“L’amico del popolo”, 26 ottobre 2017

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

IL DECAMERON (Francia, Germania Occidentale, Italia, 1971), scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini, tratto dal Decameron di Giovanni Boccaccio. Fotografia: Tonino Delli Colli. Montaggio: Nino Baragli, Tatiana Morigi. Musiche a cura dell'autore (Pasolini), con la collaborazione di Ennio Morricone; registrazioni sul campo dell'etnomusicologo statunitense Alan Lomax (non accreditato) in Campania e Calabria. Con: Franco Citti, Ninetto Davoli, Jovan Jovanovic, Vincenzo Amato (II), Angela Luce, Giuseppe Zigaina, Pier Paolo Pasolini, Elisabetta Genovese, Vincenzo Ferrigno, Guido Alberto, Vittorio Vittori, Enzo Spitaleri, Gianni Rizzo, Patrizia De Clara, Silvana Mangano, Vincenzo Cristo, Salvatore Bilardo, Gabriella Frankel, Giorgio Iovine, Giorgio Iovine.

Il film racconta alcune novelle del Boccaccio, cui fanno da legame, nella prima parte, la storia di Ser Cepperello che, ingannando un prete con una falsa confessione, si vede trasformato in Ser Ciappelletto e adorato come santo, nella seconda, un pittore impegnato in un affresco, Andreuccio, si fa derubare di tutti i suoi soldi da una giovane che si finge sua sorellastra, per poi ritrovare la fortuna spogliando dei suoi gioielli la salma di un vescovo. Spacciandosi per sordomuto, Masetti viene accolto in un convento di suore, dalle quali si lascia sedurre, per poi crollare esaurito. Lisabetta, cui i fratelli hanno ucciso il giovane amante, taglia la testa al cadavere per conservarla in casa sotto una pianta di basilico. Caterina e Ricciardo, dopo essersi amati, vengono uniti in matrimonio dagli stessi compiaciuti genitori della giovane. Tingoccio torna dall'aldilà per rivelare al timorato Meuccio che far all'amore non è considerato un peccato. Fingendo di volerla trasformare in cavalla, Danno Gianni si gode la moglie di un ingenuo contadino. L'infedele Paronella induce il marito a entrare in una giara, per impedirgli di scoprire il suo amante, al quale subito si concede.

Nella versione definita dal montaggio che ha portato Il Decameron nelle sale cinematografiche nel 1971, Pasolini riprende, e interpreta liberamente, nove racconti tratti dall’opera omonima scritta tra il 1348 e il 1353 da Giovanni Boccaccio, il grande poeta e narratore del Trecento. Ai racconti utilizzati da Pasolini nel suo film colleghiamo qui alcune novelle originali di Giovanni Boccaccio:

Primo tempo
Racconto cornice - Ser Ciappelletto
1 Andreuccio da Perugia
2 Masetto
3 Peronella
4 Ciappelletto

Secondo tempo
Racconto cornice - allievo di Giotto
5 Giotto e Forese
6 Caterina da Valbona
7 Lisabetta da Messina
8 Gemmata
9 Tingoccio e Meuccio

Epilogo - allievo di Giotto

La genesi del film pasoliniano è comunque più complessa di quanto appaia dalla versione definitiva del film. Il testo della sceneggiatura del Decameron edito da Garzanti (e poi anche nei “Meridiani” Mondadori) è tratto da un dattiloscritto; il progetto iniziale, secondo il trattamento, del quale pure si conserva copia in un dattiloscritto, era di un film «di almeno tre ore», suddiviso in tre parti, comprendente un numero maggiore di novelle rispetto a quante ne furono elaborate in sceneggiatura.

