“L’amico del popolo”, 30 giugno 2017

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

THE WAY WE WERE (Come eravamo, USA, 1973) regia di Sydney Pollack. Tratto da un romanzo di Arthur Laurents. Sceneggiatura: David Rayfiel, Arthur Laurents. Fotografia: Harry Stradling. Montaggio: John F. Burnett, Margaret Hamlisch. Musica: Marvin Hamlisch. Con: Barbra Streisand, Robert Redford, Bradford Dillman, Lois Chiles, Patrick O'Neal, Allyn Ann McLerie, Herb Edelman, Diana Ewing, Murray Hamilton, Marcia Mae Jones, Sally Kirkland, Viveca Lindfors.

La vicenda del film si svolge al tempo dell'ultima presidenza di Roosvelt, negli Stati Uniti. Non sono tuttavia i fatti che interessano ma la psicologia dei due protagonisti: Katie, una giovane propagandista, convinta delle sue idee politiche, all'inizio del film in favore del comunismo e alla fine contro la bomba atomica; Hubbel, un giovane americano, benestante, che si è arruolato in marina ed è uno scrittore promettente, sicuro del successo, anche per gli incoraggiamenti di Katie. I due giovani, che si sono innamorati, convivono insieme, hanno una bambina e poi... si separano, avendo riconosciuto la loro incompatibilità psicologica.

“Che cos’è un addio? Ci sono molti modi per lasciarsi. Anche dopo un incontro, un bacio appassionato, una notte a letto. Forse per questo Come eravamo, nel filone sentimentale, è tra i film più disperati. Perché non concede tregua, perché nega il futuro già dalle note di The Way We Were di Marvin Hamlish - che aveva ottenuto l’Oscar - che segna già il tempo del rimpianto, che accentua la nostalgia, che appare come la rappresentazione (all’inizio degli anni ’70) di una Hollywood e un cinema che non ci sono più. Un set da vecchio musical, la rappresentazione del maccartismo, un viaggio nel tempo da metà degli anni ’30 fino all’inizio degli anni ’60. Con due cuori agli antipodi. Da una parte c’è Katie Molosky, una militante comunista che si innamora di Hubbel Gardiner, uno scrittore di talento che poi va ad Hollwood e non riesce a non cedere ai compromessi. La storia d’amore sullo sfondo della Storia come in La mia Africa. Come eravamo era stato concepito su misura per Barbra Streisand e Pollack l’aveva quasi ripudiato dopo i dissidi che aveva avuto con lo sceneggiatore Arthur Laurents (il film si basa sulle sue esperienze autobiografiche). Quest’ultimo aveva infatti scelto il regista dopo aver visto Non si uccidono così anche i cavalli? ma si era ben presto pentito della sua scelta e rimane addirittura inorridito quando vide il primo montato. Ma il suo essere spezzettato (doveva durare più di due ore e si sente) è anche la sua magia. Sembra un film francese recentissimo. Un Desplechin o Assayas piombati nella Hollywood d’inizio anni ’40. Stavolta non sembra essere un cineasta che si appropria del suo film. Ma, al contrario, un film che si appropria del suo cineasta. E ciò non è dovuto all’enorme successo che Come eravamo ha avuto al box office ed è diventato tra i capisaldi dei drammi romantici. Inquadrato maggiormente nella filmografia successiva piuttosto che in quella precedente del cineasta, Come eravamo è un film di attimi, di istanti rubati, di ‘destini incrociati’ (come il titolo del bellissimo film realizzato dal regista nel 1999) dove il corpo di Robert Redford (qui alla terza collaborazione con Pollack dopo Questa ragazza è di tutti e Corvo rosso non avrai il mio scalpo) diventa quasi il volto riconoscibile di un cinema vorticoso nella sua trasparenza, che attraversa il tempo e che sembra sempre sfuggente, inafferrabile. E oggi Come eravamo è ancora attualissimo per come sa raccontare l’incomunicabilità di coppia. C’è lo slancio del desiderio e l’impossibilità della ragione. Ci sono sguardi (il primo sguardo della Streisand su Redford che ha gli occhi chiusi), istanti impercettibili (Hubbel che allaccia la scarpa a Katie) e ogni incontro che potrebbe sempre essere l’ultimo. Con la distanza dei loro due mondi che è siderale. Hubbel ha il suo gruppo di amici. Katie non ne ha e punta tutto su di lui. Vorrebbe possederlo, cambiarlo, renderlo migliore. Com’è il desiderio femminile di quasi ogni donna quando conosce un uomo. Lui è attratto e respinto. Non sa dire di no. Ma neanche di sì. Come eravamo ha dialoghi che pesano sui personaggi come macigni (“Tu non parli, dai lezioni” dice lui a lei), ci sono le dissolvenze su un tempo che passa. I migliori anni della nostra vita. Come la locandina del film di Wyler che si vede. O le maschere come la festa con i travestimenti alla Fratelli Marx. In un film dove il cinema cerca inutilmente di rendere perfetta una storia d’amore che non funziona. Perché Come eravamo “è la storia di una storia che non va” (come ha detto mia moglie Elena). Che cos’è un addio?”

