“L’amico del popolo”, 30 agosto 2017

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

まだだよ MADADAYO (Madadayo - Il compleanno, Giappone, 1993), regia di Akira Kurosawa. Sceneggiatura: Akira Kurosawa da un romanzo di Hyakken Uchida. Fotografia: Masaharu Ueda, Takao Saito. Montaggio: Akira Kurosawa. Musiche: Shinichirô Ikebe. ConMatsumura Tatsuo (il professore), Kagawa Kyoko (sua moglie), Igawa Hisashi (Takayama, il primo allievo), Tokoro George (Amaki, il secondo allievo), Yui Masayuki (il terzo allievo), Terao Akira (il quarto allievo), Kobayashi Asei, Kusaka Takeshi, Hirata Mitsuru, Zushi Takao, Okamoto Nobuto, Watanabe Tetsu (altri allievi).

Nel 1943, dopo trent’anni di insegnamento della lingua tedesca, il professore Uchida annuncia ai suoi allievi che abbandona l’Università per consacrarsi alla carriera di scrittore. Uchida si sistema in una casa, in cui si difende dai ladri in maniera burlesca ma ingegnosa, come possono constatare Takayama e Amaki, i suoi allievi più fedeli. Al compimento del sessantesimo anno d’età, Uchida riceve in casa i suoi allievi più fidati, offendo loro cibi e bevande: la festa risulta molto vivace. La casa è distrutta da un bombardamento alleato. Tutto viene bruciato: le uniche cose che rimangono a lui e alla moglie sono un uccellino bianco nella sua gabbietta e il libro preferito, Hojoki, di Kamono-Chomei. I due coniugi si trasferiscono in una capanna ceduta dal proprietario di un palazzo, distrutto dal fuoco. Nel 1945, con gli americani sul suolo giapponese, gli allievi si tassano per costruire al professore una casa più confortevole. Uchida ottiene che la casa sia circondata da un laghetto fatto a ciambella. Le stagioni si succedono. Al compimento del 61° compleanno Uchida si reca, vestito di tutto punto, in un ristorante, invitato dai suoi allievi. Si celebra il primo “Madadayo”. Egli stesso ne spiega il significato: nei giochi dei bambini colui che si nascondeva rispondeva “Madadayo” (Non ancora) agli altri che lo cercavano domandandogli “Mo-ii-kai?” (Sei pronto).
Questo “Non ancora” assume ora il valore di fiera negazione alla domanda “Sei pronto a morire?”. Al fianco, Uchida ha il suo medico e un allievo diventato prete buddista. A turno, tutti fanno un discorso; si cantano canzoni e si beve. Un giorno il gatto randagio adottato dal professore scompare. Affranto, il professore non mangia e non dorme, piange e si dispera. Dopo falsi ritrovamenti, Uchida deve rassegnarsi: ma poi la moglie accoglie un altro gatto randagio e questi sostituisce a poco a poco il felino tanto rimpianto. Come riconosce lo stesso professore, l’affetto dei suoi allievi l’ha salvato dalla disperazione. Nel 1966 si celebra la festa del “17° Wadadayo” per il compimento dei settantasette anni di vita di Uchida. Nel ristorante sono convenuti, oltre gli allievi, anche i loro figli e nipoti. La festa si svolge con la solita allegria seguendo le tradizioni (che impongono per es. al professore di trangugiare d’un fiato un grosso boccale di birra), ma il protagonista dell’incontro si sente male, accusa un attacco di aritmia: rassicura però tutti quanti ed è accompagnato a casa. Qui si addormenta e sogna il gioco dei bambini: “Mo-ii-kai”. “Madadayo”!

"Curioso e faticoso poemetto senile, in cui la nostalgia si nasconde nel comico e il tragico sfuma in un senso panteistico del creato".

(Valerio Caprara, Il Mattino, 30.05.93)

"Il film descrive la profonda, calorosa amicizia tre il professore Hhyakken Uchida e i suoi ex allievi. C'è qualcosa di molto prezioso, che è stato tutto fuorché dimenticato. Il mondo invidiabile dei cuori caldi. Spero che tutte le persone che vedranno questo film lasceranno il cinema rasserenati e con un evidente sorriso sulle loro labbra." Così Akira Kurosawa, mentore di un'epoca in cui la vita era più semplice e meglio si comprendeva la delicata relazione insegnante-allievo, scrive in testa al nuovo film. Ecco alcune dichiarazioni rilasciate in un'intervista in Giappone. - Ha avuto buoni insegnanti? "Ho avuto molti buoni professori, ma, ciò che mi ha reso quel che sono, sono stati incontri successivi. Con Yamamoto, Ozu, Mizoguchi, registi straordinari, ma soprattutto profondamente umani. E' il motivo per cui ho sempre voluto raccontare nei miei film quant'è importante un buon maestro nella vita". - Perché il protagonista è uno scrittore poco noto come Uchida? "Ho sempre amato l'opera di Hyakken e la rileggo spesso. E' vero che il professor Hyakken faceva tutto di testa sua ma trovo che aveva fascino. Ad esempio, ha scritto un libro per una semplice ragione: la scomparsa del suo gatto".

