“L’amico del popolo”, 24 agosto 2021

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno V. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

TIME BANDITS (I banditi del tempo, UK, 1981), regia di Terry Gilliam. Scritto da Terry Gilliam, Michele Palin. Prodotto da Terry Gilliam. Fotografia Peter Biziou. Montaggio Julian Doyle. Musiche Mike Moran. Canzoni George Harrison. Cast: Craig Warnock nel ruolo di Kevin. David Rappaport come Randall. Kenny Baker come Fidgit. Malcolm Dixon come Strutter. Mike Edmonds come Og. Jack Purvis come Wally. Tiny Ross come Vermin. Sean Connery nel ruolo di Agamennone/Pompiere. David Warner come Male. Shelley Duvall come Pansy. Ian Holm come Napoleone. Michael Palin come Vincent. Ralph Richardson come Essere Supremo. Peter Vaughan come Winston l'orco. Katherine Helmond come la signora Orco. John Cleese come Robin Hood. Derek Deadman come Robert. Jerold Wells come Benson. David Daker come Trevor, il padre di Kevin. Sheila Fearn è Diane, la madre di Kevin. Jim Broadbent come presentatore. Tony Jay (voce) come l'Essere Supremo. Terence Bayler interpreta Lucien. Preston Lockwood come Neguy. Derrick O'Connor come Redgrave. Neil McCarthy come Marion. Ian Muir come il gigante. Myrtle Devenish come Beryl. John Young come Reginald.
 

Kevin è un vivace ragazzino di 11 anni appassionato di storia, specialmente dell'Antica Grecia, ignorato dai genitori, che preferiscono competere coi vicini nel possesso degli ultimi modelli di elettrodomestici sul mercato. Una notte, Kevin sogna un cavaliere a cavallo che irrompe nella sua cameretta dall'armadio e parte a galoppo in una foresta. Si risveglia e nota sulla sua bacheca una fotografia del cavaliere e il paesaggio che ha sognato. La notte seguente resta sveglio davanti all'armadio con una macchina fotografica e dopo una lunga attesa, dall'armadio fuoriescono sei nani che gli saltano addosso chiedendogli come uscire dalla stanza, finché non scoprono un portale spingendo il muro. Improvvisamente dall'armadio fuoriesce un volto spettrale che li incita a "restituire la mappa", prima che Kevin e i nani raggiungano la fine del corridoio dietro al muro precipitando in un abisso.

I sette si ritrovano in una fattoria. Qui Kevin esige una spiegazione di tutto quello che sta succedendo e chi siano i sei nani. Questi si presentano: Fidgit, Strutter, Og, Wally, Vermin e Randall, il capo del gruppo. I nani spiegano che la faccia spettrale che li ha attaccati in camera da letto era il cosiddetto Essere Supremo. Kevin cerca di allontanarsi dalla stramba compagnia e si ritrova nel bel mezzo di una battaglia e viene raggiunto dai nani, che con una strana mappa gli spiegano di essere finiti in Italia durante la Battaglia di Castiglione e più avanti incontrano Napoleone, un generale ossessionato all'altezza dei vari conquistatori della storia. I nani, che spiegano a Kevin di essere dei "banditi", riescono a derubare il francese di diversi tesori (tra i quali la Gioconda) prima di ritrovare il portale ed attraversarlo.

Si ritrovano stavolta nel Medioevo e mentre passeggiano per la foresta Randall spiega a Kevin che la strana mappa che possiedono è una Mappa del Tempo, che permette loro di arrivare in qualunque epoca storica segnata su di essa attraverso lo spaziotempo e l'hanno rubata all'Essere Supremo, colui che ha creato l'universo e che fino a non troppo tempo prima era il superiore di Randall e dei nani e li aveva licenziati per aver creato il "Baobab Rosso". Così Randall e i nani avevano deciso di rubargli la mappa per vendetta: la usano per raggiungere le ere segnate su di essa e per accumulare ricchezze. Dopo che Kevin ha scattato una foto dei nani, il gruppo s'imbatte nel leggendario furfante Robin Hood, che alla vista del tesoro del gruppo di Kevin decide di espropriarglielo e lo dona ai poveri sotto i loro occhi. Questo episodio crea astio fra Randall e Kevin per il fatto che il ragazzino difende le azioni di Robin Hood.

All'insaputa dei protagonisti, Male, una malvagia e narcisistica incarnazione ribelle nei confronti dell'Essere Supremo (che lo ha imprigionato nella Fortezza delle Tenebre eterne) trama contro il gruppo di Kevin per impadronirsi della mappa e sconfiggere l'Essere Supremo utilizzando le più avanzate forme di tecnologia, che lui ammira. Male prova quindi a manipolare i nani possedendo Og, ma Kevin distoglie i nani dai propositi del malvagio. Improvvisamente il volto dell'Essere Supremo riappare e la compagnia di Kevin si rimette in viaggio, ma stavolta si aprono due portali e Kevin salta in uno senza i nani. Kevin finisce nella Civiltà Micenea e nella caduta aiuta involontariamente re Agamennone a sconfiggere un guerriero minotauro; il sovrano accoglie Kevin al palazzo come amico e il ragazzino scatta diverse istantanee del luogo. Kevin però viene ritrovato dai nani, che arrivano alla corte fingendosi dei giullari per rubare gioielli e lo trascinano via con loro in un altro buco temporale contro la sua volontà.

Il gruppo giunge sul RMS Titanic e i nani usano il tesoro rubato dalla corte di Agamennone per vestirsi da grand'uomini e permettersi dei posti in prima classe. Nonostante ciò, Kevin è infelice per aver lasciato Agamennone e inizia a disprezzare i nani per via della loro cleptomania che apparentemente prevale la loro vera personalità e di come usino un oggetto prestigioso come la mappa del tempo per compiere crimini. Randall prova a tirar su di morale Kevin dicendogli che il loro prossimo obiettivo è quello di usare la mappa per raggiungere l'Era delle Leggende ed entrare nella Fortezza delle Tenebre eterne per impadronirsi del "Più favoloso oggetto del Mondo". Quando il Titanic si schianta contro l'iceberg, Male trasporta Kevin e i nani nell'Era delle Leggende e qui il gruppo viene pescato da un orco di nome Winston che intende mangiarli, ma il gruppo riesce a buttare nel mare l'orco e la sua consorte con l'inganno e i Banditi prendono possesso del galeone, finché un Gigante marino li solleva dalla superficie con la testa e camminando li conduce a terra. I Banditi addormentano il gigante iniettandogli del sonnifero attraverso un mantice e scendono a terra.

Riescono finalmente a raggiungere la Fortezza delle Tenebre, ma una volta all'interno, i nani vengono ingannati da una trappola di Male simile a uno show televisivo (nel quale Male utilizza due individui identici ai genitori di Kevin) che vengono così imprigionati in una gabbia sospesa sul vuoto: Male gli sottrae la mappa. Kevin, guardando la mappa del tempo immortalata in una delle sue fotografie, scopre come fuggire dalla gabbia rendendosi conto che l'abisso sotto la gabbia non è altro che un gigantesco portale. Kevin e i nani raggiungono Male, che però tramuta Og in un maiale e prova ad uccidere Kevin. Sfruttando la mappa, i Banditi si procurano un esercito di cowboys, cavalieri, arcieri, un carro armato e un'astronave. Nonostante ciò, Male riesce a sconfiggerli lo stesso e nello scontro Fidgit perde la vita. Improvvisamente Male si carbonizza e si scopre che è stato l'Essere Supremo ad eliminare il malvagio. Il Supremo si presenta nelle sembianze di un elegante signore, ripristina la forma di Og e riporta in vita Fidgit per poi iniziare a sistemare le cose ordinando ai nani di buttare i resti di Male in una cassetta postale. Supremo spiega di aver permesso ai Banditi di rubare la mappa affinché venga attuato un piano per "collaudare" il Male e decide di ridare il posto di lavoro ai nani criticando le loro capacità di Banditi.

