“L’amico del popolo”, 4 ottobre 2017

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

CRNA MAČKA, BELI MAČOR (Gatto nero, gatto bianco, Jugoslavia, Francia, Germania, 1998), regia di Emir Kusturica. Sceneggiatura: Emir Kusturica, Gordan Mihic. Fotografia: Thierry Arbogast. Montaggio: Mica Zajc Svetolik. Musica: Brynley Cadman, Dr. Nele Karajlic, Dejan Sparavalo. Con: Florijan Ajdini (Zare), Zabit Mehmedovski (Zarije), Bajram Severdzan (Matko), Sabri Sulejman (Pitic).

Pitic, padrino gitano magnate delle discoteche, e Zarije, proprietario di un cementificio, non si vedono da tantissimo tempo. Sono arrivati ad 80 anni e rimangono grandi amici. Zarjie vuole chiedere a Pitic del denaro per concludere un affare legato al mercato nero del petrolio. Per assicurarsi il prestito, Matko, figlio di Zarjie, dice a Pitic che suo padre è morto. Pitic ne è profondamente colpito e decide di andare sulla tomba di Zajie. Matko vuole coinvolgere nell'affare Dadan, re dei gangster gitani. Zare, figlio di Matko, deve sposare la sorella di Dadan, la piccolissima Afrodita. Ma il giorno del matrimonio Zare e Afrodita si ribellano e Zare aiuta Afrodita a scappare. La ragazza trova comprensione tra le braccia dello spilungone Grga, nipote di Pitic. Le cose sembrano appianarsi. Zare è libero di sposare la cameriera Ida e organizza subito un matrimonio per sé e per Afrodita. Mentre Pitic muore e si scatena il putiferio, Zare e Ida fuggono con una fisarmonica piena di soldi, minacciando il prete alla presenza di due testimoni, un gatto nero e uno bianco.

Gatto nero, gatto bianco (ma come si vedrà uno dei due felini è femmina) è Il tempo dei gitani girato da un Kusturica di buon umore - e con (un po' più di) senso della misura. E' anche il film apparentemente apolitico di un autore che dopo le polemiche seguite a Underground aveva annunciato che non avrebbe più fatto cinema. Insomma, sembra che il regista di Sarajevo dica "niente politica, siamo zingari" - e si scopre invece che sotto il film corre una sottile vena di promozione della bizzarria, tolleranza, vitalità di cui si nutre o si dovrebbe nutrire la koiné culturale jugoslava postbellica. Di Il tempo dei gitani il film di Kusturica (il sesto in tutto, lungo diciassette anni di lavoro) ritrova la nonna (Liubica Adzovi) nel ruolo di una nonna, i riti matrimoniali rumorosi e sovreccitati, il velo nuziale che vola per conto suo sullo sfondo del cielo, la festa dei decibel, l'estetica dei detriti colorati, la virilità aggressiva. Ma qui la vitalistica, smodata allegria di un mondo coloratissimo, picaresco, turbolento, grottesco, qualche volta persino poetico (si veda l'inseguimento da favola della nanetta travestita da tronco d'albero) si presenta come la faccia più immediata di un dualismo per cui, come nel West dei bei tempi, anche nella ex-Jugoslavia gitana tutti hanno la pistola facile, il denaro è la molla di ogni gesto e i clan sono l'un contro l'altro armati. Eccoci dunque sul bel Danubio blu affollato di barche, di traffici e di mascalzoni che non sembra abbiano mai sentito parlare di pulizie etniche o di Kossovo. Matki (Bajram Severdzan) è uno zingaro in cerca del colpaccio che gli cambi la vita. Ma gli riesce solo di combinare un gran pasticcio: il ras dei gangster locali lo frega a dovere, e la lotta tra i clan si riassume in un complotto degli adulti ai danni di due ragazzi riluttanti che dovrebbero sposarsi contro i loro sogni. Siamo in un cinema vitalistico, rumoroso, agitato, senza pause, che può provocare nello spettatore più delicato il mal di testa, come capita anche a uno dei due simpaticissimi ma faticosi padrini gitani del film. Ma se si riesce ad entrare nel gioco del film - che è nato, curiosamente, come documentario su un gruppo di musicisti ed ha preso la sua forma narrativa strada facendo - Gatto nero gatto bianco è divertimento in offerta speciale. Dal maiale che pazientemente e metodicamente sgranocchia la carrozzeria di un'auto al nonno fanatico di Casablanca (con relative citazioni ironiche), dalla gigantesca cantante acconciata alla Kaurismaki che fa uno strano numero con il sedere al ras Dadan Karambolo (lo strepitoso Srdjan Todorovic) perennemente scoppiato e survoltato, che porta la coca in un crocefisso e finisce, letteralmente nella merda, Gatto nero gatto bianco continua a sorprendere e quasi sempre a divertire: e anche se non è il miglior film di Kusturica (difficile battere le sue prime amarognole commedie o un capolavoro visionario come Underground) il film lascia il segno, come è successo a Venezia, dove i suoi gitani sono stati, assieme alla borghesia provinciale di Racconto d'autunno, i concorrenti più attendibili al Leone d'oro andato a Gianni Amelio”.