(Simone Emiliani, 7 giugno 2016 su Sentieri Selvaggi)

“Dal romanzo di Arthur Laurents, l'itinerario di una coppia attraverso quindici anni di storia americana dal 1937 ai primi anni '50: guerra di Spagna, Pearl Harbor, la morte di Roosevelt, la "caccia alle streghe" anticomunista e, nel breve epilogo, la campagna contro le armi nucleari. Un film americano che ha per protagonista una comunista e dove si parla esplicitamente dei Dieci di Hollywood. Non sempre le intenzioni della sceneggiatura (dello stesso A. Laurents) coincidono con quelle del regista: squilibri, prolissità, stridori. Caso raro di un film hollywoodiano dove i problemi di una coppia hanno una radice politica. Due Oscar: musiche di Marvin Hamlisch e canzone (del titolo). Difficile alchimia tra R. Redford e B. Streisand: lui sembra che non reciti, lei recita troppo”.

(Il Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli)

“Barbra Streisand e Robert Redford, una sfida tra amore e politica. Il tempo ha scavato rughe profonde in Come eravamo, ciò nonostante si deve al carisma di Barbra Streisand e alla memorabile canzone guida scritta da Marvin Hamlisch e dai coniugi Bergman se questo film resta ancorato nella memoria del grande pubblico. Diretto da Sydney Pollack, Come eravamo rivelava - sin dal titolo - la chiara intenzione di rappresentare, attraverso la storia di una coppia di giovani americani, l’esistenza di una generazione contesa tra i sogni dell’impegno politico e quelli della ricerca di un benessere faticosamente riottenuto dopo una profonda crisi economica. Siamo nella seconda metà degli anni Trenta e l’America guarda con disgustato distacco al sorgere delle dittature europee. La Guerra civile spagnola incombe con i suoi morti e per l’energica attivista comunista Katie Morosky (Barbra Streisand) le cose sembrano chiare come il sole: Hitler e Mussolini minacciano il mondo e l’Unione Sovietica è la luce della pace. La verità del gulag è ancora lontana e, in quell’America ottimista e benestante, ci si illude che non ci sia troppa differenza tra Roosevelt e Stalin. Con un po’ più di cinismo e di sano distacco vive invece l’atletico Hubbell Gardiner (Robert Redford): perché condizionare tutta la propria vita con la politica? Ad unirli, solo l’amore per la scrittura. Così diversi e magicamente attratti, i due vivranno un’intensa storia d’amore. Hubbell venderà le proprie storie ad Hollywood e questo - unito al fatto che nella Mecca del cinema sono tempi di maccartismo - creerà una frattura con Katie, per nulla disposta a scendere a compromessi. La Streisand si butta anima e corpo in una storia fatta su misura per lei, e anche la scelta di Robert Redford (fino all’ultimo titubante, tanto che si pensava di dare la parte a Ryan O’Neal) si rivela azzeccata (...)”

