“L’amico del popolo”, 28 aprile 2020

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno IV. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

DOMENICA D'AGOSTO (Italia, 1950), regia Luciano Emmer. Soggetto: Sergio Amidei. Sceneggiatura: Franco Brusati, Luciano Emmer, Giulio Macchi, Cesare Zavattini. Casa di produzione: Colonna Film. Fotografia: Domenico Scala, Leonida Barboni, Ubaldo Marelli. Montaggio: Jolanda Benvenuti. Musiche: Roman Vlad. Cast: Anna Baldini, Marcella Meloni. Franco Interlenghi, Enrico. Elvy Lissiak, Luciana. Massimo Serato, Roberto. Mario Vitale, Renato. Emilio Cigoli, Alberto Mantovani. Marcello Mastroianni, Ercole Nardi. Anna Medici, Rosetta. Andrea Compagnoni, Cesare Meloni. Ave Ninchi, Fernanda Meloni. Pina Malgarini, Ines. Salvo Libassi, Perrone. Jone Morino, Mesmè. Vera Carmi, Adriana. Nora Sangro, Nora. Anna Di Leo, Jolanda. Fernando Milani, Catone. Corrado Verga, barone Silvestri. Aldo Bettoni.

“Il lido di Ostia, in una domenica qualsiasi del mese di agosto. Persone di diverse estrazioni sociali si dirigono verso la spiaggia per sfuggire alla calura cittadina. Nell'arco della giornata si compiono i destini di tutti: un disoccupato diventa rapinatore e viene arrestato, una ragazza e il suo corteggiatore, dopo essersi ingannati vicendevolmente, si scoprono poveracci e non milionari come avevano tentato di darsi ad intendere, una ricca signora scopre che il suo appartamento è andato a fuoco.

È il primo film del genere "spiaggia", poi ripreso (anche troppo) negli anni Sessanta. Ma qui c'è molto di più: i toni del neorealismo sono ancora vigorosi e attendibili, i ritmi del racconto straordinariamente equilibrati. Da ricordare l'interpretazione di Emilio Cigoli, il grande doppiatore, nella parte del papà affettuoso.”

(In www.mymovies.it)

DOMENICA D'AGOSTO (Italia, 1950), regia Luciano Emmer

“Una domenica di ferragosto sulla spiaggia di Ostia, tra la folla romana popolare degli anni del dopoguerra. Emmer vi si rivela osservatore e narratore acuto e affettuoso, che non raggiunge certo lo studio sociologico e che porta il segno del populismo ottimistico di certo neorealismo, ma con levità e senza predicazioni. Dei molti bozzetti, quasi tutti riusciti, uno (il breve incontro interrotto di due giovani che scoprono a sera di essere in realtà vicini di casa) sembra ripreso da Primo amore di Fejos.”

(Georges Sadoul)

“Sergio Amidei è stato, fino a ieri, uno dei nostri più solerti sceneggiatori, e ora, con questo film, si presenta come produttore. Ha voluto fare un film di costo assai modico, e vi è riuscito. Un film saporito, e il sapore c'è.. Un, film, alla sua maniera, audace, e di audacia ce n'è davvero voluta, sia per la formula del film in sé, sia per il regista scelto poi ad attuarla. La formula è quella dell'apparente reportage. Una domenica d'agosto, a Ostia. Individuare, fra quelle migliaia e migliaia di romani accaldati, starnazzanti, vocianti, bagnanti, individuare quattro o cinque gruppi degni di essere seguiti nelle loro domenicali vicende; alternare, intersecare l'una con l'altra vicenda, in un gioco ora d'intarsio, ora di caleidoscopio; e tutto ciò.”

(Mario Gromo, La Stampa)

DOMENICA D'AGOSTO (Italia, 1950), regia Luciano Emmer

“Dopo una serie di cortometraggi e di documentari d’arte realizzati con Enrico Gras tra il 1938 e il 1948, Domenica d’agosto segnò la prima incursione di Emmer in un genere che avrebbe dominato la sua prolifica produzione degli anni Cinquanta.

Nel 1949, quando il neorealismo italiano era ancora molto popolare oltreoceano, Sergio Amidei riuscì a procurarsi le risorse finanziarie per produrre un film diretto da Emmer e co-sceneggiato dallo stesso Amidei. La semplice e vaga premessa del film è enunciata fin dal titolo: Una Domenica d’agosto. Emmer non aveva in mente né un film a episodi né un documentario, ma, come ebbe a dire, “un resoconto drammatico di quella giornata e di quelle persone, le cui vite si incrociano per opera del fato o del caso”. Voleva, disse, che il film fosse “il più possibile schietto e sincero” e che iniziasse con “un soggetto ridotto al minimo e destinato ad arricchirsi con il progredire del film, racchiudendo i fatti o i personaggi che man mano si presentavano”. Alla sceneggiatura, completata in sole due settimane, lavorarono anche Franco Brusati, Giulio Macchi e il grande Cesare Zavattini.

DOMENICA D'AGOSTO (Italia, 1950), regia Luciano Emmer

Domenica d’agosto è un film meraviglioso in cui si intrecciano cinque storie di personaggi che in una torrida domenica estiva lasciano Roma per cercare refrigerio a Ostia: una ragazza e la sua famiglia, un vigile e la sua fidanzata, un ragazzo con gli amici, un giovane e la sua ex, un vedovo e la giovane figlia. Benché il film sia un indubbio precursore della popolare commedia all’italiana, la sua estetica resta saldamente ancorata al neorealismo e al cinema documentario. Il film fu girato interamente in esterni, e furono realizzati molti provini per trovare attori non professionisti e poco noti che rendessero verosimile la storia tutta incentrata sulle vite di persone normali. Tuttavia, a proposito del film, si è spesso parlato di neorealismo rosa, sottogenere di breve durata caratterizzato da un tono più lieve e maggiormente in sintonia con la ripresa del paese.

