L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...
Un film al giorno
NOBI (Fuochi nella pianura, Giappone, 1959), regia di Kon Ichikawa, tratto dall'opera omonima di Shōhei Ōoka. Sceneggiatura: Natto Wada. Fotografia: Setsuo Kobayashi, Setsuo Shibata. Montaggio: Tatsuji Nakashizu Musica: Yasushi Akutagawa. Con Eiji Funakoshi, Osamu Takizawa, Mickey Curtis, Mantarô Ushio, Kyu Sazanka, Yoshihiro Hamaguchi, Asao Sano, Hikaru Hoshi, Masaya Tsukida.
Siamo nelle Filippine del '45: l'esercito giapponese è in completa disfatta, quando Tamura, un soldatino che ha perduto come i compagni ogni fiducia nella lotta, tenta di portarsi in salvo fra bombardamenti e sporadici scontri, e persino fra le insidie tese dall'egoismo degli sbandati in lotta per una scarpa o per una manciata di riso. Benché malato, viene cacciato dal reparto e respinto dall'ospedale, e costretto a vagare per le campagne ed i boschi, dove assiste quotidianamente alla morte di chi cade stroncato dalla fame, dalle fatiche, dai bombardamenti e dalle aggressioni dei ribelli. Rimasto con due soli compagni, lo sbandato vede scene di degradazione umana, giungendo lui pure molto vicino al completo tracollo. Reagendo con tutte le sue forze, più con la volontà che con il fisico, Tamura si avvierà verso i fuochi della pianura, dove sono i contadini che forse lo accoglieranno, risparmiandogli la vita.
"Il film tratteggia con una estrema sobrietà la tragica situazione di uomini coinvolti dallo sfacelo di una nazione sconfitta e distrutta nella sua vitalità e nei suoi ideali. Anche senza giungere al lirismo di 'Arpa Birmana', in questo film il regista si dimostra in possesso di un prestigioso e vigoroso mestiere.”
(Segnalazioni cinematografiche, vol. 62, 1967)
“Dal romanzo La strana guerra del soldato Tamura di Shokei Oka: nel febbraio 1945 in un'isola delle Filippine, braccati dagli americani e dai guerriglieri, soldati giapponesi uccidono per un pugno di sale, depredano cadaveri, praticano il cannibalismo. Nobi è con L'arpa birmana (1956), ma senza il suo versante idillico e mistico, uno dei grandi film pacifisti di Ichikawa: un affresco terribile e impietoso sugli orrori della guerra che degrada l'uomo al suo stato ferino. La bellezza delle immagini, intrise di pioggia e di fango, sublima, senza contraddirlo, lo sguardo lucido da entomologo con cui il regista fruga tra i suoi personaggi come se fossero insetti”.
(Il Morandini)
“Diciamolo francamente: le occasioni di vedere un bel film si fanno sempre più rare. Né, guardandoci attorno, si ha ragione di nutrire molte speranze per il futuro. Proprio perciò, a salvaguardia del gusto non dobbiamo lasciarci sfuggire Fuochi nella pianura un film giapponese che non suscita propriamente entusiasmo, non eccita festosamente la fantasia, ma pretende quell’ammirazione ferma, seria, convinta, destinata alle opere le quali non ci divertono nel senso più corrente del termine, ché anzi lasciano pensosi e quasi storditi per la loro terribilità, ma ci colpiscono in pieno petto per il significato alto e profondo, e confortano nella certezza che il cinema può avere echi poetici e sensi morali per nulla inferiori a qualsiasi altra espressione artistica. Se mai, come qui, più immediati... Fuochi nella pianura è del 1959, e perciò di tre anni posteriore a L’arpa birmana, il film sinora più noto dell’eclettico Kon Ichikawa (del quale è in questi giorni in proiezione, ma amputato, anche il film sulle Olimpiadi). Che sia arrivato così tardi sui nostri schermi può stupire soltanto quanti si fanno illusioni sul livello della cultura cinematografica dei nostri distributori. Rallegriamoci invece di vedere finalmente realizzato un voto antico: quello di offrire agli spettatori, come accade nei