Improvvisamente tutto si riempie di fumo e l'Essere Supremo se ne va via con i nani (che per sbaglio dimenticano un pezzo di Male) mentre Kevin viene avvolto dal fitto fumo, finché non si ritrova nella sua camera da letto, che è piena di fumo perché la casa ha preso fuoco. Un pompiere irrompe però nella stanza e salva Kevin, che in lui riconosce le sembianze di Agamennone. I vigili del fuoco infine trovano la causa dell'incendio, un forno a microonde andato in cortocircuito, e lo consegnano ai genitori di Kevin, che sono più concentrati sugli elettrodomestici andati perduti che nella salvezza del figlio. Mentre Kevin ritrova le fotografie che aveva scattato durante l'avventura, i suoi genitori aprono il forno, che a loro insaputa conteneva il pezzo di Male, finendo così polverizzati quando lo toccano all'unisono nonostante gli avvertimenti di Kevin. Mentre Kevin e i vicini di casa assistono esterrefatti alla loro scomparsa, l'Essere Supremo chiude la scena arrotolando la mappa del tempo, che unita alle fotografie di Kevin, l'apparizione di Agamennone e la comparsa del pezzo di Male fa presagire che le avventure di Kevin non sono finite.
 

“In questo fantastico viaggio nel tempo e nello spazio di Terry Gilliam, un ragazzo di nome Kevin (Craig Warnock) fugge dai suoi genitori ossessionati dai gadget per unirsi a una banda di nani che viaggiano nel tempo. Armati di una mappa rubata all'Essere Supremo (Ralph Richardson), depredano il tesoro di Napoleone (Ian Holm) e Agamennone (Sean Connery), ma il genio del male (David Warner) sta osservando ogni loro mossa. Caratterizzato da una sceneggiatura cupamente giocosa di Gilliam e del suo compagno di Monty Python Michael Palin (che appare anche nel film), Time Bandits è allo stesso tempo una fiaba vertiginosa, una lezione di storia revisionista e una satira della tecnologia andata storta.”

(In www.criterion.com)

“I percorsi critici tracciati per approcciarsi alla filmografia di Terry Gilliam tralasciano spesso e volentieri di citare due opere in realtà di non secondaria importanza per capire l’evoluzione del processo estetico del regista statunitense ma britannico di adozione: queste opere rispondono ai nomi di Jabberwocky e I banditi del tempo e si collocano a cavallo dei decenni ‘70 e ‘80.

Per certi versi leggibili come film gemelli, le due dimenticanze della critica - soprattutto quella nostrana, vuoi per ignoranza vuoi per pigrizia, visto che Jabberwocky non ha mai trovato distribuzione in Italia e Time Bandits dopo numerosi passaggi televisivi negli anni Ottanta è stato riposto nei cassetti più bui e nascosti dell’intero palinsesto via etere - sono sicuramente legate a doppio nodo dall’esperienza di Gilliam nell’allegra combriccola Monthy Phyton. Ed è proprio da questa peculiarità che si può dare inizio a un prima disamina di I banditi del tempo: portato a termine nel 1981, il film è infatti l’ultimo diretto da Gilliam prima dello scioglimento ufficiale del più anarcoide e vitale collettivo comico che il cinema ricordi dai tempi dei fratelli Marx. I Monthy Phyton concludono la loro decennale avventura nel 1983, all’indomani dei fasti di Cannes vissuti con The Meaning of Life dove il film si accaparrò il Premio Speciale della Giuria.

Allo splendido lavoro di commiato Gilliam regala l’incipit, maiuscolo, in cui impiegati in pensione trasformatisi in pirati in bretelle e cravatta partono con una nave-grattacielo alla conquista degli altri palazzi del potere, ennesimo esempio della capacità innata nel cineasta di Minneapolis di far deflagrare l’onirico e il fantastico dalla banalità della routine e del già visto, tratto distintivo che marchierà a fuoco i suoi futuri lavori, primo fra tutti l’Orwell metabolizzato e deformato in versione grandangolare racchiuso in Brazil (escamotage visivo che rende Gilliam strettamente imparentato con la goliardia in odore di splatter del giovane Peter Jackson, ma anche con la satira iconografica di alcuni lavori dei fratelli Coen, su tutti le avventure tra il tragico e il picaresco di Arizona Junior).

In I banditi del tempo il genere preso per essere modellato e ridefinito è il fantasy, così come era palesato anche in Jabberwocky e così come tornerà ciclicamente in seguito; poterne parlare alla luce di The Brothers Grimm è già di per sé gratificante, ma senza dimenticare né le digressioni medievali presenti in The Fisher King né il compianto, ennesimo Don Chisciotte, lasciato incompiuto e giunto parzialmente a noi solo grazie al materiale di backstage recuperato in Lost in La Mancha di Keith Fulton e Louis Pepe. Dalla struttura classica del fantasy Gilliam estrae il tema del viaggio dell’eroe, con ben più di una filiazione da quello che è forse il più alto esempio di letteratura per l’infanzia del Novecento, Lo hobbit, dato alle stampe nel 1936 dal docente di letteratura inglese a Oxford John Ronald Reuel Tolkien. Lì un gruppo di tredici nani partiva alla (ri)conquista di un tesoro in compagnia dell’hobbit del titolo, qui un altro folto assortimento di piccoletti si ritrova a vagare nel tempo trascinandosi dietro un bambino.

Ma che le intenzioni di Gilliam si spingano, al contrario di Tolkien, verso un’ostentata negazione dell’epica, si evince fin dal primo incontro tra i nani e il ragazzo: beceri, avidi, pavidi, i nanerottoli sono dei perfetti antieroi, pronti ad attraversare i buchi spazio-temporali che gli si aprono davanti senza alcuna cognizione di causa. È infatti il ragazzo a rispolverare le proprie nozioni scolastiche quando, di volta in volta, si trovano a tu per tu con Napoleone, Agamennone, Robin Hood. Al di là dell’aspetto avventuroso della vicenda - con i nani che, si scopre, sono servitori di Dio e combattono il male - ciò che realmente interessa a Gilliam è la possibilità di ridicolizzare il potere sotto ogni forma, lavorando di fino con l’arma del grottesco: e se il Napoleone (nano anch’egli, e quindi, per riflesso condizionato, figura speculare rispetto ai protagonisti della vicenda) messo in scena da un monumentale - e si perdonerà il paradosso verbale - Ian Holm è l’esemplificazione ideale del discorso, non minore perizia si avverte dietro la costruzione dell’Agamennone di Sean Connery o del Robin Hood di John Cleese. Proprio la partecipazione di Cleese e di Michael Palin al progetto permette di allargare nuovamente il discorso verso i Monthy Phyton. È proprio nella messa alla berlina del potere e dell’ordine borghese che si può rintracciare il file rouge che lega la carriera di Gilliam al gruppo comico anglosassone: la satira di costume si sovrappone dunque alla semplice narrazione fantastica, producendo un corto circuito nel genere e proponendo un’ibridazione che diverrà di lì a poco vero e proprio marchio di fabbrica di un determinato approccio cinematografico. Come non leggere, soprattutto nella pur breve parentesi casalinga, i caratteri tipici dei Monthy Phyton nella continua esasperazione dei contenuti, spietata analisi della famiglia istituzionalmente intesa?

Non esiste punto saldo della civiltà occidentale che non venga acquisito e vomitato dal regista, che arriva addirittura a mettere in scena - caso raro, quasi unico (viene in mente Alanis Morissette in Dogma di Kevin Smith) - la divinità stessa, sfiorando di fatto l’accusa di blasfemia; fosse uscito a ridosso del Giubileo avrebbe avuto vita così facile? Questo continuo e cocciuto stravolgimento della fabula, teso al crollo della morale, apre il fianco a un’infinità di ipotesi estetiche. Gilliam si affida alle proprie radici lavorative e culturali, producendo un patchwork visivo che spazia dalla filiazione cartoonistica - è da questo universo che parte la carriera di Gilliam - al demenziale, passando per il vaudeville (l’imperdibile balletto dei nani alla corte di Agamennone) fino ad approdare all’onirismo che pervade l’intera architettura scenografica del mondo del male, in cui la spazialità vive di dilatazioni e restrizioni, che culminano nella sorprendente sequenza dalla fuga dalla gabbia immersa nell’oscurità.