Il cast comprende Mario Vitale, marito di Ingrid Bergman in Stromboli; Franco Interlenghi di Sciuscià; Massimo Serato, che per un breve periodo era stato sposato con Anna Magnani; Emilio Cigoli di I bambini ci guardano; e un Marcello Mastroianni ancora agli esordi, tanto da essere doppiato da Alberto Sordi.”

(Neil McGlone in festival.ilcinemaritrovato.it)

DOMENICA D'AGOSTO (Italia, 1950), regia Luciano Emmer 

“Pensare che Emmer fu stigmatizzato per aver tradito la drammaticità neorealista e inaugurato la leggerezza della commedia all’italiana. Ma nel 1950 era in agguato il miracolo economico.
Sono rimasto senza occhiali, quelli da vicino, li ho persi in un bosco. Non è una buona idea perdere gli occhiali in agosto. Si può sempre guardare la televisione, con gli occhiali da lontano. Ieri mattina c’era un famoso film di Luciano Emmer, Domenica d’agosto, uscito all’inizio del 1950, in bianco e nero, all’origine, in bianco e grigio oggi. Bel ripasso. C’è Franco Interlenghi diciottenne, ne mostra quindici. Va e torna da Ostia in bicicletta, con un fratellino sulla canna, mentre accanto sfrecciano le Vespe. C’è una Anna Baldini al suo unico film, a quindici anni, ne mostra sedici. C’è una rapina fallita al mattatoio di Testaccio, muggiti e sparatorie. C’è la spiaggia di Ostia, i bagni per i ricchi, coi pattìni, e quelli per i poveri, e un tratto inaccessibile perché non è stato ancora sminato. C’è Marcello Mastroianni, in divisa da pizzardone, ma è doppiato da Alberto Sordi. C’è il produttore viscido che vuole farsi una bella cassiera, triste per amore. C’è una domestica licenziata e incinta di Mastroianni, forse si sposeranno, non è detto. Ci sono le bambine della colonia con le suore. Donne in costume, piuttosto in carne. Uomini grassi in canottiera, magri in camicia bianca, coi capelli lisci e i baffetti. Ci sono molti costumi di lana pesante, per uomini e donne, che l’acqua del mare rende ancora più pesanti e grondanti. Ci sono i millantatori, quasi tutti, le signore ricche non più giovani e già avare, i mantenuti dalla capigliatura a onda, gli aristocratici cretini e cinici, che lo sanno. E pensare che Emmer fu stigmatizzato per aver tradito la drammaticità neorealista e inaugurato la leggerezza della commedia all’italiana. La volgarità c’era già tutta, era una volgarità rudimentale se non innocente, era in agguato il miracolo economico. Un paese che poteva mettere la voce di Sordi sulla faccia di Mastroianni: un patrimonio colossale che aspettava solo di essere diviso, investito e messo a frutto. Dietro chiunque facesse una telefonata a gettone c’era qualcuno che aspettava impaziente che finisse, per telefonare lui.”

(Adriano Sofri in www.ilfoglio.it)

 

 

Un’attrice non protagonista: Jone Morino (Roma, 28 aprile 1896 - Roma, 14 settembre 1978) “Nata a Roma, la Morino entra da adolescente nel mondo del teatro, prima con Eleonora Duse, negli anni successivi è nella Compagnia del Teatro Moderno diretto da Luigi Antonelli, poi recita con Ruggero Ruggeri, Nino Besozzi e Lamberto Picasso.

Negli anni Trenta inizia a partecipare alla prosa radiofonica dell'EIAR, proseguendo l'attività davanti ai microfoni della RAI, all'interno della Compagnia di Prosa della Radio Italiana, sino agli anni '60, in commedie e radiodrammi. Era nella Trilogia della villeggiatura di Carlo Goldoni, regia di Giorgio Strehler, che esordì al Piccolo Teatro di Milano, 22 novembre 1954.

Chiamata a insegnare recitazione all'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica Silvio D'Amico, negli anni che vanno dal 1953 al 1969, avrà modo di avviare all'arte due generazioni di attori.

Debutta nel cinema al tempo del muto nel 1920, con il regista Gian Olando Vassallo nel film La sorella, proseguirà a lavorare davanti alla cinepresa, in parti secondarie, in un discreto numero di film sino al 1957, diretta da registi come Gennaro Righelli, Luciano Emmer, Camillo Mastrocinque, Mario Soldati e Luigi Zampa.

Ricoverata in una casa di riposo per anziani, affetta da una grave forma di depressione, decide di suicidarsi lasciandosi cadere nel Tevere, all'età di 82 anni.”

(In wikipedia.org)

 

DOMENICA D'AGOSTO (Italia, 1950), regia Luciano Emmer

 

Una poesia al giorno

L'Uomo Approssimativo, Incipit e canto I, di Tristan Tzara (traduzione e testo completo in alelex13.blogspot.com)

suonate campane senza ragione, e anche noi!
io parlo di chi parla chi parla sono io solo

io non sono che un piccolo rumore e ho numerosi rumori in me
io penso al calore che tesse la parola
attorno al suo nocciolo: il sogno che si chiama noi

*

domenica pesante coperchio sul ribollire del sangue
peso settimanale accoccolato sui suoi muscoli
sprofondato dentro se stesso ritrovato
le campane suonano senza ragione, e anche noi!
suonate campane senza ragione, e anche noi!
noi ci rallegreremo al rumore delle catene
che faremo suonare dentro noi con le campane