(Dal Centro Studi Pasoliniani)

“Dal Decameron (1349-53) di G. Boccaccio, Pasolini ha tratto sette novelle, tutte ambientate a Napoli e dintorni; le ultime sono intercalate dalla storia di un allievo di Giotto (lo stesso Pasolini) che deve affrescare le pareti della chiesa di Santa Chiara. Della cosiddetta "trilogia della vita" (Il Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle Mille e una Notte), è il film più trascinante, ilare e lieto. Come gli altri due, ha al centro l'esaltazione di una felicità e di una vitalità, che è soprattutto sesso, idealizzate e astoriche, in cui un'incombente presenza di morte ricorda, secondo moduli di tradizione decadentistica, che la conciliazione è impossibile. Perciò c'è chi (L. Miccicché) collegando i tre film a Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) ha parlato di "tetralogia della morte". Orso d'argento al Festival di Berlino, fonte in Italia di roventi polemiche (a destra per le offese al "comune sentimento del pudore", a sinistra per il suo disimpegno ideologico), incassò sul mercato italiano più di 4 miliardi, cifra da primato, scatenando un'orda di imitazioni che costituirono un filone a parte”.

(Il Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli)

“Dieci film in dieci anni. Pier Paolo Pasolini ha motivo di essere soddisfatto del suo bilancio: comunque la pensiate sui poeta, il narratore e il polemista, non vorrete negare un occhio di riguardo a colui che negli anni Sessanta ha rappresentato una delle voci più crude e più fresche del cinema europeo. Ma in quale modo Pasolini ora festeggia il decimo anniversario delle sue nozze con lo scherni col Decameron, ossia tirando la martinicca per frenare non incenerire la sua irrequietudine ideologica che lo sballotta fra Marx e Cristo, e per costringere la sua aristocratica fantasia estetizzante nell’affresco trecentesco a gloria del cinema di consumo e delle tanto disprezzate platee di giovinacci”.

(Giovanni Grazzini, Il Corriere della Sera)

“È giunto forse il momento di parlare del modo con il quale Pier Paolo Pasolini affronta e risolve il problema dell’illustrazione cinematografica di quei testi di cui è convenuto dire che appartengono al patrimonio culturale dell’umanità. Al tempo del Vangelo secondo Matteo Pier Paolo Pasolini spiegò che per l’interpretazione aveva voluto evitare le ipotesi particolari e aggiornate e tenersi invece al senso comune. Cosa intendeva Pasolini per senso comune? Evidentemente, la fruizione del testo, attraverso i secoli, “fuori della storia”, da parte di infiniti lettori, nei luoghi e nelle situazioni più diverse. Il senso comune: cioè il senso di tutto ciò che sfugge alla moda, alla storia, al tempo.
Pasolini, d’altra parte, come è noto, è un manierista, forse il maggiore della nostra letteratura dopo D’Annunzio. Così fin dal Vangelo secondo Matteo abbiamo avuto questo curioso e raffinato connubio: la visione “inattuale” del senso comune accoppiata coi mezzi espressivi “attuali” del manierismo decadente.
Per Il Decameron, Pasolini ha proceduto in maniera non dissimile che per Il Vangelo. Ha accettato e fatta sua la visione del senso comune di tutti i tempi la quale considera Il Decameron come un libro non solo privo di tabù ma anche privo del compiacimento di non averne; un libro, cioè, in cui letteratura e realtà si identificano perfettamente per una rappresentazione totale dell’uomo. Accettata questa visione in fondo scandalosa (rispetto alla morale repressivamente permissiva di oggi) Pasolini è passato a lavorare sui racconti del Boccaccio con tutte le risorse del suo estetismo critico e virtuosistico.
Per prima cosa ha notato che nel Decameron la rappresentazione realistica della civiltà contadina è chiusa in una cornice umanistica e raffinata. Indubbiamente questa cornice ha una grande importanza; essa crea quel rapporto tra gentilezza e rusticità, tra realismo e letteratura, tra immaginazione e verità che è uno degli aspetti più affascinanti del Decameron. Gettando via questa cornice illustre ed elegante, Pasolini sapeva di modificare profondamente il testo boccaccesco; ma dimostrava al tempo stesso di essere un regista irresistibilmente originale ossia fatalmente infedele. Pasolini non soltanto ha gettato via la cornice umanistica ma ha anche sostituito la “favella” toscana con il dialetto napoletano. Si comprende anche facilmente perché. Una volta distrutta la finzione della villa deliziosa in cui, in tempi di pestilenza, si ritira una brigata di gentiluomini e di gentildonne per godersi la vita e raccontarsi dilettose vicende immaginarie, alla rappresentazione del mondo boccaccesco conveniva meglio il napoletano ancora oggi vivo ed aggressivo che il toscano così estenuato persino in bocca ai contadini e agli artigiani. L’operazione linguistica è perfettamente riuscita ed è uno dei caratteri più originali del film. Ne è venuto fuori un Decameron in cui gli umidi e sordidi vicoli di Napoli sostituiscono le pulite rughe di Firenze e la rozza e rigogliosa campagna campana il pettinato contado toscano. Questa sostituzione topografica a ben guardare è resa visibile soprattutto dalla sostituzione linguistica. A conferma una volta di più dell’importanza della parola nel cinema.
Altra soluzione felice è quella del problema dell’erotismo boccaccesco altrettanto proverbiale quanto, in fondo, incompreso. Pasolini ha eliminato ogni tentazione di scollacciatura e ha fuso arditamente la serenità rinascimentale con l’oggettualità fenomenologica moderna. Nel film di Pasolini c’è più nudo che nel “musical” Oh Calcutta!; ma senza il compiacimento di infrangere tabù, semmai con l’idea di spingere la rappresentazione fin dove è necessaria e dunque lecita. Crediamo che sotto questo aspetto Il Decameron pasoliniano segnerà una data importante. Forse è la prima volta che l’atto della copula viene presentato al cinema come puro e semplice gesto dei corpi, privo di significato e di valore, anzi visto come qualche cosa di difficile, di goffo e di scomodo che richiede la cooperazione di ambedue gli amanti.
Adesso bisognerebbe parlare di ogni singola novella e vedere dove Pasolini ha espresso meglio il suo sentimento del Decameron. Ci pare che tre novelle si levino al di sopra delle altre: quella dell’Isabetta e della pianta di basilico (qui la lezione di Mizoguchi e del cinema giapponese è messa a frutto); quella cosiddetta dell’usignolo (un po’ leziosa ma è leziosa anche nel Boccaccio); quella di Masetto da Lamporecchio (la più importante per quanto riguarda il trattamento “oggettuale” dell’erotismo). A queste tre pensiamo che bisogna aggiungere i due aneddoti di Peronella e di compar Pietro nei quali è recuperata l’antica rusticità della Campania. Nella novella celebre di Andreuccio preferiamo la parte della cattedrale a quella della casa della cortigiana.
Gli interpreti sono tutti bravi per merito loro e di Pasolini che ha saputo sceglierli e dirigerli. Ma essi valgono soprattutto come volti inventati e rappresentati con estraniata immediatezza da encausto pompeiano”.