L’aspetto onirico tornerà preponderante nel fulgore di Brazil, mentre la dimensione comica si allontanerà gradualmente dalla prassi autoriale di Gilliam: se ne riscontrano i germi nella dolenza visionaria de The Adventures of Baron Munchausen, in alcune soluzioni di The Fisher King e nella rilettura del capolavoro letterario di Hunter S. Thompson Fear and Loathing in Las Vegas. Ma, soprattutto nell’ultimo caso, la vis comica acquisterà tutt’altro significato, viaggio agli inferi della società statunitense impossibilitato dalla memoria storica a dissolversi in quel sorriso beffardo che si intuiva al termine del romanzo. Circolava voce, anni fa, che anche Guida galattica per autostoppisti sarebbe passato per le grinfie di Gilliam: allora sarebbe stato interessante rendersi conto del peso dei vent’anni trascorsi e sarebbe stato affascinante il confronto tra gli esordi e la contemporaneità, in un ipotetico buco spazio-temporale (il romanzo di Douglas è del 1979, e lo stesso autore aveva collaborato assiduamente con i Monthy Phyton) con Gilliam nella parte dei nani di I banditi del tempo. Ma non è stato così, e non resta che rileggere l’opera di Gilliam alla luce di The Brothers Grimm, per vedere in che stato è il rapporto del regista statunitense con la fabula.

P.S.: abbiamo trovato la scelta di Locarno 2005 di identificare la carriera di Terry Gilliam con la visione di I banditi del tempo, operazione coraggiosa e particolarmente azzeccata. Laddove sarebbe stato facile affidarsi alla summa filosofica di Brazil, alla strabordante lisergia visiva di Fear and Loathing in Las Vegas o all’appeal fantascientifico di 12 Monkeys si è andati a ricercare più in profondità il senso dello stare al mondo (cinematografico) di Gilliam, approdando in quel limbo, zona morta, istante perduto da cui, forse, è nato tutto.”

(Raffaele Meale in quinlan.it)

 

 

Un attore: 24 agosto 1934 nasce Kenny Baker, attore britannico.

“Kenneth George Baker (24 agosto 1934 - 13 agosto 2016) è stato un attore e musicista inglese. Ha interpretato il personaggio R2-D2 nel franchise di Star Wars ed è apparso anche in The Elephant Man, Time Bandits, Willow, Flash Gordon, Amadeus e Labyrinth. Baker è nato e ha studiato a Birmingham, nel Warwickshire, e in un collegio nel Kent. Era il figlio di Ethel (1906-1990), pianista e sarto, e di Harold Baker (1908-1985), artista, musicista e disegnatore. Andò a vivere con suo padre, la matrigna e la sorellastra a Hastings, nel Sussex.

Sebbene i suoi genitori fossero di altezza media, Baker era alto 1,12 m da adulto.

Nel 1951, Baker fu avvicinato per strada da una donna che lo invitò a unirsi a una compagnia teatrale di nani e nani. Questo è stato il suo primo assaggio di spettacolo. In seguito, si unì per un breve periodo a un circo, imparò a pattinare sul ghiaccio e apparve in molti spettacoli sul ghiaccio. Ha formato una commedia di successo chiamata Minitones con l'intrattenitore Jack Purvis e ha suonato e recitato nei locali notturni.

Mentre lavorava con Purvis e i Minitones, Baker è stato selezionato da George Lucas per far funzionare il robot ("droide") R2-D2 nel film fantasy Star Wars, uscito nel 1977. Baker ha ricordato che inizialmente aveva rifiutato il ruolo, preoccupato per la rottura della partnership con i Minitones quando il duo aveva raggiunto la finale nel talent show televisivo britannico Opportunity Knocks.

Baker appare come R2-D2 in sei dei film a episodi di Star Wars, e ha svolto un ruolo aggiuntivo in Il ritorno dello Jedi del 1983 come Paploo, l'Ewok che ruba una motocicletta imperiale. Inizialmente doveva interpretare Wicket, ma si ammalò e quel ruolo fu passato a Warwick Davis. Ha rivelato una faida tra lui e il suo co-protagonista Anthony Daniels, sostenendo che Daniels era stato scortese con lui in numerose occasioni e ha dichiarato che Daniels è scortese con tutti, compresi i fan.

Baker ha continuato la sua associazione con il personaggio R2-D2 in Star Wars: Il Risveglio della Forza, che è stato rilasciato il 18 dicembre 2015 in Nord America. Stava per essere un membro del cast, ma è stato invece consulente per il personaggio. Nel novembre 2015, è stato confermato che Jimmy Vee è stato scelto come R2-D2 in Star Wars: Gli ultimi Jedi, in sostituzione di Baker.

Gli altri film di Baker includono The Elephant Man, Time Bandits (anche con Jack Purvis), Willow (anche con Purvis e Warwick Davis), Flash Gordon, Amadeus e Labyrinth di Jim Henson.

In televisione, è apparso nel dramma medico britannico Casualty. Ha anche avuto una parte nella produzione della BBC di Le cronache di Narnia. Alla fine degli anni '90, Baker ha lanciato una breve carriera comica. Ha interpretato Casanova nel film UFO del 1993.

Nel novembre 2009, la sua biografia, From Tiny Acorns: The Kenny Baker Story, è stata scritta con Ken Mills e pubblicata da Writestuff Autographs.

Baker risiedeva a Preston, nel Lancashire. È stato sposato con l'attrice Eileen Baker (che ha recitato con lui nel film del 1977 Wombling Free) dal 1970 fino alla sua morte nel 1993. Sebbene anche Eileen avesse il nanismo, questo non fu ereditato dai loro due figli.

Baker è stato invitato a partecipare alla prima di Star Wars: Il Risveglio della Forza a Los Angeles nel dicembre 2015, ma era troppo malato per recarsi negli Stati Uniti. Soffriva da anni di una malattia polmonare. Invece, Baker ha partecipato alla prima del film a Londra.

Kenny Baker è morto il 13 agosto 2016, undici giorni prima del suo 82° compleanno, a seguito di una breve malattia.”

(Traduzione di Ugo Brusaporco da wikipedia.org)

 

Una poesia al giorno

Elogio de la sombra, di Jorge Luis Borges

La vejez (tal es el nombre que los otros le dan)
puede ser el tiempo de nuestra dicha.
El animal ha muerto o casi ha muerto.
Quedan el hombre y su alma.
Vivo entre formas luminosas y vagas
que no son aún la tiniebla.
Buenos Aires,
que antes se desgarraba en arrabales
hacia la llanura incesante,
ha vuelto a ser la Recoleta, el Retiro,
las borrosas calles del Once
y las precarias casas viejas
que aún llamamos el Sur.
Siempre en mi vida fueron demasiadas las cosas;
Demócrito de Abdera se arrancó los ojos para pensar;
el tiempo ha sido mi Demócrito.
Esta penumbra es lenta y no duele;
fluye por un manso declive
y se parece a la eternidad.
Mis amigos no tienen cara,
las mujeres son lo que fueron hace ya tantos años,
las esquinas pueden ser otras,
no hay letras en las páginas de los libros.
Todo esto debería atemorizarme,
pero es una dulzura, un regreso.
De las generaciones de los textos que hay en la tierra
sólo habré leído unos pocos,
los que sigo leyendo en la memoria,
leyendo y transformando.
Del Sur, del Este, del Oeste, del Norte,
convergen los caminos que me han traído
a mi secreto centro.
Esos caminos fueron ecos y pasos,
mujeres, hombres, agonías, resurrecciones,
días y noches,
entresueños y sueños,
cada ínfimo instante del ayer
y de los ayeres del mundo,
la firme espada del danés y la luna del persa,
los actos de los muertos,
el compartido amor, las palabras,
Emerson y la nieve y tantas cosas.
Ahora puedo olvidarlas. Llego a mi centro,
a mi álgebra y mi clave,
a mi espejo.
Pronto sabré quién soy.

