frank Powell, Grace Henderson, James Kirkwood, Linda Arvidson, W. Chrystie Miller, Gladys Egan, Henry B. Walthall.

Il "re del frumento", uno speculatore in granaglie, ha organizzato un grande "accaparramento" acquistando di fatto il controllo del mercato mondiale del grano. Il film mostra il duplice effetto che ciò produce, sugli agricoltori che coltivano il grano senza riceverne i profitti e, contemporaneamente, sui consumatori che devono fronteggiare i prezzi inflazionati. I più duramente colpiti sono i più poveri, impossibilitati a sostenere il rialzo del prezzo del pane. Il fondo di carità per il pane non ce la fa, infatti, ad affrontare l'emergenza del rincaro dei prezzi. Molte persone soffrono la fame al punto da organizzare delle sommosse per procurarsi il pane quotidiano. Il "re del frumento", grazie ai suoi profitti, può organizzare per i suoi ospiti dei sontuosi banchetti offrendo vino e cibi a volontà. Egli conduce un gruppo dei suoi ospiti dell'alta società a visitare i silos dove viene stipato il grano. Quando gli ospiti se ne sono andati, esultando per un telegramma che lo informa di avere raggiunto il monopolio mondiale del settore, egli scivola e muore sepolto dal suo stesso grano. Dopo la scena della morte dello speculatore, si torna nuovamente sulla figura dell'agricoltore intento a seminare il prossimo raccolto.

  • Il 22 gennaio 1875 nasce D. W. Griffith, regista, produttore e sceneggiatore americano (morto nel 1948), lo ricordiamo con un capolavoro insuperabile e di sconvolgente forza politica: A Corner in Wheat

A Corner in Wheat è un breve film americano del 1909 che racconta di un magnate avido che cerca di conquistare il mercato mondiale del grano, distruggendo le vite di chi non può più permettersi di comprare il pane. E' stato diretto da D. W. Griffith e adattato da Griffith e Frank E. Woods dal romanzo The Pit (1903) di Frank Norris.

 

A CORNER IN WHEAT (Usa, 1909), regia di D. W. Griffith

Alternando le scene dei poveri che cercano di procurarsi il pane e le sontuose scene della vita del ricco speculatore, anticipa in qualche modo il montaggio di contrasto che divenne un segno distintivo del cinema sovietico di protesta circa dieci anni dopo.
Nel 1994, A Corner in Wheat è stato selezionato per la conservazione nel National Film Registry degli Stati Uniti dalla Library of Congress come "culturalmente, storicamente o esteticamente significativo".

A CORNER IN WHEAT (Usa, 1909), regia di D. W. Griffith

 

Per un caso del destino il 22 gennaio del 1898 nasce anche Sergei Eisenstein (morto nel 1948). Regista e sceneggiatore russo, montatore, scrittore, produttore cinematografico e scenografo, ritenuto tra i più influenti della storia del cinema per via dei suoi lavori, rivoluzionari per l'uso innovativo del montaggio e la composizione formale dell'immagine. Ha diretto capolavori della storia del cinema come La corazzata Potëmkin, Aleksandr Nevskij, Lampi sul Messico e Ottobre.

Lo ricordiamo con il suo corto d’esordio:

Sergei Eisenstein (1898 -1948)

 

Una poesia al giorno

È l’ora in cui s’ode tra i rami, di George Gordon Byron (22 gennaio 1788 - 19 aprile 1824), conosciuto come Lord Byron, era un nobile inglese, un poeta, un pari, un politico e una figura di spicco del movimento romantico. È considerato uno dei più grandi poeti britannici e rimane ampiamente letto e influente).

È l’ora in cui s’ode tra i rami
la nota acuta dell’usignolo;
è l’ora in cui i voti degli amanti
sembrano dolci in ogni parola sussurrata
e i venti miti e le acque vicine
sono musica all’orecchio solitario.
Lieve rugiada ha bagnato ogni fiore
e in cielo sono spuntate le stelle
e c’è sull’onda un azzurro più profondo
e nei cieli quella tenebra chiara,
dolcemente oscura e oscuramente pura,
che segue al declino del giorno mentre
sotto la luna il crepuscolo si perde.

