“L’amico del popolo”, 3 agosto 2017

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

THE SWEET HEREAFTER (Il dolce domani, Canada, 1997) scritto e diretto da Atom Egoyan, tratto dall'omonimo romanzo di Russell Banks. Fotografia: Paul Sarossy. Montaggio: Susan Shipton. Musiche: Mychael Danna. Con: Ian Holm, Maury Chaykin, Gabrielle Rose, Alberta Watson, Arsinée Khanjian, Tom McCamus, Stephanie Morgenstern, Sarah Polley, Earl Pastko, Caerthan Banks, Bruce Greenwood, David Hemblen, Peter Donaldson, Brooke Johnson.

Mitchell Stevens, avvocato di valore, arriva a Sam Dent, cittadina innevata della Columbia britannica, dove si è appena consumata una grande tragedia: l'autobus scolastico è precipitato in un lago ghiacciato e tutti i bambini sono morti. Uniche sopravvissute, l'autista Dolores e una ragazza, Nicole, che rimane su una sedia a rotelle. Stevens spinge per fare causa ai responsabili e ottenere un congruo risarcimento ma deve convincere i genitori delle vittime a lasciargli delega di rappresentanza e così comincia a ricercare il consenso di parenti e testimoni. Tra i tanti, i coniugi Otto e Walker acconsentono subito, mentre Billy Ansell, che al momento dell'incidente, come ogni giorno, seguiva in macchina l'autobus, rifiuta, perché convinto che il processo porterà altro dolore alla comunità. Così però non la pensa Risa Walker, con cui Billy ha una relazione da quando è rimasto vedovo. Stevens, a sua volta in pena per la figlia drogata e sieropositiva con cui si sente per telefono, contatta allora Nicole che, nonostante Billy tenti di dissuadere il padre, alla fine si convince a testimoniare nell'udienza preliminare. Ma, di fronte al giudice, Nicole mente sulla velocità dell'autobus. La causa così viene archiviata. Stevens torna in città e vede Dolores che ha ripreso il lavoro di autista. Forse a Sam Dent adesso può tornare la pace.

"Tratto da un romanzo di Russell Banks che trasforma in metafora un fatto di cronaca, 'Il dolce domani' è un film di sottile introspezione e non privo di intuizioni poetiche che nello scarso rispetto all'opera letteraria trova pregi, cioè il mancato rispetto dei tempi cronologici che rende più intrigante il racconto e difetti, in quanto l'abolizione della voce narrante sfuma le scene madri lasciandole irrisolte".

(Enzo Natta, 'Famiglia Cristiana', 10 dicembre 1997)

"Da più di dieci anni il canadese di origine armena Atom Egoyan, classe 1960, intreccia nei suoi film gli stessi fili: famiglie devastate, legami torbidi e soffocanti, un viluppo di eventi e ricordi che si dipana sotto i nostri occhi affascinati ma sempre un po' distanti. Stavolta però il regista cerebrale di 'Family Viewing', 'Calendar', 'Exotica', ha fatto davvero centro. (...) Non era da tutti governare una materia tanto dolorosa. Egoyan lo fa con sensibilità e fermezza, portandoci dentro ognuno dei suoi protagonisti. E regalandoci almeno due scene incancellabili: l'incidente, lento, lontano, terribile. E quella bambina in primo piano che fissa con sguardo indecifrabile il coltello che potrà darle o toglierle la vita. Il suo destino. Nelle mani di suo padre".

(Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 8 novembre 1997)

"Se Egoyan con 'Il dolce domani' si conferma un regista di smagliante eleganza visiva gli fa da zavorra proprio l'intellettualismo, l'incapacità di abbandonarsi alle emozioni, tanto più di fronte a un tema come quello che affronta: con il paradossale risultato di un film potenzialmente straziante finisce invece per essere un puzzle in pellicola patinata".

(Irene Bignardi, 'la Repubblica', 2 novembre 1997)