*

qual è questo linguaggio che ci frusta sussultiamo nella luce
i nostri nervi sono delle fruste tra le mani del tempo
e il dubbio arriva con una sola ala incolore
avvinghiandosi comprimendosi frantumandosi in noi
come la carta stropicciata dell’imballaggio sfatto
regalo di un’altra età allo scorrere dei pesci d’amarezza

*

le campane suonano senza alcuna ragione, e anche noi!
gli occhi dei frutti ci fissano attentamente
e tutte le nostre azioni sono controllate: non c’è nulla di nascosto
l’acqua del ruscello ha tanto lavato il suo letto
ha trasportato i dolci figli degli sguardi che hanno trascinato
ai piedi dei muri nei bistrò leccato dalle vie
allettato i deboli allacciato dalle tentazioni prosciugato dalle estasi
affossato al fondo delle vecchie varianti
e allentato le fonti delle lacrime prigioniere
le fonti asservite ai soffocamenti quotidiani
gli sguardi che prendono con delle mani disseccate
il chiaro prodotto del giorno o l’ombrosa apparizione
che danno l’affannata ricchezza del sorriso
avvinghiata come un fiore all’occhiello del mattino
coloro che domandano il riposo o la voluttà
i tocchi di elettriche vibrazioni i sussulti
le avventure il fuoco la certezza o la schiavitù
gli sguardi che hanno strisciato lungo dei discreti tormenti
usato i pavimenti delle città ed espiato numerose bassezze con le elemosine
si seguono serrati attorno a dei nastri d’acqua
e scorrono verso i mari trasportando al loro passaggio
le macerie umane e i loro miraggi

*

l’acqua del ruscello ha tanto lavato il suo letto
che anche la luce scivola sull’onda liscia
e cade a fondo con il pesante scintillio delle pietre

*

le campane suonano senza alcuna ragione, e anche noi!
i pensieri che ci portiamo con noi
che sono i nostri vestiti interiori
che ci mettiamo tutte le mattine
che la notte disfa con mani di sogno
ornati d’inutili rebus metallici
purificati nel bagno dei paesaggi circolari
nelle città preparate alla carneficina al sacrificio
nelle vicinanze dei mari dalle spazzate di prospettive
sulle montagne dalle inquiete severità
nei villaggi dalle dolorose indifferenze
la mano pesante sulla testa
le campane suonano senza alcuna ragione, e anche noi!
noi partiamo con le partenze arriviamo con gli arrivi
partiamo con gli arrivi arriviamo quando gli altri partono
senza alcuna ragione un po’ secchi un po’ duri severi
pane nutrimento più del pane che accompagna
la canzone gustosa sulla gamma della lingua
i colori posano il loro peso e pensano
e pensano o gridano e restano e si nutrono
di frutti leggeri come il fumo si librano
che pensa al calore che tesse la parola
attorno al suo nocciolo: il sogno che si chiama noi

*

le campane suonano senza alcuna ragione, e anche noi!
noi camminiamo per sfuggire al formicolio delle strade
con un fiasco di paesaggio una malattia una sola
una sola malattia che coltiviamo la morte
io so che ne porto in me la melodia e non ne ho paura
io porto la morte e se muoio è la morte
che mi porterà tra le sue braccia impercettibili
minute e leggere come l’odore dell’erba sottile
minute e leggere come una partenza senza motivo
senza amarezza senza debiti senza rimpianto senza
le campane suonano senza alcuna ragione, e anche noi!
perché cercare l’estremo della catena che ci lega alla catena?
suonate campane senza ragione, e anche noi!
faremo risuonare in noi i vetri infranti
le monete d’argento mischiate alle monete false
le macerie delle feste esplose in risa e in tempesta
alle porte delle quali potrebbero aprirsi i baratri
i sepolcri d’aria i mulini che macinano le ossa artiche
queste feste che ci levano le teste al cielo
e sputano sui nostri muscoli la notte di piombo fuso

*

io parlo di chi parla chi parla sono io solo
io non sono che un piccolo rumore e ho numerosi rumori in me
un rumore ghiacciato sgualcito al crocicchio gettato sul marciapiede bagnato
ai piedi di uomini affrettati mentre corrono con le loro morti
attorno alla morte che stende le sue braccia
sul quadrante di quell’ora sola che vive al sole

*

il soffio oscuro della notte s’infoltisce
e lungo le vene cantano flauti marini
trasposte sulle ottave dei molteplici strati di esistenze
le vite si ripetono all’infinito fino alla magrezza atomica
e in alto tanto in alto che non possiamo nemmeno vedere
e con queste vite a fianco che non vediamo
l’ultravioletto di così tante vie parallele
quelle che noi avremmo potuto prendere
quelle per le quali noi avremmo potuto non venire al mondo
o esserne già partiti da tempo da così tanto tempo
che ci si sarebbe dimenticati sia l’epoca sia la terra che ci avrebbe succhiato la carne
sali e metalli liquidi limpidi nel fondo di pozzi

*

io penso al calore che tesse la parola
attorno al suo nocciolo: il sogno che si chiama noi

 

Tristan Tzara (28 aprile 1896 - 25 dicembre 1963) fu un poeta d'avanguardia rumeno e francese, saggista e performer. Attivo anche come giornalista, drammaturgo, letterato e critico d'arte, compositore e regista, fu uno dei fondatori e figure centrali del movimento anti-establishment Dada

Tristan Tzara (nato Samuel o Samy Rosenstock, noto anche come S. Samyro; 28 aprile 1896 - 25 dicembre 1963) fu un poeta d'avanguardia rumeno e francese, saggista e performer. Attivo anche come giornalista, drammaturgo, letterato e critico d'arte, compositore e regista, era conosciuto soprattutto per essere stato uno dei fondatori e figure centrali del movimento anti-establishment Dada. Sotto l'influenza di Adrian Maniu, l'adolescente Tzara si interessò al simbolismo e co-fondò la rivista Simbolul con Ion Vinea (con il quale scrisse anche poesie sperimentali) e il pittore Marcel Janco. Durante la prima guerra mondiale, dopo aver brevemente collaborato alla Chemarea di Vinea, si unì a Janco in Svizzera. Lì, gli spettacoli di Tzara al Cabaret Voltaire e Zunfthaus zur Waag, così come i suoi spettacoli di poesia e arte, sono diventati una caratteristica principale del primo dadaismo. Il suo lavoro rappresentava il lato nichilista di Dada, in contrasto con l'approccio più moderato favorito da Hugo Ball.

