“L’amico del popolo”, 26 ottobre 2017

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

IL DECAMERON (Francia, Germania Occidentale, Italia, 1971), scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini, tratto dal Decameron di Giovanni Boccaccio. Fotografia: Tonino Delli Colli. Montaggio: Nino Baragli, Tatiana Morigi. Musiche a cura dell'autore (Pasolini), con la collaborazione di Ennio Morricone; registrazioni sul campo dell'etnomusicologo statunitense Alan Lomax (non accreditato) in Campania e Calabria. Con: Franco Citti, Ninetto Davoli, Jovan Jovanovic, Vincenzo Amato (II), Angela Luce, Giuseppe Zigaina, Pier Paolo Pasolini, Elisabetta Genovese, Vincenzo Ferrigno, Guido Alberto, Vittorio Vittori, Enzo Spitaleri, Gianni Rizzo, Patrizia De Clara, Silvana Mangano, Vincenzo Cristo, Salvatore Bilardo, Gabriella Frankel, Giorgio Iovine, Giorgio Iovine.

Il film racconta alcune novelle del Boccaccio, cui fanno da legame, nella prima parte, la storia di Ser Cepperello che, ingannando un prete con una falsa confessione, si vede trasformato in Ser Ciappelletto e adorato come santo, nella seconda, un pittore impegnato in un affresco, Andreuccio, si fa derubare di tutti i suoi soldi da una giovane che si finge sua sorellastra, per poi ritrovare la fortuna spogliando dei suoi gioielli la salma di un vescovo. Spacciandosi per sordomuto, Masetti viene accolto in un convento di suore, dalle quali si lascia sedurre, per poi crollare esaurito. Lisabetta, cui i fratelli hanno ucciso il giovane amante, taglia la testa al cadavere per conservarla in casa sotto una pianta di basilico. Caterina e Ricciardo, dopo essersi amati, vengono uniti in matrimonio dagli stessi compiaciuti genitori della giovane. Tingoccio torna dall'aldilà per rivelare al timorato Meuccio che far all'amore non è considerato un peccato. Fingendo di volerla trasformare in cavalla, Danno Gianni si gode la moglie di un ingenuo contadino. L'infedele Paronella induce il marito a entrare in una giara, per impedirgli di scoprire il suo amante, al quale subito si concede.

Nella versione definita dal montaggio che ha portato Il Decameron nelle sale cinematografiche nel 1971, Pasolini riprende, e interpreta liberamente, nove racconti tratti dall’opera omonima scritta tra il 1348 e il 1353 da Giovanni Boccaccio, il grande poeta e narratore del Trecento. Ai racconti utilizzati da Pasolini nel suo film colleghiamo qui alcune novelle originali di Giovanni Boccaccio:

Primo tempo
Racconto cornice - Ser Ciappelletto
1 Andreuccio da Perugia
2 Masetto
3 Peronella
4 Ciappelletto

Secondo tempo
Racconto cornice - allievo di Giotto
5 Giotto e Forese
6 Caterina da Valbona
7 Lisabetta da Messina
8 Gemmata
9 Tingoccio e Meuccio

Epilogo - allievo di Giotto

La genesi del film pasoliniano è comunque più complessa di quanto appaia dalla versione definitiva del film. Il testo della sceneggiatura del Decameron edito da Garzanti (e poi anche nei “Meridiani” Mondadori) è tratto da un dattiloscritto; il progetto iniziale, secondo il trattamento, del quale pure si conserva copia in un dattiloscritto, era di un film «di almeno tre ore», suddiviso in tre parti, comprendente un numero maggiore di novelle rispetto a quante ne furono elaborate in sceneggiatura.

