“L’amico del popolo”, 27 ottobre 2017

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

LA MARQUISE D'O (La Marchesa von..., Francia, Germania, 1976) scritto e diretto da Eric Rohmer, tratto dal racconto “La marchesa di O...” di Heinrich von Kleist. Fotografia: Néstor Almendros. Montaggio: Cécile Decugis, Annie Leconte. Musiche: Preussische Militarmusik, Roger DelmotteCon: Edith Clever, Bruno Ganz, Peter Luhr, Edda Seippel, Bernhard Freyd, Otto Sander, Eduard Linkers, Ruth Drexel, Hesso Huber, Eric Schachinger, Richard Rogner, Thomas Straus, Volker Prachtel, Marion Muller, Heidi Moller, Franz Pikola, Theo De Maal, Petra Meier, Manuela Mayer.

Nel 1799 i cosacchi assaltano una cittadella dell'Italia cisalpina, conquistando il castello comandato dal marchese Von O. Sua figlia Giulietta, vedova e madre di due bambine, è aggredita da alcuni soldatacci, che tentano di violentarla. La salva il provvidenziale intervento di un tenente colonnello russo, il conte di F., che la riconsegna ai genitori. Qualche tempo dopo, l'uomo, che la famiglia di Giulietta credeva morto, si presenta al castello chiedendo con importuna insistenza la mano della giovane marchesa, ma ottiene un fermo anche se condizionato rifiuto. Passano i giorni, e Giulietta, che ne aveva avuto il presentimento, ha ora la certezza di essere incinta. Ella è sicura della propria innocenza: non lo sono invece i suoi genitori, che la cacciano di casa. Noncurante dello scandalo pur di dare un padre al nascituro, Giulietta pubblica un annuncio su un giornale, invitando l'ignoto responsabile della sua gravidanza a presentarsi, promettendogli di sposarlo. Con sua enorme e sgradita sorpresa (intanto il padre e la madre, convinti della sua virtù, l'hanno perdonata e riaccolta in casa) chi risponde all'annuncio è il conte, il quale confessa d'avere approfittato di lei, svenuta, la notte stessa in cui l'aveva strappata alla soldataglia. Malgrado la sua profonda indignazione, e purché il conte rinunci ai suoi diritti coniugali, Giulietta lo sposa. La nascita del bambino, però, e le sincere prove di devozione del conte indurranno la marchesa, un anno dopo, a ricambiare finalmente il suo amore.

"Tratto da un racconto di Heinrich von Kleist, il film è opera deliziosa sotto ogni aspetto - dalla ricostruzione di ambienti e costumi che ci appaiono incredibilmente remoti al disegno dei personaggi, dalla perfezione del ritmo alla finezza dell'interpretazione. Il suo maggior fascino, tuttavia, lo trae dal sublime distacco, che non è però freddezza, con cui il regista osserva e descrive i tormenti della sua eroina, dei suoi familiari, del conte, attento a rilevarne sia gli aspetti melodrammatici, sua quelli comici".

('Segnalazioni cinematografiche', vol. 84, 1978)

“Tra i preziosi racconti di Heinrich von Kleist (1777-1811) La marchesa von O. costituisce, certo, un esempio insuperabile di sapienza narrativa e, insieme, di efficacia drammaturgica. L’ha intuito perfettamente Eric Rohmer che, dopo essersi cimentato in molteplici storie di sapore erotico-sentimentale (i celebri racconti morali), ha posto mano con tono calibrato, felicissimo, alla trascrizione per lo schermo, appunto, dello stesso, appassionante racconto. Ricorrendo a uno scenario pressoché coincidente col testo kleistiano originario, Rohmer ridisegna così la vicenda (un po’) melodrammatica che vede coinvolti - ora nemici, ora amici - la marchesa figlia di un governatore di guarnigione che (in una delle tante guerricciole del ’700) viene violentata e messa incinta da un anonimo aggressore; un conte, a suo tempo provvido salvatore della stessa marchesa; e una serie di agnizioni che spiegheranno l’intricata tessitura di una favola morale dai risvolti ora patetici ora persino larvatamente ironici. Perfetti interpreti dei ruoli maggiori Edith Clever e Bruno Ganz. I colori teneri, sofisticati della fotografia sono di Nestor Almendros”.