 

Elogio dell’ombra, (da Elogio dell’ombra, Einaudi, 1998, a cura di G. Felicida)

La vecchiaia (è questo il nome che gli altri gli danno)
può essere per noi il tempo più felice.
È morto l’animale o quasi è morto.
Vivo tra forme luminose e vaghe
che ancora non son tenebra.
Buenos Aires,
che un tempo si lacerava in sobborghi
verso la pianura incessante,
è di nuovo la Recoleta, il Retiro,
le confuse strade dell’Undici
e le precarie case vecchie
che seguitiamo a chiamare il Sud.
Nella mia vita son sempre state troppe le cose;
Democrito di Abder si strappò gli occhi per pensare;
il tempo è stato il mio Democrito.
Questa penombra è lenta e non fa male;
scorre per un mite pendio
e somiglia all’eterno.
Gli amici miei non hanno volto,
le donne son quello che furono in anni lontani,
i cantoni sono gli stessi ed altri,
non hanno lettere i fogli dei libri.
Dovrebbe impaurirmi tutto questo
e invece è una dolcezza, un ritornare.
Delle generazioni di testi che ha la terra
non ne avrò letti che alcuni,
quelli che leggo ancora nel ricordo,
che rileggo e trasformo.
Dal Sud, dall’Est, dal Nord e dall’Ovest
convergono le vie che han condotto
al mio centro segreto.
Vie che furono già echi e passi,
donne, uomini, agonie e risorgere,
giorni con notti,
sogni e immagini del dormiveglia,
ogni minimo istante dello ieri
e degli ieri del mondo,
la salda spada del danese e la luna del persiano,
gli atti dei morti,
l’amore condiviso, le parole,
ed Emerson, la neve, e quanto ancora.
Posso infine scordare. Giugno al centro,
alla mia chiave, all’algebra,
al mio specchio.
Presto saprò chi sono.
 

Jorge Luis Borges, lo scrittore che rese possibile l'assurdo e assurde le certezze.

Scrittore argentino del Novecento dalla vastissima cultura, era dotato di una prodigiosa memoria che neppure la cecità poté attenuare. Nelle sue poesie e soprattutto nei racconti trasporta il lettore, grazie a fantastiche invenzioni, in un mondo di inquietanti e sorprendenti illusioni, dove ogni certezza si trasforma in dubbio.

UNA LUNGA VITA

Jorge Luis Borges nasce in Argentina, a Buenos Aires, nel 1899 e da adolescente si trasferisce con la famiglia in Europa, dove subisce il fascino della cultura del vecchio continente. Ritornato in patria, dal 1923 scrive poesie ispirate comunque alla sua città, alle storie fatali e tragiche dei compadritos, teppisti di periferia dal coltello facile, e dei gauchos, cavalieri della pampa, innalzati al ruolo di eroi mitici (Fervore di Buenos Aires, Luna di fronte, Quaderno San Martín). Nel 1930 conosce Adolfo Bioy Casares con cui scriverà molte opere, tra le quali antologie di racconti fantastici e polizieschi. Nel 1938 inizia ad avere problemi di vista che diciotto anni dopo lo porteranno a diventare completamente cieco. Nel corso degli anni, lavora in una biblioteca municipale, dirige la Biblioteca nazionale, diviene professore di Letteratura inglese all'università di Buenos Aires. Muore nel 1986 a Ginevra.

LA BIBLIOTECA INFINITA

Borges sin da giovanissimo fu un lettore curioso e appassionato: i libri, la scrittura, la lettura sono anche temi della sua opera. Per Borges la realtà è ciò che è scritto nei libri; di conseguenza la biblioteca, luogo dove questi sono raccolti e conservati, è immagine dell'Universo. Con il suo spazio ordinato geometricamente in lunghe serie di scaffali e corridoi tutti uguali, la biblioteca è simile a un labirinto dove è facile perdersi; i suoi angoli sempre identici ricordano una galleria di specchi dove le immagini si moltiplicano e creano effetti illusori.
Nel racconto intitolato La biblioteca di Babele un anziano bibliotecario descrive questo luogo dove ha trascorso l'intera vita alla ricerca del libro che desse senso alla sua esistenza: ma nella biblioteca, come nella biblica torre di Babele, si mescolano tutte le lingue, vi sono libri indecifrabili scritti in codici misteriosi e libri che a ogni diverso lettore svelano differenti significati. Essa contiene tutti i libri possibili, tutto il sapere e quindi tutta la realtà, ma è impossibile poter conoscere tutti i libri o trovare nell'illimitata biblioteca il libro che contenga il senso di tutti gli altri; dunque la conoscenza della realtà non è che un'illusione.

LE AMBIGUITÀ DELLA REALTÀ

Anche la condizione umana può rivelarsi ingannevole: per esempio, nel racconto Le rovine circolari un asceta crea in sogno un essere che ha l'aspetto di un uomo ma che rivela la sua natura fantastica perché è capace di resistere al fuoco. Un giorno, l'asceta sognatore è minacciato da un incendio e scopre, con sollievo e terrore, di sopravvivere alle fiamme: capisce allora di essere nato dal sogno di qualcun altro che, a sua volta, potrebbe essere un'illusoria creazione, e così via all'infinito.

Non solo l'esistenza dell'uomo è messa in dubbio dalla fantasia di Borges, ma anche la natura dello spazio e del tempo: in un altro suo racconto, Il giardino dei sentieri che si biforcano, ogni volta che si è davanti a un bivio - cioè a una possibile alternativa - non si sceglie una strada a esclusione dell'altra, ma è possibile percorrerle entrambe simultaneamente. Da una storia nascono così molti sviluppi, contemporanei nello spazio e nel tempo, che a loro volta, a ogni nuova biforcazione, si moltiplicano e offrono infinite soluzioni possibili, persino in contraddizione tra loro.

La veglia e il sogno, la verità e la finzione, la vita e la letteratura si confondono in un inestricabile intreccio. Le storie ingegnose di Borges rendono plausibile ciò che crediamo assurdo, mentre le certezze della nostra civiltà si sgretolano sotto i colpi della sua fantasia.”

(Ines Ravasini - Enciclopedia dei ragazzi, 2005, in www.treccani.it)

 

  • Un film ispirato a un suo racconto breve: La strategia del ragno, di Bernardo Bertolucci, 1970, 100’. Con Giulio Brogi, Alida Valli, Tino Scotti, Giuseppe Bertolucci.

24 agosto 1899 nasce Jorge Luis Borges, scrittore, poeta e saggista argentino (morto nel 1986)

 

Un fatto al giorno

24 agosto 1349: 6.000 ebrei vengono uccisi a Magonza poiché incolpati dell'epidemia di peste bubbonica

“L’intera Europa venne colta dalla peste nera, e quella volta non bastò alla popolazione la scusa che la morte era stata inviata da Dio per punire gli uomini per le colpe commesse; la rabbia e la disperazione erano così forti che non si potevano indirizzare solamente contro Dio, ma c’era l’esigenza di trovare un capro espiatorio “terreno” cui sfogare l’odio accumulato, e venne individuato nella comunità ebraica.

Questa, infatti, anche se inserita in molti contesti nazionali, era ancora percepita dalla maggioranza delle varie popolazioni nazionali come straniera.

Sono molti secoli ormai che i cristiani hanno imparato a diffidare o addirittura odiare l’ebreo.

Fu nel Concilio Latenarense del 1215 (in seguito a dei documenti certificati) che prese ufficialmente corpo l’isolamento sociale e psicologico degli ebrei, che venivano descritti come stranieri e posti in una condizione giuridica particolare, con limitazioni al loro diritto di cittadinanza.