(Giuseppina Manin, Corriere della Sera, 07/05/93)

“I grandi maestri si riconoscono da come sanno terminare un'opera, scrive Friedrich Nietzsche. E intende: da come sanno terminare un libro, una musica, una vita. È difficile dargli torto. Il senso e il valore di un film sono sempre incerti, sempre in pericolo, fino al momento che separa e unisce l'ultima inquadratura e i titoli di coda. Madadayo - Il compleanno sembra girato pensando a quel breve istante. «Non ancora», risponde forte e sicuro il professore di Akira Kurosawa a suoi allievi che gli chiedono se sia pronto a morire”.

(Roberto Escobar, Il Sole-24 Ore)

“A ottantatré anni il grande Kurosawa dirige con Madadayo - Il compleanno una parabola, in forma di commedia ottimista, sulla vecchiaia, la solitudine e l’attesa della morte, sugli insegnamenti culturali e morali che un maestro (come lui) può trasmettere ai propri discepoli, sul sentimento amoroso e rispettoso che potrebbe dovrebbe esistere tra generazioni. E fa un film perfetto, limpido, malinconico e divertente, servendosi d’un personaggio realmente esistito, il docente universitario e scrittore Uchida, molto ammirato in giovinezza dal regista”.

(Lietta Tornabuoni, La Stampa)

