“L’amico del popolo”, 3 agosto 2017

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

THE SWEET HEREAFTER (Il dolce domani, Canada, 1997) scritto e diretto da Atom Egoyan, tratto dall'omonimo romanzo di Russell Banks. Fotografia: Paul Sarossy. Montaggio: Susan Shipton. Musiche: Mychael Danna. Con: Ian Holm, Maury Chaykin, Gabrielle Rose, Alberta Watson, Arsinée Khanjian, Tom McCamus, Stephanie Morgenstern, Sarah Polley, Earl Pastko, Caerthan Banks, Bruce Greenwood, David Hemblen, Peter Donaldson, Brooke Johnson.

Mitchell Stevens, avvocato di valore, arriva a Sam Dent, cittadina innevata della Columbia britannica, dove si è appena consumata una grande tragedia: l'autobus scolastico è precipitato in un lago ghiacciato e tutti i bambini sono morti. Uniche sopravvissute, l'autista Dolores e una ragazza, Nicole, che rimane su una sedia a rotelle. Stevens spinge per fare causa ai responsabili e ottenere un congruo risarcimento ma deve convincere i genitori delle vittime a lasciargli delega di rappresentanza e così comincia a ricercare il consenso di parenti e testimoni. Tra i tanti, i coniugi Otto e Walker acconsentono subito, mentre Billy Ansell, che al momento dell'incidente, come ogni giorno, seguiva in macchina l'autobus, rifiuta, perché convinto che il processo porterà altro dolore alla comunità. Così però non la pensa Risa Walker, con cui Billy ha una relazione da quando è rimasto vedovo. Stevens, a sua volta in pena per la figlia drogata e sieropositiva con cui si sente per telefono, contatta allora Nicole che, nonostante Billy tenti di dissuadere il padre, alla fine si convince a testimoniare nell'udienza preliminare. Ma, di fronte al giudice, Nicole mente sulla velocità dell'autobus. La causa così viene archiviata. Stevens torna in città e vede Dolores che ha ripreso il lavoro di autista. Forse a Sam Dent adesso può tornare la pace.

"Tratto da un romanzo di Russell Banks che trasforma in metafora un fatto di cronaca, 'Il dolce domani' è un film di sottile introspezione e non privo di intuizioni poetiche che nello scarso rispetto all'opera letteraria trova pregi, cioè il mancato rispetto dei tempi cronologici che rende più intrigante il racconto e difetti, in quanto l'abolizione della voce narrante sfuma le scene madri lasciandole irrisolte".

(Enzo Natta, 'Famiglia Cristiana', 10 dicembre 1997)

"Da più di dieci anni il canadese di origine armena Atom Egoyan, classe 1960, intreccia nei suoi film gli stessi fili: famiglie devastate, legami torbidi e soffocanti, un viluppo di eventi e ricordi che si dipana sotto i nostri occhi affascinati ma sempre un po' distanti. Stavolta però il regista cerebrale di 'Family Viewing', 'Calendar', 'Exotica', ha fatto davvero centro. (...) Non era da tutti governare una materia tanto dolorosa. Egoyan lo fa con sensibilità e fermezza, portandoci dentro ognuno dei suoi protagonisti. E regalandoci almeno due scene incancellabili: l'incidente, lento, lontano, terribile. E quella bambina in primo piano che fissa con sguardo indecifrabile il coltello che potrà darle o toglierle la vita. Il suo destino. Nelle mani di suo padre".

(Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 8 novembre 1997)

"Se Egoyan con 'Il dolce domani' si conferma un regista di smagliante eleganza visiva gli fa da zavorra proprio l'intellettualismo, l'incapacità di abbandonarsi alle emozioni, tanto più di fronte a un tema come quello che affronta: con il paradossale risultato di un film potenzialmente straziante finisce invece per essere un puzzle in pellicola patinata".

(Irene Bignardi, 'la Repubblica', 2 novembre 1997)