Dopo essersi trasferito a Parigi nel 1919, Tzara, allora uno dei "presidenti di Dada", si unì allo staff della rivista Littérature, che segnò il primo passo nell'evoluzione del movimento verso il surrealismo. Fu coinvolto nelle principali polemiche che portarono alla divisione di Dada, difendendo i suoi principi contro André Breton e Francis Picabia e, in Romania, contro l'eclettico modernismo di Vinea e Janco. Questa visione personale sull'arte ha definito le sue opere dadaista The Gas Heart (1921) e Handkerchief of Clouds (1924). Un precursore delle tecniche automatistiche, Tzara alla fine si è allineato con il surrealismo bretone, e sotto la sua influenza ha scritto il suo celebre poema utopico The Approximate Man.

Durante la parte finale della sua carriera, Tzara ha combinato la sua prospettiva umanista e antifascista con una visione comunista, unendosi ai repubblicani nella guerra civile spagnola e alla resistenza francese durante la seconda guerra mondiale, e scontando un mandato all'Assemblea nazionale. Avendo parlato a favore della liberalizzazione nella Repubblica popolare ungherese poco prima della Rivoluzione del 1956, prese le distanze dal Partito Comunista Francese, di cui era allora membro. Nel 1960, fu tra gli intellettuali che protestarono contro le azioni francesi nella guerra algerina.

Tristan Tzara è stato un autore influente e performer, il cui contributo è accreditato per aver creato una connessione tra cubismo e futurismo con Beat Generation, Situationism e varie correnti nella musica rock. Amica e collaboratrice di molte figure moderniste, era l'amante della ballerina Maja Kruscek nella sua prima giovinezza e in seguito fu sposata con l'artista e poetessa svedese Greta Knutson.

(In wikipedia.org)

Tristan Tzara (28 aprile 1896 - 25 dicembre 1963) fu un poeta d'avanguardia rumeno e francese, saggista e performer. Attivo anche come giornalista, drammaturgo, letterato e critico d'arte, compositore e regista, fu uno dei fondatori e figure centrali del movimento anti-establishment Dada

Il movimento Dada nacque a Zurigo durante la prima guerra mondiale: Tzara scrisse i primi testi Dada, La première aventure céleste de Monsieur Antipyrine (1916), Vingt-cinq poèmes (1918) e il manifesto del movimento, Sept manifestes Dada (1924). A Parigi, assieme alla moglie Greta Knutson e ad altri artisti come André Breton, Philippe Soupault e Louis Aragon, fu protagonista di attività artistiche rivoluzionarie con l'intento di scioccare il pubblico e di disintegrare le strutture del linguaggio. Nel 1921 si distinse anche nel mondo del teatro con la sua grande opera Cuore a gas, in cui i personaggi sono parti del corpo, che comunicano con il pubblico coinvolgendolo nella rappresentazione teatrale.

Alla fine del 1929, stanco del nichilismo e del distruzionismo, si unì ai suoi amici nelle attività più costruttive del surrealismo. Si spese per conciliare il surrealismo con il marxismo ed entrò a far parte del Partito Comunista Francese nel 1937. Combatté in Spagna per la repubblica contro i franchisti e fu un attivo resistente francese nella Seconda guerra mondiale. Secondo Arturo Schwarz fu agente della polizia segreta stalinista e denunciò i poeti surrealisti trotskisti che l'avevano ospitato a Praga e a Belgrado, che furono tutti fucilati. Lasciò il partito nel 1956, in protesta contro la repressione Sovietica della Rivoluzione Ungherese.

I suoi ideali politici lo portarono poco a poco a divenire un poeta lirico. Le sue poesie narrano l'angoscia della sua anima, intrappolata tra rivolta e meraviglia nella tragedia quotidiana della condizione umana. I suoi lavori più maturi sono considerati L'Homme approximatif (1931), Parler seul (1950) e La face intérieure (1953), dove le parole, affiancate in modo anarchico nel Dada, sono sostituite da un linguaggio ancora difficile ma più esplicito.

Morì a Parigi nel 1963. Il suo corpo è interrato nel Cimitero di Montparnasse.”

(In wikipedia.org)

Tristan Tzara (28 aprile 1896 - 25 dicembre 1963) fu un poeta d'avanguardia rumeno e francese, saggista e performer. Attivo anche come giornalista, drammaturgo, letterato e critico d'arte, compositore e regista, fu uno dei fondatori e figure centrali del movimento anti-establishment Dada

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Un fatto al giorno

28 aprile 1794: I Sardi, guidati da Giovanni Maria Angioy, iniziano una rivoluzione contro il dominio sabaudo, espellendo il viceré Balbiano e i suoi funzionari da Cagliari, la capitale e la città più grande dell'isola. L'insurrezione contro il viceré Balbiano è passata alla storia come i Vespri Sardi.