paesi più progrediti del mondo, i film nella versione originale, fornita di didascalie in italiano. Non è questione di dettaglio, come taluni fingono di credere; il sonoro, soprattutto per i toni della recitazione, è un elemento fondamentale della rappresentazione, da quando il cinema non è più muto. Il film meritava questo privilegio. Per quello che dice, e per come lo dice. Niente di nuovo, all’apparenza, perché spesso il cinema, anche recentemente, ha trasmesso messaggi di pace descrivendo gli orrori della guerra; ma in Fuochi nella pianura Ichikawa non si mostra soltanto ispirato da un ovvio umanitarismo. Ciò che lo spinge, sulla scia del romanzo di Shohei O-Oka, è un sentimento positivo, la certezza che anche in una atroce selva di barbarie può sussistere un sacrale rispetto per la persona. Ove rimanga anche un solo individuo a battersi per salvare in se stesso la dignità dell’uomo, in lui possiamo trovare speranza di riscatto dalle forze animalesche che la guerra ridesta in noi. Rispetto all’Arpa birmana Ichikawa fa un passo avanti. Non si tratta soltanto, ora, di trovare nella preghiera e nella pietà per i morti l’unico scampo a una condizione fatale; sparando l’ultima cartuccia sul commilitone che, ridotto a un relitto di carne, ha ceduto all’istinto cannibalesco, e perciò è divenuto più nemico dei soldati avversari, il protagonista di Fuochi nella pianura afferma il valore laico, concreto, della coscienza come forza naturale che deve continuare a distinguerci dalle bestie anche quando ogni altro connotato della figura umana è cancellato dalla fame e dalla disperazione d’una guerra perduta. Tale è l’umile soldato Tamura, che va randagio per campi e foreste delle Filippine nel 1945, combattuto fra l’istinto di conservazione (senza necessità, preso nell’ingranaggio del terrore, egli stesso ha ucciso un’indigena indifesa), lo stupore di ritrovarsi sempre superstite fra corpi massacrati, e la paura di cedere agli stimoli più ignobili; col costante miraggio delle colonne di fumo alte sulla pianura (forse un segnale ostile, forse un’illusione di pace). Con un’estrema economia di mezzi, in un paesaggio arso e fangoso, in uno stile asciutto e grave, di plastica durezza, con splendidi squarci lirici (attenti alla scena della formica), il film è il racconto di questa lotta di Tamura contro se stesso, per non degradarsi come i compagni, per non abdicare, benché ormai il corpo si muova come un automa, e non smarrirsi anche nell’anima mentre tutto gli crolla d’intorno e ogni uomo è lupo al suo simile. Ribellatosi alla voce della giungla e ristabilito l’ordine dell’universo, Tamura andrà, agnello di Dio, incontro alla morte. Interprete della tragica, spesso anche orripilante vicenda, è Eiji Funakoshi, attore eccezionalmente espressivo in un largo registro di chiaroscuri psicologici”.
(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, 24 novembre 1965)
Una poesia al giorno
“Sono le sei della sera”, di Cristina Rivera Garza nella traduzione di Lucia Cupertino. Il testo è tratto dal libro "La más mía" ora raccolto nel volume "Los textos del yo" (Fondo de cultura económica, México D.F. 2005) che riunisce l'opera poetica dell'autrice.
(A partire da quale luogo comincia ad essere pericoloso continuare ad allontanarsi? SAM SHEPARD)
Sono le sei della sera
è l’ora in cui gli uomini tacciono e le donne dicono la verità.
La mezza mela della luce raduna quelli che ancora non sono amanti nelle strade.
Ci sono tre cicatrici sulla guancia sinistra dell'aria.
Oggi voglio parlarti come gli alberi: con ombre
nel silenzio più nero
voglio essere l'estatica temerità del paesaggio, il contesto
il verbo permanere.
Ora. Per la prima volta.
Da quanti anni non ti ero accanto esaminandoti i piedi?