Trentesimo film, cinquantesimo anniversario della sua carriera di regista, 83 anni. Kurosawa non si mette in pensione, ha stupito tutti per l’energia con cui ha diretto Madadayo, tornando a lavorare per l’occasione con la Daiei, quella di Rashomon. Lungi dall’essere un film-testamento, l’ultima fatica del Nostro prelude ad altri progetti, ad altre imprese prodotte finalmente con iniziative giapponesi, dopo il ricorso a méntori illuminati di altre latitudini. (...) Madadayo ha avuto accoglienze contrastanti: c’è chi è convinto che sia il vertice di questo regista e c’è chi afferma a chiare note che Kurosawa si è bevuto il cervello. È un fatto che questo gran creatore di immagini di straordinario valore figurativo e di contenuti “forti” qui ha spiazzato tutti con un racconto fragile, nei modi dell’elegia, addirittura flebile. Nello stesso tempo l’autore sembra prendersi gioco dello spettatore, non fornendogli per esempio notizie sul suo personaggio, realmente esistito (l’eccezionalità del Maestro è data per scontata, il nostro bisogno di razionalità è disatteso) e dedicando la parte centrale del film, ben 45 minuti, alla sparizione di un gatto. Kurosawa nega di aver voluto fare dell’autobiografia indiretta, nel portare sullo schermo la figura di Uchida, uomo saggio, spregiudicato ed originale, anticonformista nella tradizione per così dire; così come nega di aver voluto fare un film a messaggio. Ma è indubbio che dietro l’intellettuale non ancora pronto a morire lo spettatore intravvede il regista; magari per contrasto, visto che la riconoscenza non ha certo gratificato la sua esistenza, nella maturità. Forma negletta? Diciamo narrazione piana, a inquadrature “lunghe”, a scansione asimmetrica (pochi episodi, lunghe ellissi, rilievo “spropositato”, secondo un punto di vista occidentale, a episodi “minori”). Mentre altri ottuagenari del cinema (come De Oliveira) arricchiscono il loro linguaggio di stratificazioni colte, Kurosawa ha semplificato al massimo il suo linguaggio, scegliendo la semplicità, proclamando intenzione - in certo senso - di tornar bambino. Lo stesso protagonista ha comportamenti fanciulleschi: ha paura del buio e del tuono («Chi non ha paura del buio manca di immaginazione - dice - l’oscurità è il mondo dell’ignoto, lì si nasconde la paura»), e la moglie lo scusa con gli allievi: «Non cresce mai, è sempre un bambino». La presenza dell’infanzia fa da filo rosso in tutto il film: giustifica i rapporto fra i maestri e gli allievi, tra chi trasmette la sua esperienza e chi si deve ancora formare. Alla festa del 17° Madadayo, Uchida offre la torta ai bambini e quando si ritira a casa si inchina profondamente davanti a loro. Ai quali lascia un monito: «Pensate a qualcosa che vi piace veramente e cercatela Quando l’avrete trovata tenetevela stretta. Sarà il vostro tesoro, qualcosa che non dovrete mai farvi sfuggire, perché sarà per la vita». L’insegnamento, allora, la trasmissione dei saperi, ma soprattutto la trasmissione dell’arte di vivere. Uchida suscita ammirazione nei suoi allievi perché li ha aiutati a ragionare, non ha solo insegnato il tedesco. Kurosawa cita Paul Valéry «Una cosa essenziale è stata dimenticata nell’educazione del giorno d’oggi, e cioè che è più importate per gli allievi imparare attraverso il maestro che attraverso le diverse materie scolastiche». E aggiunge «Io penso che il modo migliore d’insegnare i valori della vita era quella praticata dai veri Maestri di una volta, basata sulla loro personal esperienza.
Attualmente la tendenza è piuttosto quella di modellare ragazzi con lo stesso stampo. Ho l’impressione che così neghiamo quella forma di educazione che deve permettere agli allievi di sviluppare la propria personalità e di coltivare i rispettivi talenti». I buoni maestri, quindi. Quelli di una volta. Kurosawa è spudoratamente nostalgico, canta rapporti umani (usa tranquillamente il termine “valori della vita”) basati sulla riconoscenza e sulla dedizione. Questo rapporto maestro-allievi, che porta alla conoscenza interiore, va ben oltre la scuola, questa forma di affetto e venerazione è addirittura incredibile, per noi. Vedi la dedizione degli allievi più cari, ma vedi anche l’affetto dei vicini e il comportamento del proprietario confinante, che rinuncia a vendere un terreno all’affarista per evitare che accanto alla casa del professore si innalzi un grande edificio che gli tolga il sole. O gran bontà dei cavalieri antiqui, vien da dire: ed il confronto con la contemporaneità è tutto a sfavore dell’oggi. Anche qui i giudizi non sono cattedratici, si esprimono senza parere attraverso le chiacchiere e le canzoni: anche se si parla di tangenti e di corruzione, di scandali e di compromessi («C’è tanta stupidaggine, oggi, in Giappone; d’altronde non c’è medicina che possa curare gli sciocchi»). Sentenzioso ma leggero, questo film pare invitare a non prenderci troppo sul serio. Anche se poi le cose in cui affonda le radici sono serissime. La continuità degli insegnamenti e degli esempi, per dire. «Ho avuto dei buoni maestri - ha detto Kurosawa in un’intervista - ciò che sono diventato lo devo agli incontri fatti nel collegio, al liceo e nell’ambiente del cinema. Ho avuto la fortuna di affiancarmi a grandi realizzatori come Yamamoto, Ozu, Mizoguchi e Naruse, ai quali devo molto. Erano profondamente umani e dai contatti avuti con loro ho imparato enormemente». C’è una catena ininterrotta, tra i maestri e allievi. Uchida, che ha scritto un racconto sul suo gatto perduto, riconosceva come maestro Natsume Soseki, scrittore antinaturalista e pieno di humour, il quale aveva esordito con un libro (Io sono un gatto) nel quale un gatto filosofo prende la parola per satireggiare la società del tempo. Un altro maestro, ideale stavolta, è stato per Uchida il poeta Kamono Chomei (1154-1216), e non a caso l’unico libro che si salva dall’incendio della casa bombardata è Hojoki (Ricordi della mia capanna di eremita), che è appunto di Kamono Chomei.
