“L’amico del popolo”, 25 giugno 2017

L'amico del popolo
Grandezza Carattere

L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

COMBOIO DE SAL E AÇÚCAR (Portogallo, Mozambico, Francia, Sudafrica, Brasile 2016), regia di Licinio Azevedo. Fotografia: Frédéric Serve. Montaggio: Willem Dias. Musica: Joni Schwalbach. Con Matamba Joaquim, Thiago Justino, Melanie de Vales Rafael, Hermelinda Simela.

Nel 1989 il Mozambico è un paese distrutto dalla guerra civile. Il treno che collega Nampula al Malawi è l’unica speranza per coloro che sono disposti a rischiare la vita pur di barattare qualche sacco di sale con lo zucchero. Il viaggio, denso di ostacoli e violenza, procede lentamente lungo i binari guasti per atti di sabotaggio. Mariamu, una delle viaggiatrici più assidue, compie il tragitto insieme all’amica Rosa, un’infermiera in viaggio verso il suo nuovo ospedale e alla prima esperienza di vita in guerra, al tenente Taiar, che non conosce nulla al di fuori della vita militare, e a un altro soldato con cui quest’ultimo non va d’accordo, Salomão. Storie d’amore e di guerra si snodano fra proiettili e risate mentre il treno avanza verso la prossima fermata.

“Il film è il risultato di un adattamento dell'omonimo romanzo di Licinio Azevedo e racconta la storia d'amore di un'infermiera che si innamora di un militare durante un viaggio in treno durante la guerra civile del Mozambico. In un primo momento, l'obiettivo del progetto era quello di creare un documentario, un modo di rappresentare la storia delle donne mozambicane che, durante gli scontri tra l'esercito e la Renamo (Resistenza Nazionale del Mozambico), il principale partito di opposizione in Mozambico, hanno viaggiato circa 700 chilometri per raggiungere il vicino Malawi”.

(My Movies)

Comboio de sal e açucar, dello scrittore e poeta mozambicano Licínio Azevedo, presentato in Piazza Grande, è una bella sorpresa e risponde alla domanda: come fare un western ambientato nell’Africa dei nostri giorni senza che sembri un gioco offensivo? Lo stesso Azevedo, nell’adattare il suo omonimo romanzo, ha dichiarato di essersi ispirato ai western americani, in particolare a quelli di George Stevens.
Un western della guerra fredda
Il merito del regista, che ha lavorato con personalità come Ruy Guerra, Jean-Luc Godard e il cineasta antropologo Jean Rouch, è quello di averlo fatto con umiltà, dimostrando prima di tutto sensibilità alla causa che il film vuole difendere: ricordare a un più vasto pubblico quella che fu la terribile guerra civile del Mozambico e la difficile ricostruzione del paese alla fine della guerra fredda, dove Unione Sovietica e paesi occidentali, in nome di ideologie opposte ma con pratiche spesso simili, giocavano a scacchi con gruppi di paesi suddivisi tra i due blocchi.
Ambientato nel 1989, Comboio de sal e açucar racconta la corsa eroica, a bordo di un treno arrugginito da Nampula al Malawi, di un gruppo di civili composto da uomini, donne e bambini, scortati da militari, con l’obiettivo di scambiare sale con zucchero, modalità di sostentamento fondamentale per le donne e le loro famiglie. I personaggi esprimono tutti verità e forza romanzesca, in particolare proprio i personaggi femminili, tra i quali spicca quello della giovane infermiera dallo spirito fieramente indipendente, in viaggio per raggiungere il nuovo ospedale. Come in un buon western, la corsa del treno è interrotta da incidenti sul percorso o da gruppi di ribelli, che qui prendono il posto dei canonici banditi. I rivoltosi uccidono e devastano le varie località, che si mutano in luoghi fantasma. Importante il lavoro sui caratteri diversi dei personaggi, sia tra i civili sia tra i militari. E se alcuni di questi ultimi hanno un codice d’onore, ad altri non difetta la cultura della sopraffazione e del dispotismo. Non manca una certa crudezza alla Sergio Leone, ma senza esagerazioni. Facendo grande uso del fuori campo riguardo alla rappresentazione della violenza, Azevedo sembra quasi un Leone pudico: gli splendidi scenari africani aiutano a esprimere una poesia malinconica paritaria all’espressione di una speranza di rinascita, dando forza e dignità a un bel western dei poveri, degli ultimi della terra”.

