“L’amico del popolo”, 22 maggio 2017

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

WATER (Il coraggio di amare, Canada, India, 2005), regia di Deepa Mehta, sceneggiatura Anurag Kashyap, fotografia Giles Nuttgens, montaggio Colin Monie, musica A. R. Rahman, Mychael Danna, con Lisa Ray, Seema Biswas, John Abraham, Kulbhushan Kharbanda, Waheeda Rehman.

India, 1938. Chuya, una ragazzina di appena otto anni, viene allontanata dalla sua famiglia e trasferita in una casa ritrovo per vedove indù, per espiare la colpa d’un marito perso e mai conosciuto, attraverso l’eterna penitenza imposta dai testi sacri. Tra veglie e preghiere, la ragazzina porterà una ventata di freschezza - e di scompiglio - che contagerà l’affascinante Kalyani, giovane vedova innamorata di Narayan, un fervente idealista sostenitore di Gandhi.

“Il film di Deepa Mehta va a concludere una personale trilogia sugli elementi acqua, fuoco e terra. Il tema trattato - la condizione della donna e in particolare delle vedove - apre nuovi spiragli su una condizione di disagio che ancora oggi, a distanza di cinquant’anni dalle conquiste del “profeta” Gandhi, contagia centinaia di migliaia di donne costrette alla ferrea osservanza delle pratiche religiose. Un film che apre uno spiraglio di speranza e di conoscenza in più su pratiche sconosciute al grande pubblico”.

“Dice la regista di Water, Deepha Mehta, che oggi in India sono ancora milioni le vedove che si sottopongono alle regole della religione indù, secondo la quale il loro destino può essere duplice: venir bruciate insieme con il cadavere dal marito; condurre senza mai risposarsi una vita di privazioni, preghiera e penitenza. La legge civile indiana ha cancellato queste imposizioni che vengono ancora applicate dai religiosi più osservanti. Il film molto interessante e bello è collocato nel 1938, quasi settant'anni fa, quando l'India era ancora una colonia e Gandhi era all'inizio della sua ascesa”.

(Lietta Tornabuoni, La Stampa)

“È il terzo film della «triologia degli elementi» avviata in Canada con Fire (Fuoco) dalla regista indiana Deepa Mehta. Il secondo, Earth (Terra) lo si vedrà solo in un DVD che li raccoglierà tutti e tre. Questo che esce oggi nelle nostre sale ancora una volta, ma con accenti più forti, porta in primo piano la difficile condizione delle donne indiane negli ultimi anni del colonialismo quando la predicazione di Gandhi non era ancora riuscita a conquistare la liberazione politica e sociale del Paese”.

(Gian Luigi Rondi, Il Tempo)

Water completa la trilogia sugli elementi diretta da Deepa Mehta. Dopo Fire (1998) e Earth (1999) il lavoro della regista è stato fortemente osteggiato in India, sua terra di origine, specie Fire, che mostrava un amore lesbico. La violentissima reazione dello Shiv Sena, un organismo formato da fondamentalisti indù, è giunto al punto di distruggere il set di Water già nel 2000. Pur protetta dal governo indiano la regista fu costretta a completare il film nel 2005 in tutta segretezza, ma dovette girarlo nello Sri Lanka”.

(Adriano De Carlo, Il Giornale)

Water (2005), il film più politicamente controverso di Mehta, segna anche una svolta nella direzione dell’intrattenimento. Sia ben chiaro, il tema è serissimo. Nello specifico: il trattamento delle vedove, e soprattutto delle vedove bambine, nell’India prima di Gandhi (il quale, tra le altre cose, disse che era il caso di smetterla di bruciarle vive). Solo che, con “Water”, Mehta sembra essersi resa conto (finalmente!) che anche l’occhio vuole la sua parte. Ambientato a Varanasi, la città sacra sulle rive del Gange, negli anni Trenta, ma girato all’estero perché i fondamentalisti indù hanno minacciato ripetutamente l’intero cast (cosa che spiega anche perché ci abbiano messo tanto a girarlo, visto che è uscito sette anni dopo “Fire”), “Water” è una vera gioia per gli occhi. E si capisce benissimo che ogni fotogramma è pensato apposta per trasmettere allo spettatore un appagamento estetico, che un po’ fa da contraltare a una trama drammaticissima, e un po’ la esalta. Non a caso, come protagonista maschile Mehta ha scelto l’ex Mister Universo John Abraham, mentre per il ruolo femminile ha voluto la modella Lisa Ray (inizialmente si era parlato di Nandita Das, che era stata protagonista di “Earth” e “Fire”, ma che non aveva la bellezza ipnotica di Lisa Ray). La trama, si diceva, è tragica che più tragica di così non si può: una bambina di cinque anni, sposata a sua insaputa con un uomo anziano, resta vedova (sempre a sua insaputa) e viene spedita in un monastero, dove una vecchia cicciona - un incrocio tra una madre badessa, una maîtresse e una zia scorbutica ma dal cuore tenero - costringe le vedove più giovani a prostituirsi. Di fatto il monastero vive grazie una bellissima vedova adolescente (Lisa Ray), che sfama tutte le sue compagne ma viene trattata con disprezzo. Come “Earth” anche “Water” si conclude con uno stupro. Ma, a differenza di “Earth”, il finale di “Water” contempla anche un messaggio di speranza. È quanto più di vicino a un happy ending ci si potesse aspettare da Deepa Mehta. “Water” è stato proiettato nelle sale indiane soltanto nel 2007, a ben due anni dall’uscita nel resto del mondo (se ben ricordo è stato l’unico della trilogia ad apparire nei cinema italiani), tanto gli estremisti indù avevano protestato, ed ha definitivamente consacrato Deepa Mehta come la regista più controversa dell’India. Quando ha annunciato l’uscita del suo film tratto da un romanzo di Salman Rushdie, un altro che di essere perseguitato dagli estremisti ne sa qualcosa, Deepa Mehta ha detto: “A lui i musulmani, a me gli indù”.