(DVD.it)

“Quando di un uomo si predica il termine «ragazzo», si sa che si vuole alludere a una personalità ancora immatura. Per dimostrare l'assunto, relativo al comportamento di Hubbel, e caricarlo di significati altri (e ben più allarmanti), Pollack ha utilizzato il parametro della storia, cioè il criterio della responsabilità personale di fronte agli eventi d'interesse generale che, tutti coinvolgendo, implicano una scelta pratica: così nel caso della lotta al nazifascismo e al maccartismo, come nell'opposizione al riarmo atomico. Si capisce che tale impostazione non intende valicare, dopo tutto, la sfera del privato, e giungere a mettere in discussione la gestione del potere da parte di Truman, ma, semplicemente, servirsi di tali avvenimenti per politicizzare una «love story». D'altra parte, l'uso della storia, in funzione di una relazione privata, non s'esaurisce nella precisione cronachistica della stessa, ma, e appunto, vuole coscientemente risolversi, attraverso la dicotomizzazione che la sottende, in una generalizzazione etica di una generazione a contatto con un centro di potere. Se si considera che i due piani di lettura - la storia d'amore e la metafora della fine del sogno di fanciullezza della nazione americana - si strutturano con un puntiglioso e ironico riferimento a tutta una tradizione del cinema di quegli anni - da Il ponte di Waterloo a I migliori anni della nostra vita - si capisce che, con il superamento delle regole del melodramma, si apre la strada, nel film, una concezione della vita che non è affatto consolatoria e patetica e neppure storicamente assolutoria, ma intrisa di radicale scetticismo (...), anzi, del cinismo più esasperato. Non a caso, e in profondità, il tema è posto dalla prima composizione letteraria di Hubbel che, parlando di sé, scrive: «Egli era come la nazione nella quale viveva, aveva tutto troppo facilmente», per cui era «pigro» e «cinico». Dal conflitto, tra il rigore dia Katie e la fatuità e la facilità della personalità di Hubbel, consegue la scelta di una impattuibile fedeltà ai propri principi della militante «comunista» e l'adeguazione, totale dello sceneggiatore alle imposizioni del regime e alle sirene dei «caldi californiani». Ma, di entrambe le vicende, il sintomo definitivo che Pollack ci comunica si riassume nell'abbraccio di due sconfitte. È vero che rende onore a Katie e alla sua ostinazione («tu non molli mai»), ma l'assunzione reale di prospettiva concerne «l'America dei belli», per i quali la storia non è mai esistita, nella consapevolezza che «niente cambierà mai»: «i dieci di Hollywood ora sono degli eroi ma, quando usciranno di prigione disoccupati, accetteranno le proposte di un produttore fascista». Su questa i dichiarazione, del fascismo negli Usa, che è insieme un'accettazione della propria impotenza, il cinema americano ha costruito il suo splendido edificio. (...)”

(Alberto Cattini, Cinema e Cinema, 1975)

THE WAY WE WERE (Come eravamo, USA, 1973) regia di Sydney Pollack

 

Una poesia al giorno

Linguaggi, di Bei Dao (北岛 - 1949), pseudonimo di Zhao Zhenkai (趙振開). Dopo i fatti di piazza Tienanmen a Bei Dao, che si trovava all’estero per un ciclo di conferenze, non è stato più consentito di ritornare in patria.

Tante lingue parlano
adesso
in questo mondo

volano in alto le parole

si incontrano
si toccano
urtano
creano scintille

qualche volta di odio
qualche volta d’amore

è alto il grattacielo della razionalità

ma sprofonda senza voce
con pensieri fragili e leggeri
tavolette di bambù

un canestro intrecciato
riempito con ciechi funghi velenosi

quei quadrupedi dipinti sulla roccia
ci calpestano i fiori galoppandoci sopra

ma un soffione segreto
si sviluppa in qualche luogo sulla terra

Il vento ne porta con sé i semi della fine
dentro le innumerevoli lingue

che in questo momento
vive
volano sul mondo

ma la produzione di linguaggio
così incorporea
non può in alcun modo
aumentare o alleggerire
Il taciturno dolore degli uomini.

