L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...
Un film al giorno
ET LA LUMIÈRE FUT (Un incendio visto da lontano, Francia, 1988), regia di Otar Iosseliani. Sceneggiatura: Otar Iosseliani, Mina Kindl. Fotografia: Robert Alazraki. Montaggio: Marie-Agnes Blum, Ursula West, Otar Iosseliani. Musiche: Nicholas Zourabichvili Con: Souleimane Sagna, Saly Badji, Binta Cissè, Marie Christine Dieme, Fatou Seydi, Alpha Sane, Sigalon Sagna.
In un villaggio di capanne nel Senegal la vita si svolge piuttosto calma nel rispetto di leggi ambientali e di riti tribali. Sembra imperare con forza il matriarcato. A volte si invoca la pioggia e a volte il Vecchio dio - un idoletto di legno - la manda per la gioia di tutti. Matrimoni e ripudi vengono operati secondo formule antichissime. La disintegrazione arriva con i primi camion dei bianchi, guidati dai neri, poiché non lontano si abbattono alberi giganteschi e ultracentenari, per aprire strade che finiscono con il creare deserti rossastri e praticamente senza vita. Lentamente il villaggio muore, molti vanno in città come salariati o modesti artigiani, trasformati da semplici e liberi in fantocci rivestiti chiassosamente, ma patetici, destinati a vendere paccottiglia e giornali sui marciapiedi. Poi il villaggio viene dato alle fiamme ed un gruppo di turisti accampati nei paraggi vede da lontano l'incendio di quel lembo di foresta rigogliosa. Solo una coppia di giovani e i tre bambini tornano in quel sito diventato squallido, per ricostruirvi la loro capanna bruciata. Con nessuna speranza per l'avvenire.
Fino a un certo punto, insomma, il film può risultare impertinente o futile secondo gli umori. Ma andando avanti si intensifica il traffico dei camion intravisti fin dall'inizio, si moltiplicano gli schianti degli alberi nella foresta ed è chiaro che per il villaggio è finita. Stralunato è l'itinerario del meschino Yeré alla ricerca della moglie e dei figli, con il ciuccio fra lo sfrecciare di macchine della camionabile. Alle porte della città i neri in divisa gli infilano pantaloni e camicia, gli impongono la carta d'identità. C'è un comizio dittatoriale con gli applausi obbligati e i bambini schierati come balilla. La famigliola si ricongiunge in una bidonville e ogni ritorno sull'area devastata del villaggio diventa impossibile. Finiranno a vendere finti idoli sul marciapiede come vu' cumprà. Il viaggio di Yeré è un film nel film per il quale non sarebbe sprecata la parola capolavoro. Ai tempi dell'impegno avremmo preteso dal regista anche la soluzione del problema, che di solito si ipotizzava alzando il pugno o agitando la bandiera di un sol colore. Oggi ci basta che il problema stesso sia intimamente percepito, con la grazia dolente di un umorista malinconico, e contemplato sia pure da lontano.
(Tullio Kezich, 'Il Corriere della Sera', 1 dicembre 1989)
“Scandito da ventisei tabelle di didascalie e dialoghi come in un film etnografico, parlato in lingua diola, interpretato da attori neri improvvisati, 'Un incendio visto da lontano' ('Et la lumière fut', 1989) descrive, nei modi di un saggio di antropologia immaginaria, vita, costumi, usanze di un villaggio in mezzo alla foresta, una sorta di paradiso terrestre dove, quietamente tiranne, spadroneggiano le donne. All'ultima mostra veneziana dove vinse il Gran Premio speciale della giuria (cioè il secondo) i critici si divisero almeno in tre gruppi. Alcuni lo trovarono soporifero, piatto, cerebrale con qualche lampo di aguzza ironia, in bilico tra futilità e impertinenza. Altri misero l'accento sul sarcasmo beffardo, sull'umorismo aggressivo, notando, però, che la sua ironia antropologica può risultare a doppio taglio. Il sottoscritto si trovò nel terzo gruppo, quelli che, pur con tiepida adesione e non negando la sua spiazzante e fluida ambiguità, amarono il film. Controllato da una scrittura fredda e rigorosa nella sua rinuncia allo spettacolo, ravvivato da scatti di magica fantasia e da invenzioni di garbato umorismo, lo trovo un film monocorde e melanconico, di una tristezza leggera che il secco epilogo sottolinea. 'L'emozione della tristezza - dice Iosseliani - è positiva: significa che non abbiamo perso la memoria'."