George Gordon Byron (22 gennaio 1788 - 19 aprile 1824), conosciuto come Lord Byron

Parti dello straordinario saggio di Mario Praz nell’Enciclopedia Italiana (1930):

BYRON, George Gordon. Poeta inglese nato il 22 gennaio 1788 a Londra, morto il 19 aprile 1824 a Missolungi. Discendeva da un ramo di antica famiglia normanna (de Buron) stabilitosi a Newstead, nella contea di Nottingham, nel 1540 con sir John Byron, il cui pronipote fu elevato al rango di pari nel 1643. Il prozio del poeta, William, quinto lord Byron (1722-98), un violento resosi colpevole d'omicidio, fu soprannominato the wiched lord; il padre del poeta, il capitano John Byron, si guadagnò il nomignolo di mad Jack per la sua vita dissoluta. Costui ebbe, dalla prima moglie, Augusta (1783-1851), che nel 1807 si sposò col cugino, il colonnello George Leigh, e dalla seconda moglie, Catherine Gordon of Gicht, George Gordon, il poeta. Il nonno materno si era tolta la vita, e la madre era donna di passionalità e capricciosità anormali. Di una discendenza gravata di tante tare dovette risentire il poeta, che nacque anche con una deformità fisica, visibile specialmente nel piede destro (contrazione del tendine di Achille). Passò una fanciullezza agitata ad Aberdeen, tra ristrettezze economiche causate dalle dissipazioni paterne, presso la madre, che ne inasprì il carattere con alternative di moine e di strapazzate: dal soggiorno scozzese gli derivò amore per le montagne e per il mare, ammirazione per il Vecchio Testamento, e un cupo fondo di dottrine calviniste circa la predestinazione del peccato e della colpa. Un precoce amore per la cugina Margaret Parker, intorno al 1800, lo spinse a scrivere le prime poesie d'amore: già aveva dato prova di disposizioni per la satira. Nel 1798 successe nel titolo e nei beni del prozio. Studiò a Harrow (1801-5), dando prova di carattere sfrenato e pugnace, e facendo disparate letture. Nelle vacanze estive del 1803 frequentò una famiglia di lontani parenti, i Chaworth, e s'invaghì di Mary Ann Chaworth: codesto amore pare lasciasse tracce profonde nel poeta. Entrato nel 1805 al Trinity College, Cambridge, si distinse ben presto per la sua condotta stravagante, e per la sua abilità nel nuoto.
(...)
Ci restano copiose testimonianze del fascino che il volto pallido, dai nobili lineamenti, di lord B. esercitava, specie sulle donne. A rendere il B. accetto alle donne dovette contribuire parecchio anche quel certo che di femmineo in lui che non sfuggì ad alcuno di quanti lo avvicinarono: per le donne egli era, come piaceva a lui stesso definirsi, "una sorella prediletta, talora riottosa" L'aspetto del volto, cangevole come quello d'una donna, era specchio fedele dell'animo ombroso, capriccioso e contraddittorio, continuamente oscillante tra la tenerezza e lo scherno, abilissimo simulatore e amante di mistificazioni, e al tempo stesso incapace di serbare un segreto; infine soprattutto corrivo a effondersi in deliziose e interminabili ciarle, e in ancor più deliziose lettere. Cresciuto in un'epoca di dandies, ne copiò in parte i costumi, e si sottopose a terribili cure dimagranti: tra le grandi figure del passato guardava con ammirazione soprattutto ad Alcibiade. Dopo quanto s'è detto, non farà specie se l'atteggiamento che il B. si sforzò d'assumere, nelle prime opere, fu, per contrasto, tale da indurre il pubblico e i critici a vedervi forza, virilità, nervosa semplicità, maschia freschezza. In un primo tentativo il B. posa da pellegrino Aroldo, languente tra gli uomini come un falco selvaggio dalle ali mozze, dispregiatore del gregge vile. Il B. fu, prima di tutto, il creatore d'una moda, che attecchì tanto più rapidamente quanto, nell'Europa d'allora, il tipo del passionale ribelle alla società era, come suol dirsi, nell'aria, e già sufficientemente adombrato nella Schauer-Romantik. Fu questo il solo aspetto della poesia del B. che impressionò i critici del continente, presso i quali diventò dogma l'identificazione del B. con lo spirito rivoluzionario. Per il B. la poesia fu un modo come un altro di sfogare le sue reazioni immediate ai fatti del giorno, affrettatamente; e come negativo assoluto egli fu equivalente al suo opposto, e minacciò di cristallizzarsi in un'ipocrisia alla rovescia. Ma mentre il B., in Childe Harold, deliberatamente isolando e magnificando un solo aspetto di sé, riusciva insincero e astratto, nelle lettere egli metteva tutto se stesso, quel se stesso duttile, settecentesco, che il contatto con la vita meridionale, specie italiana, finì di perfezionare.