(Francesco Boille, esperto di cinema e fumetti su Internazionale 12 agosto 2016)

“Nord del Mozambico, anno 1988, siamo in piena guerra civile, lo zucchero scarseggia ed è diventato un bene prezioso, da barattare col sale. Un treno, senza orario preciso, scortato da militari, è diretto verso il vicino Malawi. Cerca di portare oltre confine alcune persone, per lo più donne e bambini. La ferrovia è continuamente sotto attacco e i sabotaggi non si contano. Il viaggio sarà un continuo procedere con cautela, salire e scendere dal convoglio, spengere la luce, ripararsi dagli spari sotto i vagoni e riscostruire tratti di ferrovia danneggiati da qualche signore della guerra. I nemici sono ovunque: le mine, le imboscate, i sabotatori e la gente stessa. “Il rumore degli spari non vi ucciderà, la paura si”, è con questa frase che il capitano si presenterà al silente passeggeri e al gruppo sottoposto al suo comando e questo rimarrà il fil rouge di una pellicola che corre, scorre e ci conquista sin dal primo fotogramma. Comboio de Sal e Açucar, presentato ieri sera in Piazza Grande, è l’adattamento dell’omonimo romanzo scritto dallo stesso Licinio Azevedo. Una storia che ci appassiona e sorprende per la trama, per l’uso che il regista fa della luce, calda e dolce, quasi una carezza, per le inquadrature dotate di splendide simmetrie, e per la musica, eccellente supporto che dimostra l’importanza della colonna sonora, tanto bistrattata nelle piccole produzioni nostrane. La narrazione è cadenzata dal ritmo del treno che procede con determinazione sulle sgangherate rotaie, attraversando un Paese in cui le ferite della guerra si vedono anche nelle porzioni di territorio ai nostri occhi ancora incontaminato. In questo lungo viaggio, ricco di ostacoli e pericoli, abbiamo il tempo di conoscere un ristretto gruppo di persone a bordo del convoglio. Ci affezioniamo ai loro sguardi e racconti. Ascoltiamo i militari, mentre ricordano i loro sogni di giovani studenti e ascoltiamo le speranze dei civili che vogliono lasciarsi la paura alle spalle. Con battute mai casuali, e risparmiandoci immagini crude e crudeli, Azevedo ci mostra il lato infimo della guerra, quello che acuisce i pregi e i difetti dell’essere umano (“la guerra imbruttisce il brutto, rende i deboli ancor più fragili e i codardi più codardi, mentre i leader diventano ancora più forti”) e trova il tempo di parlare d’amore e futuro. E poi ci sono le superstizioni che non aiutano loro a fare la cosa giusta ma tengono noi mirabilmente sulla corda trasformando Comboio de Sal e Açucar in un western ad alta tensione in cui la resa dei conti tra buoni e cattivi alla fine troverà la sua strada. Il lungometraggio di Licinio Azevedo, con i suoi ingressi in scena e le sfide alla Sergio Leone, è un gioiellino che rialza la nostra fiducia nella Piazza di Locarno 2016 la cui programmazione, negli ultimi giorni, ci aveva incupiti. Comboio de Sal e Açucar è da scoprire e vedere”.