(Anna Momigliano)

“Piccole persone controllate da grandi forze. È un giorno di grande vergogna”. Con queste parole la regista Deepa Mehta si rivolgeva alle autorità di Varanasi (India), che nel 2005 contrastarono le riprese del film “Water”, a seguito di un’agguerrita contestazione da parte della fascia più estremista della popolazione. La causa della protesta è da ricercare nel fondamentalismo indù che, ancora ai nostri giorni, continua a pretendere di mettere a tacere la libertà di pensiero e di espressione in nome di imprescindibili quanto illogiche verità religiose. Un tema ancora scottante quello delle condizioni di vita delle vedove indù, costrette a trascorrere un’esistenza di sacrifici e privazioni per espiare le proprie colpe (ritenute causa della morte del coniuge), in base a dettami religiosi risalenti a più di 2000 anni fa. Il film della Mehta, seppure ambientato nel 1938, racconta una realtà ancora attuale e drammatica. “Queste vedove sono tutt’oggi riconoscibili dalle teste rasate, sono morte ambulanti” (D. Mehta).

La protagonista della storia è Chuyia, una sposa-bambina di 7 anni, rimasta vedova poco dopo le nozze. Secondo la tradizione, i suoi nonni la portano in un ashram, la casa delle vedove, dove trascorrerà il resto della vita insieme ad altre donne che condividono la sua stessa condizione. L’indole ribelle di Chuyia e l’ingenua irruenza della sua infanzia portano scompiglio nella piccola comunità femminile, mettendo in discussione le ragioni stesse della sua esistenza. A dirigere l’ashram è Madhumati, una rozza settantenne che, in combutta con l’eunuco Gulabi, manda avanti la baracca con i soldi guadagnati da un giro clandestino di prostituzione. La più ambita tra le vedove è la giovane Kalyani, l’unica alla quale non sono stati rasati i capelli; le dure condizioni di vita non hanno scalfito il suo carattere, che ben presto si manifesta dolce e premuroso, soprattutto nei confronti di Chuyia. Altro personaggio fondamentale nella vicenda è quello di Shakuntala, la più taciturna e devota tra le vedove, colei che, con fede e pazienza, realmente provoca il cambiamento all’interno della realtà chiusa e annichilita dell’ashram; un cambiamento annunciato dallo sbocciare dell’amore, in particolare quello tra Kalyani e Narayan, giovane avvocato affascinato dal pensiero e dalle iniziative del Mahatma Gandhi. Attraverso un mix perfetto di scenari suggestivi, tonalità di colore verde-blu e travolgente musica indiana, il film propone un ampio spettro di situazioni e sentimenti, spaziando dalla crudeltà alla spensieratezza, dal silenzio dell’impotenza a quello della contemplazione e della poesia. La voce della libertà, strozzata fino all’ultimo dall’ignoranza, dalla paura e dal dolore, riacquista definitivo vigore soltanto nelle ultime scene del film, in un gesto disperato di “affidamento”. E in quel gesto è riassunta la volontà di tutte le donne vittime di violenza di “affidarsi” alla comunità umana, per essere tutelate e amate senza pregiudizi. Un affidamento che presuppone fiducia reciproca, costruita attraverso un’informazione responsabile. “Water” costituisce, infatti, l’ultimo tassello di una trilogia realizzata dalla Mehta nell’arco di 10 anni, insieme a “Fire” (1996) e “Earth” (1998), entrambi dedicati ad altrettante tematiche “scomode” per la politica e la religione indiane. L’elemento dell’acqua ricorre in quest’ultimo film, sia per la presenza del fiume sacro accanto all’ashram, sia attraverso la pioggia, che spesso induce i personaggi a guardare il cielo, come a cercare lì una via di fuga. A quella che è la sostanza pura e libera per eccellenza viene attribuito il compito di “lavare via” un peccato non commesso, come a voler sottolineare la contraddittorietà di una tradizione imposta per il vantaggio e la convenienza di pochi. Alimentare il senso di colpa. È questa la strategia a cui ricorrono i capi dei governi e delle religioni, che ancora oggi tengono in scacco le fasce più deboli della società e in particolare le donne, arrivando al paradosso di poter addirittura giustificare la violenza come indispensabile al mantenimento di un ordine prestabilito. In alcuni Paesi si parla ancora di “delitti d’onore”, per i quali viene comminata una pena assai minore rispetto a quella per omicidio: donne uccise per aver rifiutato matrimoni combinati, per aver denunciato stupri subiti in famiglia, per aver abbandonato il tetto coniugale... O forse sarebbe più opportuno definirlo “infernale”. Di queste e ad altre atroci situazioni, rilevate non soltanto in India ma in tutto il mondo, parla il documentario di Amnesty International dedicato alla campagna “Mai più violenza sulle donne”, inserito nello stesso dvd di “Water”. Tra i contenuti extra, molto interessante è anche il making of, con interviste alla regista e agli attori, utili a comprendere i retro-scena e i significati più profondi del film”.