“I moti rivoluzionari sardi, noti anche come i vespri sardi, furono una ribellione all'autorità sabauda avvenuta in Sardegna nel 1794. Nel 1793 l'esercito repubblicano francese aveva cercato di invadere la Sardegna per poter controllare il Mediterraneo occidentale. La Francia repubblicana era allora vista come una potenza in ascesa. La Sardegna era passata a Casa Savoia nel 1720 dopo secoli di dominazione spagnola. I Savoia e il governo sabaudo (che aveva sede a Torino) non erano stati in grado o non avevano avuto intenzione di approntare le difese della Sardegna in vista di questa temuta invasione francese. I sardi tuttavia organizzarono un esercito di volontari reclutati dai villaggi e dalle città e il cui equipaggiamento venne pagato da volontarie donazioni delle figure più importanti nella società sarda (tra questi il vescovo di Cagliari e il magistrato della Reale Udienza, Giovanni Maria Angioy).

Nel gennaio del 1793 una flotta francese arrivò nel Golfo di Cagliari. Precedentemente i francesi avevano conquistato senza difficoltà l'isola di San Pietro e Carloforte dove erano stati accolti favorevolmente dalla popolazione locale. Anche in seguito a questa iniziale accoglienza, e sapendo che l'amministrazione piemontese non era pronta a una strenua difesa, i francesi pensavano di trattare una resa di Cagliari senza dover combattere. A questo scopo, appena in vista di Cagliari i francesi inviarono una delegazione a riva per trattare le condizioni di resa, ma questa delegazione venne respinta immediatamente. I francesi allora bombardarono Cagliari dal mare (alcune delle palle di cannone francesi sono ancora visibili sul muro di Palazzo Boyl nel quartiere di Castello a Cagliari). Nonostante un massiccio bombardamento la città resistette e l'esercito sardo prese coraggio. I francesi si prepararono allora allo sbarco e ad una invasione. Lo sbarco delle truppe avvenne nella località di Margine Rosso, attualmente facente parte del litorale di Quartu Sant'Elena.

Il piano dei francesi era di inviare contingenti lungo il litorale per prendere possesso delle fortificazioni sul colle di Sant'Elia da cui avrebbero poi potuto bombardare la città. Altre truppe avrebbero dovuto prendere possesso del villaggio di Quartu Sant'Elena da cui avrebbero iniziato la conquista del resto dell'isola marciando nella piana del Campidano. Tuttavia i francesi vennero sconfitti dai sardi anche grazie ad alcuni eventi fortuiti (le truppe francesi non avevano approntato l'occupazione accuratamente e non avevano buona conoscenza dei luoghi: nella notte del 13 febbraio questa impreparazione determinò che alcuni plotoni francesi aprissero il fuoco su plotoni amici scambiandoli per l'esercito nemico). Il 14 febbraio 1794 i francesi imbarcarono le truppe e abbandonarono il piano di conquistare Cagliari. Nel nord della Sardegna, truppe provenienti dalla Corsica, che vedevano tra i componenti anche il giovane Napoleone Bonaparte avrebbero dovuto iniziare la conquista del nord dell'isola, ma anche queste furono respinte. La vittoria dell'esercito approntato dai sardi di fronte ad una delle potenze europee più temute fu uno dei catalizzatori delle rivendicazioni della classe dirigente sarda e dei popolani che parteciparono alla difesa della Sardegna.

Il re Vittorio Amedeo III di Savoia volle premiare i sudditi che avevano respinto il pericolo di invasione. Nelle ricompense, però, vennero favoriti i piemontesi e non i sardi che invece avevano approntato un esercito e avevano combattuto. Le ricompense per i sardi furono:

  • 24 doti da 60 scudi da distribuire ogni anno alle zitelle povere.
  • La fondazione di 4 posti gratuiti per il Collegio dei Nobili di Cagliari.
  • La concessione di 2 posti del Collegio dei Nobili di Torino.
  • La concessione di 1000 scudi all'anno per l'Ospedale civile di Cagliari.
  • L'amnistia per tutti i crimini commessi prima della guerra.

In particolare, i volontari che avevano partecipato alla difesa della Sardegna non avevano ricevuto i compensi sperati, e questo fu un altro motivo di malumore che si ripercosse nei villaggi da cui i volontari provenivano.

(...)

(Leggi tutto l’articolo in wikipedia.org)

Ingresso a Sassari di G. M. Angioy, di Giuseppe Sciuti, 1879

“Sa die de sa Sardigna è la festa del popolo sardo che ricorda i cosiddetti "Vespri Sardi", cioè l'insurrezione popolare del 28 aprile 1794 con il quale si allontanarono da Cagliari i Piemontesi e il viceré Balbiano in seguito al rifiuto del governo torinese di soddisfare le richieste dell'isola titolare del Regno di Sardegna.

I Sardi chiedevano che venisse loro riservata una parte degli impieghi civili e militari e una maggiore autonomia rispetto alle decisioni della classe dirigente locale. Il governo piemontese rifiutò di accogliere qualsiasi richiesta, perciò la borghesia cittadina con l'aiuto del resto della popolazione scatenò il moto insurrezionale.”

(In www.sardegnacultura.it)

“…L’avversione contro i Piemontesi non era ormai una questione d’impieghi, come già durante l’ultimo periodo della signoria spagnola e come hanno fatto credere i dispacci del viceré Balbiano e la richiesta degli stamenti. I Sardi volevano liberarsene, non solo perché essi simboleggiavano un dominio sempre più anacronistico, avverso all’Autonomia e contrario allo stesso progresso dell’isola; ma pure e forse soprattutto, per esserne ormai insopportabile l’albagia e la sprezzante invadenza.