(Il Giornale)

“Una volta terminata la realizzazione del lungo e maniacale progetto dei sei contes, che avrebbe fatto Rohmer? La curiosità era giustificata. Ecco, il film successivo - La Marquise d’0 ..., tratto (ma vedremo come sia improprio il termine, per difetto) dall’omonima novella di Heinrich von Kleist - imporrà il cineasta a un vasto pubblico senza mancare di sorprendere piacevolmente i suoi amici affezionati. Anzitutto affronta un testo non suo e per di più un testo letterario che lo costringerà ad abbandonare l’ambientazione contemporanea dei contes per cimentarsi con un film in costume: necessità che si svela desiderio a lungo coltivato, e che risponde alla capacità stessa del cinema di giocare con il tempo, di permettere evocazioni di epoche diverse e remote, ricostruzioni, sovrapposizioni, messe in scena di miraggi. "In ogni cineasta sonnecchia il desiderio di ricostruire mondi diversi da quelli reali, sia che si tratti di un mondo lontano, di uno futuro o di uno passato. Ma è un lusso che per lungo tempo non ho potuto permettermi perché giravo film con budgets molto limitati, mentre adesso posso girare dei film in costume" (Entretien avec Eric Rohmer, a cura di Guy Braucourt, "Ecran 76", n. 47).
Ancora. Rohmer abbandona per la prima volta la lingua francese e dirige in tedesco un cast d’attori non più amatoriali ma addirittura teatrali presi in prestito dalla Schaubuehne di Berlino di Peter Stein (Edith Clever, Bruno Ganz, Peter Luhr, Otto Sander). Anche questo dell’altra lingua è desiderio: desiderio di affrontare un significante il più possibile puro (come può esser appunto quello prodotto da una lingua sconosciuta, o almeno straniera), di fare i conti con una lettera garantita proprio nella sua letteralità (non dimentichiamo che Rohmer sta già pensando a confrontarsi con i versi medioevali del Perceval di Chrétien de Troyes): "Desideravo girare in una lingua che non fosse quella di tutti i giorni. Desidero fare un film in versi: la prosa m’infastidisce, il prosaicismo m’infastidisce, volevo uscire da un cinema prosaico. Attualmente vorrei andare oltre un linguaggio corrente, e passare attraverso una lingua straniera è un modo per allontanarmi dal francese quotidiano tramite una lingua che inoltre sia completamente scritta, una lingua da testo classico del quale non bisogna cambiare nulla. Avevo bisogno di mettere in scena un testo che potessi rispettare, ciò che non potevo fare con quelli di cui mi ero servito finora, per due ragioni: prima di tutto perché erano miei e poi perché, essendo un po’ improvvisati, permettevo agli attori di modificarli. Avevo voglia di sentirmi veramente regista. Al contrario di quei registi la cui ambizione è di essere autori, io ero un autore che soffriva per essere tale e che desiderava trovarsi di fronte ad un testo da non toccare" ("Ecran 76", cit.).
(...) Arriviamo così alla novità che fa de La Marchesa von... una delle operazioni più originali nella storia dei rapporti tra cinema e letteratura: la fedeltà assoluta al testo, a un testo preso "alla lettera".
Intento dichiarato di Rohmer è quello di mostrare come il racconto di uno scrittore di due secoli addietro (la pubblicazione di Die Marquise von 0... risale al 1810), che ovviamente ignorava il cinema, fosse "tecnicamente" una sceneggiatura quale può concepirsi, e scrivere, solo per il cinema. Nelle Notes sur la mise en scène (cfr. "L’Avant-Scène Cinéma", n. 173, 1976) insiste sulla radicale mancanza di introspezione del narratore kleistiano che "si impone di non menzionare affatto i pensieri intimi degli eroi. Tutto è descritto dall’esterno, contemplato con la stessa impassibilità dell’obiettivo della macchina da presa (...) Meglio del più minuzioso sceneggiatore, Kleist ci informa con la più esatta precisione sugli atteggiamenti, i movimenti, le espressioni dei suoi eroi. Sappiamo in ogni momento se un personaggio è in piedi, seduto o inginocchiato". E non solo. Rohmer giunge ad attribuire a Kleist una scrittura che sembra presagio della riproduzione tecnica a venire, della quale il cinema rappresenterà appunto il trionfo: il fatidico episodio del guanto, lasciato cadere dal medico che si congeda dalla marchesa, "ha senso - dichiara - solo in rapporto a un possibile film" ("Cinématographe", n. 19, cit.). Ma non è tanto la promozione di Kleist a profeta che ora interessa, quanto l’assunzione di un testo di partenza a testo "intoccabile", che Rohmer denomina possibile e necessaria "resistenza" con cui deve confrontarsi il cineasta (Ecran 76, cit.). In tal modo egli qui esaspera quella nozione del testo cui si è attenuto nel progetto dei sei racconti morali, rispetto ai quali, tuttavia, come abbiamo visto, si riservava la licenza di integrazioni e modifiche di dialoghi e passaggi, convinto che la sua narrazione non fosse mai del tutto completa né compiuta, e che c’erano dunque "cose da aggiungere" (ibidem). Da "aggiungere", invece, non ci sarebbe nulla in Kleist: "Dopo il colpo di pistola si sarebbe potuto seguire la marchesa, ma ciò avrebbe obbligato a mettere in scena un momento in cui non c’è testo. Ciò sarebbe quindi equivalso ad aggiungere qualcosa, a "fare del cinema"" (Cinématographe, n. 19, cit).