“Messi di fronte a un nodo, alcuni tentano di scioglierlo, altri amano perdersi nel suo intrico. Abbandonato il formalismo di Exotica (1994), in Il dolce domani (Sweet Hereafter, Canada 1997) Atom Egoyan ne conferma in ogni caso la poetica: un’attenzione estrema e morbosa all’intrecciarsi - ai nodi, appunto - di memoria, solitudine, amore, cattiva coscienza. Il punto focale del film è la vicenda interiore di Mitchell (un convincente Ian Holmes), preso tra il rimpianto per il rapporto perduto con Zoe, la figlia tossicodipendente, e l’ostinazione con cui coltiva il rancore e l’odio delle donne e degli uomini che, in un piccolo paese della Columbia Britannica, hanno perduto tragicamente i loro figli. Attorno a questa vicenda, dunque, Egoyan organizza i tempi della sua narrazione: il passato prossimo dell’incidente e della causa legale (dicembre del ’95), il presente d’un aereo che porta Mitchell da Zoe (novembre del ’97), il passato remoto del rischio di morte corso dalla stessa Zoe a tre anni, il futuro d’una dolcezza non più che sognata. Ad annodare questi diversi fili temporali c’è la memoria dei protagonisti e, con essa, c’è per tutti una qualche forma di colpa profonda, nascosta. Procedendo nelle sue indagini, Mitchell mette a nudo la complessità dissimulata dei rapporti interni alla piccola comunità chiusa. Il panorama esistenziale ambiguo che ne viene - biografie di vinti, amori furtivi, legami incestuosi - contrasta nettamente con la forza e l’univocità del loro dolore. O meglio: con la forza e l’univocità dell’immagine che essi ne hanno. Qualunque sia la loro condizione psicologica, questi padri e queste madri tendono a non farne gravare il peso sull’opinione che hanno di sé come padri e come madri. In altri termini, la loro cattiva coscienza è tenuta con cura fuori da quella specie di cerchio sacro che è o è stato il loro rapporto con i figli. Tuttavia, a infrangere questa loro convinzione di fondo - che è anche un’autodifesa -, arriva la strategia dell’odio proposta e orchestrata da Mitchell. Egli stesso "convinto" della propria buona coscienza a proposito della sconfitta esistenziale della figlia e in qualche modo della sua morte psicologica, elabora il lutto che in ogni caso gliene deriva secondo il più tipico dei meccanismi difensivi: quello dell’espulsione (paranoica) della colpa su un colpevole esterno. Non esistono incidenti, sostiene: sempre, da qualche parte, qualcuno ne porta la responsabilità. E su quel qualcuno - un altro, appunto - la rabbia e l’odio possono e devono essere canalizzati. Il vantaggio di questo meccanismo è evidente: consente di dare un senso al dolore, evitando che dalla sua forza nasca un’autointerrogazione rischiosa, una messa in questione della propria buona coscienza. In fondo, ci vien da pensare, a Mitchell ben si applica una delle possibili interpretazioni di quella storia terribile e mostruosamente ambigua che è Il pifferaio di Hamelin. Chi, se non i genitori, ha chiamato in città lo strano musicista? Chi, se non i genitori, lo induce a seppellire nella viscere della montagna ragazzini e ragazzine? Da un lato, dunque, c’è in loro una sorta di odio inconsapevole per i figli - ossia, una potente ambivalenza emotiva nei loro confronti -, dall’altro c’è la loro convinzione pervicace di non portare su di sé alcuna responsabilità. In fondo, il pifferaio fa loro comodo, così come fa comodo alle madri e ai padri di Egoyan quest'avvocato che promette di portarsi via anche la più lontana possibilità che la cattiva coscienza s’insinui fin dentro quel tale inviolabile cerchio sacro. Questo rimuovere ogni sospetto di colpa, questo sprofondarla nel gelo dell’oblio più radicale, è già ben presente nella sequenza - la più intensa del film - in cui il torpedone giallo scivola attraverso il bianco del ghiaccio e poi, inesorabilmente, ne viene inghiottito. Anzi, già qui s’intuisce all’opera il pifferaio, per ora nelle vesti della conducente, tanto dolcemente colma d’amore e, nella sostanza, tanto mortale. D’altra parte, il regista è troppo affascinato dai nodi per decidersi a scioglierli. Invece di scendere nel fondo dei cuori di Mitchell e degli altri per dipanarne il groviglio, preferisce intrecciarne ancora di più i fili. Dunque, del Pifferaio e dell’intrico psicologico del suo stesso film finisce per dare una lettura deliberatamente e ambiguamente apologetica. I personaggi vengono sempre più immersi nelle ombre delle loro coscienze (anche con una pesante sottolineatura psicologica che ricorda da vicino Exotica). Capita infine che, per paradosso, la chiusura meschina della comunità - colma di risentimenti, piccinerie, menzogne - venga celebrata attraverso il personaggio di Nicole come la dimensione propria di un improbabile "dolce domani". Così, in ogni caso, vuole la poetica di Atom Egoyan”.

(Roberto Escobar, Il Sole 24 Ore, 30 novembre 1997)

THE SWEET HEREAFTER (Il dolce domani, Canada, 1997) scritto e diretto da Atom Egoyan

 

Una poesia al giorno

A Zacinto, di Ugo Foscolo (originariamente conosciuto come Né più mai toccherò le sacre sponde, dal primo verso, è uno dei suoi più celebri sonetti, scritto a Milano negli ultimi mesi del 1802 e nei primissimi del 1803).

Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell'onde
del greco mar da cui vergine nacque

Venere, e fea quelle isole feconde
col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l'inclito verso di colui che l'acque

cantò fatali, ed il diverso esiglio
per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.

Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.

 

Un fatto al giorno

3 agosto 1778: inaugurazione del Teatro alla Scala. Fu il dramma musicale “L’Europa riconosciuta”, composto appositamente per l’occasione da Antonio Salieri, l’opera che inaugurò l’attività del Teatro alla Scala di Milano esattamente 239 anni fa, il 3 agosto 1778. Il nome completo del teatro era Nuovo Regio Ducale Teatro alla Scala: da quel giorno è diventato uno dei più importanti del mondo e ha ospitato i più famosi e illustri maestri, direttori d’orchestra, cantanti lirici, compositori musicali, ballerini e registi. La Scala è anche sede dell’omonima orchestra, corpo di ballo, coro e Filarmonica, oltre che dell’Accademia, una scuola di musica, ballo e mestieri legati al teatro.
Antonio Salieri, “L'Europa Riconosciuta” https://www.youtube.com/watch?v=vZ-KppJzwqs

Teatro alla Scala di Milano

 

Una frase al giorno

“La nostra ricchezza muore con noi, poiché l'abbiamo tutta nella nostra testa e nessuno potrà sottrarcela, a meno che non ci taglino la testa e allora... non ci occorre più nulla”.

(Wolfgang Amadeus Mozart, 1756-1791, compositore austriaco).

 

Un brano al giorno

W. A. Mozart, Piano Concerto No 21 in Do maggiore K 467, Martha Argerich al piano.
 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

e-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
web www.brusaporco.org

 

 

 

 

 

UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k