(Dal Centro Studi Pasoliniani)

“Dal Decameron (1349-53) di G. Boccaccio, Pasolini ha tratto sette novelle, tutte ambientate a Napoli e dintorni; le ultime sono intercalate dalla storia di un allievo di Giotto (lo stesso Pasolini) che deve affrescare le pareti della chiesa di Santa Chiara. Della cosiddetta "trilogia della vita" (Il Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle Mille e una Notte), è il film più trascinante, ilare e lieto. Come gli altri due, ha al centro l'esaltazione di una felicità e di una vitalità, che è soprattutto sesso, idealizzate e astoriche, in cui un'incombente presenza di morte ricorda, secondo moduli di tradizione decadentistica, che la conciliazione è impossibile. Perciò c'è chi (L. Miccicché) collegando i tre film a Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) ha parlato di "tetralogia della morte". Orso d'argento al Festival di Berlino, fonte in Italia di roventi polemiche (a destra per le offese al "comune sentimento del pudore", a sinistra per il suo disimpegno ideologico), incassò sul mercato italiano più di 4 miliardi, cifra da primato, scatenando un'orda di imitazioni che costituirono un filone a parte”.

(Il Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli)

“Dieci film in dieci anni. Pier Paolo Pasolini ha motivo di essere soddisfatto del suo bilancio: comunque la pensiate sui poeta, il narratore e il polemista, non vorrete negare un occhio di riguardo a colui che negli anni Sessanta ha rappresentato una delle voci più crude e più fresche del cinema europeo. Ma in quale modo Pasolini ora festeggia il decimo anniversario delle sue nozze con lo scherni col Decameron, ossia tirando la martinicca per frenare non incenerire la sua irrequietudine ideologica che lo sballotta fra Marx e Cristo, e per costringere la sua aristocratica fantasia estetizzante nell’affresco trecentesco a gloria del cinema di consumo e delle tanto disprezzate platee di giovinacci”.

(Giovanni Grazzini, Il Corriere della Sera)

“È giunto forse il momento di parlare del modo con il quale Pier Paolo Pasolini affronta e risolve il problema dell’illustrazione cinematografica di quei testi di cui è convenuto dire che appartengono al patrimonio culturale dell’umanità. Al tempo del Vangelo secondo Matteo Pier Paolo Pasolini spiegò che per l’interpretazione aveva voluto evitare le ipotesi particolari e aggiornate e tenersi invece al senso comune. Cosa intendeva Pasolini per senso comune? Evidentemente, la fruizione del testo, attraverso i secoli, “fuori della storia”, da parte di infiniti lettori, nei luoghi e nelle situazioni più diverse. Il senso comune: cioè il senso di tutto ciò che sfugge alla moda, alla storia, al tempo.
Pasolini, d’altra parte, come è noto, è un manierista, forse il maggiore della nostra letteratura dopo D’Annunzio. Così fin dal Vangelo secondo Matteo abbiamo avuto questo curioso e raffinato connubio: la visione “inattuale” del senso comune accoppiata coi mezzi espressivi “attuali” del manierismo decadente.
Per Il Decameron, Pasolini ha proceduto in maniera non dissimile che per Il Vangelo. Ha accettato e fatta sua la visione del senso comune di tutti i tempi la quale considera Il Decameron come un libro non solo privo di tabù ma anche privo del compiacimento di non averne; un libro, cioè, in cui letteratura e realtà si identificano perfettamente per una rappresentazione totale dell’uomo. Accettata questa visione in fondo scandalosa (rispetto alla morale repressivamente permissiva di oggi) Pasolini è passato a lavorare sui racconti del Boccaccio con tutte le risorse del suo estetismo critico e virtuosistico.
Per prima cosa ha notato che nel Decameron la rappresentazione realistica della civiltà contadina è chiusa in una cornice umanistica e raffinata. Indubbiamente questa cornice ha una grande importanza; essa crea quel rapporto tra gentilezza e rusticità, tra realismo e letteratura, tra immaginazione e verità che è uno degli aspetti più affascinanti del Decameron. Gettando via questa cornice illustre ed elegante, Pasolini sapeva di modificare profondamente il testo boccaccesco; ma dimostrava al tempo stesso di essere un regista irresistibilmente originale ossia fatalmente infedele. Pasolini non soltanto ha gettato via la cornice umanistica ma ha anche sostituito la “favella” toscana con il dialetto napoletano. Si comprende anche facilmente perché. Una volta distrutta la finzione della villa deliziosa in cui, in tempi di pestilenza, si ritira una brigata di gentiluomini e di gentildonne per godersi la vita e raccontarsi dilettose vicende immaginarie, alla rappresentazione del mondo boccaccesco conveniva meglio il napoletano ancora oggi vivo ed aggressivo che il toscano così estenuato persino in bocca ai contadini e agli artigiani. L’operazione linguistica è perfettamente riuscita ed è uno dei caratteri più originali del film. Ne è venuto fuori un Decameron in cui gli umidi e sordidi vicoli di Napoli sostituiscono le pulite rughe di Firenze e la rozza e rigogliosa campagna campana il pettinato contado toscano. Questa sostituzione topografica a ben guardare è resa visibile soprattutto dalla sostituzione linguistica. A conferma una volta di più dell’importanza della parola nel cinema.
Altra soluzione felice è quella del problema dell’erotismo boccaccesco altrettanto proverbiale quanto, in fondo, incompreso. Pasolini ha eliminato ogni tentazione di scollacciatura e ha fuso arditamente la serenità rinascimentale con l’oggettualità fenomenologica moderna. Nel film di Pasolini c’è più nudo che nel “musical” Oh Calcutta!; ma senza il compiacimento di infrangere tabù, semmai con l’idea di spingere la rappresentazione fin dove è necessaria e dunque lecita. Crediamo che sotto questo aspetto Il Decameron pasoliniano segnerà una data importante. Forse è la prima volta che l’atto della copula viene presentato al cinema come puro e semplice gesto dei corpi, privo di significato e di valore, anzi visto come qualche cosa di difficile, di goffo e di scomodo che richiede la cooperazione di ambedue gli amanti.
Adesso bisognerebbe parlare di ogni singola novella e vedere dove Pasolini ha espresso meglio il suo sentimento del Decameron. Ci pare che tre novelle si levino al di sopra delle altre: quella dell’Isabetta e della pianta di basilico (qui la lezione di Mizoguchi e del cinema giapponese è messa a frutto); quella cosiddetta dell’usignolo (un po’ leziosa ma è leziosa anche nel Boccaccio); quella di Masetto da Lamporecchio (la più importante per quanto riguarda il trattamento “oggettuale” dell’erotismo). A queste tre pensiamo che bisogna aggiungere i due aneddoti di Peronella e di compar Pietro nei quali è recuperata l’antica rusticità della Campania. Nella novella celebre di Andreuccio preferiamo la parte della cattedrale a quella della casa della cortigiana.
Gli interpreti sono tutti bravi per merito loro e di Pasolini che ha saputo sceglierli e dirigerli. Ma essi valgono soprattutto come volti inventati e rappresentati con estraniata immediatezza da encausto pompeiano”.

