“L’amico del popolo”, 4 settembre 2017

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

BARNABO DELLE MONTAGNE (Italia/Francia/Svizzera, 1994), regia di Mario Brenta. Liberamente ispirato al romanzo omonimo di Dino Buzzati. Sceneggiatura: Mario Brenta, Angelo Pasquini, Enrico Soci, Francesco Alberti. Fotografia: Vincenzo Marano. Montaggio: Roberto Missiroli. Musiche: Stefano Caprioli Con: Marco Pauletti, Duilio Fontana, Carlo Caserotti, Antonio Vecellio, Angelo Chiesura, Elisa Gasperini, Alessandra Milan, Francesca Rita Giovannini, Marco Tonin, Pino Tosca, Alessandro Uccelli, Mario Da Pra, Gianni Bailo.

I guardiaboschi vivono montando la guardia a una polveriera sperduta in alto tra le ghiaie, Barnabo ha poco più di vent'anni quando entra a far parte del corpo e Del Colle, il vecchio comandante, lo accoglie come un figlio. Ogni giorno passa uguale all'altro. Rimane l'eco della guerra appena finita e il ricordo di Dario, il più coraggioso dei guardiaboschi, ucciso dai contrabbandieri. Un giorno anche Del Colle viene trovato ucciso. Bisogna trovare gli assassini. Pattuglie di guardiaboschi e paesani fanno il giro delle montagne. Ma non c'è traccia dei contrabbandieri. Arriva il sentore ruvido dell'inverno, e con la prima neve anche il ricordo del vecchio comandante sembra affievolirsi. Quando ormai le ricerche sono abbandonate, viene la grande occasione, Barnabo se la lascia sfuggire: di fronte ai contrabbandieri ha paura. Viene cacciato dal corpo, scende in pianura, diventa contadino. Dopo anni ritorna in montagna; ma non sarà riammesso fra i guardiaboschi. Molte cose sono cambiate: la polveriera è stata abbandonata e i contrabbandieri sembrano scomparsi. Non gli resta che accettare di fare il guardiano alla vecchia caserma. Un giorno, tornano i contrabbandieri e Barnabo è il solo ad accorgersene. Sale in alto sulle rocce, li aspetta e sono costretti a passare sotto il suo tiro. I suoi nemici sono, come lui, segnati dal tempo, stanchi, pieni di affanni. Punta il fucile pronto ad ucciderli, si aspetta solo la fucilata che possa riscattare la vecchia colpa. Ma il colpo sembra non arrivare mai. I contrabbandieri passano e se ne vanno. In cima alla roccia il posto di Barnabo è vuoto. Barnabo non ha sparato.

"Nel 1974 Mario Brenta, veneziano, girò 'Vermisat', in Italia passato nel più assoluto silenzio. I francesi invece lo accolsero con un'attenzione tutta particolare, al punto che Mario Brenta poté continuare la sua attività grazie alle offerte di Antenne 2 e La Sépt. La stessa cosa rischia di ripetersi oggi con 'Barnabo delle montagne', che lo stesso regista ha tratto dal primo romanzo di Dino Buzzati, edito nel 1933. (...) Allievo-collaboratore di Ermanno Olmi (che a sua volta da Buzzati ha tratto 'Il segreto del bosco vecchio'), con 'Barnabo delle montagne' Mario Brenta ha realizzato un film ieratico, suggestivo, lirico, dove il silenzio ha il valore di una meditazione e la natura acquista il significato di una contemplazione mistica."

(Enzo Natta, 'Famiglia Cristiana', 29 maggio 1994)

"Cinema di volti e di gesti, di respiri pesanti e di ruvidi affanni, di colpe e di coscienza, di riscatto e di espiazione, 'Barnabo' è anche il risultato d'uno sforzo tecnico collettivo mirabile. Marco Pauletti - il bravissimo protagonista - è un guardiaboschi per davvero e Angelo Pasquini (co-sceneggiatore), Vincenzo Marano (direttore della fotografia), Roberto Missiroli (montatore) e Stefano Caprioli (musiche) son tutti artisti-artigiani già affinati all'ombra e sui pendii del nuovo cinema Italiano."

(Fabio Bo, 'Vivilcinema')

"Austero, lento, solenne, 'Barnabo delle montagne' è dominato dal silenzio: per due ore tre o quattro paginette di dialoghi. Facili da immaginare le reazioni dello spettatore comune (esiste?): non succede mai niente - bellissimo ma noioso; film da festival, di quelli che piacciono soltanto ai critici (non a tutti). Qualcuno, più sottilmente, parlerà di terrorismo della purezza: un'orgia di ascetismo al rallentatore. (...) Ambientato negli anni successivi alla guerra 1915-18, è un film sullo scorrere del tempo e fuori dal tempo, anche stilisticamente. Frutto di una lunga pazienza (22 settimane di riprese in due anni, Dolomiti di Lavaredo in alta quota e la bassa alle foci del Po), esige pazienza, abbandono, attenzione agli incanti minimi e alle minacce della natura, ai trasalimenti muti del cuore."