Lo stesso Manno non concesse attenuanti all’esasperante ostentazione dei Piemontesi, « i quali erano montati in tale tracotanza, che il loro contegno, incominciato da qualche anno a sussiego, era finalmente degenerato in beffa » - « Quasi giunto perfino a dar cadenza e ritmo a quelle villanie (motti che deridevano i Sardi) in alcuni versi da colascione che cantavansi obbrobriosamente nel palazzo stesso del viceré ».

Ma nulla meglio di alcune strofe dell’Innu de su Patriottu Sardu scritto in quegli anni ci fanno comprendere lo stato d’animo dei Sardi alla vigilia dei moti cagliaritani.

Fi’ pro sos Piemontesos
Sa Sardigna una cucagna;
Che in sa Indias s’Ispagna
Issos s’incontrant inoghe;
Nos alzaia’ sa ‘oghe
Finzas unu camareri;
O plebeu o cavaglieri,
Si deviat umiliare.

Issos dae Gusta terra
Ch’ana ‘ogadu miliones.
Benian senza calzones
E si nd’andaian gallonados.
Mai ch’ esserent istados
Chi c’ ana postu su fogu!
Malaitu cuddu logu
Chi creia’ tale Zenia!
Issos inoghe incontràna
Vantaggiosos imeneos,
Pro issos fin sos impleos,
Pro issos fin sos onores,
Sa dignidades mazores
De cheia, toga e ispada:
E a su Sardu restàda
Una fune a s’impiccare.

Sos disculos nos mandàna
Pro castigu e curressione,
Cun paga e cun pensione,
Cun impleu e cun patente.
In Moscovia tale zente
Si mandat a Siberia,
Pro chi morza’ de miseria,
Però non pro guvernare.

La scintilla dell’insurrezione di Cagliari giunse da Torino e fu una lettera del Pitzolo, che, deluso ed esasperato della subdola politica del sovrano e del suo governo, scriveva agli amici che non v’era ormai più nulla da sperare dal dispotismo piemontese ed era necessario un gesto coraggioso, dimostrazione di forza e di volontà. È opinione del Manno che non sarebbe stato il messaggio del Pitzolo a suscitare la sommossa cagliaritana, in quanto « il tumulto era stato premeditato in una congiurazione fatta di proposito, con lo scopo determinato di allontanare dall’isola tutti i pubblici ufficiali stranieri ». Non in ogni caso tuttavia, poiché probabilmente non sarebbe avvenuto se le decisioni di Torino fossero state favorevoli ai desideri espressi nel memoriale; non necessario, sarebbe stato per giunta controproducente.”

(Articolo completo in: truncare.myblog.it)

 

Una frase al giorno

“I have a divine duty, setting out on my mission to become a person.” (Ho un dovere divino, partire per la mia missione di diventare una persona)

(Na Hye-sok, Suwon, 28 aprile 1896 - Seul, 10 dicembre 1948, è stata una pittrice, scrittrice, poetessa e attivista femminista coreana)


Na Hye-sok, Suwon, 28 aprile 1896 - Seul, 10 dicembre 1948, è stata una pittrice, scrittrice, poetessa e attivista femminista coreana 

Na Hyeso˘ k (1896-1948), la cosiddetta "Nora coreana" della Corea coloniale, sfidò le convenzioni patriarcali esistenti e cercò di smantellare i miti androcentrici. Nel suo poema, "A Doll’s Song" (1921), un adattamento della commedia di Henrik Ibsen, A Doll’s House, esclama: "Ho un dovere divino, partendo per la mia missione di diventare una persona". Il suo femminismo era un tema comune tra le donne neo-coreane e il suo compito era quello condiviso con le nuove donne giapponesi. Le donne di nuova era del Giappone e della Corea avevano legami ideologici, nonostante le loro differenze politiche come componenti dell'impero e della colonia, un fatto strettamente legato all'accoglienza di "Nora" in Asia orientale. Gli studenti internazionali coreani a Tokyo hanno imparato e sperimentato la cultura occidentale attraverso intellettuali giapponesi e hanno celebrato la "Nora" di Ibsen come modello di individualità moderna. Per gli studenti maschi coreani, essere una "Nora" implicava un senso di illuminazione sia come persona moderna sia come intellettuale coloniale con una consapevolezza dei confini nazionalistici. Tuttavia, Na Hyeso˘k ha ritenuto prioritario rompere con l'ideologia patriarcale in modo che le donne intellettuali coreane potessero svolgere un ruolo uguale a quello delle loro controparti maschili nella moderna società coreana.

 

Na Hyeso˘ k (1896-1948), la cosiddetta

 

Na o Rha Hye-sok è stata una pittrice, scrittrice, poetessa e attivista femminista coreana. Il suo nome d'arte era Jeongweol. Fu la prima pittrice professionista in Corea e una delle prime pittrici orientali ad avere fama in Occidente. Ottenne grande eco nel panorama culturale e letterario coreano moderno esprimendo, attraverso la sua vita e i suoi scritti, una forte critica al ruolo sociale assegnato alle donne, di cui pagò personalmente le conseguenze. La sua opera maggiore, Kyeong-heui, pubblicata nel 1918, denuncia la mentalità patriarcale della cultura coreana. Viene ritenuta la prima opera femminista coreana.

Na Hye-Seok nasce a Naju nel sud del Jeolla il 28 aprile del 1896 da una famiglia di Yangban. Da piccola era chiamata Agi e Myeongsun. Il nome Hye-sok le viene dato quando inizia a frequentare la scuola superiore femminile Jin Myeong dove si diploma nel 1913 dimostrando già il possesso di un grande talento artistico.