È di questo libro la famosa definizione: «La corrente di un fiume scorre senza interruzione, ma l’acqua non è mai la stessa», e il suo autore, trovatosi a vivere in uno dei periodi più tristi e travagliati del Giappone, vi racconta la sua vita da eremita in una capanna costruitasi da solo.
Alcuni passi del libro si concatenano senza sforzo alla figura di Uchida e alla filosofia del film. «...E ora, giunto al momento in cui la rugiada dei miei sessanta anni sta per svanire, mi sono ancora costruito un’ultima foglia di abituro, simile al rifugio notturno di un cacciatore o al bozzolo di un vecchio filugello. Esso non è che la centesima parte di quello che avevo prima; e così, mentre la mia età va declinando, la mia dimora si restringe... E chissà quante mai case saranno andate distrutte negl’incendi, così frequenti! Solo il mio abituro è restato tranquillo e indisturbato anche se angusto, esso ha un giaciglio dove la notte posso distendermi e una stuoia dove il giorno posso sedere: non è dunque insufficiente ad ospitarmi... Questo mondo è tutt’uno col cuore. Se il cuore non è tranquillo, a nulla valgono i cavalli, i buoi e tutti i tesori dell’universo. I palazzi, le torri non rappresentano tutti i nostri desideri. Ed io l’amo, ora, questa mia dimora solitaria. Quando vado alla capitale ho vergogna di esser ridotto come un mendicante ma, tornato qui, mi vien pietà per gli altri, attaccati, come sono, a null’altro che a volgare polvere...
Il Buddha, insegnando agli uomini, ha raccomandato di non nutrire attaccamento per nessuna cosa di questo mondo». (Le citazioni sono prese da La letteratura giapponese - La letteratura coreana di Marcello Muccioli, Sansoni/Accademia, 1969). Siamo arrivati così, andando sempre più indietro nel tempo, al maestro dei maestri, a Buddha. La cultura orientale pervade Madadayo da cima a fondo, per capirlo meglio dovremmo probabilmente rispolverare Zen e buddismo. Non è la cultura Zen che stabilisce come tutto sia importante alla stessa stregua, uomo e natura, piccoli sentimenti e grandi drammi, una foglia che tremula e l’universo? La chiave dell’accettazione del lungo episodio dal gatto perduto è qui: ecco perché la perdita del felino è una tragedia, mentre non abbiamo emozione né giudizi per la tragedia ben più vasta della guerra. Le macerie, anzi, sono viste in modo oleografico, antinaturalistico (tutto il film è all’insegna dell’antinaturalismo), in un procedimento che minimizza. Uno dei modi per “abbassare il tiro” è l’umorismo: ecco l’episodio della casa con le indicazioni per i ladri, ecco il racconto del cavallo che lancia uno sguardo di rimprovero al professore che sta acquistando carne equina, ecco il modo sbarazzino in cui il protagonista consiglia di non orinare sul muro della casa, ecco il vero e proprio sketch dell’allievo che, alla prima festa di Madadayo, non avendo dimestichezza con i discorsi recita di seguito i nomi di tutte le stazioni della metropolitana di Tokyo. Ma è poi vero che Madadayo è un Kurosawa nuovo rispetto ai film precedenti? «Nel suo cinema – scriveva Olla nel citato servizio su «Cineforum» 209 - la solidarietà umana, l’elevazione morale e spirituale ha un significato qui e ora; il confronto non è con modelli assoluti di perfezione ma con gesti quotidiani di dedizione al prossimo». Coerenza sostanziale col passato, quindi, sia nei temi (la decadenza delle tradizioni, la trasformazione del Paese vista come un’ossessione) che nell’esposizione. Kurosawa ha sempre accolto fonti culturali eterogenee, e qui, in un film su un personaggio che più giapponese non si può, il regista mette accanto alle canzoni folkloristiche il Vivaldi dell’Estro Armonico (Concerto n. 9). Apriti cielo: Vivaldi in un racconto impastato di giapponesità? A parte il fatto che il ricorso a musica “occidentale” (originale o attraverso citazioni di classici) si è sempre avuto nei film del Nostro, si mostra con questi appunti sconsiderati di non conoscere quanto i musicisti europei siano noti in Giappone e quanto e loro composizioni si integrino quella cultura.
Vivaldi ha un senso. È il trionfi dell’equilibrio, il punto alto dell’Armonia, prima che altri ne continuino l’operato, sviluppandolo (ancora il Maestro), ed è utilizzato tre volte: per il trascorrere delle stagioni, per l’arrivo in casa del gatto che dovrà sostituire quello perduto, per il sogno finale. Tre momenti legati alla situazione specifica del vecchio professore ma anche ad una situazione di serenità, di accettazione, di sogno. Una storia che coniuga l’Armonia con l’Estro, un poemetto sulla vecchiaia vista paradossalmente come stagione privilegiata; se proprio si vogliono emettere giudizi perentori si presenta come un’opera “minore” rispetto a quanto Kurosawa ha già fatto, ma non si può fare a meno di essere suggestionati dal cuore (parola che ricorre spesso in Madadayo), dalla ricerca della semplicità, che è il segreto della vita, da vivere intensamente, senza nascondere i propri sentimenti. Messaggio che ha ragione di tutti i controlli della scienza e di tutti i suggerimenti della religione (nelle celebrazioni dei compleanni Uchida sta fra il medico e il prete, e li disattende ambedue). Insisterei sul concetto di semplicità. C’è una bella battuta messa in bocca a Uchida, rivolto ai suoi allievi ingordi di significati nascosti: «Non cercate in ogni cosa del simbolismo».

