“L’amico del popolo”, 23 ottobre 2017

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

O ANO EM QUE MEUS PAIS SAÍRAM DE FÉRIAS (L'anno in cui i miei genitori andarono in vacanza, Brasile, 2006), regia di Cao Hamburger. Sceneggiatura: Cao Hamburger, Anna Muylaert, Bráulio Mantovani, Claudio Galperin, Adriana Falcão. Fotografia: Adriano Goldman. Montaggio: Daniel Rezende. Musiche: Beto Villares. Con: Michel Joelsas, Germano Haiut, Paulo Autran, Daniela Piepszyk, Simone Spoladore, Caio Blat, Liliana Castro, Eduardo Moreira, Gabriel Eric Bursztein, Felipe Hanna Braun, Haim Fridman, Hugueta Sendacz, Silvio Boraks, David Kullock, Einat Falbel, Abrahão Farc, Fábio Ferreira Dias, Rodrigo dos Santos, Sérgio Siviero, Edu Guimaraes, Fredy Delatolas, Malvina Klinow, Mala Tencer, Lili Angel, Christian Duurvoort.

Nel 1970 il Brasile e il mondo intero sembrano essere sconvolti, ma la maggiore preoccupazione nella mente del dodicenne Mauro, un ragazzino medio borghese di padre ebreo e madre cattolica, non ha niente a che vedere con la proliferazione delle dittature militari in Sud America o con la guerra in Vietnam. Il suo sogno più grande è vedere il Brasile diventare per la terza volta vincitore della Coppa del Mondo. Mauro si trova in quel momento della vita in cui si passa dall'infanzia all'adolescenza. I genitori, militanti di sinistra, costretti a vivere in clandestinità, si trovano costretti per un periodo ad affidare il figlio al nonno Mòtel, al quale però è accaduto qualcosa di inaspettato. Il ragazzino rimane solo senza avere la possibilità di informare i suoi genitori. E' il vicino di suo nonno, Shlomo, un vecchio ebreo solitario impiegato nella sinagoga locale, che finisce per prendersi cura di Mauro. Questa convivenza inaspettata svela ad entrambi un mondo fino ad allora sconosciuto. Mentre aspetta con ansia la telefonata dei genitori, Mauro ripercorre, in un certo senso, la storia dei suoi nonni - ebrei immigranti - alle prese con una realtà del tutto nuova. Oltre a Shlomo, incontra la piccola e irriverente Hanna, dotata di un promettente talento nelle scommesse e negli affari; la giovane Irene, che infiamma l'immaginazione di tutti i ragazzi del quartiere; il Rabbino, un accanito tifoso dei Corinthian; Italo, il figlio di un italiano coinvolto nelle manifestazioni studentesche; Edgar, il portiere mulatto della squadra di calcio locale, e molti altri. Con i suoi nuovi amici, Mauro condivide, tra le tante cose, la passione per il calcio, le prime scoperte sessuali e il desiderio di riconquistare la felicità soffocata dalla dittatura.

“Prendi i singoli ingredienti della ricetta, mescolali centellinando con cura le dosi e il patto che vien fuori è uno di quelli che può piacere molto alle cucine berlinesi. Sì, perché nel film The year my parents went on vacation (L’anno in cui i miei genitori sono andati in vacanza) del regista brasiliano Cao Hamburger, c’è la spruzzata "popular" dei mondiali di calcio del 1970, il fondale a ragnatela della dittatura militare e l’avventura di un ragazzino di dodici anni, figlio di dissidenti, che si ritrova da un giorno all’altro sbalestrato in uno dei quartieri più multietnici di Sao Paolo. Il Bom Retiro, là dove convivono gomito a gomito i discendenti delle varie immigrazioni greche, italiane e arabe, ma soprattutto storico centro di raccolta di quella comunità ebraica del posto in cui appartiene il nonno del ragazzo. È, infatti, al vecchio barbiere del quartiere che Mauro viene affidato dai genitori costretti a nascondere con la «bugia» di una vacanza la loro fuga-lampo dovuta a motivi politici. Il destino, però, gira su ruote differenti e l’ictus improvviso che colpisce il nonno toglie al bambino ogni bussola di riferimento, ancor prima di metter piede nel quartiere. Tanto più che il giovane Mauro, cresciuto dalla madre cattolica, non può capire rituali e convenzioni di quell’ambiente religioso che sembra votarsi alla sua adozione. Parte così, attraverso una narrazione rarefatta che interagisce con lo sfondo politico attraverso minime situazioni quotidiane, la lenta iniziazione del ragazzo a un nuovo contesto urbano, collocato in territori ben lontani da agi e abitudini del passato. Un mondo colorato e al tempo stesso laconico, sparpagliato nei tic della varie culture presenti sul territorio, ma unito nella stessa passione per la nazionale di Pelè e Tostao che intanto sugli schermi dei televisori macina vittorie su vittorie fino ad approdare alla finalissima con l’Italia. Ma è proprio mentre si dispiegano i preparativi per i festeggiamenti da conquista della coppa che la chiusura politica del paese farà sentire i suoi morsi più drammatici. Dal vecchio rabbino che aveva accudito il ragazzo fin da principio al giovane comunista d’origine italiana, il sottobosco dell’opposizione alla dittatura viene smosso con violenza dalle retate dei militari, tanto da spingere il finale verso una vittoria umanamente dimezzata. Approdo lineare di un film che, senza voler strafare a livello visivo, mantiene sobrietà e ironie (...)”.