(Vissia Menza)

Comboio de Sal e Açucar, del regista Licinio Azevedo, narra una storia ambientata nel 1989, nel pieno della guerra civile. Il treno che collega Nampula al Malawi è l’unica speranza per coloro che sono disposti a rischiare la vita pur di barattare qualche sacco di sale con lo zucchero, introvabile in Mozambico a causa della guerra. Il viaggio è pericoloso, settecento chilometri in un lento procedere lungo i binari, spesso divelti per atti di sabotaggio: il treno deve fermarsi, porre i binari al loro posto e procedere. Un calvario. Mariamu, una delle viaggiatrici più assidue, compie il tragitto insieme all’amica Rosa, un’infermiera diretta al suo nuovo ospedale. Vi sono poi il tenente Taiar, che non conosce nulla al di fuori della vita militare, un altro soldato, Salomão, con cui non va d'accordo. Se l’inizio è costituito da un orologio che non segna più l’ora e la cinepresa si dilunga in una esasperata lentezza richiamandosi a “C’era una volta il West” di Sergio Leone per poi ricordare “Ombre Rosse di John Ford: il treno è una folla di infelici, donne e bambini con la scorta dei militari. Non ci sono i pellerossa: al loro posto ci sono i guerriglieri e il nemico non sono solo loro. Le donne per esempio devono fare attenzione ai militari che scortano il treno (che le dovrebbero difendere) ma non mancano le storie d’amore, proprio come in “Ombre Rosse”. Il regista Azevedo mostra la sofferenza di un popolo defraudato dei propri sogni e derubato delle proprie speranze: un misto di composta indignazione e di dolente melanconia”.

(In: mozambiconline.blogspot.com)

Proprio su questo sito abbiamo trovato questa premessa al film: “Non fa molta notizia quello che accade in Mozambico. Come, del resto, in buona parte dell’Africa. Quando sono in gioco interessi geo-politici come per esempio in Egitto, Libia e Nigeria dove si scontrano gli “affari” di Stati Uniti, Cina, Francia, Regno Unito e Italia, allora l’attenzione dei media viene catturata. Per il Mozambico invece basta e avanza qualche trafiletto di fondo pagina; eppure, solo per restare a un paio di mesi fa, il leader del opposizione mozambicana Afonso Dhlakama, annunciava che entro il 2017 il suo partito, la Renamo (Resistenza Nazionale del Mozambico), avrebbe assunto il controllo delle province nel centro-nord del Paese: quelle conquistate nelle elezioni del 2014, vittoria contestata dal Frelimo al potere dal termine della guerra civile nel 1992. Scampato ad un attentato nel settembre del 2015, Dhlakama da allora è alla macchia, ha riorganizzato il partito e messo le basi per prendere il potere nelle province in cui ha vinto le elezioni; di fatto ha provocato una profonda spaccatura all’interno del Paese. La frizione tra i due partiti è in costante aumento nonostante gli accordi per il cessate il fuoco dell’agosto 2014 mentre rapimenti e omicidi sono all’ordine del giorno. Lo stesso Frelimo ha interesse a non attirare sul Mozambico l’attenzione del mondo: il timore è perdere parte degli investimenti esteri, investimenti che si giustificano per la presenza di ricche risorse naturali, energetiche e minerarie. La rinascita di un conflitto armato spingerebbe le multinazionali a cercare investimenti altrove danneggiando l’economia del Paese. Dunque, come dicono gli analisti, “una crisi a bassa intensità”. Ma la domanda è: fino a quando durerà? Perché sono migliaia i mozambicani che attraversano il confine con il Malawi per cercare scampo nei campi profughi mentre è sempre più pericoloso percorrere le strade del centro-nord del Mozambico. La popolazione, terrorizzata dalle violenze sia dei ribelli che delle forze governative, abbandona città e paesi, piuttosto che affrontare un’altra guerra civile”. E in queste condizioni nasce un film che come parabola le racconta.

Si può vedere Comboio de sal e açucar su:

  1. www.youtube.com 1
  2. Trailer www.youtube.com 2
  3. Presentazione tv: www.youtube.com 3

Il 25 giugno 1975 il Mozambico raggiunge l'indipendenza.

COMBOIO DE SAL E AÇÚCAR (Portogallo, Mozambico, Francia, Sudafrica, Brasile 2016), regia di Licinio Azevedo

 

Una poesia al giorno

Reminiscenze, di Luís Carlos Patraquim (nato in Mozambico nel 1953). Traduzione di Prisca Agustoni.