(Irene Bignardi, La Repubblica, 8/11/1998)

“Il singolare titolo del film, che in una corretta traduzione dall’originale diventerebbe “gatta nera, gatto bianco”, trova un’efficace interpretazione all’interno del sistema che unisce i personaggi più giovani. Infatti Zare è bruno di capelli, di carnagione scura, lento e sognatore, mentre Ida è bionda, di pelle decisamente più chiara, sempre in movimento, molto pragmatica e sveglia. Ancora più deciso è il contrasto tra la piccola e indomita Afrodita e Grga Jr., il gigante spilungone e idealista. Bella la prima coppia, decisamente bruttina la seconda. Ma proprio nell’antiteticità degli amanti, nell’attrazione tra gli opposti, risiede il carattere straordinario del sentimento d’amore che unisce i protagonisti. Personaggi che hanno tuttavia una caratteristica che li accomuna. Si tratta della tenera ingenuità e della dolcezza di cui sono disponibili nei confronti del mondo. Zare appare addirittura come una figura naïve, mentre la piccolissima Afrodita viene significativamente soprannominata “Bubamara”, coccinella. L’ambiente naturale, prezioso giacimento di metafore, è il luogo in cui entrambe le coppie si dichiarano. Zare e Ida nella sequenza dell’amore tra i girasoli, quindi in mezzo al fiume con la camera d’aria utilizzata come salvagente che rappresenta una felice condizione di isolamento dalle insidie del mondo. Il colpo di fulmine tra Grga Jr. e Afrodita avviene nel bosco, luogo archetipico dell’universo fiabesco, di cui i due rappresentano il mito rovesciato di Cenerentola e del Principe Azzurro. Tutti i personaggi dei giovani denotano inoltre una naturale propensione alla ribellione. Abitanti di un mondo che vuole essere la complessa allegoria di un moderno Far West, essi trovano nel loro atto di protesta contro le leggi degli adulti un barlume di possibilità di non diventare dei criminali. Nella visione del film i Balcani di oggi vengono rappresentati come un mondo in cui regna la corruzione e dove la microcriminalità, spezzettata e spesso esercitata individualmente, costituisce il solo modello di sopravvivenza. Emblematica, in tal senso, la scena in cui una ragazzina imita il film Strade di fuoco di Walter Hill, attribuendo all’immaginario di matrice occidentale una matrice d’ispirazione assai diffusa tra i giovani dell’Europa dell’Est. Quella descritta dal film è una società dove regna la tradizione: è la nonna di Ida ad affermare che andare contro la tradizione porta male. Una società dove trionfa l’educazione all’immagine esteriore: la nonna di Ida dice alla ragazza che non deve farsi vedere dalla gente mentre sta piangendo. Ma soprattutto si tratta di una società profondamente patriarcale, dominata dall’imposizione dei padri sui loro eredi, dove l’unico obiettivo è quello di sistemare materialmente i propri figli attraverso un matrimonio d’interesse. Ma spesso e volentieri proprio i personaggi che sono apparentemente più deboli arrivano a farsi beffe dei più forti, li mettono in una luce ridicola, sovvertendo l’ordine del mondo. E le vittime di un tale sovvertimento sono gli appartenenti alla generazione di mezzo. Oltre alla simpatia nei confronti dei giovani, il film è caratterizzato anche dalla simpatia verso gli anziani. Gli adulti in attività vengono, infatti, rappresentati come ossessionati unicamente dagli affari e dalle speculazioni. Si instaura così un rapporto privilegiato tra nipoti e nonni che salta una generazione di adulti falliti o ipocriti. I vecchi, che appartengono in modo romantico al passato, non muoiono mai veramente, sono sempre pronti a risorgere, come accade ai due vecchi amici uniti da un legame che costituisce l’incipit del racconto. Sarà proprio uno dei nonni a nascondere in una fisarmonica il denaro ricavato dalla vendita della cava per garantire un futuro a Zare e a Ida in viaggio sul fiume della vita. Come a dire che è nell’arte, nella musica e nella poesia, che risiede la vera ricchezza”.