Nei sei contes moraux, l’altra identità, quella riflessa e garantita dall’autore del testo-romanzo, è stata finora l’elemento di equilibrio su cui poteva proporsi l’identità stessa di Rohmer regista. Nel momento in cui il programma in sei capitoli si rivela esaurito, all’autore, che non rinuncia certo alla sua politica (anzi, intende esasperarla fino all’assolutezza), non rimane che assumere nel luogo dell’altra identità, nell’altro discorso, un altro autore. E lo fa per poter fondare il proprio discorso. Kleist, per i motivi esposti nonché per la maniacale precisione descrittiva, ben si presta allo scopo. Ma allora è evidente come non bastava "ispirarsi" al testo letterario, e far dunque "del cinema" (cioè rinunciare - arrendendosi al modo di produzione, standardizzato - a quel discorso d’autore che Rohmer moralmente - persegue ed esteticamente rende assoluto). Occorreva invece prendere il testo alla lettera, perseguendo quel presupposto ontologico del cinema che altrove il regista aveva sempre sostenuto (cfr. a proposito di questi problemi di costituzione del soggetto-autore, E. Donda, "Nell’ontologia della fiction", Fiction, n. 2, 1977-1978). Così, paradossalmente, dal caparbio rispetto della lettera del testo non è Kleist che finisce con l’emergere e l’imporsi, ma proprio Rohmer, come autore che si valorizza nel momento in cui dichiara e pratica quella sorta di rispettosa neutralità che informerebbe la messa in scena del testo.
L’effetto di "raddoppiamento", che una tale pratica di messa in scena produce, non manca di suscitare nello spettatore una sorta di primitivo - stupore, la sensazione d’assistere, come per la prima volta, a uno spettacolo inedito che si offra pudicamente, eppure senza veli, allo sguardo: Frédéric Vitoux arriva addirittura a parlare di rivelazione (cfr. "Positif", n. 183-184), che è un termine non certo sconosciuto alla mistica (sarebbe allora più opportuno parlare direttamente di quell’epifania epifania del reale attraverso il cinema - che Rohmer ha invocato e difeso contro il nuovo corso dei "Cahiers").
Va notato come pure la promozione e il lancio del film siano stati centrati su questo aspetto di fedeltà assoluta e di provocatoria presa alla lettera del testo kleistiano. E perciò non si è esitato a sbandierare, come eccezione che rafforza l’assunto, l’unica licenza "poetica" che Rohmer si sarebbe concesso nel momento fatidico in cui l’inconsapevole Marchesa subisce la violenza carnale: in luogo di lasciarla svenuta Rohmer ha preferito vederla preda del pesante sonno provocato da un estratto di papavero (fra le cosiddette "licenze" va annoverato anche il ricorso ad un flash-back che contrasterebbe la pratica della "cronologia" che Rohmer persegue ma a cui è stato costretto dall’assunto di nulla aggiungere al testo).
Stralci fedeli del testo sono stati impiegati per i cartelli che scandiscono il film mentre, per i dialoghi, Rohmer ha trascritto i discorsi indiretti dell’opera kleistiana in dialoghi di stile diretto (operazione cui peraltro è ben esercitato visto che tutti i racconti morali sono in gran parte scritti in stile indiretto). Ne riportiamo uno stralcio per dar conto della meticolosità della operazione. Quando, ad esempio, il testo di Kleist suona: "Essa rispose, gettandogli le braccia al collo, che allora non le sarebbe apparso come un demonio se alla sua prima apparizione non le fosse sembrato un angelo", la corrispondente battuta della Marchesa interpretata da Edith Clever suonerà: "Non mi saresti sembrato un diavolo se, alla tua prima apparizione, non ti avessi preso per un angelo". La trascrizione ha generalmente comportato una condensazione del dialogo e una conseguente impressione di rapidità, di esasperata essenzialità. Il tutto ripropone gli arcaismi di una scrittura ricca di espressioni e vocaboli in disuso nel tedesco di oggi, che Rohmer ha difeso dalle pressioni della produzione tedesca che avrebbe gradito una certa "modernizzazione" del linguaggio. Le difficoltà dei dialoghi richiedevano peraltro un alto livello professionale, e anche questo è stato determinante per la scelta della Schaubuehne di Berlino.
Era prevedibile che il proporre sugli schermi - al di là dei codici dei generi dominanti, compresi quelli cui ci ha abituati una certa produzione d’autore - una messa in scena talmente rispettosa non solo degli arcaismi del dialogo, ma soprattutto dei gesti prescritti da una letterarietà romantica (quale per certi aspetti potrebbe essere definita quella di Kleist), avrebbe provocato letture di tipo estraniante, se non addirittura suscitato, come di fatto è avvenuto, ilarità e sorrisi. Ilarità e sorrisi da Rohmer stesso previsti e non temuti, come non aveva temuto quelli, in verità più contenuti, che provocò il comportamento di Trintignant in La mia notte con Maud: "La recitazione non dovrà cadere nel patetico, ma restare naturale, una naturalezza che secondo le norme attuali certamente non è tale, ma neanche è mai esistita. Eviteremo ogni spirito di parodia. Se il riso esiste, è di diversa specie: deriva dalla distanza in cui Kleist si situa per narrare la sua storia e che noi intendiamo mantenere interamente, senza allungarla o ridurla artificialmente. Speriamo che il fatto di marcare bene l’interpretazione comica, in un passo che l’autore ha voluto divertente, stemperi nello spettatore del film il riso beffardo che, più oltre, potrebbe coglierlo davanti all’arcaismo di certe espressioni: parole, gesti o mimica. Si dirà che camminiamo sul filo, ma è così che fa lo stesso Kleist" (Notes sur la mise en scène, "L’Avant-Scène Cinéma", cit.). Come per i contes anche per La Marchesa, difatti, l’economia di un certo piacere filmico si realizza soprattutto nello scarto tra le enunciazioni del personaggio e il suo comportamento, tra l’enfasi della situazione e la parsimoniosa amministrazione della recitazione. Un sottile gioco di differenze s’innesta nell’ambiguità dei registri (patetico, ironico, comico) che è propria del testo di Kleist e nell’ambiguità su cui si fonda, e si mantiene, il personaggio stesso della Marchesa nel corso di tutto il racconto”.