Venne imposto loro di indossare il tipico cappello a punta, e, a seconda dei luoghi, anche una toppa rotonda di feltro giallo, cucita direttamente sugli abiti a partire dai sette anni d’età, che pare rappresentasse una moneta.

La questione religiosa fu determinante nel processo di emarginazione degli ebrei, ma non dobbiamo dimenticare la rilevanza data dall’aspetto economico.

Infatti, a causa della professione che erano costretti ad esercitare, quella del prestatore di denaro (attività considerata disdicevole e quindi preclusa ai cristiani), gli ebrei erano invisi dal resto della popolazione; si consideri inoltre che non potevano accedere alle corporazioni delle arti e dei mestieri e con estrema difficoltà riuscivano a ricoprire cariche pubbliche.

Papi ed imperatori si scontrarono più volte per decidere se spettava alla Chiesa o allo Stato il diritto di tenere sotto il proprio giogo gli ebrei, perché ciò significava libertà di sfruttare le loro risorse economiche. L’imperatore Ludovico il Bavaro, per citare un esempio, ricompensò le città a lui fedeli con il condono dei debiti contratti dagli ebrei, e pretese da quest’ultimi il pagamento di un tributo, la “tassa sugli ebrei”, che consisteva nel versamento annuale di un fiorino nelle casse imperiali per ogni individuo di età superiore ai 12 anni.

Paradossalmente, lo sfruttamento delle comunità ebraiche rappresentava un introito rilevante per le monarchie medievali, e quindi faceva si che re ed imperatori, afflitti da una cronica mancanza di denaro, assicuravano agli ebrei una certa protezione, così da fare in modo che questa fonte di entrate fosse perennemente assicurata.

Carlo IV nel 1348 si pronunciò contro la persecuzione degli ebrei (anche se concesse l’impunità ai cittadini di Francoforte che si macchiarono di orrendi delitti contro la loro comunità).

Anche una bolla del Papa Clemente VI, pubblicata nello stesso anno, proibiva di convertire forzatamente gli ebrei, di derubarli o ucciderli senza un processo, e sottolineava come la popolazione ebraica veniva decimata dalla peste, e per questo motivo non poteva essere considerata la responsabile dell’epidemia.

Le autorità costituitesi nei vari paesi cercarono di proteggere i perseguitati, ma furono spesso costrette a cedere alla feroce determinazione della popolazione.

Il 9 gennaio del 1349, a Basilea, l'intera comunità ebraica venne rinchiusa in una casa di legno, posta su un'isola del Reno, e bruciata viva.

Inoltre, venne emesso un decreto che proibì a qualunque ebreo di stabilirsi in città per i due secoli a venire. A Strasburgo, nel mese di febbraio dello stesso anno, duemila ebrei vennero arsi sul rogo.

Durante tutto il 1349, l'impeto antisemita si diffuse di città in città con una serie di pogrom che causarono lo sterminio di molte comunità, alcune delle quali composte da migliaia di persone, senza che ci fosse nessun sopravvissuto.

Gli ultimi pogrom si registrarono ad Anversa e a Bruxelles, nel mese di dicembre, quando tutti gli ebrei del posto vennero massacrati. Nel 1350 in Germania e nei Paesi Bassi, come nel resto d'Europa, non rimarranno che pochissimi ebrei.

Al contrario, in Italia, dove comunque nelle città più importanti, durante il periodo della peste nera, erano presenti numerose comunità ebraiche, non si verificarono particolari atti di violenza antisemita. Il motivo è da ricercare, probabilmente, nella maggiore informazione sulle cause della peste di cui disponevano le città italiane, votate al commercio e agli scambi internazionali, e quindi non riuscì ad attecchire la leggenda dell'avvelenamento dei pozzi d'acqua ad opera degli ebrei, come origine del terribile morbo.

Considerata la situazione, nel 1350 l'Italia divenne quindi terra d'immigrazione per tutti quegli ebrei sopravvissuti alle stragi dei paesi del resto d'Europa.

Purtroppo non si hanno dati certi sul numero delle vittime dei pogrom di questo periodo, ma è certo che in molte città europee scomparirono i quartieri ebraici, i quali vennero demoliti per lasciare il posto a nuovi edifici occupati dai cristiani.

L'incubo vissuto dalle comunità ebraiche negli anni 1348-49, verrà superato soltanto dal genocidio provocato da Hitler nel XX secolo.”

(In www.viveresenigallia.it)
 

“Nel giro di poche settimane, all’inizio dell’anno del signore 1348 la peste imperversò senza freni dappertutto e se nelle città i morti furono numerosissimi nelle campagne furono ancora superiori perché circa l’80% della popolazione europea viveva al di fuori delle città, che erano per lo più molto piccole.

I racconti dei cronisti si riferiscono principalmente alle grandi città ma nelle campagne oltre alla grande moria di persone ci fu anche un enorme spopolamento che causò l’abbandono di tantissimi villaggi, paesini, borghi e minimi insediamenti abitativi.

Lo storico John Day stima che in Sardegna all’alba del Trecento ci fossero circa 800 villaggi mentre nel 1485, in occasione della prima convocazione del parlamento sardo si contarono soltanto 352 centri rurali.

Lo spopolamento delle campagne fu causa non soltanto del mancato approvvigionamento delle città ma oltre a spingere i villici nei maggiori centri urbani, aggravando la crisi alimentare e il rischio di contagio, provocò anche l’impoverimento del suolo, non più concimato con stallatico naturale e il rapido inselvatichimento di arboreti e coltivi.

In un mondo che aveva come punto di riferimento religioso e mentale le Sacre Scritture, una così alta falcidia di persone così inaspettata e improvvisa (il cronista fiorentino Giovanni Villani morì così repentinamente da lasciare una frase a metà “e durò questa pistolenza fino a...”) non si poteva non cercare una causa escatologica a tanti lutti.

Fu facile associare alla peste alla sesta tromba dell’Apocalisse di San Giovanni, testo che permeava la mentalità medievale, che preannunciava la distruzione della terza parte dell’umanità.

Naturalmente una così stretta corrispondenza tra testo biblico e le conseguenze dell’epidemia fece credere a tantissimi che la fine del mondo fosse imminente e la morte di tante persone illustri, nobili, vescovi, artisti e potenti uomini politici confermò la credenza che Dio fosse ostile all’umanità.

Anche tra il clero ci fu una decimazione impressionante che oltre a causare un vuoto nei ranghi degli ordini monastici rafforzò il pensiero che ci fosse un disegno divino dietro la pandemia e il Papa lo ammise in una bolla del 1348, parlando “della pestilenza con la quale Dio sta affliggendo i cristiani”.

L’estrema virulenza del morbo destabilizzò rapidamente i tre ordini che secondo il vescovo Adalberone di Laon costituivano la società medioevale e cioè Oratores, cioè coloro che pregano e che fanno da tramite con la divinità, i Bellatores, cioè i guerrieri ma anche i nobili e chi si occupa di gestire e difendere città e territori e Laboratores, i laboratori, la categoria più umile ma che con la sua fatica sfama le altre due.

La peste spazza ogni casta e azzera quella che oggi viene chiamata “classe dirigente” sia con la morte immediata, sia perché tantissimi fuggono lontani dal contagio risultando essere questo l’unico rimedio efficace.

La morte nera fu anche una delle cause, di diverse rivolte contadine, la più cruenta delle quali, la famosa “Jacquerie” scoppiò in Francia nel 1358.

Il nome Jacquerie deriva da Jacques Bonhomme, dispregiativo rivolto dai nobili ai rustici e che diede anche il nome al vestito corto usato dai contadini durante le rivolte “jacque” da cui deriva il termine italiano giacca.

La Jacquerie del 1358 durò soltanto 12 giorni ma fu estremamente sanguinosa e fu seguita da una repressione aristocratica altrettanto selvaggia, tanto che le cronache parlano, forse esagerando, di 20 mila contadini uccisi.