(Alberto Moravia, l’Espresso, 11 luglio 1971)

“...non si può affermare che Pasolini abbia "tradito" Boccaccio. L'artista ha tratto spunto da un altro artista, ma poi ha espresso la propria visione del mondo, attraverso la propria sensibilità. Se Pasolini fosse stato fedele allo spirito e alle forme del Decameron, ne sarebbe risultata un'illustrazione piatta e priva di vita, mentre così ci troviamo di fronte a una creazione originalissima, in cui l'autore ha espresso se stesso con il linguaggio che gli è consentaneo. È legittimo che lo spettatore attraverso il confronto prenda atto della distanza che separa i due artisti e colga le motivazioni storiche di essa, ma poi deve accettare l'opera moderna nella sua autonomia e valutarla in base ai principi ad essa intrinseci. Pasolini ha obbedito alla sua sensibilità decadente e in tal modo, se non ci ha restituito l'immagine di una vita innocente, ci ha offerto ciò che è nel patrimonio della grande arte decadente moderna, la capacità di dare forma al lato più torbido e oscuro della realtà”.

(Wikipedia)

 

Una poesia al giorno

Da “Lamento per Belgrado”, di Miloš Crnjanski (Csongrád, 1893 - Belgrado, 1977. Miloš Crnjanski è uno dei massimi rappresentanti delle letterature slave del XX secolo. Fu poeta, pubblicista, traduttore, romanziere e autore di drammi teatrali).