(Michele Mancini, Eric Rohmer, Il Castoro cinema, 1988, La Nuova Italia)

 

Una poesia al giorno

Canto CCI. Poesie varie e frammenti in verso di Giuseppe Parini (nato Giuseppe Parino, Bosisio, 23 maggio 1729 - Milano, 15 agosto 1799, dimenticato poeta e abate italiano. Membro dell'Accademia dei Trasformati, fu uno dei massimi esponenti del Neoclassicismo e dell'Illuminismo in Italia)

Viva cui piace in fra i tumulti assorto
De la cittade; e dei piacer si nutra
Che folle emulator de la natura
L’Uom fabbricossi. Io so che alfin ne sugge
Amarezza o fastidio: e so, che poi
Lungo costume che lo intrica e avvince,
Quando più n’ha desio, tornar no ’l lascia
A la madre del semplice, del puro,
Del verace piacere; alla, ohimè, tardi
Conosciuta Natura. Oh somma Diva,
Oh Venere immortale; oh de le cose
Eterna Genitrice, io te cercando,
Io te seguendo vo per ogni calle
Dove l’Uom non corrompa il tuo bel volto
E pago d’imitarti, a te non osi
Contender le tue palme; e tra vv iarti
Dall’eterno cammin, ridicoloso
Mostro facendo de la tua bellezza.
E bella in ogni parte al guardo altrui,
Tutta bella egualmente è la Natura,
Come bella tu sembri al guardo altrui.
Amabile Teresa, a cui ragiono
Nell’ozio che mi dànno i tuoi bei lumi,
Cui nemico destin veder mi toglie.
Bella è qualor d’ogni suo fasto altera
Spunta col novo sol del monte in cima,
E al suo primo spuntar giù dal pendio
Versa un torrente di volubil luce
Che abbevera le piante e i fiori e l’erbe
E gli uomini e le belve: e bella è ancora
Quando il notturno suo sidereo manto
Spande sopra le cose. E qual sul collo
Del crinito destrier bella è mai sempre
O ne la coda del pavone occhiuta,
Tal su le squame de la serpe, tale
In fra le anella de la ruca, tale
Dell’immobile ecchino è su la crosta.
Così tu, del mio core unica meta,
Così piaci mai sempre al guardo altrui,
O sia che ornata sul bel capo avvolghi
Con leggiadra testura in varii nodi
La versatile ognor dovizia immensa
De’ tuoi bruni capegli, e ’l ciglio altero,
E l’elittico assai cerchio degli occhi
E il foco de le due nere pupille
Combattano all’aperto: o sia che chiusa
Tra i domestici veli

 

Un fatto al giorno

27 ottobre 1962: l’aereo che trasportava Enrico Mattei, amministratore italiano del dopoguerra, precipitò in circostanze misteriose.