('Il Giorno', 1 dicembre 1989)
"L'equilibrio non sempre è raggiunto, specie là dove i dati concreti costeggiano certi momenti dichiaratamente visionari, ma la misura del racconto continua ad essere, anche quando certi stridori sembrano farsi avanti, il continuo incontro fra l'occhio dell'autore e quello dei suoi personaggi, con una oggettività che riesce a diventare anche creativa: in cifre in cui la poesia e l'ironia, il dolore e la polemica implicita giungono, nelle pagine migliori, a fondersi con decisa intensità. Tra la cronaca e l'ode. Mi auguro che lo spettatore italiano, non fermandosi alle semplici apparenze, senta e capisca fino in fondo. La storia ci arriva da lontano ma la favola ha sapori quotidiani che la inseriscono direttamente nel reale. Basta tendere l'orecchio e aprire il cuore. Conquisterà senza fatica."
('Il Tempo', 25 novembre 1989)
“Tra favola e sarcasmo, tra natura e cultura, Otar Ioseliani, 55 anni, georgiano emigrato a Parigi, regista di ammirevole grazia, intelligenza e umorismo, affronta un apologo incantevole ambientato in un immaginario villaggio africano il tema dell’estinzione di costumi e tradizioni originali e della distruzione del paesaggio a causa d’un “progresso” omologante. Alcuni intellettuali africani hanno visto nel film “un paternalismo appena velato”, hanno accusato l’autore di ‘aver contribuito a rafforzare l’immagine del nero poco intelligente’ ”.
(Lietta Tornabuoni, La Stampa)
“Et la lumière fut, e la luce fu: questo è il titolo originale di Un incendio visto da lontano. Evidente il senso, o meglio il capovolgimento ironico di senso: non di un sacro inizio del mondo racconta Otar loseliani, ma proprio della sua fine, del buio che l’attende, sempre più vicino. Per banalità e pigrizia intellettuale, siamo forse indotti a pensarla. Quella catastrofe oscura, nei termini della prospettiva neoapocalittica di questi nostri anni. La immaginiamo come un capitolo o una chiosa dell’ideologia e della mitologia che oggi prevale (con molte ragioni) su ogni altra ideologia e su ogni altra mitologia, quella ecologica”.
(Roberto Escobar, Il Sole-24 Ore)
“Un incendio visto da lontano del georgiano francesizzato Otar Ioseliani è un esempio di cinema-sberleffo, un assiduo esercizio dell'intelligenza intorno a un tema oggi di moda, l'ecologia. Che cosa avrà pensato Ioseliani? La nostalgia di tutti corre a una mitica età dell'oro in cui i fatti avvenivano fuori delle leggi del mercato. Ioseliani ha inventato il villaggio dell'eterna beatitudine e l'ha collocato in Africa. Una società matriarcale, dove comandano bellissime donne che indossano con disinvoltura i topless disegnati a Parigi, vive le proprie vicende quotidiane con humour aggressivo”.