Grazie soprattutto all'intercessione del fratello, riesce a frequentare la scuola d'arte femminile di Tokyo fino al 1918. Durante questo periodo Na Hye Seok scrive saggi e poemi incentrati sui diritti femminili, nei quali critica l'archetipo coreano di "buona moglie, buona madre", e sostiene di aspirare a una carriera come artista. Nell'aprile 1915, diviene una delle principali organizzatrici dell'Associazione delle Studentesse Coreane in Giappone. In quegli anni si innamora di Ch'oe Sung-gu, studente della Keio University e allora direttore ed editore della rivista Hakchigwang. La coppia riesce a contrastare la decisione del padre di Na Hye-Seok di destinarla a un matrimonio combinato con un esponente dell'alta società, ma purtroppo Ch'oe Sung-gu muore di tubercolosi nel 1916, e Na Hye-Seok avrà un crollo mentale che la obbligherà temporaneamente a sospendere gli studi.

Dopo il diploma, torna nel distretto di Kyeongseong, dove per un breve periodo insegna arte nella scuola femminile Jongshin e alla Youngseong.

Nel 1918 pubblica la sua opera maggiore, Kyeong-heui, che racconta la scoperta di sé di una donna e la sua successiva ricerca del significato della vita come "donna nuova".

NaHye-sok, Autoritratto come Donna nuova, 1928

Nel 1919 partecipa al Movimento del Primo Marzo contro l'occupazione giapponese e per questo viene incarcerata. L'anno successivo si sposa con Kim Woo-Young, l'avvocato ingaggiato dalla sua famiglia per farla uscire dal carcere, nonché amico del fratello.

Hye-Seok chiederà al marito di supportare il suo interesse nell'arte e rifiuterà di far parte della sua famiglia allargata, andando contro uno dei principi cardine della società coreana: la pietà filiale.

Nel 1920 Na fonda con Kim Won-ju e altri amici la rivista letteraria P'yeho, e pubblica una serie di articoli per la prima rivista femminile Sinyeoja (Donna nuova), nei quali critica il tradizionale abbigliamento femminile coreano, sostenendo la necessità di abiti più funzionali e pratici per le donne, volti a migliorare l'igiene, la salute e l'immagine di sé.

Nel 1921 Hye-Seok segna un passo importante nella storia dell'arte moderna coreana aprendo una propria mostra d'arte alla Galleria No-Chung Gak: è la prima mostra di una pittrice a Seoul. Vengono esposti circa settanta dei suoi dipinti e Hye-Seok inizia ad avere credito come artista. Nel 1922 viene fondata la Mostra d'Arte Nazionale di Joseon, la prima competizione di belle arti a livello nazionale in Corea. Nel 1923 il marito di Na Hye-Seok riceve un incarico ufficiale dal governo giapponese in Manciuria come assistente nel consolato. La pittura di Na Hye-Seok viene influenzata dalle tematiche e dalle tecniche cinesi; durante questo periodo presta aiuto ai combattenti anti-giapponesi coreani e agli esuli politici che tentano di ottenere l'indipendenza dal Giappone.

Risale al 1927 il viaggio in occidente. Nel giugno i coniugi partono alla volta dell'Europa per tornare in Corea circa due anni dopo. Hye-Seok ha l'opportunità di studiare pittura a Parigi, dove rimane impressionata soprattutto dal fauvismo.

Na Hye-Seok con i figliNei suoi diari di viaggio l'esperienza all'estero viene vissuta come un risveglio alla libertà. Entra in contatto anche con uno dei fautori del movimento religioso Cheondo, Choi Rin. Le voci di una relazione fra i due e lo scandalo che li coinvolgerà nel 1931 indurranno Kim Woo-Young a chiedere il divorzio per infedeltà. Su questa vicenda Na Hye-Seok scrive una singolare dichiarazione che chiarisce la sua posizione: "L'ho amato teneramente. Non voglio, tuttavia, allontanare da me la responsabilità di mio marito e dei miei bambini. Dobbiamo essere forti abbastanza da accettare che amare è nella natura umana. Dal momento che non tange le mie responsabilità, alle quali io sono devota, non è nemmeno una colpa o un errore, ma un dono benedetto da Dio di cui dovremmo tutti gioire."

La sentenza di divorzio negherà a Na Hye-Seok gli alimenti e la priverà della custodia dei quattro figli e delle proprietà acquisite con i guadagni delle sue mostre, lasciandola priva di ogni mezzo di sussistenza. Divenuta il simbolo della donna che abbandona i suoi doveri coniugali con la scusa della carriera artistica, cita in giudizio Choi Rin per diffamazione in un tribunale francese, dopo che questi pubblica un articolo salace che racconta la loro storia.

Segue il consiglio del fratello di trasferirsi nuovamente in Manciuria, dove aveva precedentemente vissuto, e lì scopre che il suo ex-marito si è risposato violando l'accordo che stabiliva che nessuno dei due avrebbe potuto risposarsi prima di due anni dal divorzio. Torna quindi in Corea per citarlo in giudizio ma né la legge, né i familiari sono dalla sua parte.

Nonostante il divorzio e la cattiva reputazione, Na continua a dipingere e vince il decimo posto alla Mostra Nazionale di Joseon. Per guadagnarsi da vivere, scrive articoli per giornali e riviste e dal 1934, per un anno, riesce ad aprire uno studio a Seoul. Nel 1934 pubblica un articolo sulla rivista Samcheolli, "Confessione di Divorzio", scritto in forma di lettera al marito, nel quale critica la repressione della sessualità femminile, dichiara che l'ex marito non è stato in grado di soddisfarla sessualmente e si è rifiutato di discuterne, e sostiene la necessità di "matrimoni di prova", durante i quali una coppia dovrebbe vivere insieme prima di sposarsi, per evitare il ripetersi del suo matrimonio infelice.