(Lorenzo Buccella, L’Unità, 10/2/2007)

“C’è una sequenza altamente esplicativa degli intenti, e persino della natura “filosofica” del viaggio iniziatico intrapreso dal regista brasiliano Cao Hamburger (una carriera consumatasi soprattutto fra TV, documentari e videoinstallazioni) nel suo O ano em que meus pais saíram de férias, che tradotto letteralmente significa “l’anno in cui i miei genitori andarono in vacanza”, presentato in concorso alla 57ª Berlinale. La sequenza è quella in cui il piccolo protagonista Mauro entra nella stanza del nonno defunto e inizia a esaminarne gli oggetti, a “provare” indosso al suo fisico minuto gli abiti caratterizzanti l’identità del parente scomparso, compreso il classico copricapo kosher. Si tratta di un passaggio che sancisce l’avvio di un faticoso processo di riappropriazione di un’identità culturale, ottenuto tramite un forzato allontanamento dal nucleo-guscio familiare. Nel finale del film, la stessa voice-over di Mauro espliciterà il concetto di “esilio”, pur se declinato in un’accezione del tutto personale. Separato dai genitori, perseguitati politici, privato della compagnia del nonno, cui era stato dato in affidamento, morto improvvisamente di infarto proprio un attimo prima di accingersi ad accoglierlo, Mauro viene adottato dalla comunità ebraica del quartiere di Bom Retiro, a San Paolo del Brasile. Qui convivono da generazioni brasiliani-ebrei di plurima estrazione nazionale, ed è qui che Mauro, goy di padre ebreo e madre cattolica, prende coscienza della propria appartenenza a una “forma” culturale che preesiste persino ai pur inscindibili legami di sangue.
È il 1970, e da sei anni il Brasile vive sotto il giogo di una feroce dittatura militare, uguale nei modi a tante che hanno devastato il Sudamerica nella seconda metà del XX secolo, ma diversa per via del silenzio cui è stata condannata dall’induzione al subordine determinata dalla cassa di risonanza dedicate alle tragiche “consorelle” che affollavano, quasi in contemporanea, il continente. Ma il dodicenne Mauro, malgrado la partenza improvvisa dei genitori, non possiede la percezione “storica” di ciò che sta accadendo a lui e alla sua gente: lui crede che i suoi genitori siano veramente partiti per una vacanza, e concentra tutta la sua attenzione su altri “oggetti d’amore”, feticci simbolici o materiali sui quali riversare la propria affettività inevasa.
In primis, i Mondiali di Calcio del Messico, che vedono tra i grandi favorite proprio il Brasile, con il trentenne Pelé star indiscussa insieme a Jairzinho, Rivelino, Tostão e al comprimario Everaldo, l’unico vero oggetto del desiderio di Mauro, giacché è proprio la figurina di costui l’ultima a latitare dal suo album. In secondo luogo, le attenzioni spesso interessate del nuovo milieu entro cui Mauro, una volta occupata la casa del nonno, si trova ad abitare, grazie anche alla mediazione dell’anziano vicino di casa Shlomo; in particolare, Mauro subisce ben volentieri le “cure” di Hanna, sua (più o meno) coetanea che si innamora silenziosamente di lui. La sequenza in cui Hanna “nega” per gelosia a Mauro l’accesso al rudimentale peep-show che aggetta su un negozio di abbigliamento e di cui detiene il controllo (e che lascia visitare agli altri ragazzi previo pagamento di una gabella), impedendogli di ammirare le grazie della bella Irene, che lavora nei paraggi, è al tempo stesso un momento di tenerezza e un passaggio dal forte valore simbolico: Mauro sperimenta i primi turbamenti amorosi, e la sua peculiare “educazione sentimentale” non esclude dal proprio dominio la rivalità, il sospetto, l’assurzione a “oggetto” sessuale (pur se metaforizzato attraverso un “gioco” sospeso fra malizia e innocenza).
Dal suo non conoscere iniziale/inerziale, Mauro impara a comprendere la vita adulta, nei suoi aspetti più seduttivi, ma anche in quelli più tragici; alla fine, proprio mentre il Brasile rade al suolo l’Italia di Valcareggi laurendosi tricampeón e aggiudicandosi definitivamente la Coppa Rimet, senza neanche avere il tempo esultare ai gol di Jaizinho e Carlos Alberto che completano il 4-1 definitivo in quel di Città del Messico, Mauro impara anche che cos’è la morte: solo uno dei due genitori farà ritorno dalla lunga “vacanza”...
Il merito principale che va ascritto a Cao Hamburger è la delicatezza: senza mai calcare la mano, lavorando soprattutto sui mezzi toni, conferisce profondità a un tutto sommato ordinario Bildungsroman. Il processo di maturazione di Mauro è forse scandito con una “esattezza” che sfiora l’inconcussa monoliticità, ma possiede comunque i crismi di una scrittura attenta anche ai più impercettibili scarti emozionali, arricchita da uno stile capace di “inventare” cinema - le succitate sequenze del peep-show sono in tal senso esplicative - senza rimanere prigioniero di uno sterile accademismo.
Non cambierà la storia della rappresentazione della pubertà al cinema (peraltro, forse, l’età più irrappresentabile), ma O ano em que meus pais saíram de férias rimane un bell’esempio di cinema umanista ad altezza di quasi-adolescente”.