L'influsso letterario del B. fu vasto sui minori e sui minimi tra i letterati inglesi. La reazione contro il gusto byroniano fu non poco inasprita dal fatto che poetastri oggi dimenticati non si stancarono di produrre a serie giaurri dal fiero aspetto, orde turchesche, descrizioni di solitudini e d'isole selvagge con ruinosi templi e romantici recessi, il tutto trattato melodrammaticamente. Su coloro che dovevano essere i veri poeti futuri l'influsso del B. fu o nullo, o debole, o presto superato. I casi più notevoli son quelli del Tennyson e del Browning giovanili, e, in parte, del Meredith. Un influsso costante si nota solo in poeti minori come James Thomson nei suoi momenti men felici, e in E. A. Poe (nei versi).
(...)
Invece dal 1850 in poi si nota un sensibile e progressivo ritorno d'interesse, dovuto in parte a circostanze politiche, tra cui l'impressione prodotta sugl'Inglesi dall'accelerarsi del Risorgimento italiano, che il B. aveva vaticinato. Si può dire che il saggio del Mazzini, Byron e Goethe, pubblicato a Lugano nel 1847, sia stato uno dei fattori determinanti, data la grande ammirazione inglese per il patriota italiano.
In Italia il B. salì subito a una fama superiore a quella di qualsiasi altro scrittore straniero, sia per la qualità della sua arte sia per la sua opera politica, e trovò schiere di traduttori e d'imitatori; il Pellico, il Leoni, Pellegrino Rossi, il Bertolotti furono i primi; poi il Parzanese, il Bini, il Guerrazzi, il Maffei, Pasquale De Virgili, e dozzine d'altri; libretti d'opera furon cavati dal Corsaro.
I romantici italiani inneggiavano al B. come a uno dei loro Santi Padri, i classici lo lodavano per le sue teorie antiromantiche, e il Monti affermava essere il suo romanticismo di un genere così sublime che Omero stesso gli avrebbe perdonato; ma il Leopardi (che pure byroneggiò in Consalvo) e il Tommaseo chiaramente mostrarono di non lasciarsi illudere dalla vistosità di quella musa: la quale ispirò, anche qui, soprattutto i minori, il Guerrazzi, il Dall'Ongaro, P. Ceretti, e una schiera di meridionali, soprattutto calabresi, che composero adattazioni paesane delle novelle in versi (p. es. Il brigante di B. Miraglia, 1844; l'Errico di D. Mauro, 1845; Valentino di V. Padula, 1845) byronizzando la fosca materia locale che vi si prestava. Anche nel resto d'Europa, e specie in Russia e in Polonia, l'influsso del B. fu vasto, se non profondo e duraturo.

Il 22 gennaio 1788 nasce Lord Byron, poeta e drammaturgo inglese (morto nel 1824)

George Gordon Byron (22 gennaio 1788 - 19 aprile 1824), conosciuto come Lord Byron

 

Un fatto al giorno

22 gennaio 1506: arriva a Roma il primo contingente di Guardie Svizzere, composto da 150 uomini.