In originale:


许多1种2语言
在这世界上飞行
碰撞,产生了火星
有时是仇恨
有时是爱情
理性的大厦
正无声的陷落
竹简般单薄的思想
编成的篮子
盛满盲目的毒蘑
那些岩画上的走兽
踏着花朵驰过
一颗蒲公英秘密地
生长在某个角落
风带走了它的种子
许多种语言
在这世界上飞行
语言的产生
并不能增加或减轻
人类沉默的痛苦

 

Un fatto al giorno

Notte tra il 30 giugno e il 1° luglio del 1934: la “notte dei lunghi coltelli”.
“La notte dei lunghi coltelli (la traduzione in tedesco è Nacht der langen Messer, ma in Germania l'evento è ricordato come Röhm-Putsch, secondo l'espressione coniata dal regime nazista) fu l'epurazione avvenuta per mano delle SS che ebbe luogo in Germania per ordine di Adolf Hitler fra il 30 giugno e il 1° luglio del 1934, coinvolgendo i vertici delle SA - le squadre d'assalto naziste - riuniti nella cittadina di Bad Wiessee, unitamente ad altri oppositori del regime, vecchi nemici o ex compagni politici di Hitler, e anche alcune persone estranee alla vita politica o militare tedesca. Secondo i dati forniti il 13 luglio dallo stesso Cancelliere del Reich, furono assassinate 71 persone, ma il totale delle vittime fu stimato tra le 150 e 200; di 85 di esse si conosce il nome”.

(Wikipedia)

“Una delle notti più tenebrose del nazismo è quella in cui si regolano i conti, proprio come avviene tra i gangster. È Adolf Hitler stesso, pistola in pugno, a guidare un’operazione spietata contro i suoi oppositori tra i quali vecchi amici come Ernst Rohm, capo delle SA, la milizia armata del partito nazionalsocialista. Nella notte tra il 29 e il 30 giugno 1934 le SS di Heinrich Himmler fanno irruzione in un albergo di Bad Wiessee, in Baviera, dove è in corso un raduno delle SA. È la notte dei lunghi coltelli, in cui Hitler si sbarazza dei suoi avversari interni ed esterni. Un bagno di sangue di tre giorni che dalla Baviera arriva fino a Berlino e in altre città della Germania. Alla fine si conteranno circa 200 persone uccise e oltre 1000 arrestate. Tra le vittime, oltre ai vertici delle SA ci sono però anche importanti leader politici della repubblica di Weimar che nulla hanno a che fare con le squadre di Ernst Rohm”.

Disegno di Boris Artzybasheff apparso su Life, raffigurante gli incubi di Hitler

 

Una frase al giorno

“Dopo la guerra dominava il sentimento della rinascita, della speranza: tutto il male era finito, si poteva ricominciare. Adesso, non so se quest'ombra che si allunga sull'Italia preveda una resurrezione. Dopo la guerra, si aveva il sentimento d'aver patito sciagure immeritate ma che facevano parte della Storia, che rendevano partecipi della Storia: non era certo un conforto, ma alle sofferenze dava un senso, un riscatto. Adesso questo manca del tutto: c'è soltanto il sentimento d'un buio in cui stiamo sprofondando”

(Federico Fellini, 1920-1993, regista, scrittore, sceneggiatore e fumettista italiano)

 

Un brano al giorno

1812 Overture, in Mi maggiore, Op. 49, composta nel 1880 da Pyotr Ilyich Tchaikovsky. Claudio Abbado dirige i Berliner Philharmoniker. 

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

e-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
web www.brusaporco.org

 

 

 

 

 

UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k