“Messi di fronte a un nodo, alcuni tentano di scioglierlo, altri amano perdersi nel suo intrico. Abbandonato il formalismo di Exotica (1994), in Il dolce domani (Sweet Hereafter, Canada 1997) Atom Egoyan ne conferma in ogni caso la poetica: un’attenzione estrema e morbosa all’intrecciarsi - ai nodi, appunto - di memoria, solitudine, amore, cattiva coscienza. Il punto focale del film è la vicenda interiore di Mitchell (un convincente Ian Holmes), preso tra il rimpianto per il rapporto perduto con Zoe, la figlia tossicodipendente, e l’ostinazione con cui coltiva il rancore e l’odio delle donne e degli uomini che, in un piccolo paese della Columbia Britannica, hanno perduto tragicamente i loro figli. Attorno a questa vicenda, dunque, Egoyan organizza i tempi della sua narrazione: il passato prossimo dell’incidente e della causa legale (dicembre del ’95), il presente d’un aereo che porta Mitchell da Zoe (novembre del ’97), il passato remoto del rischio di morte corso dalla stessa Zoe a tre anni, il futuro d’una dolcezza non più che sognata. Ad annodare questi diversi fili temporali c’è la memoria dei protagonisti e, con essa, c’è per tutti una qualche forma di colpa profonda, nascosta. Procedendo nelle sue indagini, Mitchell mette a nudo la complessità dissimulata dei rapporti interni alla piccola comunità chiusa. Il panorama esistenziale ambiguo che ne viene - biografie di vinti, amori furtivi, legami incestuosi - contrasta nettamente con la forza e l’univocità del loro dolore. O meglio: con la forza e l’univocità dell’immagine che essi ne hanno. Qualunque sia la loro condizione psicologica, questi padri e queste madri tendono a non farne gravare il peso sull’opinione che hanno di sé come padri e come madri. In altri termini, la loro cattiva coscienza è tenuta con cura fuori da quella specie di cerchio sacro che è o è stato il loro rapporto con i figli. Tuttavia, a infrangere questa loro convinzione di fondo - che è anche un’autodifesa -, arriva la strategia dell’odio proposta e orchestrata da Mitchell. Egli stesso "convinto" della propria buona coscienza a proposito della sconfitta esistenziale della figlia e in qualche modo della sua morte psicologica, elabora il lutto che in ogni caso gliene deriva secondo il più tipico dei meccanismi difensivi: quello dell’espulsione (paranoica) della colpa su un colpevole esterno. Non esistono incidenti, sostiene: sempre, da qualche parte, qualcuno ne porta la responsabilità. E su quel qualcuno - un altro, appunto - la rabbia e l’odio possono e devono essere canalizzati. Il vantaggio di questo meccanismo è evidente: consente di dare un senso al dolore, evitando che dalla sua forza nasca un’autointerrogazione rischiosa, una messa in questione della propria buona coscienza. In fondo, ci vien da pensare, a Mitchell ben si applica una delle possibili interpretazioni di quella storia terribile e mostruosamente ambigua che è Il pifferaio di Hamelin. Chi, se non i genitori, ha chiamato in città lo strano musicista? Chi, se non i genitori, lo induce a seppellire nella viscere della montagna ragazzini e ragazzine? Da un lato, dunque, c’è in loro una sorta di odio inconsapevole per i figli - ossia, una potente ambivalenza emotiva nei loro confronti -, dall’altro c’è la loro convinzione pervicace di non portare su di sé alcuna responsabilità. In fondo, il pifferaio fa loro comodo, così come fa comodo alle madri e ai padri di Egoyan quest'avvocato che promette di portarsi via anche la più lontana possibilità che la cattiva coscienza s’insinui fin dentro quel tale inviolabile cerchio sacro. Questo rimuovere ogni sospetto di colpa, questo sprofondarla nel gelo dell’oblio più radicale, è già ben presente nella sequenza - la più intensa del film - in cui il torpedone giallo scivola attraverso il bianco del ghiaccio e poi, inesorabilmente, ne viene inghiottito. Anzi, già qui s’intuisce all’opera il pifferaio, per ora nelle vesti della conducente, tanto dolcemente colma d’amore e, nella sostanza, tanto mortale. D’altra parte, il regista è troppo affascinato dai nodi per decidersi a scioglierli. Invece di scendere nel fondo dei cuori di Mitchell e degli altri per dipanarne il groviglio, preferisce intrecciarne ancora di più i fili. Dunque, del Pifferaio e dell’intrico psicologico del suo stesso film finisce per dare una lettura deliberatamente e ambiguamente apologetica. I personaggi vengono sempre più immersi nelle ombre delle loro coscienze (anche con una pesante sottolineatura psicologica che ricorda da vicino Exotica). Capita infine che, per paradosso, la chiusura meschina della comunità - colma di risentimenti, piccinerie, menzogne - venga celebrata attraverso il personaggio di Nicole come la dimensione propria di un improbabile "dolce domani". Così, in ogni caso, vuole la poetica di Atom Egoyan”.

(Roberto Escobar, Il Sole 24 Ore, 30 novembre 1997)

 

Una poesia al giorno

A Zacinto, di Ugo Foscolo (originariamente conosciuto come Né più mai toccherò le sacre sponde, dal primo verso, è uno dei suoi più celebri sonetti, scritto a Milano negli ultimi mesi del 1802 e nei primissimi del 1803).

Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell'onde
del greco mar da cui vergine nacque

Venere, e fea quelle isole feconde
col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l'inclito verso di colui che l'acque

cantò fatali, ed il diverso esiglio
per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.

Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.

 

Un fatto al giorno

3 agosto 1778: inaugurazione del Teatro alla Scala. Fu il dramma musicale “L’Europa riconosciuta”, composto appositamente per l’occasione da Antonio Salieri, l’opera che inaugurò l’attività del Teatro alla Scala di Milano esattamente 239 anni fa, il 3 agosto 1778. Il nome completo del teatro era Nuovo Regio Ducale Teatro alla Scala: da quel giorno è diventato uno dei più importanti del mondo e ha ospitato i più famosi e illustri maestri, direttori d’orchestra, cantanti lirici, compositori musicali, ballerini e registi. La Scala è anche sede dell’omonima orchestra, corpo di ballo, coro e Filarmonica, oltre che dell’Accademia, una scuola di musica, ballo e mestieri legati al teatro.
Antonio Salieri, “L'Europa Riconosciuta” https://www.youtube.com/watch?v=vZ-KppJzwqs

 

Una frase al giorno

“La nostra ricchezza muore con noi, poiché l'abbiamo tutta nella nostra testa e nessuno potrà sottrarcela, a meno che non ci taglino la testa e allora... non ci occorre più nulla”.

(Wolfgang Amadeus Mozart, 1756-1791, compositore austriaco).

 

Un brano al giorno

W. A. Mozart, Piano Concerto No 21 in Do maggiore K 467, Martha Argerich al piano.
 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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web www.brusaporco.org