(Morando Morandini, 'Il Giorno', 23 maggio 1994)

“La memoria, il silenzio, lo sguardo, il senso del tempo che avvolge l’uomo connotano questo film che Mario Brenta ha liberamente tratto dall’omonimo racconto d’esordio di Dino Buzzati. Nel complesso il film ha una struttura lineare appena intaccata dal lungo flashback iniziale il quale, più che voler mostrare l’antefatto, cerca di immettere come dato essenziale proprio la presenza della memoria. Memoria particolare che come un filo unisce e mette in cerchio i ricordi e la vita stessa di Barnabo con quelli, condizionati da una tradizione “leggendaria”, della gente. Riprese in campo lungo e lunghissimo le montagne, a volte battute dalla pioggia, altre avvolte dalle nebbie o ovattate dalla neve testimoniano, imperturbabili, lo scorrere del tempo e fanno da teatro alla leggenda. La presenza ora reale ora evanescente dei briganti dona corpo e sostanza al silenzio delle montagne riattualizzando un conflitto tra legge e illegalità che è ancestrale e che, come avverte la didascalia iniziale, “rivive nella memoria della gente con la grandezza di un mito”. La particolare cifra stilistica di questo film può riscontrarsi in una attenzione costante, a tratti ossessiva, per il dettaglio, grazie al quale Brenta sottolinea uno degli aspetti essenziali del suo film: quello più marcatamente “naturalistico” che, però, mai sopravanza l’altro aspetto - quello più pregnante - di tono favolistico, ancorato ad una sensazione di mistero che pervade lo spirito dell’uomo e della stessa natura. Ma è anche un classico espediente retorico con cui il regista blocca e dilata frammenti di tempo per riproporre - nell’esperienza prima e nella memoria poi – eventi che risultano nello stesso normali e straordinari, quotidiani eppure metastorici. Come la morte e/o il presentimento della morte, per esempio. Lo sguardo assume, in questi frammenti, un ruolo fondamentale. È uno sguardo a volte opaco a volte affascinato, come forse lo definirebbe Ernesto De Martino, cioè quasi stupito, inebetito, circondato da una forza ostile, inibente, che circola nell’aria. Sempre, comunque, nell’un caso o nell’altro, rivela adesione alla realtà più che fuga da essa: oggettività della percezione più che analisi psicologica. A volte registra l’incredulità rassegnata di fronte a un destino accettato come inevitabile: è il caso, per esempio, dell’intenso e lungo primissimo piano che permette al regista di fissare lo sguardo con cui gli anziani genitori del guardaboschi Darrìo ne contemplano il ritratto. A volte trasmette il senso grave dell’attesa di qualcosa che accadrà. Come nella sequenza in cui Brenta “risolve” l’omicidio del comandante: la mdp fissa inquadra il gruppo di guardaboschi all’interno della caserma, immobili come in un quadro plastico, lo sguardo fisso in attesa di ciò che si percepisce come inevitabile. Un rumore fuori campo, uno sparo, ma l’opacità dello sguardo e l’immobilità rimangono poiché quello sparo amplificato ne richiama altri ormai sedimentati nella memoria e ne precede altri che, sicuramente, si sentiranno in futuro. Un’immagine, un particolare, un suono, uno sguardo, un viso, rimandano sempre, in questi film, a qualcosa che appartiene già alla memoria collettiva (e, dunque, anche dello spettatore) e ne propongono la riattualizzazione quasi costante. Il ritorno di Barnabo sulle montagne, per esempio, dopo la lunga, e per certi versi atemporale, sosta in campagna, già con i suoi riti di “preparazione” (dall’acquistare un nuovo fucile, all’indossare di nuovo la vecchia divisa, al ripercorrere in senso contrario i vecchi sentieri) segna un “ritorno indietro” verso il recupero di ciò che, nonostante appaia come indecifrabile alla coscienza, si teme di perdere per sempre: il senso del tempo che avvolge l’uomo, lo sguardo, il silenzio, la memoria, appunto. Vi è dunque una circolarità, in Barnabo delle Montagne, che è più ideale che strutturale e in cui Brenta isola la parabola di Barnabo e riesce a rivestirla di un generale tono poetico. Discreto e perciò accattivante, sostenuto da una lentezza che a volte sembra dover proteggere da qualsiasi possibile incrinatura quel senso di assoluto che pervade ogni cosa e che sembra essere la cifra di un sentimento di religiosità tanto potente quanto insondabile. In questa circolarità ideale - sancita anche dalla didascalia iniziale e da quella finale che funzionano da vera e propria cornice - la memoria gioca a rincorrere l’esperienza; e i gesti più umili, più quotidiani rivestono, proprio perché tali, e propri perché riproposti, in dettaglio, quasi come rituali, valenze metafisiche. Quando Barnabo, nel finale del film, si troverà di fronte i briganti non potrà sparare. Perché uno di essi spezza il proprio pezzo di pane (gesto, carico di riferimenti escatologici quant’altri mai) proprio come Barnabo ha fatto in una precedente sequenza; perché lo sguardo del brigante vecchio a cui Barnabo sta per tirare è affascinato dal mistero e dalla percezione della morte esattamente come quello del vecchio che ha vegliato il corpo del comandante ucciso. Non è la paura che questa volta blocca Barnabo: è il richiamo a un orizzonte fuori dalla Storia, misterioso e avvolgente a cui, insieme a uomini e cose, appartiene e a cui non si è potuto sottrarre”.