“Il 22 gennaio 1506 è la data ufficiale della fondazione, il giorno il quale 150 Svizzeri dal Canton Uri entrarono, sotto il Comando del Capitano Kaspar von Silenen, dalla “Porta del Popolo” per la prima volta nel Vaticano e furono benedetti dal Papa Giulio II”.

Guardie svizzere (Schweizergarde, in lingua tedesca) è il nome dato ai mercenari svizzeri, che hanno prestato servizio come guardie del corpo, guardie cerimoniali e guardie del palazzo presso le corti d'Europa, sin dal tardo XV secolo. Erano tenute in grande stima, sia per il valore militare, sia per la disciplina e la fedeltà nei confronti del signore cui giuravano obbedienza. Al giorno d'oggi, per "Guardie svizzere" s'intendono solitamente i membri della Guardia svizzera pontificia ancora operativa nella Città del Vaticano. La Svizzera, nei tempi passati, un paese povero e montagnoso, prettamente agricolo, ha fornito mercenari per i campi di battaglia europei fin dal XIV secolo.
Fanti elvetici sono stati regolarmente assoldati dal Regno di Francia, dal Regno di Spagna e dal Regno di Napoli durante tutta l'Età Moderna. Furono per primi i Francesi, a selezionare un corpo di mercenari svizzeri, deputato alla difesa della figura del sovrano, con la creazione della "Guardia dei Cento" (Cent Suisses in lingua francese) nel 1497. A partire dal Cinquecento, nei torbidi dell'Europa dilaniata dalle Guerre di religione e dai tradimenti dei vari Signori della Guerra mercenari, re e regine del Vecchio Continente vollero circondarsi di fedeli guardie elvetiche per difendere l'incolumità propria e delle loro famiglie.

Nel XVIII secolo quasi tutte le corti d'Europa mantenevano un contingente di guardie svizzere.
Il 1° agosto 1291, gli abitanti di Uri, Svitto e di Untervaldo, i cosiddetti Waldstätte o paesi forestali, siglarono il patto eterno confederale e si unirono nella lotta contro la Casa d'Asburgo, a quel tempo la potenza dominante nelle Alpi orientali. Quest'alleanza gettò le basi di quella che sarebbe stata la Confederazione svizzera come oggi la conosciamo e, al contempo, fece della guerra un'occupazione precipua di ogni abitante dei cantoni, chiamato a difendere in prima persona la propria terra senza contare sulla nobiltà (cavalleria feudale) o su mercenari.
Il valore militare degli svizzeri, raffinato durante tutto il corso del XIV secolo e caratterizzato da una rivoluzionaria rivalutazione della fanteria a discapito della cavalleria pesante, venne dimostrato nel XV secolo, quando gli elvetici stroncarono l'esercito di Carlo il Temerario, nelle battaglie di Grandson, Morat (1476) e infine Nancy (1477), dove lo stesso Carlo perse anche la vita.

Le guardie svizzere non furono solo impiegate come scorta personale del papa, ma parteciparono a numerose battaglie, prima fra tutte quella avvenuta il 6 maggio 1527, durante il sacco di Roma, da parte delle milizie di Carlo V, permettendo con il loro sacrificio, a papa Clemente VII di avere salva la vita. Dei 189 svizzeri se ne salvarono solo quarantadue, cioè quelli che all'ultimo momento avevano accompagnato Clemente VII nella fuga lungo il Passetto di Borgo, il passaggio che collega il Vaticano a Castel Sant'Angelo.
Durante la presa di Roma da parte delle truppe italiane nel 1870, le guardie svizzere rimasero a difesa personale di papa Pio IX nei suoi alloggi.
A differenza dell'esercito papalino, il corpo non fu sciolto e rimase a garantire l’incolumità della persona fisica del Papa, la sicurezza dei palazzi del Vaticano e della Villa pontificia di Castel Gandolfo...”