Questa "Confessione" causerà la fine della sua carriera. Le sue opinioni sono ritenute scandalose e scioccanti: nella cultura confuciana il sesso prematrimoniale era considerato un tabù e alle donne era fatto divieto di parlare della loro sessualità. La sua terza mostra nel 1935 non riscuoterà alcun successo, e da allora i suoi quadri non saranno mai più esposti al pubblico. Costretta all'indigenza, si ritira a vivere nel monastero buddhista di Sudeoksa e considera l'idea di farsi monaca.

Non riesce però a lasciarsi il mondo alle spalle e accusa la società di averle tarpato le ali: "Ero un uccellino fragile che è stato ucciso dalla società. L'uccellino tremava dal dolore e sbatteva le sue ali nel disperato tentativo di rimanere vivo. Alla fine ha perso la voce ed è diventato indifferente. Tuttavia potrebbe ancora essere vivo. Potrebbe star solo preservando le forze e il coraggio per volare indietro ancora."

Nel 1939 Na Hye-Seok contrae una malattia fisica e mentale causata dallo stress fisico e psicologico a cui è sottoposta, diventando così muta e semi-paralizzata. Tra il 1939 e il 1944 non ci sono notizie dell'artista. Nell'ottobre del 1944 viene portata in una casa di riposo e l'anno successivo in un ospedale per senzatetto.

Muore il 10 dicembre 1948 in completa solitudine. Non si conosce la causa della morte, né il luogo in cui è sepolta. Il suo destino è stato spesso utilizzato come minaccia per le giovani donne coreane con ambizioni letterarie o artistiche: "Vuoi diventare un'altra Na Hye-sok?"

Nell'ultima sezione di "Confessione di Divorzio" del 1934 Na Hye-Seok aveva scritto ai suoi quattro figli:

"Miei carissimi figli, vi prego di non incolpare vostra madre. Vostra madre è stata una pioniera della transizione della nazione in una nuova era. Sono vittima della feroce disapprovazione della società tradizionale coreana che ha rifiutato di accettarmi così come sono. Quindi non piangete me, ma piangete la società che mi ha freddata. Vi sto lasciando ancora con desideri nel cuore. Una volta cresciuti, vi prego di venire a visitarmi alla mia tomba, confortate la mia anima, e realizzate il mio desiderio perduto."

(Articolo completo in: wikipedia.org)

Immagini delle sue opere:

 
Un brano musicale al giorno

Igor Stravinsky (1882-1971): Orpheus, balletto (1948) - Moscow State Philharmonic diretta da Igor Stravinsky (dal vivo: Mosca, 1962)

 

Orpheus è un balletto neoclassico in tre quadri su musica di Igor' Fëdorovič Stravinskij e coreografia di George Balanchine del 1947 

Orpheus è un balletto neoclassico in tre quadri su musica di Igor' Fëdorovič Stravinskij e coreografia di George Balanchine del 1947. La prima rappresentazione avvenne il 28 aprile 1948 a New York al New York City Center of Music and Drama con scene e costumi di Isamu Noguchi. Interpreti principali furono Nicholas Magallanes nella parte di Orfeo e Maria Tallchief in quella di Euridice.

Maria Tallchief è EuridiceCon questo balletto scritto su richiesta del Lincoln Kirstein's Ballet Society, Stravinskij trova una rinnovata ispirazione legata all'antichità classica.

Orfeo, davanti alla tomba di Euridice, implora gli dei per ritrovare l'amata. Gli appare un Angelo Nero che lo conduce attraverso lo Stige imponendogli però una maschera d'oro che non dovrà mai togliere. Nell'Ade le Furie gli sbarrano la strada; l'Angelo incita Orfeo a suonare la lira ed alla sua musica celestiale le Furie si quietano; Plutone conduce quindi Euridice ad Orfeo. I due si incamminano tenendosi per mano tra mille difficoltà, ma Euridice cade; non avendo più contatto con lei Orfeo toglie la maschera per poter vedere e l'amata cade a terra senza vita. Orfeo disperato perde la lira e viene attaccato dalle Baccanti che lo fanno a pezzi. Apollo ritrova le spoglie di Orfeo, alza verso l'alto la maschera d'oro e dalla tomba del cantore la sua lira risale verso il cielo.

Sebbene l'organico sia quello di una normale orchestra, la partitura è scritta secondo gli schemi di una musica da camera. Oltre agli archi, sono presenti l'arpa e i timpani; i legni comprendono tre flauti, due clarinetti, due oboi, due fagotti; gli ottoni quattro corni, due trombe, due tromboni

Nei primi due quadri la musica è calma, quasi tenera ma distaccata; anche nel Passo delle Furie la minaccia è sottolineata da una musica inquieta, ma senza accenni di violenza, il tempo infatti è indicato Agitato in piano. Solo nel Passo d'azione delle Baccanti l'accentuazione ritmica e le caratteristiche aspre sonorità di Stravinskij prendono il sopravvento e ci riportano in parte al clima della Sagra della Primavera. Nel terzo quadro infine si ritorna al tema iniziale e la musica ritrova la calma e una delicatezza apollinea . L'arpa ha un ruolo simbolico in quest'opera poiché viene utilizzata per dare sonorità alla lira di Orfeo”.

(In wikipedia.org)

 

Jacques Emile Blanche, Ritratto di Igor Stravinsky, 1915 

28 aprile 1948: Igor Stravinsky ha diretto la prima del suo balletto americano, Orpheus, al New York City Center.

  • Immagini: Balanchine's "Orpheus"
    Nicholas Magallanes, Violette Verdy e Francisco Moncion in "Orpheus" (1948), The New York City Ballet (ca. 1960). Coreografia di George Balanchine.

 


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

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Ugo Brusaporco

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