“L’amico del popolo”, 4 settembre 2017

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

BARNABO DELLE MONTAGNE (Italia/Francia/Svizzera, 1994), regia di Mario Brenta. Liberamente ispirato al romanzo omonimo di Dino Buzzati. Sceneggiatura: Mario Brenta, Angelo Pasquini, Enrico Soci, Francesco Alberti. Fotografia: Vincenzo Marano. Montaggio: Roberto Missiroli. Musiche: Stefano Caprioli Con: Marco Pauletti, Duilio Fontana, Carlo Caserotti, Antonio Vecellio, Angelo Chiesura, Elisa Gasperini, Alessandra Milan, Francesca Rita Giovannini, Marco Tonin, Pino Tosca, Alessandro Uccelli, Mario Da Pra, Gianni Bailo.

I guardiaboschi vivono montando la guardia a una polveriera sperduta in alto tra le ghiaie, Barnabo ha poco più di vent'anni quando entra a far parte del corpo e Del Colle, il vecchio comandante, lo accoglie come un figlio. Ogni giorno passa uguale all'altro. Rimane l'eco della guerra appena finita e il ricordo di Dario, il più coraggioso dei guardiaboschi, ucciso dai contrabbandieri. Un giorno anche Del Colle viene trovato ucciso. Bisogna trovare gli assassini. Pattuglie di guardiaboschi e paesani fanno il giro delle montagne. Ma non c'è traccia dei contrabbandieri. Arriva il sentore ruvido dell'inverno, e con la prima neve anche il ricordo del vecchio comandante sembra affievolirsi. Quando ormai le ricerche sono abbandonate, viene la grande occasione, Barnabo se la lascia sfuggire: di fronte ai contrabbandieri ha paura. Viene cacciato dal corpo, scende in pianura, diventa contadino. Dopo anni ritorna in montagna; ma non sarà riammesso fra i guardiaboschi. Molte cose sono cambiate: la polveriera è stata abbandonata e i contrabbandieri sembrano scomparsi. Non gli resta che accettare di fare il guardiano alla vecchia caserma. Un giorno, tornano i contrabbandieri e Barnabo è il solo ad accorgersene. Sale in alto sulle rocce, li aspetta e sono costretti a passare sotto il suo tiro. I suoi nemici sono, come lui, segnati dal tempo, stanchi, pieni di affanni. Punta il fucile pronto ad ucciderli, si aspetta solo la fucilata che possa riscattare la vecchia colpa. Ma il colpo sembra non arrivare mai. I contrabbandieri passano e se ne vanno. In cima alla roccia il posto di Barnabo è vuoto. Barnabo non ha sparato.

"Nel 1974 Mario Brenta, veneziano, girò 'Vermisat', in Italia passato nel più assoluto silenzio. I francesi invece lo accolsero con un'attenzione tutta particolare, al punto che Mario Brenta poté continuare la sua attività grazie alle offerte di Antenne 2 e La Sépt. La stessa cosa rischia di ripetersi oggi con 'Barnabo delle montagne', che lo stesso regista ha tratto dal primo romanzo di Dino Buzzati, edito nel 1933. (...) Allievo-collaboratore di Ermanno Olmi (che a sua volta da Buzzati ha tratto 'Il segreto del bosco vecchio'), con 'Barnabo delle montagne' Mario Brenta ha realizzato un film ieratico, suggestivo, lirico, dove il silenzio ha il valore di una meditazione e la natura acquista il significato di una contemplazione mistica."

(Enzo Natta, 'Famiglia Cristiana', 29 maggio 1994)

"Cinema di volti e di gesti, di respiri pesanti e di ruvidi affanni, di colpe e di coscienza, di riscatto e di espiazione, 'Barnabo' è anche il risultato d'uno sforzo tecnico collettivo mirabile. Marco Pauletti - il bravissimo protagonista - è un guardiaboschi per davvero e Angelo Pasquini (co-sceneggiatore), Vincenzo Marano (direttore della fotografia), Roberto Missiroli (montatore) e Stefano Caprioli (musiche) son tutti artisti-artigiani già affinati all'ombra e sui pendii del nuovo cinema Italiano."