Quante aurore vedesti che non vidi con te?
Di che stoffa era il dolore che non condividemmo mai?
Mi allontanai da tutti col tempo ma all'inizio me ne andai da te.
Allora bastò aprire la finestra del linguaggio per montare in groppa all'aria.
Ti dico che la lontananza mi dette uno scheletro, una storia, una leggenda.
Ti dico che nelle pasture della sua lingua conobbi il trapezio dell'io e lo usai come un
abisso.
Tutto all'orizzonte sembrava carico di lucciole al punto [d'essere e di non essere.
Una finzione.
Ti dico che con mani di trementina la lontananza mi
fece ingoiare alimenti artificiali
liquidi verdi al mattino e solidi acquerelli quando già [tutto era sera.
Nulla ti farà male, mormoravo. E nulla doleva.
Ti dico che noi due eravamo duttili amanti.
La distanza mi ha regalato una dimora senza tetto e un [rombo e dieci dita di inchiostro.
Tutto ciò che toccavo si tingeva di blu, ti dico. Il cielo, la respirazione, le ossa.
Un blu definitivo.
Ti dico che il mio corpo si tese come un filato tra le sillabe delle parole non stare.
Nessuno sparo mi sfiorò, nessun graffio, nessun desiderio.
Lei fu buona con me, ti dico. Mi accudì coi suoi bagliori.
Come una madre mi allattò di oblio e mi plasmò tutte le cellule con nuovi geni.
Lei si trasformò in me e io fui sempre tutta sua.
Osso ad osso
moncone a moncone annottato
cartilagine a cartilagine
tutte le molecole.
Ti dico che la sua bontà era infinita e era fatta di un'aria con sapore di cotogna
che mi inondava le narici col suo arco e la sua freccia.
Ti dico che la amai più che il linguaggio, più che l'origine, più che il destino
che depositai tra i fiori delle sue porte.
Ti dico che con il suo amo ben affondato nel padiglione del palato
la lontananza mi portò contro corrente fino a giungere alla sorgente dove tutto fu silenzio.
Non seppi mai di aver freddo.
Non potei mai identificare il filo che mi cuciva gli organi
internamente.
Non ne avevo necessità.
Non usavo vestiti.
Nulla mi fece virare la testa né volgere la vista indietro.
Ti dico che solo avevo occhi per l'eternità.
Ma riconobbi la tua voce una sera come questa alle sei
quando l'allarme della sirena s'infilò sotto i muri e m'attraversò la pelle.
Fu questione di secondi un biglietto aereo, due valigie.
Tornai a te con massima urgenza.
Tu eri sul punto di morire e io c'ero solamente
per la prima volta.
Salda come una radice ed ammuffita come i cardini delle porte.
Allora capì Vallejo e allora ripetetti: mai il lontano piombò così vicino.
Ti dico che voglio avere la voce dell'albero che piantasti dentro di me.
Ti dico che sono la frutta e il succo della frutta che lascia il pizzicore sotto la lingua.
Ti dico d'occuparmi come fossi una piazza,
un continente, un Paese.
Sono le sei della sera e sono in cammino verso te.
(¿a partir de qué lugar comienza a ser peligroso seguir alejándose? SAM SHEPARD)
Son las seis de la tarde
es la hora en que los hombres callan y las mujeres dicen la verdad.
La media naranja de luz reúne a los que todavía no son amantes en las calles.
Hay tres cicatrices en la mejilla izquierda del aire.
Hoy quiero hablarte como los árboles: con sombras
en el silencio más negro
quiero ser la estática temeridad del paisaje, el contexto
el verbo permanecer.
Ahora. Por primera vez.
¿Hace cuántos años que no estaba a tu lado escudriñándote los pies?
¿Cuántas auróras viste que yo no vi contigo?
¿De qué tela era el dolor que nunca compartimos?
Me alejé de todos con el tiempo pero al inicio me fui de ti.
Entonces bastó con abrir la ventana del lenguaje para montarme en la grupa del aire.