(Ermanno Comuzio, Cineforum n. 324, 5/1993)

まだだよ MADADAYO (Madadayo - Il compleanno, Giappone, 1993), regia di Akira Kurosawa

 

Una poesia al giorno

Una poesia, di Muhammad Iqbal. (Sir Muhammad Iqbal, nato a Sialkot, 9 novembre 1877, morto a Lahore, 21 aprile 1938) è stato un poeta e filosofo pakistano di origine indiana. Viene considerato il poeta nazionale pakistano. In Allama Iqbal: poesie dal Pakistan - An Angel in the City)

Silente davvero è la luce lunare,
Silenti sono i rami degli alberi,
Silenti i musicanti della valle,
Silenti le verdi creature dei monti.
La natura tutta tutta inebriata
Riposa nel grembo della notte.
Tale è l’incanto di questo silenzio
Che persino il Neckar s’è fermato.
Silente è la carovana delle stelle,
Una carovana senza le campanelle.
Silenti le colline, il fiume e la valle:
La natura s’è persa in contemplazione.
Oh, mio cuore! anche tu troppo silente,
Soffoca il dolore nel tuo seno e dormi.

 

Un fatto al giorno

30 agosto 1918: degli assassini feriscono gravemente il leader bolscevico Vladimir Lenin e uccidono Moisei Uritsky, dando la spinta al decreto che istituirà il Terrore rosso.
“Fanni Efimovna Kaplan, anche detta Fanja (Фаня), pseudonimo di Fejga Chaimovna Rojtblat (Фейга Хаимовна Ройтблат; Governatorato della Volinia, 10 febbraio 1890 - Mosca, 3 settembre 1918), è stata una rivoluzionaria e attivista russa, nota per aver tentato di assassinare il 30 agosto 1918 il leader politico bolscevico Vladimir Il'ič Ul'janov detto Lenin. In qualità di membro del Partito Socialista Rivoluzionario (PSR), la Kaplan vedeva Lenin come un "traditore della rivoluzione", poiché i Bolscevichi volevano mettere al bando il PSR. Il 30 agosto 1918, approcciò Lenin mentre questi stava uscendo da una fabbrica moscovita, e gli sparò tre colpi di rivoltella, ferendolo gravemente. Interrogata dalla Čeka, si rifiutò di rivelare nomi di eventuali complici nell'attentato, e venne fucilata il 3 settembre. L'incidente fu una delle principali provocazioni alla base dell'intensificarsi della guerra civile in Russia e del relativo "Terrore rosso". Alcuni storici mettono in dubbio l'effettiva colpevolezza della Kaplan, in quanto all'epoca dei fatti ella era quasi cieca, a seguito dei numerosi maltrattamenti subiti durante gli anni di prigionia in Siberia”.

“"Mi chiamo Fanny Kaplan. Oggi ho sparato a Lenin. L'ho fatto volontariamente". Queste parole sono conservate negli archivi della Ceka, la polizia segreta russa in merito al tentato omicidio del politico il 30 agosto 1918, che contribuì in gran parte allo scoppio della guerra civile. In My Grand Mother Fanny Kaplan, presentato a fine luglio nella competizione nazionale del Festival Internazionale del Film di Odessa, la regista ucraina Olena Demyanenko si impossessa di questa contro-figura storica, condannata a morte quattro giorni dopo, per presentare un quadro ben lontano dalla versione ufficiale sovietica”.

 

Una frase al giorno

“Finché le donne non saranno chiamate, non soltanto alla libera partecipazione alla vita politica generale, ma anche al servizio civico permanente o generale, non si potrà parlare non solo di socialismo, ma neanche di democrazia integrale e duratura”.

(Vladimir Il'ič Ul'janov, detto Lenin, 1870-1924, rivoluzionario e pensatore politico russo).

 

Un brano al giorno

Daniela Dessì in "Come scoglio", Così fan tutte, Mozart. Orchestra del Teatro alla Scala. Direttore: Riccardo Muti Regia: Michael Hampe Teatro alla Scala, Milano, 1989.

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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web www.brusaporco.org

 

 

 

 

 

UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k