Tra le cause scatenanti i disordini oltre ai disastri apportati dalla peste, si parla dei costi insostenibili della guerra dei Cent’anni aggravate anche dal riscatto de pagare per liberare il re Giovanni il Buono prigioniero degli inglesi e l’enorme pressione fiscali imposta dalle classi più alte.

Il bersaglio principale sembrò essere però, non il nobile in quanto tale, bensì la sua incapacità di svolgere uno dei compiti fondamentali connessi al suo rango: quello di combattere con successo per difendere i “laboratores”.

Per avere una completa comprensione del fenomeno bisogna pensare che l’epidemia non si esaurì nel periodo più tragico, quello che va dal 1348 al 1350 ma si susseguì ad ondate tanto che Eleonora, la giudicessa d’Arborea morì di peste nel 1404.

La paura della morte, la mancanza di cure, la perdita di ogni speranza per il futuro, l’assenza di guide spirituali e materiali causarono spinte centripete che portarono a due fenomeni nati separatamente ma che si influenzarono a vicenda, i flagellanti e la persecuzione degli ebrei.

Quello dei flagellanti non era un movimento nuovo ma crebbe rapidamente in seguito ai primi focolai di peste. Partendo dall’Ungheria e dall’Austria, i flagellanti percorsero ampie zone del territorio dell’Impero, della Polonia, dei Paesi Bassi, della Svizzera e della Francia. La prima comparsa certa sia ha in Stiria nel settembre del 1348. Ancora in modo vago gli Annali di Melk raccontavano che “la moda di questa flagellazione continuò dalla festa di San Michele sino a Pasqua”.

Nella Stiria le prime processioni furono accompagnate da violenti temporali che distrussero il raccolto di uve e cereali. Ben presto furono considerati come forieri di morte, presenze ammonitrici che preannunciavano lo sfacelo.

Passavano a centinaia per villaggi e città, vestiti di stracci, con monotoni canti che avevano l’effetto di scuotere le persone. L’estasi, la pazzia, l’umiltà ma anche il dolore e le ecchimosi provocati dai flagelli caratterizzavano il loro aspetto. Col tempo al movimento dei flagellanti vennero associati disordini, discordia, crimini e omicidio. Alcuni li consideravano anche responsabili della diffusione della peste, che non di rado li seguiva a distanza ravvicinata.

Si era inoltre osservato che una più ampia partecipazione del popolo agli atti di penitenza non dava affatto maggiore sicurezza di allontanare l’epidemia. I penitenti furono anche accusati di aver aizzato il popolo e di essere stati la causa o addirittura i diretti responsabili degli omicidi degli ebrei.

Il cronista Caspar Camentz nella sua cronaca di Francoforte descrive il loro arrivo nella città imperiale: "Nell’anno 1349 quando la setta dei flagellanti attraversò a schiere la nostra Germania, città e villaggi, un gran numero di loro arrivò anche a Francoforte. Quando videro che qui gli ebrei abitavano nei quartieri migliori erano, non oso dire se a ragione, così arrabbiati che volevano vendicare l’umiliazione di Nostro Signore, impugnare le armi e combattere. In seguitò al tumulto che si generò gli ebrei vennero trucidati."

Anche se come causa della peste si indicava la punizione divina, la gente disperata continuava a cercare un capro espiatorio contro cui esprimere quell’ostilità che non poteva sfogare contro Dio e l’ebreo, eterno forestiero, rappresentava il bersaglio più scontato. Dato che vivevano in gruppi a parte e in strade e quartieri distinti erano facili da identificare.

Gli ebrei conservavano un posto nella società perché quali prestatori di denaro espletavano un ruolo essenziale, dato il continuo bisogno di fondi dei re.

Poiché le gilde li escludevano dalle arti e mestieri e dalle attività commerciali, erano stati confinati al piccolo commercio e all’usura sebbene in teoria non potessero trattare con i cristiani.

Nella crisi causata dalla peste non ci volle molto ad attribuire alla perfidia ebraica l’avvelenamento dei pozzi d’acqua. Nel 1348 Clemente VI emanò una bolla nella quale proibiva di uccidere gli ebrei, di saccheggiarne le proprietà. Di convertirli con la forza senza processo e ciò servi ad arrestare la violenza ad Avignone e nello Stato Pontificio ma nel nord la bolla restò ignorata e si scatenò il massacro.

A Magonza, dove viveva la più vasta comunità ebraica d’Europa, le vittime decisero alla fine di difendersi. Con le armi che avevano predisposto uccisero duecento assatanati, un atto che servì esclusivamente a far calare su di loro un furibondo attacco dei cittadini che volevano vendicare la morte dei cristiani. Gli ebrei seguitarono a combattere finché vennero sopraffatti; allora si ritirarono nelle loro case e qui si diedero fuoco. Secondo alcune fonti il 24 agosto del 1349 a Magonza morirono seimila ebrei.

Gli ultimi pogrom antiebraici ebbero luogo ad Anversa e a Bruxelles, dove, nel dicembre del 1349, l’intera comunità ebraica fu sterminata. Quando la peste cessò di infierire, in Germania e nei Paesi Bassi non rimanevano che pochi ebrei.”

(Salvatore Argiolas in tsd.altervista.org)

 

Una frase al giorno

Con troppa musica in corpo, maldigerita, non si cerca il libro. La stampa ha tenuto bene finché non ha passato la linea d'ombra oltre cui cessa di essere una modificazione e una trasposizione della scrittura manuale, mentre ormai promana dalla scrittura elettronica e il libro è figlio del dischetto: la lettura è attirata dalla stampa finché le resta odore di scrittura morta, di manualità viva mutata in segni piombati. Chi visita la stamperia dell'editore Tallone ad Alpignano avrà la percezione immediata di questo: il rapporto con la scrittura manuale, intatto, come condizione essenziale della vita del libro tra mani vive. Allora tu dici: questo è un libro, e palpi la scrittura-madre, come riconosci un una fotografia buia, dove un'immagine dissolvente, mossa, rivela una chioma di Berenice, una donna.
Voi dite che mancano i lettori: ma queste sono verità falsanti, senza paradosso vivificante. L'editoria è sterminata: è il libro che manca.”

(Guido Ceronetti, dalla rubrica Lanterna rossa. La Stampa, citato in Massimo Gatta, "QUESTO È UN LIBRO - trent’anni di amicizia tipografica Guido Ceronetti e Alberto Tallone stampatore-editore, 1981-2011")
 

“Era certamente un accanito antimoderno Guido Ceronetti, scomparso nella sua casa di Cetona all’età di 91 anni. Ma non si limitava certo a detestare le tecnologie, quelle digitali quanto quelle meccaniche, a rifiutarsi di usare l’automobile come il computer. L’autore piemontese - poeta, saggista, traduttore, drammaturgo, filosofo, editorialista di razza - era innanzitutto pervaso da un profondo senso tragico che derivava dalla sua sfiducia nell’uomo, da lui definito «l’arma più pericolosa che sia stata inventata». Andava oltre la derisione verso le «magnifiche sorti e progressive» del suo amato Giacomo Leopardi: in certe invettive ostentava una misantropia degna dell’altrettanto amato Jonathan Swift, temperata però dalla forte compassione, che considerava «il più elevato sentimento umano».