(Alberto Moravia, l’Espresso, 11 luglio 1971)

“...non si può affermare che Pasolini abbia "tradito" Boccaccio. L'artista ha tratto spunto da un altro artista, ma poi ha espresso la propria visione del mondo, attraverso la propria sensibilità. Se Pasolini fosse stato fedele allo spirito e alle forme del Decameron, ne sarebbe risultata un'illustrazione piatta e priva di vita, mentre così ci troviamo di fronte a una creazione originalissima, in cui l'autore ha espresso se stesso con il linguaggio che gli è consentaneo. È legittimo che lo spettatore attraverso il confronto prenda atto della distanza che separa i due artisti e colga le motivazioni storiche di essa, ma poi deve accettare l'opera moderna nella sua autonomia e valutarla in base ai principi ad essa intrinseci. Pasolini ha obbedito alla sua sensibilità decadente e in tal modo, se non ci ha restituito l'immagine di una vita innocente, ci ha offerto ciò che è nel patrimonio della grande arte decadente moderna, la capacità di dare forma al lato più torbido e oscuro della realtà”.

(Wikipedia)

IL DECAMERON (Francia, Germania Occidentale, Italia, 1971), scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini

 

Una poesia al giorno

Da “Lamento per Belgrado”, di Miloš Crnjanski (Csongrád, 1893 - Belgrado, 1977. Miloš Crnjanski è uno dei massimi rappresentanti delle letterature slave del XX secolo. Fu poeta, pubblicista, traduttore, romanziere e autore di drammi teatrali).