(Stefano Reggiani)
“Non è propriamente un'infatuazione per l'etnografia quella che ha spinto Iosseliani a filmare l'alba rosa africana e l'inedia quotidiana degli abitanti di un immaginario villaggio del Senegal. Né il presuntuoso terzomondismo di chi ha deciso che il globo ormai si divide in nord e sud, il nord delle civiltà e il sud dei rimpianti. Nel suo cerchio di capanne dove spadroneggia un gruppetto di donne e gli uomini si arrendono alle loro decisioni, soprattutto in materia di matrimoni e di ripudi, c'è tutta l'ironia di uno sguardo trasversale che inventa mitologie ed abitudini e miscela l'evento soprannaturale con la pesca nel fiume e i messaggi al tam tam. In loro compagnia per un paio d'ore si impara a conoscerle le tiranne, ad amare soprattutto Okonoro, volubile schiava di un amore che la porta da un matrimonio all'altro con i figli in dote. E si segue il marito Yeré che la va a cercare fra mille peripezie e il beneplacito della comunità. Se la sciamana riesce a restituire la vita a un decollato, e una donna infuriata scaccia le vicine creando una tempesta con un soffio della bocca, allora siamo alla presenza di un soprannaturale che non può stupire, e si concilia con uno stile di vita perduto nella memoria che Iosseliani immagina da qualche parte ancora esistente. Un mondo linguisticamente impenetrabile (si parla un dialetto africano, e solo qualche raro cartello come nel muto interviene a indicare la presenza di un nuovo episodio narrativo) e purissimo, dove si ama, si piange, si ride, e anche vita e morte si compendiano: la bambina che sta per nascere si chiamerà Imana e la vecchia che porta il suo nome dovrà lasciarle il posto. Allontanata dal villaggio compirà a cavallo il suo viaggio verso la morte, per permettere che la nuova Imana porti scritto nel nome il coraggio delle altre che l'hanno preceduta. Mentre le immagini scorrono, nella serena letizia di fatti che sono sempre gli stessi, i camion che passano gettando riviste e caramelle costituiscono l'inevitabile ingresso dell'elemento perturbatore, il dolente contrappunto annunciato in sordina: verrà il giorno che i baobab cadranno sotto il peso delle seghe elettriche, verrà quello in cui gli abitanti saranno costretti a fuggire abbandonando il villaggio alle fiamme, mentre un gruppo di turisti di passaggio (riconosciamo fra questi Iosseliani) si limiterà a constatare l'esistenza di un incendio di lontano. L'asciuttezza dell'epilogo, con la pubblica vendita nella città civilizzata dell'idolo che faceva piovere e tornare asciutto (divinità ghignante e assorta riprodotta poi in serie per i turisti), avverte che abbiamo assistito alla recita delle miserie contemporanee condotta con sommo rigore, senza scomodare toni elegiaci o ricatti sentimentali. Lo sguardo di Iosseliani (anche quello attonito che osserva l'incendio) piace e coinvolge senza chiederlo. Et la lumière fut è debitore della ricerca intrapresa dal regista georgiano con il mediometraggio Un piccolo monastero in Toscana. Una ricerca silenziosa alle radici della civiltà al declino: un amore sottaciuto per l'idea di ciò che eventualmente le sopravvive, e senza le fanfare di chi grida allo scempio di un Eden perduto.
(Cristina Jandelli "Vivilcinema" n. 15-16, novembre-dicembre 198)
Iosseliani si inserisce nel conflitto doloroso fra natura primitiva e storia. Meglio ancora, il cineasta filma questo confronto. Il villaggio primitivo racconta la storia contemporanea per caso, brutalmente. Il primo piano è evocativo: un tronco enorme, a terra, schiaccia tutto al suo passaggio: la storia avanza con fragore verso il povero villaggio. In più Iosseliani ha trovato un genere capace di sostenere con semplicità questa mitologia minacciata da ogni manicheismo: "la favola". Composta da un incrocio di storie familiari, come ogni storia delle origini, di immagini simboliche (gli uomini lavano la biancheria, le donne vanno a caccia), gli effetti della magia e i rituali di gruppo, la favola sviluppa tranquillamente il suo racconto lineare. Implacabilmente si opera la dimostrazione: i legami della comunità si degradano progressivamente a contatto con la storia che avanza. Il tono è rousseauiano, ma leggero, riconcilia Jean-Jacques e Voltaire. Visceralmente pessimista - l'età dell'oro è alle origini del mondo, non alla sua fine - ma smodatamente ridanciano, sempre dimostrativo, mai sentenzioso. Iosseliani ritrova deliziosamente la passione dei Lumières per le letterature e le comunicazioni primitive”.