JAN MAJEN i moj Srem,
Paris, moji mrtvi drugovi, trešnje u Kini,
priviđaju mi se još, dok ovde ćutim, bdim, i mrem,
i ležim, hladan, kao na pepelu klada.
Samo, to više i nismo mi, život, a ni zvezde,
nego neka čudovišta, polipi, delfini,
što se tumbaju preko nas, i plove, i jezde,
i urliču: «Prah, pepeo, smrt je to».
A viču i rusko «Ničevo» -
i špansko «Nada».

JAN MAYEN e il mio Srem,
Parigi, i miei compagni defunti, i ciliegi in Cina,
m’appaiono di nuovo, mentre qui taccio, veglio, e muoio
e resto supino, freddo, come un ceppo nella cenere.
Solo, noi non siamo più noi, la vita, e neppure le stelle,
ma mostri, polipi, delfini,
che aleggiano su di noi, e nuotano, e cavalcano sulle onde,
e urlano: «Polvere, cenere, morte, nient’altro».
E gridano in russo: «Ničevo» -
e in spagnolo: «Nada».

Ti, međutim, rasteš, uz zornjaču jasnu,
sa Avalom plavom, u daljini, kao breg.
Ti treperiš, i kad ovde zvezde gasnu,
i topiš, ko Sunce, i led suza, i lanjski sneg.
U Tebi nema besmisla, ni smrti.
Ti sjajiš kao iskopan stari mač.
U Tebi sve vaskrsne, i zaigra, pa se vrti,
i ponavlja, kao dan i detinji plač.
A kad mi se glas, i oči, i dah, upokoje,
Ti ćeš me, znam, uzeti na krilo svoje.

Tu, intanto, ti ergi, con l’astro chiaro dell’aurora,
con l’azzurra Avala, in lontananza, come una collina.]
Tu scintilli, anche quando qui le stelle si spengono,
e sciogli, come il Sole, il ghiaccio delle lacrime e la neve di un tempo.]
In Te non esiste il non senso, né la morte.
Tu brilli come una vecchia spada dissepolta.
In Te tutto resuscita, e danza, e volteggia,
e si ripete, come il giorno e il pianto dei fanciulli.
E quando la mia voce, e i miei occhi, e il mio respiro si estingueranno,]
Tu mi accoglierai, lo so, nel tuo grembo.

ESPANJA i naš Hvar,
Dobrović mrtvi, šejk što se u Sahari beli,
priviđaju mi se još, kao utvare, vatre, var.
Moj Sibe poludeli, zinuo kao peš.
Samo, to više nismo mi, u mladosti i moći,
već neki papagaji, čimpanzi, neveseli,
što mi se smeju i vrište u mojoj samoći.
Jedan se «Leiche! Leiche! Leiche!» dere.
Drugi šapće: «Cadavere!»
Treći: «Leš, leš, leš!».

ESPAÑA e la nostra isola di Hvar,
il fu Dobrović, lo sceicco che biancheggia nel Sahara,
m’appaiono di nuovo, come fantasmi, fuochi, inganni.
E il mio Sibe impazzito, la bocca spalancata come uno scorfano.
Solo, noi non siamo più noi, la gioventù e la potenza,
ma dei pappagalli, degli scimpanzè, tristi,
che sghignazzano e sbraitano nella mia solitudine.
Uno grida: «Leiche, Leiche, Leiche!».
Un altro mi sussurra: «Cadavere!».
Un terzo: «Leš, leš, leš!».

Ti, međutim, širiš, kao labud krila,
zaborav, na Dunav i Savu, dok spavaju.
Ti budiš veselost, što je nekad bila,
kikot, tu, i u mom kriku, vrisku, i vapaju.
U Tebi nema crva, ni sa groba.
Ti blistaš, kao kroz suze ljudski smeh.
U Tebi jedan orač peva, i u zimsko doba,
prelivši krv, kao vino, u novi meh.
A kad mi klone glava i budu stali sati,
Ti ćeš me, znam, poljubiti kao mati.