JAN MAJEN i moj Srem,
Paris, moji mrtvi drugovi, trešnje u Kini,
priviđaju mi se još, dok ovde ćutim, bdim, i mrem,
i ležim, hladan, kao na pepelu klada.
Samo, to više i nismo mi, život, a ni zvezde,
nego neka čudovišta, polipi, delfini,
što se tumbaju preko nas, i plove, i jezde,
i urliču: «Prah, pepeo, smrt je to».
A viču i rusko «Ničevo» -
i špansko «Nada».

JAN MAYEN e il mio Srem,
Parigi, i miei compagni defunti, i ciliegi in Cina,
m’appaiono di nuovo, mentre qui taccio, veglio, e muoio
e resto supino, freddo, come un ceppo nella cenere.
Solo, noi non siamo più noi, la vita, e neppure le stelle,
ma mostri, polipi, delfini,
che aleggiano su di noi, e nuotano, e cavalcano sulle onde,
e urlano: «Polvere, cenere, morte, nient’altro».
E gridano in russo: «Ničevo» -
e in spagnolo: «Nada».

Ti, međutim, rasteš, uz zornjaču jasnu,
sa Avalom plavom, u daljini, kao breg.
Ti treperiš, i kad ovde zvezde gasnu,
i topiš, ko Sunce, i led suza, i lanjski sneg.
U Tebi nema besmisla, ni smrti.
Ti sjajiš kao iskopan stari mač.
U Tebi sve vaskrsne, i zaigra, pa se vrti,
i ponavlja, kao dan i detinji plač.
A kad mi se glas, i oči, i dah, upokoje,
Ti ćeš me, znam, uzeti na krilo svoje.

Tu, intanto, ti ergi, con l’astro chiaro dell’aurora,
con l’azzurra Avala, in lontananza, come una collina.]
Tu scintilli, anche quando qui le stelle si spengono,
e sciogli, come il Sole, il ghiaccio delle lacrime e la neve di un tempo.]
In Te non esiste il non senso, né la morte.
Tu brilli come una vecchia spada dissepolta.
In Te tutto resuscita, e danza, e volteggia,
e si ripete, come il giorno e il pianto dei fanciulli.
E quando la mia voce, e i miei occhi, e il mio respiro si estingueranno,]
Tu mi accoglierai, lo so, nel tuo grembo.

ESPANJA i naš Hvar,
Dobrović mrtvi, šejk što se u Sahari beli,
priviđaju mi se još, kao utvare, vatre, var.
Moj Sibe poludeli, zinuo kao peš.
Samo, to više nismo mi, u mladosti i moći,
već neki papagaji, čimpanzi, neveseli,
što mi se smeju i vrište u mojoj samoći.
Jedan se «Leiche! Leiche! Leiche!» dere.
Drugi šapće: «Cadavere!»
Treći: «Leš, leš, leš!».

ESPAÑA e la nostra isola di Hvar,
il fu Dobrović, lo sceicco che biancheggia nel Sahara,
m’appaiono di nuovo, come fantasmi, fuochi, inganni.
E il mio Sibe impazzito, la bocca spalancata come uno scorfano.
Solo, noi non siamo più noi, la gioventù e la potenza,
ma dei pappagalli, degli scimpanzè, tristi,
che sghignazzano e sbraitano nella mia solitudine.
Uno grida: «Leiche, Leiche, Leiche!».
Un altro mi sussurra: «Cadavere!».
Un terzo: «Leš, leš, leš!».

Ti, međutim, širiš, kao labud krila,
zaborav, na Dunav i Savu, dok spavaju.
Ti budiš veselost, što je nekad bila,
kikot, tu, i u mom kriku, vrisku, i vapaju.
U Tebi nema crva, ni sa groba.
Ti blistaš, kao kroz suze ljudski smeh.
U Tebi jedan orač peva, i u zimsko doba,
prelivši krv, kao vino, u novi meh.
A kad mi klone glava i budu stali sati,
Ti ćeš me, znam, poljubiti kao mati.

Tu, intanto, apri come un cigno le tue ali,
e l’oblio, sul Danubio e sulla Sava, addormentati.
Tu risvegli l’allegria, quella di un tempo,
e le risate, mentre chiedo aiuto, urlo e piango.
In Te non ci sono vermi, neppure nelle tombe.
Tu brilli, come il riso nelle lacrime.
In Te un contadino canta, anche d’inverno,
versando il sangue, come vino, nell’otre nuova.
Ma quando suonerà l’ultima ora e il mio capo si reclinerà,
Tu mi bacerai, lo so, come fossi mia madre.