(www.unosguardoalfemminile.it)

“India, 1938: Chuyia è una bambina di otto anni, con lo sguardo, la spontaneità, la voglia di giocare di qualsiasi coetanea. Solo che lei è diversa, è una baby-sposa. A cui, per colmo di sfortuna, muore il marito: così, come prescrivono i rigidissimi rituali religiosi indù, la piccola è costretta a lasciare la famiglia, l'adorata mamma, per essere segregata in una "Casa delle vedove". Una sorta di lager dove - tra amicizie, umanità dolente, prostituzione occulta, divieti di ogni genere - finirà, dopo l'ennesimo trauma, per perdere definitivamente l'innocenza. Tutta la luce che aveva negli occhi. Succedeva nell'India di quasi settant'anni fa, succede anche nell'India di oggi: secondo un censimento del 2001, nell'immenso subcontinente ci sono 34 milioni di vedove, e almeno 12 milioni vivono nelle "Case". A fornire questi dati è la regista indiana (trapiantata in Canada) Deepa Mehta: è lei ad aver scritto e diretto Water, l'intenso, toccante film (nelle sale da venerdì 6 ottobre) che racconta - appunto - la storia di Chuyia. Personaggio di finzione, certo, nato dalla fantasia dell'autrice; ma che simbolizza il destino infame di tantissime donne, emarginate e perseguitate. E non solo in quel paese: secondo Amnesty International, ogni anno nel mondo ci sono 80 milioni di matrimoni con spose bambine.
Ma Water non è solo la denuncia di un fenomeno inquietante, e che esiste tuttora. E' anche un film molto rifinito, con una bella fotografia, musiche suggestive e un gruppo di interpreti notevoli. Acclamato al festival di Toronto, candidato del Canada agli Oscar, e amato da molti personaggi celebri. Tra cui un uomo che di India e di fondamentalismi religiosi se ne intende, Salman Rushdie: "E' un'opera magnifica - ha detto - che affronta un argomento serio e difficile ma dall'interno, attraverso gli occhi delle protagoniste. Toccando irrimediabilmente il nostro cuore".

Eppure, malgrado le qualità cinematografiche, è inevitabile che la presentazione italiana di Water diventi soprattutto un'occasione per denunciare quanto c'è ancora da fare, in tema di diritti civili. Specie al femminile. La prima a sottolinearlo è il ministro del Commercio estero, Emma Bonino, testimonial della pellicola (così come Amnesty International, che la patrocina): "La cosa che più mi ha colpito del film - racconta la storica leader radicale - è che tratta un tema molto attuale: il rapporto tra religione e società. O meglio, tra interpretazioni particolarmente reazionarie della religione e società. E questo non vale solo per l'induismo, ma anche per la nostra religione e per l'Islam". Da qui l'impegno del ministro: "Nel 2007, l'India sarà il punto focale della mia attività. E non si tratta di occasioni solo commerciali: cercherò di avere con gli amici indiani un dialogo franco anche su altri temi. La Bonino, dunque, sottolinea un punto importante: a rendere "esplosivo" Water non è solo il riferimento alla crudeltà di certe tradizioni, ma anche il mostrare senza reticenze l'orrore a cui può condurre il fanatismo religioso. Un'interpretazione avallata dalla regista, Deepa Mehta: "Il cuore del film - spiega - è il conflitto tra coscienza e fede: se non si ascolta la propria coscienza, ma di obbedisce pedissequamente alla fede, si rischiano cose disumane".
A dimostrarlo, c'è anche la travagliata lavorazione del film. Come spiega il produttore, David Hamilton: "Abbiamo tentato di girare Water nel 2000, in India. Il set era già pronto, ma poi, a pochi giorni dalle riprese, il movimento dei fondamentalisti ha bruciato il set. Allora abbiamo cominciato a girare nell'hotel dove alloggiavamo, ma fuori la gente urlava e bruciava foto di Deepa. Per due anni lei ha dovuto avere la scorta". Conseguenza: il film è stato girato solo quattro anni dopo, ma nello Sri Lanka. E quasi clandestinamente.