Te digo que la lejanía me dio un esqueleto, una historia, una leyenda.
Te digo que en las pasturas de su lengua conocí el trapecio del yo y lo usé como un
abismo.
Todo en el horizonte parecía preñado de luciérnagas a punto de ser y de no ser.
Una ficción.
Te digo que con manos de trementina la lejanía me hizo tragar artificiales alimentos
líquidos verdes en las mañanas y sólidas acuarelas cuando [ya todo era tarde.
Nada te dolerá, murmuraba. Y nada dolía.
Te digo que las dos éramos dúctiles amantes.
La lejanía me regaló una morada sin techos y un rombo y diez dedos de tinta.
Todo lo que yo tocaba se teñía de azul, te digo. El cielo, la respiración, mis huesos.
Un azul definitivo.
Te digo que mi cuerpo se tendió como una hilaza entre las sílabas de las palabras no
estar.
Ninguna bala lo tocó, ningún rasguño, ningún deseo.
Ella fue buena conmigo, te digo. Me cuidó con sus [destellos.
Como una madre me amamantó de olvido y me creó todas las células con genes nuevos.
Ella se convirtió en mi y yo fui siempre toda de ella.
Hueso a hueso
muñón a muñón anochecido
cartílago a cartílago
todas las moléculas.
Te digo que su bondad era infinita y estaba hecha de un [ire con olor a membrillo
que me llenaba la nariz con su arco y con su flecha.
Te digo que la quise más que al lenguaje, más que al origen, más que al destino
que deposité entre las flores de sus puertas.
Te digo que con su anzuelo bien hendido en el pabellón del paladar
la lejanía me llevó corriente arriba hasta llegar al manantial donde todo fue silencio.
Nunca supe que tenía frío.
Nunca pude identificar el hilo que me cosía los órganos por dentro.
No tenía necesidad.
No usaba vestidos.
Nada me hizo virar la cabeza ni volver la vista atrás.
Te digo que sólo tenía ojos para la eternidad.
Pero reconocí tu voz una tarde como ésta a la hora de las [seis
cuando la alarma de sirena se coló bajo los muros y me [atravesó la piel.
Fue cuestión de unos segundos un boleto de avión, dos maletas.
Regresé a ti con toda mi urgencia.
Tú estabas a punto de morir y yo estaba solamente
por primera vez.
Cierta como una raíz y enmohecida como las bisagras de las puertas.
Entonces entendí a Vallejo y entonces repetí: nunca lo lejos arremetió tan cerca.
Te digo que quiero tener la voz del árbol que plantaste dentro de mí.
Te digo que soy la fruta y el jugo de la fruta que deja el escozor bajo la lengua.
Te digo que me tomes como a una plaza, un continente, [un país.
Son las seis de la tarde y yo voy de camino hacia ti.
Un fatto al giorno
23 agosto 1927, Stati Uniti: nonostante le proteste nazionali, vengono giustiziati gli anarchici italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti.
“Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, pugliese il primo e piemontese il secondo emigrarono negli Stati Uniti nel 1908. Vissero e lavorarono nel Massachusetts facendo i mestieri più disparati come consuetudine in quegli anni per gli immigrati, (alla fine Sacco calzolaio e Vanzetti pescivendolo), professando le loro idee socialiste di colore anarchico e pacifista. Nell’aprile del 1920 in un clima permeato da pregiudizi e da ostilità verso gli stranieri, furono accusati di essere gli autori di una rapina ad una fabbrica di calzature in cui rimasero vittime un cassiere e una guardia armata.
Il processo istituito contro di loro non giunse mai alla certezza di provare accusatorie sicure, ma fu fortemente condizionato dall’ansia di placare un opinione pubblica furiosa e avvelenata dalla violenza, a cui bisognava dare dei colpevoli e dal pretesto fornito dall’evento per la scalata al successo personale del giudice THAYER e del pubblico ministero KATZMANN.