I Mercenari Svizzeri:
C'erano 15.000 uomini disponibili per questo tipo di lavoro, che era "organizzato" e sotto il controllo della piccola Confederazione dei Cantoni, la quale conferiva la autorizzazione per la leva di uomini e, come contropartita, riceveva grano, sale o altri privilegi commerciali. Gli svizzeri, in genere, concepivano la guerra come un'emigrazione temporanea, estiva e, perciò, partecipavano a guerre brevi e grandi, per poi tornare a casa a passare l'inverno con il "soldo" e il bottino: essi erano i migliori soldati del tempo. Senza cavalleria e con poca artiglieria, questa gente aveva inventato una tattica di movimento superiore a tutte le altre, e per questo essa era richiesta e invitata sia dalla Francia che dalla Spagna. Erano come delle muraglie semoventi, irte di ferro e impenetrabili. Non si capirebbe niente delle lotte in Italia, se non si tenesse conto di questi soldati mercenari. Già nel XIII e XIV secolo, dopo l'indipendenza svizzera, un gran numero di gente militava in Germania e Italia e poiché i Cantoni non erano capaci di impedire questo tipo di emigrazione, cercarono, perlomeno, di organizzarlo.

 

Una frase al giorno

“Anche il sacerdote che innalza l'ostia consacrata per il volgo è uno stregone, come la fattucchiera che fa suffumigi sotto il gufo imbalsamato. Interrogano ambedue il mistero, sono ambedue interpreti di un mondo soprannaturale che l'anima incolta e grossa del credente volgare (al quale sfugge il gioco delle forze umane razionali che regolano il destino del mondo e la storia degli uomini) crede gli sovrasti, schiacciandolo con la sua fatalità ineluttabile”.

(Antonio Gramsci, nome completo Antonio Francesco Sebastiano Gramsci, nato ad Ales, 22 gennaio 1891, morto a Roma, 27 aprile 1937. È stato un politico, filosofo, politologo, giornalista, linguista e critico letterario italiano. Nel 1921 fu tra i fondatori del Partito Comunista d'Italia, divenendone suo segretario e leader dal 1924 al 1927).

ANTONIO GRAMSCI - I GIORNI DEL CARCERE (1977). Film storico di Lino Del Fra. Sceneggiatura: Lino Del Fra, Cecilia Mangini. Fotografia: Gábor Pogány. Montaggio: Silvano Agosti. Musiche: Egisto Macchi. Con: Pino Ammendola, Andrea Aureli, Paolo Bonacelli, Pier Paolo Capponi, Riccardo Cucciolla, Mismy Farmer, Jacques Herlin, Franco Graziosi, Lea Massari, Biagio Pelligra, Luigi Pistilli, John Steiner.

Antonio Gramsci, uomo politico italiano nato ad Ales (Cagliari) il 23 gennaio 1891, studiò a Torino dove, fin dal 1915, si schierò nell'ala sinistra del movimento socialista. Postosi a capo del movimento proletario più avanzato del dopoguerra, i consigli di fabbrica, nel 1919 fondò e diresse il periodico L'ordine nuovo; guidò direttamente lo sciopero generale politico del 1920 divenendo uno dei capi più amati e stimati della classe operaia. Avvenuta a Livorno il 21 gennaio 1921 la scissione del partito socialista (di cui era segretario), le sue qualità lo fecero designare segretario del partito comunista (1924). Deputato nella XXVII legislatura, venne dichiarato decaduto dal mandato e arrestato l'8 novembre 1926. Condannato a 20 anni di reclusione, nel carcere politico fascista di Turi finì per alienarsi i "compagni" di reclusione per le sue franche e acerbe critiche, tanto all'URSS di Stalin quanto al comitato centrale del PCI italiano. Le penose condizioni di salute indussero le autorità a trasferirlo in una clinica di Formia prima e in una di Roma poi, ove morì il 27 aprile 1937.