A volte l'esilio
è un albero aperto
nell'imponderabile notte

e nulla spia
la strada larga
fonte dello sguardo

comincia come un uomo
multitudini al vento
la terra esangue
il grido arabile

In lingua originale:

Reminiscência

às vezes o exílio
é uma árvore aberta
na imponderável noite
e nada espreita
a estrada larga
fonte do olhar

principia como um homem
multidões ao vento
a terra exangue
o grito arável

 

Un fatto al giorno

25 giugno 1876: Battaglia di Little Big Horn e morte del tenente colonnello George Armstrong Custer. Il punto più drammatico della battaglia fu il “last stand”, dove oggi sorge uno scarno monumento, cinquanta metri a sinistra dell'osservatorio del visitor center: una china indifendibile nell'ultima resistenza di Custer con una quarantina di cavalleggeri del 7°. Indiani sotto, ai lati e anche oltre la cresta del declivio. Per creare un inutile riparo, i soldati dovettero uccidere i loro cavalli. Fu la conseguenza di un grave errore: quel 25 di giugno del 1876 Custer aveva diviso il 7°, portando con sé solo 262 uomini, senza immaginare di entrare in un territorio nel quale 8mila indiani, donne e bambini compresi, erano venuti a celebrare Wiwayang Wacipi, la danza del Sole. Quel giorno il distaccamento di cavalleria si trovò davanti un numero di guerrieri tre volte più grande, forse un migliaio di uomini a cavallo. I soldati morirono tutti con il loro comandante. Quanto agli indiani, secondo gli storici dovrebbero esserne caduti meno di cento.

Toro SedutoFu «un inevitabile scontro di civiltà» ed era evidente che prima o poi gli indiani avrebbero dovuto «cedere il passo al progresso», spiega la guida con triste rassegnazione. Il vero “last stand” non fu quello del tenente colonnello George Amstrong Custer ma del popolo indiano. Little Big Horn fu l'ultima resistenza all'avanzata dei bianchi resi sempre più forti da un flusso senza fine d'immigrati europei che non sbarcavano a Ellis Island per fermarsi a New York ma penetravano nel continente in cerca di un lavoro e un futuro. Come i migranti di oggi che arrivano a Lampedusa con l'intenzione di proseguire verso Nord. Le tribù delle grandi pianure non avrebbero più vinto battaglie. Dopo Little Big Horn cercarono solo di sopravvivere alla pulizia etnica e alla normalizzazione. «Uccidi l'indiano, salva l'uomo» era la formula di Richard Henry Pratt, l'educatore al quale il governo affidò il compito di sradicare migliaia di bambini indiani dalle loro famiglie e dalla loro cultura: una specie di piccolo dottor Mengele. Il risultato finale è che oggi gli indiani d'America, compresi gli esquimesi dell'Alaska, sono lo 0,9% della popolazione americana”.

(Ugo Tramballi)

 

Una frase al giorno

“Il lavoro di un uomo è fra il sorgere e il tramontare del sole. Quello della donna non finisce mai”.

(Indira Gandhi, Allahabad, 19 novembre 1917 - Nuova Delhi, 31 ottobre 1984. Ella avviò un programma di modernizzazione del paese, di industrializzazione e di riforme sociali che suscitò l'opposizione delle forze più conservatrici che l’uccisero).

 

Un brano al giorno

Chaconne de Galatee, da Acis et Galatee di Jean-Baptiste Lully (1632-1687), eseguita dalla Sinfonia New York con i ballerini Patricia Beaman e Carlos Fittante. L'esecuzione faceva parte dell'Arte ed estasi della Chaconne, presentata dalla Gotham Early Music Scene presso la Società di New York per la cultura etica, il 4 ottobre 2012, nell'ambito delle celebrazioni del quinto anniversario.

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

e-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
web www.brusaporco.org

 

 

 

 

 

UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k