(Antoine De Baecque, Cahiers du cinéma n. 427, gennaio 1990)
“È il film più bizzarro e più sconcertante che vi possa capitare di vedere in questa stagione. Qui di seguito vi proponiamo alcune "istruzioni per l'uso" forniteci dal regista stesso, che dovrebbero servire soprattutto a capire che cosa non è il film e che cosa non è Otar Iosseliani. Iosseliani intanto non è un documentarista, e Un incendio visto da lontano, nonostante l'inizio che pare un reportage sulla distruzione delle foreste, non è un film etnografico. "Ho lungamente preparato il film mediante lo studio del folklore e dei miti africani. L'ho scritto in tutti i dettagli, poi sono partito per l'Africa alla ricerca del luogo giusto per girarlo. Cercavo una popolazione che avesse una tradizione molto antica, per ritrovare in questa tradizione le tracce delle antiche culture del mondo. Come 'cultura' io non intendo le opere d'arte, o il pensiero metafisico. Per me la cultura è come la biologia: è l'esperienza delle generazioni, una somma di regole per vivere nel mondo, in gruppo. La vita dei monaci è una cultura, la democrazia greca era una cultura. Sembra un approccio antropologico, ma Iosseliani, proseguendo nelle nostre definizioni in negativo, non è Lévi-Strauss. Le sue idee sono più poetiche che antropologiche in senso stretto: "La cultura è vulnerabile, muore molto facilmente. Perché una cultura, giocoforza, produce beni materiali, e il desiderio del possesso dei beni è la prima cosa che la distrugge. La cultura scompare e diventa civiltà: ovvero lo sfruttamento del pensiero e del lavoro in funzione di comfort, del privilegio di pochi a danno di molti".
(Alberto Crespi, L'Unità 28.11.1989)
- Immagini: Et La Lumiere Fut
- Film completo: www.youtube.com
Una poesia al giorno
“Sonnets From Portoguese”, Sonnet 43 di Elizabeth Barrett Browing (1806-1861)
Come ti amo? Lasciami dire in quanti modi.
Ti amo nella profondità, nell' ampiezza e nell'altezza
che la mia anima può raggiungere, quando si sente sola
ai confini dell' Esistenza e della Grazia ideale.
Ti amo nella quotidiana e serena necessità, con il sole e alla luce della candela.
Ti amo in libertà, come chi lotta per la Giustizia;
ti amo semplicemente, come chi evita la Lode.
Ti amo con la passione che usavo mettere
nei miei vecchi dolori, e con la fiducia della mia fanciullezza.
Ti amo con un amore che credevo di aver smarrito,
con i miei perduti santi,- ti amo con i sospiri,
i sorrisi, le lacrime, di tutta la mia vita! – e, se Dio vuole,
ancor di più ti amerò ben oltre la morte.
How do I love thee? Let me count the ways.
I love thee to the depth and breadth and height
My soul can reach, when feeling out of sight
For the ends of Being and ideal Grace.
I love thee to the level of everyday's
Most quiet need, by sun and candle-light.
I love thee freely, as men strive for Right;
I love thee purely, as they turn from Praise.
I love thee with the passion put to use
In my old griefs, and with my childhood's faith.
I love thee with a love I seemed to lose
With my lost saints,-I love thee with the breath,
Smiles, tears, of all my life!-and, if God choose,
I shall but love thee better after death.
- Elizabeth Barrett Browning: A documentary
- La morte a Firenze di Elizabeth Barrett Browning è ricordata dal marito Robert. Dalla performance di Julian Lopez-Morillas "Sleep to Wake": Robert Browning ricorda Elizabeth.
Un fatto al giorno
5 ottobre 1582: questo giorno non esiste nel calendario gregoriano: per riallineare il calendario alle stagioni, i giorni dal 5 al 14 ottobre 1582 vengono saltati.