ANTONIO GRAMSCI - I GIORNI DEL CARCERE (1977). Film storico di Lino Del Fra

Da Il Manifesto: “A settantanove anni dalla scomparsa, avvenuta il 27 aprile 1937, Antonio Gramsci non è solo il pensatore italiano contemporaneo più letto e conosciuto nel mondo, ma anche un personaggio capace di ispirare film, letteratura, teatro, luoghi in cui la potenza del pensiero e l’esperienza umana estrema si fondono. Per questo, fra le tante celebrazioni organizzate per il 27 aprile, in due luoghi simbolici come Roma e Turi vi sono anche la proiezione di Gramsci 44 di Emiliano Barbucci (2016) e la rappresentazione di Gramsci Antonio detto Nino, di Francesco Niccolini e Fabrizio Saccomanno, organizzate con la partecipazione della International Gramsci Society Italia.

ANTONIO GRAMSCI - I GIORNI DEL CARCERE (1977). Film storico di Lino Del Fra

Ho conversato con Cecilia Mangini, sceneggiatrice, regista, documentarista, fotografa, nel suo book-bar preferito, a Ponte Milvio. Lei e suo marito Lino Del Fra sono stati fra i primi, alla metà degli anni Settanta, a pensare a Gramsci come personaggio, in un tempo molto ideologico che fu anche tra i momenti di maggiore diffusione della figura e dell’opera pensatore sardo. Il loro Antonio Gramsci - i giorni del carcere, con Riccardo Cucciolla e Lea Massari, vinse il festival di Locarno nel 1977, ed è un film di ragionamento e di corporeità insieme, concentrato sul tema del rapporto fra Gramsci e il partito, attraverso la vita e la relazione dei detenuti politici di Turi.

Come nacque l’idea del film “Gramsci - i giorni del carcere”?

Fummo molto colpiti dalla lettura, nei tardi anni Sessanta, delle testimonianze che pian piano ricostruivano il contesto della vita di Gramsci in carcere, e che in un certo senso illuminavano anche quelle omissioni o parziali censure dei testi gramsciani pubblicati fino ad allora. Poi, nel 1975, uscì l’edizione critica dei Quaderni del carcere di Valentino Gerratana, che non risultò immediatamente comprensibile come quella tematica togliattiana, ma che certo ne sanava le lacune. In quel periodo io e Lino presentammo all’Italnoleggio due diversi soggetti perché venissero valutati per un contributo. Uno era Se..., un mio film “utopistico”, mai più realizzato, contro il dogmatismo di allora, del quale ero terribilmente insofferente, e l’altro era il Gramsci. Solo perché eravamo sposati, l’Italnoleggio non volle considerarci come due registi distinti, e ci chiese di scegliere, avrebbe finanziato un solo film: scegliemmo Gramsci perché ci sembrò più giusto, per una forma di impegno.

E infatti è un film di impegno, direi di rovello. È film fatto di scelte molto precise: hanno spazio i personaggi di Tatiana Schucht, la cognata di Gramsci, e della moglie Giulia, rispettivamente interpretate da Lea Massari e Mimsy Farmer, mentre non compaiono Piero Sraffa o l’episodio della «strana lettera» di Grieco del 1928. Vi è poi l’episodio della visita del fratello Gennaro nel carcere di Turi, mandato da Togliatti per conoscere i giudizi di Antonio sulla «svolta» del 1929.

La presenza di Tatiana e di Giulia è fondamentale per ricostruire la complessità del personaggio Gramsci, e di Gramsci in carcere in particolare. Il mondo affettivo di Gramsci e le sue inquietudini, i sentimenti incrociati, la sensazione di sfaldamento dei rapporti. Erano persone molto appassionate, che testimoniavano anche che la storia del movimento operaio dei loro anni giovanili non era tutta politica, era anche fatta di grande umanità e di amore. L’uso dei flash back è servito proprio a questo, a restituire pezzi di vita. Per il resto, sì, abbiamo fatto scelte precise, Lino voleva concentrarsi su alcune cose specifiche e le ha selezionate, voleva un film molto compatto.

Che rapporti ci furono con il Pci a proposito della realizzazione del film?