(Fabio Bo, 'Vivilcinema')

"Austero, lento, solenne, 'Barnabo delle montagne' è dominato dal silenzio: per due ore tre o quattro paginette di dialoghi. Facili da immaginare le reazioni dello spettatore comune (esiste?): non succede mai niente - bellissimo ma noioso; film da festival, di quelli che piacciono soltanto ai critici (non a tutti). Qualcuno, più sottilmente, parlerà di terrorismo della purezza: un'orgia di ascetismo al rallentatore. (...) Ambientato negli anni successivi alla guerra 1915-18, è un film sullo scorrere del tempo e fuori dal tempo, anche stilisticamente. Frutto di una lunga pazienza (22 settimane di riprese in due anni, Dolomiti di Lavaredo in alta quota e la bassa alle foci del Po), esige pazienza, abbandono, attenzione agli incanti minimi e alle minacce della natura, ai trasalimenti muti del cuore."

(Morando Morandini, 'Il Giorno', 23 maggio 1994)

“La memoria, il silenzio, lo sguardo, il senso del tempo che avvolge l’uomo connotano questo film che Mario Brenta ha liberamente tratto dall’omonimo racconto d’esordio di Dino Buzzati. Nel complesso il film ha una struttura lineare appena intaccata dal lungo flashback iniziale il quale, più che voler mostrare l’antefatto, cerca di immettere come dato essenziale proprio la presenza della memoria. Memoria particolare che come un filo unisce e mette in cerchio i ricordi e la vita stessa di Barnabo con quelli, condizionati da una tradizione “leggendaria”, della gente. Riprese in campo lungo e lunghissimo le montagne, a volte battute dalla pioggia, altre avvolte dalle nebbie o ovattate dalla neve testimoniano, imperturbabili, lo scorrere del tempo e fanno da teatro alla leggenda. La presenza ora reale ora evanescente dei briganti dona corpo e sostanza al silenzio delle montagne riattualizzando un conflitto tra legge e illegalità che è ancestrale e che, come avverte la didascalia iniziale, “rivive nella memoria della gente con la grandezza di un mito”. La particolare cifra stilistica di questo film può riscontrarsi in una attenzione costante, a tratti ossessiva, per il dettaglio, grazie al quale Brenta sottolinea uno degli aspetti essenziali del suo film: quello più marcatamente “naturalistico” che, però, mai sopravanza l’altro aspetto - quello più pregnante - di tono favolistico, ancorato ad una sensazione di mistero che pervade lo spirito dell’uomo e della stessa natura. Ma è anche un classico espediente retorico con cui il regista blocca e dilata frammenti di tempo per riproporre - nell’esperienza prima e nella memoria poi – eventi che risultano nello stesso normali e straordinari, quotidiani eppure metastorici. Come la morte e/o il presentimento della morte, per esempio. Lo sguardo assume, in questi frammenti, un ruolo fondamentale. È uno sguardo a volte opaco a volte affascinato, come forse lo definirebbe Ernesto De Martino, cioè quasi stupito, inebetito, circondato da una forza ostile, inibente, che circola nell’aria. Sempre, comunque, nell’un caso o nell’altro, rivela adesione alla realtà più che fuga da essa: oggettività della percezione più che analisi psicologica. A volte registra l’incredulità rassegnata di fronte a un destino accettato come inevitabile: è il caso, per esempio, dell’intenso e lungo primissimo piano che permette al regista di fissare lo sguardo con cui gli anziani genitori del guardaboschi Darrìo ne contemplano il ritratto. A volte trasmette il senso grave dell’attesa di qualcosa che accadrà. Come nella sequenza in cui Brenta “risolve” l’omicidio del comandante: la mdp fissa inquadra il gruppo di guardaboschi all’interno della caserma, immobili come in un quadro plastico, lo sguardo fisso in attesa di ciò che si percepisce come inevitabile. Un rumore fuori campo, uno sparo, ma l’opacità dello sguardo e l’immobilità rimangono poiché quello sparo amplificato ne richiama altri ormai sedimentati nella memoria e ne precede altri che, sicuramente, si sentiranno in futuro. Un’immagine, un particolare, un suono, uno sguardo, un viso, rimandano sempre, in questi film, a qualcosa che appartiene già alla memoria collettiva (e, dunque, anche dello spettatore) e ne propongono la riattualizzazione quasi costante. Il ritorno di Barnabo sulle montagne, per esempio, dopo la lunga, e per certi versi atemporale, sosta in campagna, già con i suoi riti di “preparazione” (dall’acquistare un nuovo fucile, all’indossare di nuovo la vecchia divisa, al ripercorrere in senso contrario i vecchi sentieri) segna un “ritorno indietro” verso il recupero di ciò che, nonostante appaia come indecifrabile alla coscienza, si teme di perdere per sempre: il senso del tempo che avvolge l’uomo, lo sguardo, il silenzio, la memoria, appunto. Vi è dunque una circolarità, in Barnabo delle Montagne, che è più ideale che strutturale e in cui Brenta isola la parabola di Barnabo e riesce a rivestirla di un generale tono poetico. Discreto e perciò accattivante, sostenuto da una lentezza che a volte sembra dover proteggere da qualsiasi possibile incrinatura quel senso di assoluto che pervade ogni cosa e che sembra essere la cifra di un sentimento di religiosità tanto potente quanto insondabile. In questa circolarità ideale - sancita anche dalla didascalia iniziale e da quella finale che funzionano da vera e propria cornice - la memoria gioca a rincorrere l’esperienza; e i gesti più umili, più quotidiani rivestono, proprio perché tali, e propri perché riproposti, in dettaglio, quasi come rituali, valenze metafisiche. Quando Barnabo, nel finale del film, si troverà di fronte i briganti non potrà sparare. Perché uno di essi spezza il proprio pezzo di pane (gesto, carico di riferimenti escatologici quant’altri mai) proprio come Barnabo ha fatto in una precedente sequenza; perché lo sguardo del brigante vecchio a cui Barnabo sta per tirare è affascinato dal mistero e dalla percezione della morte esattamente come quello del vecchio che ha vegliato il corpo del comandante ucciso. Non è la paura che questa volta blocca Barnabo: è il richiamo a un orizzonte fuori dalla Storia, misterioso e avvolgente a cui, insieme a uomini e cose, appartiene e a cui non si è potuto sottrarre”.