 

Una Poesia al giorno

All’Italia, di Francesco Petrarca

Spunto di questa celeberrima canzone politica del Petrarca fu, con ogni probabilità, una guerra svoltasi tra 1344 e 1345 tra Estensi e Gonzaga a Parma, in seguito alla cessione della città da parte di Azzo da Correggio al marchese Obizzo d’Este, anziché a Luchino Visconti. Lo spunto iniziale si traduce tuttavia in un monito e in una perorazione ai principi italiani affinché abbandonino i loro interessi particolaristici, che si traducono nelle numerose lotte intestine che affliggono il Belpaese, nonché in un’esaltazione del glorioso passato della penisola. Secondo Petrarca, è l’ambizione dei signori ad averli indotti ad assoldare soldati prezzolati, che in quanto tali non possono avere a cuore l’Italia: grazie a queste argomentazioni (l’appello alla tradizione e alle virtù classiche, la cura retorica del dettato, l’identificazione nell’Italia della patria della cultura umanistica) la canzone è riuscita ad astrarsi dal suo contesto, e conoscere una straordinaria fortuna.

All’Italia

Italia mia, benché ’l parlar sia indarno
a le piaghe mortali
che nel bel corpo tuo sì spesse veggio,
piacemi almen che’ miei sospir’ sian quali
spera ’l Tevero et l’Arno,
e ’l Po, dove doglioso et grave or seggio.
Rettor del cielo, io cheggio
che la pietà che Ti condusse in terra
Ti volga al Tuo dilecto almo paese.
Vedi, Segnor cortese,
di che lievi cagion’ che crudel guerra;
e i cor, che ’ndura et serra
Marte superbo et fero,
apri Tu, Padre, e ’ntenerisci et snoda;
ivi fa che ’l Tuo vero,
qual io mi sia, per la mia lingua s’oda.

Voi cui Fortuna à posto in mano il freno
de le belle contrade,
di che nulla pietà par che vi stringa,
che fan qui tante pellegrine spade?
perché ’l verde terreno
del barbarico sangue si depinga?
Vano error vi lusinga:
poco vedete, et parvi veder molto,
ché ’n cor venale amor cercate o fede.
Qual più gente possede,
colui è più da’ suoi nemici avolto.
O diluvio raccolto
di che deserti strani
per inondar i nostri dolci campi!
Se da le proprie mani
questo n’avene, or chi fia che ne scampi?

Ben provide Natura al nostro stato,
quando de l’Alpi schermo
pose fra noi et la tedesca rabbia;
ma ’l desir cieco, e ’ncontr’al suo ben fermo,
s’è poi tanto ingegnato,
ch’al corpo sano à procurato scabbia.
Or dentro ad una gabbia
fiere selvagge et mansüete gregge
s’annidan sì che sempre il miglior geme:
et è questo del seme,
per più dolor, del popol senza legge,
al qual, come si legge,
Mario aperse sì ’l fianco,
che memoria de l’opra ancho non langue,
quando assetato et stanco
non più bevve del fiume acqua che sangue.

Cesare taccio che per ogni piaggia
fece l’erbe sanguigne
di lor vene, ove ’l nostro ferro mise.
Or par, non so per che stelle maligne,
che ’l cielo in odio n’aggia:
vostra mercé, cui tanto si commise.
Vostre voglie divise
guastan del mondo la più bella parte.
Qual colpa, qual giudicio o qual destino
fastidire il vicino
povero, et le fortune afflicte et sparte
perseguire, e ’n disparte
cercar gente et gradire,
che sparga ’l sangue et venda l’alma a prezzo?
Io parlo per ver dire,
non per odio d’altrui, né per disprezzo.

Né v’accorgete anchor per tante prove
del bavarico inganno
ch’alzando il dito colla morte scherza?
Peggio è lo strazio, al mio parer, che ’l danno;
ma ’l vostro sangue piove
più largamente, ch’altr’ira vi sferza.
Da la matina a terza
di voi pensate, et vederete come
tien caro altrui che tien sé così vile.
Latin sangue gentile,
sgombra da te queste dannose some;
non far idolo un nome
vano senza soggetto:
ché ’l furor de lassù, gente ritrosa,
vincerne d’intellecto,
peccato è nostro, et non natural cosa.

Non è questo ’l terren ch’i’ toccai pria?
Non è questo il mio nido
ove nudrito fui sì dolcemente?
Non è questa la patria in ch’io mi fido,
madre benigna et pia,
che copre l’un et l’altro mio parente?
Perdio, questo la mente
talor vi mova, et con pietà guardate
le lagrime del popol doloroso,
che sol da voi riposo
dopo Dio spera; et pur che voi mostriate
segno alcun di pietate,
vertù contra furore
prenderà l’arme, et fia ’l combatter corto:
ché l’antiquo valore
ne gli italici cor non è anchor morto.

Signor’, mirate come ’l tempo vola,
et sì come la vita
fugge, et la morte n’è sovra le spalle.
Voi siete or qui; pensate a la partita:
ché l’alma ignuda et sola
conven ch’arrive a quel dubbioso calle.
Al passar questa valle
piacciavi porre giù l’odio et lo sdegno,
vènti contrari a la vita serena;
et quel che ’n altrui pena
tempo si spende, in qualche acto più degno
o di mano o d’ingegno,
in qualche bella lode,
in qualche honesto studio si converta:
così qua giù si gode,
et la strada del ciel si trova aperta.