(Sergio Di Lino, cinemavvenire.it, 9/2/2007)

“L’anno in cui i miei genitori andarono in vacanza” vede un bambino di 12 anni cui spariscono i genitori (scappati per fuggire alla dittatura militare) mentre la nazione impazzisce di gioia per l’amata squadra di calcio nazionale (quella di Pelè, Tostao, Jairzinho e Carlos Alberto), lanciata verso il trionfo ai mondiali di Mexico 70 (dove in finale strapazzarono l’Italia per 4-1). Mauro, rimasto da solo, si ritrova all’interno di una strana comunità di anziani ebrei (in particolare il vecchio Shlomo, solo come lui, che sembra adottarlo), bambini curiosi, bambine sveglie, persone semplici di origini diverse che si aiutano nel quartiere multietnico del Bom Retiro. E in balia di sentimenti contrapposti, è costretto a crescere più in fretta del previsto, con genitori che non si fanno sentire e lui che non ne capisce il motivo. Mauro attende la vittoria del suo Brasile, ma soprattutto sogna il ritorno di mamma e papà, e ogni automobile che ricorda quella con cui si allontanarono è una stretta al cuore. E quando tornerà solo uno dei due, la sua infanzia sarà probabilmente finita. Classico racconto di crescita, ricco di sfumature sensibili anche se non del tutto imprevedibili, il film di Cao Hamburger racconta un momento tragico della storia del paese sudamericano, diviso tra una gioia sportiva effimera e un presente fatto di violenze, umiliazioni, repressioni. Il suo pregio è raccontare tutto ciò con il tono di una commedia ad altezza di bambino, intrisa del paradossale sapore della nostalgia (il giovane regista si immedesima nell’infanzia di Mauro) che sfiora ma evita i rischi di una rappresentazione edulcorata, innocua, scontata. Ma che invece non fa sconti al dramma, come dimostra il commovente finale.