(Attilio Coco, Segno Cinema n. 60, luglio/agosto 1994)

BARNABO DELLE MONTAGNE (Italia/Francia/Svizzera, 1994), regia di Mario Brenta

 

Una poesia al giorno

Mezzogiorno alpino, di Giosuè Carducci (Valdicastello di Pietrasanta, 27 luglio 1835 - Bologna, 16 febbraio 1907), da Rime e ritmi (1898)

Nel gran cerchio de l'alpi, su 'I granito
Squallido e scialbo, su' ghiacciai candenti,
Regna sereno intenso ed infinito
Nel suo grande silenzio il mezzodí.

Pini ed abeti senza aura di venti
Si drizzano nel sol che gli penètra,
Sola garrisce in picciol suon di cetra
L'acqua che tenue tra i sassi fluí.

 

Un fatto al giorno

4 settembre 476: l'Imperatore romano Romolo Augusto viene deposto da Odoacre, che si proclama re d'Italia. L'Impero romano d'Occidente di fatto cessa di esistere. Il patrizio Oreste, levatosi contro l'imperatore Giulio Nepote, fece acclamare imperatore (31 ottobre 475) il figlio Romolo (Flavius Romulus Augustus; 461 circa - dopo il 511), che ebbe l'appellativo comune di Augusto e fu detto per l'età ancora bambina Augustolo; il potere fu nelle mani del padre, che a questo modo congiungeva di fatto patriziato e impero. Abbattuto Oreste da Odoacre (28 agosto 476), l'Augustolo, ultimo imperatore romano d'Occidente, nel 476 fu deposto da Odoacre dopo un solo anno di regno e relegato con una pensione nel Lucullano, presso Napoli, dove visse oscuramente. Nella periodizzazione storica tradizionale la sua caduta segna la fine dell'Evo Antico e il principio del Medioevo.

(Enciclopedia Treccani)

 

Una frase al giorno

“Colui che potendo dire una cosa in dieci parole ne impiega dodici, io lo ritengo capace delle peggiori azioni”.

(Giosuè Alessandro Giuseppe Carducci, 1835-1907, poeta italiano).

Giosuè Alessandro Giuseppe Carducci, 1835-1907, poeta italiano

Carducci usò lo pseudonimo Enotrio Romano nelle sue opere giovanili. Fu il primo italiano a vincere il Premio Nobel per la letteratura era il 1906.

 

Un brano al giorno

Magnificat anima mea Dominum

Magnificat * anima mea Dominum. Et exsultavit spiritus meus * in Deo salutari meo. Quia respexit humilitatem ancillae suae: * ecce enim ex hoc beatam me dicent omnes generationes. Quia fecit mihi magna qui potens est: * et sanctum nomen eius. Et misericordia eius a progenie in progenies * timentibus eum. Fecit potentiam in brachio suo * dispersit superbos mente cordis sui. Deposuit potentes de sede, * et exaltavit humiles. Esurientes implevit bonis: * et divites dimisit inanes. Suscepit Israel puerum suum, * recordatus misericordiae suae. Sicut locutus est ad patres nostros * Abraham at semini eius in saecula. Gloria Patri, et Filio, * et Spiritui Sancto. Sicut erat in principio, et nunc, et semper, * et in saecula saeculorum. Amen.

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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web www.brusaporco.org

 

 

 

 

 

UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k