Canzone, io t’ammonisco
che tua ragion cortesemente dica,
perché fra gente altera ir ti convene,
et le voglie son piene
già de l’usanza pessima et antica,
del ver sempre nemica.
Proverai tua ventura
fra’ magnanimi pochi a chi ’l ben piace.
Di’ lor: - Chi m’assicura?
I’ vo gridando: Pace, pace, pace.

 

Un fatto al giorno

4 ottobre 1582: Papa Gregorio XIII introduce il calendario Gregoriano. In Italia, Polonia, Portogallo e Spagna, il 4 ottobre di quell’anno verrà seguito direttamente dal 15 ottobre, "rubando" 10 giorni per rimettere in linea il computo del tempo del calendario precedente e la durata dell'anno solare.

“Nell’ottobre del 1582, con la bolla Inter gravissimas promulgata da papa Gregorio XIII, si cominciò a utilizzare un nuovo calendario, chiamato appunto “Gregoriano”, che ancora oggi è quello in vigore nella maggior parte del mondo occidentale. L’obiettivo del calendario era rimettere ordine nella scansione e nel calcolo del tempo, adottando un sistema più preciso rispetto al calendario giuliano che era stato usato fino ad allora. Il 5 ottobre di 434 anni fa, secondo il calendario giuliano, divenne improvvisamente il 15 ottobre: il 1582 durò quindi una decina di giorni in meno, salto necessario per riallineare il calcolo dei giorni del calendario con l’anno solare. Da allora, il calendario gregoriano suddivide l’anno in 12 mesi con durate diverse, da 28 a 31 giorni, per un totale di 365 giorni e di 366 nel caso degli anni bisestili”.

Prima del calendario gregoriano
Il calendario giuliano aveva stabilito che fossero contati come bisestili gli anni la cui numerazione è un multiplo di 4 per assecondare meglio la durata dell’anno solare (il tempo che la Terra impiega per compiere un giro intorno al Sole): quindi un anno di 366 giorni ogni tre da 365, per un anno medio che dura 365 giorni e 6 ore. Il problema è che questa durata media non corrispondeva con esattezza a quella dell’anno solare medio: basandosi sulle osservazioni astronomiche si era infatti scoperto che questo dura 11 minuti e 14 secondi in meno rispetto a quello medio del calendario giuliano. Ogni 128 anni, il calendario giuliano accumulava quindi un giorno di ritardo, sfalsando il conteggio dei giorni rispetto a quello delle stagioni (regressione dell’equinozio di primavera).
Questo sfasamento divenne un problema soprattutto per l’organizzazione dell’anno liturgico, che parte dalla Pasqua la cui data è stabilita calcolando la prima domenica dopo il plenilunio di primavera. Nel 1582, per esempio, a causa dello sfasamento nel calcolo dei giorni la primavera astronomica non iniziò il 21 marzo, ma l’11 marzo, sballando il calcolo dei periodi liturgici come Pentecoste e Quaresima. Si decise quindi di riformare il calendario per recuperare i giorni perduti stando dietro al calendario giuliano e di calcolare una nuova durata media dell’anno, per evitare che lo sfasamento si ripetesse negli anni futuri. L’incarico fu affidato al gesuita Cristoforo Clavio, con cui collaborarono il medico Luigi Lilio, il matematico Ignazio Danti e l’astronomo Giuseppe Scala. Il gruppo di esperti si basò sui calcoli di Niccolò Copernico pubblicati una quarantina di anni prima”.

 

Una frase al giorno

“Io perdono all'attore tutti i difetti dell'essere umano, nessun difetto dell'attore perdono all'essere umano”.

(Johann Wolfgang von Goethe, 1749-1832, poeta e scrittore tedesco)

 

“Il pittore di ritratti è come lo scrivano, obbligato a copiare l'altrui scritto, senza poterlo correggere quando è sbagliato”

(Alessandro Francesco Tommaso Manzoni, 1785-1873, scrittore e poeta italiano)

 

Un brano al giorno

Engelbert Humperdinck, "Hansel und Gretel" (eseguita per la prima volta il 23 dicembre 1893 a Weimar)

Compositore - Engelbert Humperdinck (Siegburg, 1º settembre 1854 -Neustrelitz, 27 settembre 1921)
Renate Hoff (Soprano - Gretel)
Ingeborg Springer (Mezzo soprano - Hansel)
Theo Adam (Baritono - Peter)
Gisela Schroter (Mezzo soprano - Gertrud)
Peter Schreier (Tenore - Witch)
Renate Krahmer (Soprano - Sandman)
Direttore - Otmar Suitner

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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