Praticamente nessuno. Ci muovevamo autonomamente fra le nostre letture e i nostri incontri. Lavorammo molto in fase preparatoria, per non trascurare nessun documento. Lino, era un ferreo marxista antistalinista, e non voleva rapporti con il Pci, e io ero invece anarchica e libertaria, convinta che lo strappo fra Bakunin e Marx fosse una ferita mai rimarginata. Il film era a tutti gli effetti un’opera antistalinista. Proprio per questo lo facemmo, proprio per questo ci piacque tanto Gramsci. D’altra parte, non si smette mai di imparare. Solo recentemente, leggendo il bel libro di Luciana Castellina, Guardati dalla mia fame, sui fatti di Andria del 1946, ho compreso fino in fondo l’antistalinismo di Giuseppe Di Vittorio, un uomo di straordinaria potenza.

E chi incontraste, chi furono i vostri riferimenti?

Ricordo una grande partecipazione al lavoro da parte di Alfonso Leonetti, che aveva conosciuto Gramsci ai tempi di Torino e dell’Ordine Nuovo. Una volta Leonetti venne sul set e vide Cucciolla con la divisa carceraria e la gobba: fu impressionato, gli sembrò di vedere davvero Gramsci. Io e Lino ci dividevamo il lavoro, per esempio io incontrai gli anarchici compagni di carcere a Turi e lui vide Giuseppe Fiori, l’autore della famosa biografia che fu decisiva per alcuni passaggi, in particolare la visita del fratello Gennaro in carcere. Lavoravamo così, ognuno di noi due sceneggiava una sequenza e l’altro la verificava e poi le discutevamo insieme. Ma posso dire che questo film è prima di tutto di Lino, è davvero il suo film. Io ci ho lavorato molto, ma non quanto ad Allarmi siam fascisti!, un altro film che realizzammo insieme.

E dopo l’uscita del film?

Gerratana accolse il film con un doppio paginone su l’Unità, sottolineando l’aderenza e l’adesione del film al pensiero gramsciano. Callisto Cosulich su Abc sostenne che dopo il titolo «fine» si dovesse aggiungere come per i saggi critici - la sua era un’idea bella e impossibile -, la lunghissima bibliografia essenziale di cui ci eravamo avvalsi per la sceneggiatura. Tuttavia l’Unità non lo ha mai segnalato nella pagina dei cinema con le stellette del massimo gradimento, in altri termini con un incitamento a vederlo. Il nostro non è un film facile, si rivolge a chi vuole conoscere il pensiero di Gramsci, in antinomia con la linea stalinista e nello scontro anni ’20 con Togliatti e con il Comintern: volevamo che fosse così, un film che si sceglie lucidamente di vedere e di rivedere. Gramsci non è un personaggio accattivante, il Gramsci di Lino è il dirigente di un proletariato sconfitto dal fascismo e che costruisce il suo riscatto: il «cazzotto nell’occhio», le sue conversazioni coi prigionieri del carcere di Turi dimostrano il suo talento pedagogico che si scontrava col credo stalinista dei compagni. In questi ultimi decenni, in America Latina, sottotitolato in spagnolo e portoghese, il film ha ottenuto un successo straordinario, proiettato nelle scuole-quadro e nelle università. Un segno sintomatico è che su YouTube il film è stato postato nella sua interezza. Recentemente la Casa del cinema ha dedicato una giornata a Lino Del Fra proiettando La Torta in cielo, Gramsci e All’armi siam fascisti!: nonostante gli applausi, sotterraneamente ma in modo percepibile è affiorato il distacco, meglio, per usare un termine alla moda, la non condivisione dell’impegno critico di Lino. Non per All’armi!: l’antifascismo è oggi un credo ossificato e circoscritto al duce, alle aquilazze e alle camicie nere.

Intanto ti racconto che anche a Mosca c’è stato recentemente interesse nei confronti del film, da parte di una associazione di studiosi gramsciani. Ma il tuo Gramsci di oggi che figura è?