“Enrico Mattei fu assassinato, il suo caso insabbiato, i testimoni messi a tacere. Ma una cosa è certa: l’aereo su cui viaggiava il presidente dell’ENI e che cadde la sera del 27 ottobre 1962 a Bascapé, alle porte di Milano, fu sabotato.
Era un uomo che dava molto fastidio. La strategia di Mattei era volta a spezzare il monopolio delle “sette sorelle”, non soltanto per il tornaconto del nostro ente petrolifero, ma anche per stabilire rapporti nuovi tra i paesi industrializzati e i fornitori di materie prime. Una strategia semplicemente inaccettabile per le grandi compagnie petrolifere che si spartiscono le ricchezze del mondo.
Dall’inchiesta della Procura di Pavia, riaperta a metà degli anni ‘90, risulta inoltre evidente che l’insabbiamento di quel crimine fu diretto dai vertici dei servizi. Per il sostituto procuratore di Pavia Vincenzo Calia il fondatore dell’ENI fu “inequivocabilmente” vittima di un attentato. Vincenzo Calia giunge vicino alla soluzione del caso e formula l’ipotesi dell’attentato, ma non può provarla. Scrive Calia: “L’esecuzione dell’attentato venne pianificata quando fu certo che Enrico Mattei non avrebbe lasciato spontaneamente la presidenza dell’ente petrolifero di Stato”. Calia ha dimostrato che l’esplosione che abbatté il bimotore Morane-Saulnier su cui viaggiavano il presidente dell’ENI, il pilota Irnerio Bertuzzi e il giornalista americano William McHale fu causata da una bomba collocata nel carrello d’atterraggio del velivolo. Le prove contenute nelle 208 pagine del fascicolo dimostrano anche che l’inchiesta del 1962, presieduta dal generale dell’Aeronautica Ercole Savi, conclusasi dichiarando l’impossibilità di “accertare la causa” del disastro, fu in realtà un mostruoso insabbiamento.
Finora davanti alla sbarra è finito soltanto un contadino di Bascapé, Mario Ronchi, accusato di “favoreggiamento personale aggravato”. Secondo l’accusa vide l’aereo di Mattei esplodere in volo, rilasciò alcune interviste in questo senso a diversi organi di stampa e alla Rai e poi... si rimangiò tutto. Chi ha sabotato l’aereo? Chi sono i mandanti? Il pubblico ministero Calia non riesce ad accertarlo, ma è probabile che vi siano responsabilità di uomini inseriti nell’Eni e negli organi di sicurezza dello Stato. E ancora depistaggi, manipolazioni, soppressioni di prove e di documenti, pressioni che impediscono l’accertamento della verità.
Il 27 luglio 1993 dal “pentito” di mafia Gaetano Iannì giungono dichiarazioni importanti.
Secondo Iannì per l’eliminazione di Mattei ci fu un accordo tra non meglio identificati “americani” e Cosa nostra siciliana. A mettere una bomba sull’aereo di Mattei fuono alcuni uomini della famiglia mafiosa capeggiata da Giuseppe Di Cristina. Anche Tommaso Buscetta rivela che la mafia americana chiese a Cosa nostra il favore di eliminare Enrico Mattei “nell’interesse sostanziale delle maggiori compagnie petrolifere americane”. In Italia, poi, Mattei era un finanziatore della politica, nemico dei circoli economici e politici legati ai grandi interessi.
La certezza è che il presidente dell’ENI Enrico Mattei, il più potente manager di stato italiano viene ucciso la sera del 27 ottobre 1962 insieme al pilota Irnerio Bertuzzi e al giornalista americano William Mc Hale. Parallelamente all’inchiesta amministrativa condotta dall’Aeronautica Militare, la Procura di Pavia apre un’inchiesta per i reati di omicidio pluriaggravato e disastro aviatorio. L’inchiesta militare si chiude rapidamente, nel marzo 1963, senza avere sostanzialmente accertato la causa dell’incidente; Pavia chiude le indagini penali il 7 febbraio 1966, accogliendo le richieste della procura e pronunciando sentenza “di non luogo a procedere perché i fatti non sussistono”. A ridare fiato alla vicenda sul finire degli anni Settanta sono un libro e un film. Il libro, scritto da Fulvio Bellini e Alessandro Previdi, è intitolato “L’assassinio di Enrico Mattei”. Il film è “Il caso Mattei” di Francesco Rosi.
Contemporaneamente Italo Mattei, fratello di Enrico, chiede che venga istituita una commissione parlamentare di inchiesta. Sono troppi i dubbi sull’incidente e inoltre la scomparsa di Mattei ha fatto comodo a troppe persone, in Italia e all’estero, dal momento che i suoi rapporti con i paesi del terzo mondo produttori di petrolio avevano urtato il cartello petrolifero delle sette sorelle. La riapertura delle indagini viene chiesta anche da una campagna stampa del settimanale “Le ore della settimana” e da una serie di interrogazioni parlamentari. L’interesse attorno alla misteriosa fine del “re del petrolio italiano” riceve nuovo impulso dalle indagini sulla scomparsa del giornalista dell’ “Ora” di Palermo Mauro De Mauro, il 16 settembre 1970. Una delle piste seguita dall’inchiesta sulla fine di De Mauro ipotizza infatti che il giornalista palermitano sia stato sequestrato e ucciso per aver scoperto qualcosa di molto importante circa la morte del presidente dell’ENI: De Mauro aveva infatti ricevuto dal regista Rosi l’incarico di collaborare alla preparazione della sceneggiatura del film “Il caso Mattei”, ricostruendo gli ultimi due giorni di vita trascorsi dal presidente dell’ENI in Sicilia.