(Antonio Autieri)

O ANO EM QUE MEUS PAIS SAÍRAM DE FÉRIAS (L'anno in cui i miei genitori andarono in vacanza, Brasile, 2006), regia di Cao Hamburger

 

Una poesia al giorno

Lo sciopero, di Shamsur Rahman (23 ottobre 1929-17 agosto 2006. Fu un poeta Bangladeshi, giornalista e giornalista)

Oggi non ci sono braccia ansiose al banco.
Nessuno si solleva sulle punta dei piedi,
nessuna fila nervosa, niente spingi-spingi.
Nessuna moneta ammaliante dietro le grate,
nessun fascio di banconote nei cassetti
simili a gabbiani entusiasti e frenetici.
Oggi, sono scomparsi i mucchi di carne in un attimo,
dalle strade e stradine della città. La città dorme
come un bambino sul grembo della mamma,
silenzioso come il pensatore di Rodin.
Calma: ciò che si racchiude nella testa del poeta
quando aspetta che l’undicesimo verso oscuro
si presenti dopo d’avere fatto i primi dieci:
quello che Maometto portò un giorno nel sacco sulle spalle
mentre percorreva la strada piena di sassi verso la sua grotta,
quello che gli ricoprì la testa di ragnatela,
quando ritornò dal nascondiglio ove si era nascosto
fuggendo dagli artigli selvaggi e rilucenti,
quando accese la stella della parola
nel suo cuore - la calma di oggi.
La strada principale è un torbido bordello di mezzogiorno.
Calma: ferisce il cuore come una baionetta. Un uomo, due uomini -
Come pezzetti di carta volanti per la strada che sospira.
Oggi le pompe di benzina sono vuote e silenziose.
Proprio qui nella strada il rumore del mio respiro
mi fa sobbalzare. Da qualche parte qui vicino
si schiudono i fiori: sento i petali aprirsi lentamente.
Dopo tanto tempo il grande sfarfallio sembra
essere sfuggito dietro la grande parete di treni.
Prima di oggi non avevo mai saputo che tanti uccelli
brillassero di tanto rumore in questa città.
Gli occhi del mio visitatore spaziano intorno:
ombre di ragazzi guizzano alle ombre più scure
nel parco tranquillo e silenzioso. I motori infocati
delle fabbriche e nelle officine stanno immobili.
Una gru distende il suo collo sottile
fuori della finestra della Banca Nazionale
mangiando il silenzio.
Ho camminato per le strade vuote di Dhaka
Immaginando molto nello spazio silenzioso.
Un pesciolino mi è saltato alle dita,
si è gonfiato ed è guizzato via verso un giardino cremoso
per trovare nuova forma in quella infinita galleria di fiori.
Mentre camminavo ho cancellato le insegne e i tabelloni
E ci ho messo, tremolanti, le mie poesie.

Ad ogni angolo di strada ho messo
un Picasso, un Matisse, un Kandinsky.
Quattro strade a incrocio simili ad una grande fronte:
la strada principale, la curva del vicolo velato,
il mercato del ventriloquo - calma ammassata,
bellezza catturata, come un angelo, in un paradiso di pietra.
Una gatta è saltata, malata d’amore,
al bagliore della luce del sole sul cumulo di spazzatura.
Oggi la gente ha dormito fino alle prime ore di mezzogiorno,
sotto gli alberi, ha dimenticato il lavoro, il danaro.
All’ombra dei carrelli, nei vari magazzini,
sui carrelli, fermi nei tunnel degli autobus,
materassi del silenzio. E l’intera furia dei verbi
giace affogata in acque profonde,
in una stanza verde ricoperta di muschio,
come tartarughe di color giada.
Oggi, improvvisamente, la mia città
è cambiata completamente, terribilmente.

 

Un fatto al giorno

23 ottobre 42 a.C.: guerra civile romana, seconda battaglia di Filippi. L'esercito di Bruto viene sconfitto in modo decisivo da Marco Antonio e Ottaviano. Bruto si suicida.

 

Un brano al giorno

Pierre de Manchicourt, Vidi speciosam

Interpreti: Capella Sancti Michaels & Currende Consort (Erik van Nevel)

Pierre de Manchicourt (Béthune, 1510 circa - Madrid, 5 ottobre 1564) è stato un musicista e compositore francese, di Scuola franco fiamminga. Le sue composizioni polifoniche, tutte concepite nella forma tradizionale, sono caratterizzate da una particolare limpidezza armonica e contrappuntistica, e pertanto furono conosciute e apprezzate in molti paesi d'Europa.

Vidi speciosam sicut columbam
ascendentem desuper rivos aquarum
Cuius odor vestimentorum
erat sicut flores rosarum
et lilia convallium

Quae est ila quae processit
quasi aurora consurgens,
pulchra ut luna, electa ut sol,
terribilis ut castrorum acies
ordinata?
Alleluia

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

e-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
web www.brusaporco.org

 

 

 

 

 

UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k