Miloš Crnjanski (Csongrád, 1893 - Belgrado, 1977)

 

Un fatto al giorno

26 ottobre 1881: A Tombstone, Arizona, ha luogo la sparatoria all'O.K. Corral

La Sparatoria all'O.K. Corral è un episodio della storia del Far West che ha ispirato numerosi film western.
Il fatto ebbe luogo il 26 ottobre 1881, poco dopo le 14.30, in una stretta striscia di terreno non ancora assegnata nota come "lotto 2", nel 17º blocco, non molto distante dall'ingresso posteriore del corral (ricovero per cavalli) di Tombstone, in Arizona. I fratelli Wyatt Earp, Morgan Earp e Virgil Earp con Doc Holliday duellarono contro Billy Claiborne, Frank McLaury, Tom McLaury, Billy Clanton e Ike Clanton. In trenta secondi furono sparati una trentina di colpi di pistola. I due McLaury vennero uccisi, così come Billy Clanton, mentre Billy Claiborne e Ike Clanton fuggirono perché disarmati. Sull'altro fronte, Morgan Earp, Virgil Earp e Doc Holliday rimasero feriti, ma sopravvissero.
Sebbene abbia causato un numero relativamente basso di vittime, questo scontro a fuoco viene generalmente indicato come il più celebre del Far West. È molto più noto di altre sparatorie dove le vittime furono anche più numerose (ad esempio la sparatoria dei Quattro Morti in Cinque Secondi, che coinvolse lo sceriffo di El Paso e il pistolero Dallas Stoudenmire, o la sparatoria di Hide Park nel Kansas) ed è divenuto rappresentativo di quell'epoca e di quei vasti territori di "frontiera" dove tutto era ancora da scoprire e da costruire, ma dove la legge non era ancora arrivata o vi era rappresentata troppo debolmente per poter scoraggiare i soprusi e le violenze di lestofanti e fuorilegge.

(Articolo completo su Wikipedia)

Una frase al giorno

“Ho preso tanti pugni nella mia vita, veramente tanti... ma lo rifarei perché tutti i pugni che ho preso sono serviti a far studiare i miei figli”.

(Primo Carnera, 1906-1967, pugile, lottatore e attore italiano)

Primo Carnera, 1906-1967, pugile, lottatore e attore italiano

Roma, maggio 1967: un uomo alto più di due metri scende da un aereo proveniente da New York. Gli restano altezza, orgoglio, anima, poco altro: il volto ormai sembra una maschera, rappresentazione tragica di un fisico devastato dalla malattia. E' persino difficile riconoscerlo, Primo Carnera, lui che è stato il campione del mondo dei pesi massimi. Eppure, nonostante sia passato tantissimo tempo dai fasti gloriosi, una folla enorme va ad accoglierlo. Perché, anche se forse non è stato il più grande pugile della storia della boxe italiana (Duilio Loi, Bruno Arcari, Nino Benvenuti sono considerati superiori dalla critica), Carnera ne è stato il mito assoluto, l'inarrivabile, la punta di un iceberg in un'epoca in cui salire sul ring rappresentava uno stile di vita, un mezzo di emersione dalla povertà. In quel giorno di maggio ormai è un uomo gracile, si sforza di sorridere, ma sta per compiere l'ultimo passo: ormai in pianta stabile negli Stati Uniti, sa di dover morire e sceglie l'Italia per il momento estremo, che arriverà pochi giorni dopo, il 29 giugno. Sono passati molti anni da una notte ben più dolce, quella di Long Island, del trionfo mondiale contro Jack Sharkey.

(Boxe, 50 anni senza Carnera: il gigante che fece sognare l'Italia)

 

Un brano al giorno

Ivan Mane Jarnović: Concerto per Violino & Orchestra No. 1 in La maggiore (Allegro) / Zagreb Soloists

  • Ivan Mane Jarnovic, Biography Movies with Kresimir Marmilic: www.youtube.com

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

e-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
web www.brusaporco.org

 

 

 

 

 

UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k