L’indagine sulla scomparsa di De Mauro si conclude in un nulla di fatto, nonostante la richiesta di ulteriori investigazioni formulata dal GIP di Palermo ancora nel 1991. Il procedimento viene archiviato il 18 agosto 1992: De Mauro non poteva aver scoperto nulla di particolare intorno alla morte di Enrico Mattei, dal momento che la magistratura di Pavia aveva ritenuto del tutto accidentale la natura del disastro di Bascapè. Il 20 settembre 1994 il gip di Pavia autorizza la riapertura delle indagini nei confronti di ignoti. La riapertura era stata chiesta dalla procura pavese che, per competenza, aveva ricevuto dalla procura di Caltanisetta l’estratto delle dichiarazioni rese da un pentito di mafia. Il 5 novembre 1997 il pubblico ministero di Pavia Vincenzo Calia giunge a questa conclusione: “l’aereo, a bordo del quale viaggiavano Enrico Mattei, William Mc Hale e Inrneio Bertuzzi, venne dolosamente abbattuto nel cielo di Bascapè la sera del 27 ottobre 1962. Il mezzo utilizzato fu una limitata carica esplosiva, probabilmente innescata dal comando che abbassava il carrello e apriva i portelloni di chiusura dei loro alloggiamenti”. Di più non si riesce a scoprire e le domande rimangono. Enrico Mattei stava per spezzare la morsa costruita attorno a lui dal cartello petrolifero che escluse l’ENI dal mercato petrolifero internazionale, negandogli concessioni nei paesi produttori alla pari con le altre compagnie petrolifere. Mattei allora dichiarò guerra al sistema neocoloniale delle concessioni, offrendo ai paesi produttori un accordo rivoluzionario, il 75% dei profitti contro il 50% finora offerto dalle compagnie, e la qualificazione della forza lavoro locale. Il cartello reagì furiosamente, giungendo a rovesciare governi, come quello libico, che avevano accettato l’offerta e aperto all’ENI prospettive di grandi forniture. Nel 1962, quando si andava prospettando la soluzione della questione algerina, Mattei era riuscito ad aggirare il blocco.
Sostenendo il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN), Mattei aveva ipotecato un trattamento preferenziale verso l’ENI dal futuro governo. Si pensava allora che l’Algeria possedesse, al confine con la Libia, le più vaste riserve di petrolio inesplorate del mondo. Parallelamente a Mattei si mosse De Gaulle, che decise di riconoscere l’indipendenza algerina. Come contropartita, la compagnia petrolifera francese ottenne gli stessi privilegi dell’ENI. L’ingresso trionfale dell’ENI sul mercato petrolifero era quindi quasi assicurato.
Non solo, l’Executive Intelligence Review, attraverso una ricostruzione minuziosa del caso Mattei, afferma che il presidente dell’Eni, alla fine, era riuscito ad aprire un dialogo con la Casa Bianca, nonostante la stampa internazionale avesse dipinto Mattei come un pericoloso sovversivo anti-americano. Mattei, per l’Eir, era riuscito a far capire alla nuova amministrazione Kennedy che tutto ciò che desiderava era essere trattato alla pari, che egli non ce l’aveva con l’America ma con i metodi coloniali applicati dalle “sette sorelle” del petrolio. L’amministrazione Kennedy accettò il dialogo e fece pressioni su una compagnia petrolifera, la Exxon, per concedere all’Eni dei diritti di sfruttamento. L’accordo sarebbe stato celebrato con la visita di Mattei a Washington, dove avrebbe incontrato il Presidente Usa e ottenuto il conferimento di una laurea honoris causa da parte di una prestigiosa università statunitense.
Alla vigilia di quel viaggio, il 27 ottobre 1962, Mattei fu assassinato. Un anno dopo, fu ucciso Kennedy. In un rapporto confidenziale del Foreign Office del 19 luglio 1962, si leggeva che “il Matteismo” era “potenzialmente molto pericoloso per tutte le compagnie petrolifere che operano nell’ambito della libera concorrenza (...). Non è un’esagerazione asserire che il successo della politica ‘Matteista’ rappresenta la distruzione del sistema libero petrolifero in tutto il mondo”. E quindi Mattei andava eliminato, in un modo o nell’altro”.