Nato nel 1927 ad Andezeno, nei pressi di Torino, figlio di un artigiano specializzato in pitture e decorazioni, Ceronetti aveva intrapreso l’attività pubblicistica nel 1945, poi si era messo in luce come traduttore originale e raffinato di poeti latini e libri dell’Antico Testamento. Al tempo stesso aveva cominciato dal 1946 a comporre versi suoi, riuniti poi nel corso del tempo in varie raccolte di poesia: La ballata dell’infermiere (Tallone, 1965); Compassioni e disperazioni (Einaudi, 1987), La distanza (Bur, 1996), Sono fragile, sparo poesia (Einaudi, 2012).
Dei primi anni Settanta è il suo esordio in campo saggistico, che coincide con l’avvio, nel 1972, della regolare collaborazione giornalistica con «La Stampa» di Torino. E subito, con il libro Difesa della luna (Rusconi, 1971), Ceronetti prende di mira l’esplorazione dello spazio, che gli appare un’impresa assurda, massima espressione della smisurata vanità umana. Molti anni dopo, in piena coerenza, rivolgerà i suoi strali feroci contro un personaggio popolare come l’astronauta Samantha Cristoforetti. D’altronde l’ostilità al progresso di Ceronetti va ben oltre la critica ai viaggi nel cosmo. Con la sua prosa estrosa e disturbante deplora la motorizzazione di massa, il traffico impazzito il sovraffollamento delle città, l’inquinamento dell’aria e dell’acqua, lo stravolgimento del paesaggio rurale. Rigorosamente vegetariano, non nasconde il suo orrore per il consumo di carne, i mattatoi, gli allevamenti intensivi.

Si scaglia ovviamente contro la sperimentazione sugli animali, ma non risparmia la procreazione assistita, l’accanimento terapeutico, la donazione d’organi, in generale la medicina moderna. Nel 2008 scrive una poesia, La ballata dell’angelo ferito, per commiserare la sorte di Eluana Englaro, «nutrita a forza in corpo che giace», poco prima che l’alimentazione artificiale venga interrotta. Particolarmente severa è la sua penna affilata nel fustigare le cattive abitudini degli italiani, l’incuria e la negligenza verso il patrimonio architettonico e paesaggistico, saccheggiato e deturpato senza alcun ritegno. Apocalittico il tono dei suoi libri di ricordi e appunti raccolti in giro per la nostra penisola, come Viaggio in Italia (Einaudi, 1983), Albergo Italia (Einaudi, 1985) fino al recente Per le strade della Vergine (Adelphi, 2016). «L’italiano - scrive - è italofago. Non lascerà nulla di vivo in questa penisola. Macella massacra divora tutto». Né una personalità del genere poteva riporre alcuna aspettativa nella politica, bollata come «un vecchio vampiro».

Definiva il nostro Paese «una democrazia strangolata sul nascere da tre poteri con il verme totalitario, democristiano, comunista e sindacale». Memorabile la sua presa di posizione contro il voto ai diciottenni. I partiti, denunciava Ceronetti, «vogliono truppa fresca da stordire con pensieri fissi e da corrompere con seggi, stipendi, illusioni di potere». D’altronde la politica gli appariva del tutto asservita «all’economia dello sviluppo», un meccanismo infernale che «trasforma le società umane in aggregazioni di schiavi di un produrre che non conserva ma assassina la vita». Tra le attività cui Ceronetti si era dedicato con passione spicca quella teatrale. Sin dal 1970 teneva rappresentazioni di marionette per gli amici, 12 -15 persone, nel «laboratorio casalingo» della sua casa di Albano Laziale, con l’aiuto della moglie Erica Tedeschi, senza copione, improvvisando ogni volta qualche variante. «Facevo io solo - raccontava - una ventina di voci diverse e al termine dello spettacolo mi ritiravo in camera da letto, stremato, e le donne mi confortavano e massaggiavano». Quell’iniziativa del tutto artigianale, battezzata Teatro dei Sensibili, aveva poi conosciuto uno sviluppo importante, era divenuta pubblica e itinerante, in Italia e all’estero, per essere quindi ospitata anche in sedi prestigiose come lo Stabile di Torino e il Piccolo di Milano.

Nelle vesti di regista e drammaturgo, con il Teatro dei Sensibili divenuto una vera e propria compagnia di attori cui teneva moltissimo, Ceronetti aveva dimostrato ancora una volta il suo talento. Tra i suoi lavori più noti: La Iena di San Giorgio (1970), I Misteri di Londra (1978), Mystic Luna Park (1988), Viaggia viaggia, Rimbaud (1991), Il volto (1998), Ceronetti Circus (2001), Rosa Vercesi (2003), Quando il tiro si alza (2014).
Un tratto peculiare del suo teatro era stato l’utilizzo di marionette «ideofore», al cui nome non corrispondeva nessun ruolo tradizionale, prive di una personalità predefinita, portatrici di concetti astratti e multiformi. Dal 2009 Ceronetti aveva cominciato a collaborare con il «Corriere della Sera». Pubblicava elzeviri colti e pungenti sotto l’insegna «L’Altroparlante», una formula scelta con l’intento di sottolineare quanto la sua visione del mondo fosse alternativa rispetto alla cultura dominante. Sul «Corriere» aveva raccontato di aver acquistato alfine, ma con palese ripugnanza, un telefono cellulare, da lui definito «una pulce che ha lo stomaco di un elefante».

Riteneva folle la dipendenza dal digitale: nel pamphlet Per non dimenticare la memoria (Adelphi, 2016) aveva bollato il web come «uno sterminato luna park senz’anima», che ai suoi utenti «dà a succhiare mammelle sataniche». Considerava letale per la memoria anche aver cancellato la liturgia in latino. Aveva approvato il tentativo compiuto da Benedetto XVI per riesumare la messa tridentina, ma si teneva alla larga dalla teologia cristiana, anche se credeva in una qualche forma di aldilà. Nel suo carteggio con Sergio Quinzio pubblicato con il titolo Un tentativo di colmare l’abisso (Adelphi, 2014) si era dichiarato «fedele a qualche lampo di metafisica gnostico-cataro-manichea, per la quale la creazione è opera essenzialmente maligna».

(Antonio Carioti, in www.corriere.it)

24 agosto 1927 nasce Guido Ceronetti, poeta e filosofo italiano (morto nel 2018).

 

Un brano musicale al giorno

Léo Ferré, Les Anarchistes

Leo Ferrè, Gli Anarchici - Un genio al servizio della Libertà

Genere: Sinfonico, Parlato, Pop francese
Album: L’été 68 (69)
Origine: Francia

Les Anarchistes è un brano emblematico di Léo Ferré pubblicato nel 1969 sull'album in studio L'Été 68. Appare anche nell'omonimo super 45 giri registrato al Teatro Bobino nel gennaio 1969 e nella registrazione quasi integrale di questo stesso recital eseguita a febbraio 1969, pubblicato su un doppio LP lo stesso anno.
Questa canzone è considerata uno dei suoi classici.
 

“Léo Ferré, nome completo Léo Albert Charles Antoine Ferré (Principato di Monaco, 24 agosto 1916 - Castellina in Chianti, 14 luglio 1993), è stato un cantautore, poeta, scrittore e anarchico franco-monegasco. A fronte di più di quaranta album originali coprenti un periodo d'attività di 46 anni, Léo Ferré è ad oggi il più prolifico autore-compositore-interprete d'espressione francese. Di cultura musicale classica, ha diretto a più riprese svariate orchestre sinfoniche. Léo Ferré ha sempre rivendicato con orgoglio la propria essenza anarchica, una corrente di pensiero che ha largamente ispirato tutta la sua opera.
Nato in una ricca famiglia monegasca, Léo Ferré è figlio di Joseph Ferré, direttore del personale del Casinó di Monte Carlo, e di Marie Scotto, una sarta d'origine italiana.

L'INFANZIA

Appassionato sin da bambino di musica e arte, nel 1925 viene inserito nel coro della cattedrale di Monaco come soprano. Studia solfeggio e scopre la polifonia al contatto con le opere di Giovanni Pierluigi da Palestrina e Tomás Luis de Victoria. All'età di nove anni i genitori lo spediscono al collegio cattolico San Carlo a Bordighera, dove vi rimarrà fino al 1933 e dove scoprirà per la prima volta, leggendo un dizionario, il termine «anarchia». Alla stessa età compone "Kyrie" per una messa a tre voci. Durante questo periodo legge con grande passione autori che, all'epoca, i francesi considerano pericolosi sovversivi: Voltaire, Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, Mallarmé.
Di ritorno a Monaco per ottenere il diploma, viene assunto come critico musicale free lance per il giornale Le Petit Niçois. Una volta ottenuto il diploma di studi umanistici e filosofici, il padre però si rifiuta di sostenere la sua iscrizione al conservatorio musicale.