Di certo Sacco e Vanzetti pagarono per le loro idee anarchiche, idealiste e pacifiste (al momento dell’intervento americano del conflitto del ‘15-‘18 si rifugiarono in Messico per non essere arruolati) e per il fatto di far parte di una minoranza etnica disprezzata ed osteggiata come quella italiana. Non da meno pesarono le azioni violente e terroristiche dell’altra ala del pensiero anarchico dei primi anni del secolo (ad es. Gaetano Cresci e Giovanni Passanante) e non ultime alcune contraddizioni della linea difensiva. Dopo circa un anno di processo il 14 luglio 1921 furono condannati alla sedia elettrica.
Sacco e Vanzetti ribadirono fino all’ultimo la loro innocenza, ma nonostante nel 1925 un pregiudicato, tal Celestino Madeiros si accusasse di aver partecipato alla rapina assieme ad altri complici; scagionando completamente i due italiani e nonostante appelli e manifestazioni di solidarietà e di richiesta di assoluzione da parte dell’opinione pubblica mondiale, la notte del 23 agosto 1927 Sacco e Vanzetti furono giustiziati sulla sedia elettrica.
Nel 1977 dopo che il caso era stato più volte riaperto, il governatore del Massachusetts, Michael s. Dukakis, riabilitò le figure di Sacco e Vanzetti, scrivendo nel documento che proclama per il 23 agosto di ogni anno il S.&V. Memorial Day che “il processo e l’esecuzione di Sacco e Vanzetti devono ricordarci sempre che tutti i cittadini dovrebbero stare in guardia contro i propri pregiudizi, l’intolleranza verso le idee non ortodosse, con l’impegno di difendere sempre i diritti delle persone che consideriamo straniere per il rispetto dell’uomo e della verità”. A noi di tutta la vicenda (che per la durata della prigionia e i contorni della fine assume quasi caratteri martirologici) preme far rilevare l’estrema coerenza e convinzione nei valori professati da Sacco e Vanzetti, mai rinnegati fino alla fine e non ultimo il forte legame di amicizia che li tenne uniti e spiritualmente vicini per tutta la loro esistenza, anche nel momento in cui salirono sulla sedia elettrica, con un coraggio, uno stoicismo ed una umanità su cui tutti dovremmo riflettere e confrontarci. Perché in ogni caso la vera memoria ha un futuro dentro ognuno di noi”.
(www.saccoevanzetti.com)
- I funerali di Sacco e Vanzetti: www.youtube.com
- Sacco e Vanzetti: www.youtube.com
Una frase al giorno
“Se qualcosa del nostro tempo può servire è la violenza”.
(Georg Büchner, 1813-1837, scrittore, drammaturgo e rivoluzionario tedesco)
Un brano al giorno
“Sacco and Vanzetti”, canzone di Woody Guthire & David Rovics
Sacco & Vanzetti
Oh say there, have you heard the news
Sacco worked at trimming shoes
Vanzetti was a traveling man
Pushed his cart round with his hands
Two good men's a long time gone
Sacco and Vanzetti are gone
Two good men's a long time gone
Left me here to sing this song
Sacco came from across the sea
Somewhere over Italy
Vanzetti born of parents fine
Drank the best Italian wine
Sacco was a family man
Sacco's wife three children had
Vanzetti was a dreaming man
A book was always in his hand
Sacco made his bread and butter
Being the factory's best shoe-cutter
Vanzetti worked both day and night
Taught the people how to fight
I'll tell you if you ask me
About the payroll robbery
Two clerks were shot in the shoe factory
There in the streets of old Braintree
I'll tell you the prosecutors' names
Katman, Adams, Williams, Kane
Them and the judge were the best of friends
Did more tricks than circus clowns
The judge he told his friends around
"Gonna put them rebels down"
"Anarchist bastards" was the name
The judge he gave these two fine men
Vanzetti docked in '98
Slept upon a dirty street
Taught the people how to organize
Now in the electric chair he dies
All us people ough to be
Like Sacco and Vanzetti
Every day find ways to fight
On the people side for workers' rights
Ugo Brusaporco
Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.
INFORMAZIONI
Ugo Brusaporco
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