(Eufemia Riannetti su www.altrainformazione.it)

 

Una frase al giorno

“Se non studio un giorno, me ne accorgo io. Se non studio due giorni, se ne accorge il pubblico”.

(Niccolò Paganini, 1782-1840, violinista e compositore italiano)

Da ascoltare: Nicolò Paganini, “Sonata Napoleone”. Violinista Salvatore Accardo con la London Philharmonic Orchestra, diretta da Charles Dutoit, tratto da un vinile di Deutsche Grammophon del 1977

 

Un brano al giorno

Johann Gottlieb Graun, Concerto per violino in Re minore

Orchestra dell'Accademia di Vienna. Martin Haselböck, direttore
I. Allegro 00:00
II. Adagio 05:37
III. Allegro assai 11:07

“Johann Gottlieb Graun (Wahrenbruck, 28 ottobre 1703 - Berlino, 27 ottobre 1771) è stato un compositore tedesco. Era uno dei più grandi virtuosi e dei migliori compositori del suo tempo. Le sue opere di cui, vivente l'autore, furono stampati solo sei trii per clavicembalo con violino a Merseburgo nel 1726, consistono per la maggior parte in Messe e in Salve Regina ma quelle che vengono più stimate sono i concerti per violino, (se ne conoscono 24), i suoi concerti doppi per violoncello e viola da gamba e le sue circa 36 sinfonie”.

(Wikipedia)

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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