Tu, intanto, apri come un cigno le tue ali,
e l’oblio, sul Danubio e sulla Sava, addormentati.
Tu risvegli l’allegria, quella di un tempo,
e le risate, mentre chiedo aiuto, urlo e piango.
In Te non ci sono vermi, neppure nelle tombe.
Tu brilli, come il riso nelle lacrime.
In Te un contadino canta, anche d’inverno,
versando il sangue, come vino, nell’otre nuova.
Ma quando suonerà l’ultima ora e il mio capo si reclinerà,
Tu mi bacerai, lo so, come fossi mia madre.

 

Un fatto al giorno

26 ottobre 1881: A Tombstone, Arizona, ha luogo la sparatoria all'O.K. Corral

La Sparatoria all'O.K. Corral è un episodio della storia del Far West che ha ispirato numerosi film western.
Il fatto ebbe luogo il 26 ottobre 1881, poco dopo le 14.30, in una stretta striscia di terreno non ancora assegnata nota come "lotto 2", nel 17º blocco, non molto distante dall'ingresso posteriore del corral (ricovero per cavalli) di Tombstone, in Arizona. I fratelli Wyatt Earp, Morgan Earp e Virgil Earp con Doc Holliday duellarono contro Billy Claiborne, Frank McLaury, Tom McLaury, Billy Clanton e Ike Clanton. In trenta secondi furono sparati una trentina di colpi di pistola. I due McLaury vennero uccisi, così come Billy Clanton, mentre Billy Claiborne e Ike Clanton fuggirono perché disarmati. Sull'altro fronte, Morgan Earp, Virgil Earp e Doc Holliday rimasero feriti, ma sopravvissero.
Sebbene abbia causato un numero relativamente basso di vittime, questo scontro a fuoco viene generalmente indicato come il più celebre del Far West. È molto più noto di altre sparatorie dove le vittime furono anche più numerose (ad esempio la sparatoria dei Quattro Morti in Cinque Secondi, che coinvolse lo sceriffo di El Paso e il pistolero Dallas Stoudenmire, o la sparatoria di Hide Park nel Kansas) ed è divenuto rappresentativo di quell'epoca e di quei vasti territori di "frontiera" dove tutto era ancora da scoprire e da costruire, ma dove la legge non era ancora arrivata o vi era rappresentata troppo debolmente per poter scoraggiare i soprusi e le violenze di lestofanti e fuorilegge.

(Articolo completo su Wikipedia)

Una frase al giorno

“Ho preso tanti pugni nella mia vita, veramente tanti... ma lo rifarei perché tutti i pugni che ho preso sono serviti a far studiare i miei figli”.

(Primo Carnera, 1906-1967, pugile, lottatore e attore italiano)

Roma, maggio 1967: un uomo alto più di due metri scende da un aereo proveniente da New York. Gli restano altezza, orgoglio, anima, poco altro: il volto ormai sembra una maschera, rappresentazione tragica di un fisico devastato dalla malattia. E' persino difficile riconoscerlo, Primo Carnera, lui che è stato il campione del mondo dei pesi massimi. Eppure, nonostante sia passato tantissimo tempo dai fasti gloriosi, una folla enorme va ad accoglierlo. Perché, anche se forse non è stato il più grande pugile della storia della boxe italiana (Duilio Loi, Bruno Arcari, Nino Benvenuti sono considerati superiori dalla critica), Carnera ne è stato il mito assoluto, l'inarrivabile, la punta di un iceberg in un'epoca in cui salire sul ring rappresentava uno stile di vita, un mezzo di emersione dalla povertà. In quel giorno di maggio ormai è un uomo gracile, si sforza di sorridere, ma sta per compiere l'ultimo passo: ormai in pianta stabile negli Stati Uniti, sa di dover morire e sceglie l'Italia per il momento estremo, che arriverà pochi giorni dopo, il 29 giugno. Sono passati molti anni da una notte ben più dolce, quella di Long Island, del trionfo mondiale contro Jack Sharkey.

(Boxe, 50 anni senza Carnera: il gigante che fece sognare l'Italia)

 

Un brano al giorno

Ivan Mane Jarnović: Concerto per Violino & Orchestra No. 1 in La maggiore (Allegro) / Zagreb Soloists

  • Ivan Mane Jarnovic, Biography Movies with Kresimir Marmilic: www.youtube.com

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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