Una figura senza confronti nel presente, un esempio di coerenza e di lucidità, da leggere e da studiare. Non mi sembra che vi sia nella politica di oggi un erede di Gramsci.

Che ne pensi del recente film «Gramsci 44» di Emiliano Barbucci, sui 44 giorni trascorsi da Gramsci a Ustica?

Con l’anticipo di un anno Gramsci 44 rappresenta un’apertura forte alle riflessioni, analisi e approfondimenti dei testi gramsciani che si snoderanno lungo l’ottantesimo della sua morte. Mi è piaciuto molto anche perché è invito alla speranza che non sia invaso dalla solennità delle celebrazioni inutili.
Gramsci 44 è un testo cinematografico che porta alla luce il nostro passato occulto, storico, politico e sociale, e ci rende consapevoli della necessità urgente di affrontare il presente occulto odierno e il futuro occulto - occultati per le note volontà politiche. Ci riesce grazie anche alla riscoperta dell’inquadratura, vale a dire per l’importanza dell’immagine: 50.000 anni fa l’uomo preistorico ha raccontato la sua vita affrescando le caverne, molto prima dell’invenzione della scrittura, appena pentamillenaria. L’immagine lo ha accompagnato per tutti i millenni successivi, raggiungendo un potere iconico estremamente coinvolgente e significante: lo dimostra il senso di eternità che proviamo di fronte alla pittura, alla scultura e al mosaico.
Il secondo coefficiente di Gramsci 44 è la scelta del regista Emiliano Barbucci e del cosceneggiatore Emanuele Milasi di dichiarare apertamente allo spettatore l’angolazione del loro sguardo critico, di non ostentarlo mai come quella verità oggettiva che per lo strapotere di coinvolgimento dell’immagine obbliga a un consenso indiscriminato. Barbucci e Milasi dichiarano costantemente sottotraccia la loro adesione al pensiero gramsciano, lasciando allo spettatore la capacità di acconsentire o di dissentire, di criticare, di pensare e soprattutto di convincersi della necessità di studiare Gramsci. Il lascito è confermato anche da Daniele Ciprì, direttore della fotografia.

Prendiamo un caffè, le chiacchiere non finiscono mai, sul partito di allora, sul ruolo «duplice» di Togliatti nel far conoscere Gramsci all’Italia e al suo partito, sulla politica di oggi. La nostalgia non appartiene a Cecilia, lei guarda sempre in avanti: dice di voler prendere un «anno sabbatico», gira troppo. Non c’è da fidarsi, però, i suoi occhi hanno altri progetti”.

(da ALIAS, Antonio Gramsci, i giorni del carcere, di Lea Durante)

22 gennaio 1891 nasce Antonio Gramsci, filosofo e politico italiano (morto nel 1937)

 

Un brano musicale al giorno

Rosa Ponselle canta "My Old Kentucky Home"

Rosa Ponselle (22 gennaio 1897 - 25 maggio 1981)

Rosa Ponselle (22 gennaio 1897 - 25 maggio 1981)Il 22 gennaio 1897 nasce Rosa Ponselle, il grande soprano americano, venerato come una delle più grandi voci operistiche del XX secolo, in una canzone molto casalinga. Un tale repertorio, sebbene atipico, riflette tuttavia una parte della giovinezza di Ponselle in vaudeville con la sorella Carmela, dove hanno eseguito tutti i tipi di musica, nel periodo appena prima della prima guerra mondiale.

Rosa Ponselle (22 gennaio 1897 - 25 maggio 1981), era una soprano operistica americana con una voce ampia e opulenta. Ha cantato principalmente alla Metropolitan Opera di New York ed è generalmente considerata dai critici della musica uno dei più grandi soprani degli ultimi 100 anni. Rosa Ponselle amava farsi fotografare, e da vera e grandissima diva di un’epoca che abbandonate le sinuosità del liberty aveva abbracciato i non meno decorativi calligrafismi dell’Art déco prediligeva i gesti ampi, i panneggi, gli strascichi, i veli sapientemente disposti.

(Wikipedia)


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k