GLI ANNI DI FORMAZIONE

Nel 1935 si trasferisce a Parigi per studiare Diritto e quattro anni dopo prende la laurea in scienze politiche. Durante questi anni si disinteressa dalla politica ma perfeziona i suoi studi da autodidatta in pianoforte, mettendo in musica un secondo poema di Paul Verlaine «Le piano que baise une main frêle» (Il piano che bacia una mano fragile). Quando tra il '39 e il '40 inizia la mobilitazione per la guerra, Léo fa rientro a Monaco. Viene affidato alla fanteria, dove dirige un gruppo di tiratori algerini. Nel 1940, in occasione del matrimonio della sorella, scrive un Ave Maria per organo e violoncello.

Inizia anche a comporre musiche per canzoni scritte da un amico e con questo materiale si presenta per la prima volta in pubblico il 26 febbraio 1941 all'Accademia di Belle Arti di Monte Carlo. Alla fine di un concerto a Montpellier, il cantante Charles Trenet, di cui Ferré aveva cantato tre sue canzoni, lo invita ad abbandonare il canto per dedicarsi anima e corpo alla scrittura di testi per canzoni. Léo però decide di proseguire nel cantautorato e dopo essersi unito in matrimonio nel 1943 con Odette Schunk, la sua carriera artistica cresce vertiginosamente. Nel 1946 si trasferisce a Parigi dove inizia a frequentare i cabaret di Saint-Germain come cantante, ottenendo un ingaggio di tre mesi al noto locale Le Bœuf sur le toit.

Si lega in amicizia con l'artista libertario Jean-Roger Caussimon, a cui chiede di mettere in musica il suo poema «À la Seine». La sua carriera si alza rapidamente, le sue canzoni saranno eseguite da cantanti come Renée Lebas, Édith Piaf, Henri Salvador, Yvette Giraud e Les Frères Jacques. Ma è con la cantante Catherine Sauvage che Ferré avrebbe trovato l'ambasciatore più leale, appassionato e convincente dei suoi testi.

L'ANARCHIA

Nel dopoguerra, in Francia si diffondono nuove tipologie di canzoni e di cantanti, tra questi Léo Ferré che inizia a dar voce al suo pensiero anarchico attraverso i suoi testi. Dopo una tournée in Martinica, Léo ritorna in Francia e comincia a frequentare alcuni esiliati spagnoli, cui dedicherà canzoni come Flamenco de Paris, Le Bateau Espagnol e Franco la Muerte che gli costeranno il veto di entrare in Spagna se non dopo la caduta del regime.

Frequenta Maurice Joyeux e il gruppo libertario "Louise Michel". Le sue idee anarchiche si consolidano sempre più, così come il suo odio per il dittatore spagnolo Francisco Franco, influenzando nel tempo la scrittura di celeberrime canzoni come Les anarchistes, Ni Dieu ni Maitre e Tank you satan. Il 3 marzo 1947 firma un contratto con la casa discografica prossima al Partito Comunista Le Chant du Monde. Nel 1950 incontra Madeleine Rabereau, con cui instaura una relazione appassionata e che farà di lei la sua musa ispiratrice. Mette in musica i testi dei "poeti maledetti" dell'Ottocento francese e nello stesso anno lancia il suo primo disco.

Nel 1952, l'amica Catherine Sauvage registra la sua canzone Paris-Canaille che diviene rapidamente un grande successo nazionale. Nel 1953 va in scena il suo oratorio lirico su testo di Apollinaire: La chanson du mal-aimé, nello stesso anno si sposa con Madeleine Rabereau. Nello stesso anno firma un contratto con la Odéon e realizza il suo primo LP.

L'anno seguente scrive e dirige la Symphonie interrompue, due anni dopo pubblica il libro di poesie Poete, vos papiers! e scrive il romanzo ispirato alla sua infanzia oppressa in collegio: Benoit Misère. Negli anni a seguire scrive Testament Phonographe in diverse edizioni arricchite di nuovi testi.

Nel 1956, i surrealisti André Breton e Benjamin Péret salutano pubblicamente il suo talento poetico. Negli anni successivi accoglie positivamente prima il movimento beatnik, poi quello del Sessantotto. Il 10 maggio, prima notte delle barricate nel Quartiere Latino di Parigi, Léo Ferré canta al Mutualité per i compagni della Federazione Anarchica Francese, come faceva ogni anno sin dal 1948. Quel giorno canta per la prima volta Les Anarchistes, che sarebbe diventato una sorta di inno per il suo giovane pubblico anarchico.

Sulla copertina della rivista anarchica Le Monde Libertaire del 1968, Ferrè appare una sua foto con la scritta autografa: «Viva l'Anarchia con una grande A come Amore!».

Nel 1969 Léo Ferré si trasferisce in Italia con Marie-Christine Diaz a San Casciano in Val di Pesa, vicino a Firenze. Forte di questa nuova energia, comincia a cambiare la struttura delle canzoni tradizionali per esplorarne di nuove fondate sulla sua voce parlata e una scrittura retorica derivata dalla prosa del poeta Arthur Rimbaud. Nel gennaio del 1969, su iniziativa della rivista Rock et Folk e della radio RTL, Ferré partecipa ad un'intervista che diverrà un evento storico, in compagnia di Georges Brassens e Jacques Brel, altri due pilastri della canzone d'autore francese.

Dopo essere stato lungamente idolatrato da molti giovani, il cantautore monegasco nel triennio 1971-1974 vive un periodo difficile a causa di continue interruzioni dei suoi concerti da parte di una minoranza di contestatori legati agli ambienti comunisti. Per un certo periodo, visto il susseguirsi delle contestazioni, l'anarchico rifletterà sull'opportunità di interrompere i suoi tour ma alla fine deciderà di proseguire.

Avendo l'Italia e la Toscana come sua «nuova patria» e punto di riferimento, Ferrè è comunque molto attivo in questi anni, girando intensamente in Francia, Svizzera, Belgio, Libano ed Algeria, partecipando spesso ad iniziative in favore dei lavoratori in sciopero o contro la pena di morte. Contro questa barbarie scriverà La Mort des loups («La morte dei lupi») nel 1975, ma ad essa aveva già fatto riferimento nella celebre Ni Dieu ni maître («Né Dio né padrone») nel 1965.

Nel 1976, il cantautore firma con la CBS Records, ma il rapporto si interrompe poco tempo dopo perché la casa discografica lo ritiene un artista poco commerciale. Ferré, nel 1979, decide così di autoprodursi in modo da non perdere la sua libertà artistica possibile.  Nel 1983 scrive L'Opera du Pauvre, raggiungendo probabilmente il vertice massimo della sua espressività. Relativamente all'Italia, memorabile la sua Avec le temps, malinconica e fascinosa canzone sul tempo come mera illusione, cantata con successo in italiano anche da Dalida, Patty Pravo e Gino Paoli (Col tempo).

Organizzato dal 'Centro Culturale Francese' di Catania, nel 1984 l'anarchico monegasco si presenta ad un ristretto pubblico di 300 persone venuto a conoscerlo al teatro Metropolitan. Durante la discussione salva solo pochi dei nostri cantautori, soprattutto Fabrizio De André e Gino Paoli, coi quali non a caso collaborerà in diverse occasioni.

Muore il 14 luglio 1993 a Castellina in Chianti, in provincia di Siena, dove viveva già dal 1971 con la compagna Maria e i figli Mathieu, Marie Cécile e Manuela.”

(In www.anarcopedia.org)

24 agosto 1916 nasce Léo Ferré, cantautore, poeta e scrittore monegasco (morto nel 1993)

 


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

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Ugo Brusaporco

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