“Il calendario gregoriano è il calendario ufficiale nella maggior parte dei paesi del mondo occidentale. Prende il nome da Papa Gregorio XIII, che lo introdusse nel 1582 con la bolla papale Inter gravissimas promulgata a Villa Mondragone (presso Monte Porzio Catone, Roma). È una modifica del calendario giuliano, precedentemente in vigore, in accordo con la proposta del medico calabrese Luigi Lilio, che prese parte alla Commissione presieduta da Cristoforo Clavio, gesuita professore del Collegio Romano, assieme al matematico e astronomo siciliano Giuseppe Scala e al matematico perugino Ignazio Danti. Per sistemare il calendario giuliano furono usate le misurazioni dell'astronomo Niccolò Copernico, pubblicate nel 1543 (anno della sua morte) sotto il titolo di De Revolutionibus orbium coelestium libri sex ("Sei libri sui movimenti circolari dei corpi celesti"), il quale era riuscito a calcolare, con notevole accuratezza, sia l'anno tropico, sia l'anno siderale. Si tratta di un calendario basato sull'anno solare, cioè sul ciclo delle stagioni. L'anno è composto da 12 mesi con durate diverse (da 28 a 31 giorni) per un totale di 365 o 366 giorni: l'anno di 366 giorni è detto anno bisestile. Tale ripetizione avviene ogni quattro anni, con alcune eccezioni (si veda sotto per la regola). La questione della progressiva regressione dell'equinozio di primavera dovuta all'imprecisione del calendario giuliano era nota e dibattuta fin dal concilio di Nicea (325). Nell'anno 1582, il 21 marzo, giorno convenzionale per l'equinozio, stabilito dal Concilio di Nicea quale base per il calcolo della Pasqua, arrivava quando il reale equinozio astronomico era ormai già passato da dieci giorni. Papa Gregorio XIII si rese conto che la Pasqua, di quel passo, avrebbe finito per essere celebrata in estate. Decise quindi che era giunto il momento di affrontare la questione. Per riformare il calendario giuliano papa Gregorio XIII nominò una commissione presieduta da Cristoforo Clavio, gesuita professore del Collegio Romano. Ai lavori diedero un contributo decisivo il medico calabrese Luigi Lilio, il matematico e astronomo siciliano Giuseppe Scala e il matematico perugino Ignazio Danti. Per sistemare il calendario giuliano furono usate le misurazioni dell'astronomo Niccolò Copernico, pubblicate nel 1543 (anno della sua morte) sotto il titolo di De Revolutionibus orbium coelestium libri sex ("Sei libri sui movimenti circolari dei corpi celesti"), il quale era riuscito a calcolare, con notevole accuratezza, sia l'anno tropico, sia l'anno siderale. La riforma del calendario influì sulla stesura delle opere di cronologia di studiosi attivi nel Cinquecento, come Giovanni Nicolò Doglioni”.
(Wikipedia)
Una frase al giorno
Tel meurt obscur, à qui il n'a manqué qu'un autre théâtre. (C'è chi muore oscuro perché non ha avuto un diverso teatro)
Denis Diderot (1713-1784), filosofo e scrittore francese
Un brano al giorno
- G. Sciroli: Sonata per Clarinetto e Cembalo
Gregorio Sciroli, anche Schiroli o Scivoli o Siroli, (Napoli, 5 ottobre 1722-1781), è stato un compositore italiano. Come compositore Sciroli appartenne alla schiera dei maestri meno significativi dell'opera buffa napoletana. Infatti i suoi lavori comici sono caratterizzati da un linguaggio melodico sterile, nonostante sia mitigato da effetti ritmici più vivaci. Le sue opere serie, seppur composte con gran maestria e competenza, sono poco fantasiose; ad es. la sua Merope, composta in un'epoca in cui diverse innovazioni iniziavano a farsi sentire all'interno dell'opera seria, si presenta come un lavoro tradizionalista in cui le arie, stereotipate in certe parti, seguono pedissequamente la forma dell'aria da capo.
(Wikipedia)
Ugo Brusaporco
Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.
INFORMAZIONI
Ugo Brusaporco
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web www.brusaporco.org