Del resto, Mehta non è nuova alle minacce dei fanatici: già un suo film precedente, Fire, fu oggetto di proteste furiose e ritirato dalle sale, perché parlava di donne lesbiche. E adesso, in novembre, toccherà a Water uscire nei cinema indiani. Una pellicola che, almeno vista con occhi occidentali, presenta tutti i personaggi con molto rispetto: la piccola Chuyia, certo (interpretata dalla debuttante dello Sri Lanka Sarala); ma anche la bella Kalyani (Lisa Ray), vedova-prostituta che si innamora del laureato in legge Narayan (John Abraham), seguace di Gandhi; e la religiosissima sadananda (Kulbhushan Kharbanda), che vive sulla sua pelle il conflitto tra fede e coscienza.
Ma è proprio Gandhi - di cui in questi giorni si celebra il centenario della nascita - a chiudere il film, in una scena intensa e un po' a sorpresa: "Lui è il simbolo della nostra liberazione - conclude Mehta - per questo ho deciso di farlo apparire in un film come il mio. Che non vuole mostrare solo le discriminazioni delle vedove, ma denunciare qualsiasi oppressione contro gli esseri umani: in nome della tradizione, della religione, del colore della pelle".

(Claudia Morgoglione, 3 ottobre 2006)

WATER (Il coraggio di amare, Canada, India, 2005), regia di Deepa Mehta

 

Una poesia al giorno

Temporale, di Corrado Govoni

Di nubi grigie a un tratto il cielo fu sporco;
e il tuono brontolò con voce d’orco.
Si cacciò avanti lungo lo stradone,
carta, fogli ed uccelli il polverone.
Si udirono richiami disperati,
tonfi d’imposte e d’usci sbatacchiati.
Si vide donne lottar in un prato
con gli angeli impauriti del bucato.
Poi seminò la pioggia a piene mani
tetti e vie di danzanti tulipani;
tagliò il paesaggio, illividì ogni cosa
in un polverio d’acqua luminosa.

 

Un fatto al giorno

22 maggio 1762: La Fontana di Trevi a Roma è ufficialmente completata e inaugurata da Papa Clemente XIII. La prima fase dei lavori terminò nel 1747, quando vennero completate le statue e le rocce posticce. A Giuseppe Pannini fu affidato l'onere di portare finalmente l'opera a compimento, ma fu rimosso dal suo incarico a causa delle variazioni da lui eseguite sul progetto originale: i lavori subirono un ulteriore ritardo. Nel 1759 l'incarico fu affidato allo scultore Pietro Bracci, aiutato dal figlio Virginio. La fontana viene finalmente ultimata dopo l'esecuzione del complesso scultoreo centrale, durante il pontificato di papa Clemente XIII. La sera del 22 maggio 1762, giorno di domenica (dopo trent'anni di cantiere), l'opera fu finalmente restituita al pubblico in tutta la sua maestosità (e il papa la inaugurò per la terza volta). Dal primo bozzetto realizzato dal Maini alla realizzazione finale del gruppo scultoreo del Bracci, l'opera venne reinterpretata in chiave illuminista. Le nuove idee provenienti dalla Francia stavano infatti facendosi strada nella cultura romana: il cavallo nero e il cavallo bianco trovano espressione nella esecuzione del Bracci.

Un tema solenne appare intanto sul mareggiare dell’orchestra. È la fontana di Trevi al meriggio. Il tema solenne passando dai legni agli ottoni assume un aspetto trionfale. Echeggiano fanfare: passa sulla distesa radiosa delle acque il carro di Nettuno tirato da cavalli marini e seguito da un corteo di sirene e tritoni. E il corteo si allontana mentre squilli velati echeggiano a distanza.

Fontana di Trevi a Roma

 

Una frase al giorno

“Gli uomini ignoreranno sempre la loro vera natura finché non lasceranno le donne libere di realizzare la propria personalità.”

(Indira Gandhi)

 

Un brano al giorno

George Harrison, My Sweet Lord (Studio Version Original)

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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