(Attilio Coco, Segno Cinema n. 60, luglio/agosto 1994)

 

Una poesia al giorno

Mezzogiorno alpino, di Giosuè Carducci (Valdicastello di Pietrasanta, 27 luglio 1835 - Bologna, 16 febbraio 1907), da Rime e ritmi (1898)

Nel gran cerchio de l'alpi, su 'I granito
Squallido e scialbo, su' ghiacciai candenti,
Regna sereno intenso ed infinito
Nel suo grande silenzio il mezzodí.

Pini ed abeti senza aura di venti
Si drizzano nel sol che gli penètra,
Sola garrisce in picciol suon di cetra
L'acqua che tenue tra i sassi fluí.

 

Un fatto al giorno

4 settembre 476: l'Imperatore romano Romolo Augusto viene deposto da Odoacre, che si proclama re d'Italia. L'Impero romano d'Occidente di fatto cessa di esistere. Il patrizio Oreste, levatosi contro l'imperatore Giulio Nepote, fece acclamare imperatore (31 ottobre 475) il figlio Romolo (Flavius Romulus Augustus; 461 circa - dopo il 511), che ebbe l'appellativo comune di Augusto e fu detto per l'età ancora bambina Augustolo; il potere fu nelle mani del padre, che a questo modo congiungeva di fatto patriziato e impero. Abbattuto Oreste da Odoacre (28 agosto 476), l'Augustolo, ultimo imperatore romano d'Occidente, nel 476 fu deposto da Odoacre dopo un solo anno di regno e relegato con una pensione nel Lucullano, presso Napoli, dove visse oscuramente. Nella periodizzazione storica tradizionale la sua caduta segna la fine dell'Evo Antico e il principio del Medioevo.

(Enciclopedia Treccani)

 

Una frase al giorno

“Colui che potendo dire una cosa in dieci parole ne impiega dodici, io lo ritengo capace delle peggiori azioni”.

(Giosuè Alessandro Giuseppe Carducci, 1835-1907, poeta italiano).

Giosuè Alessandro Giuseppe Carducci, 1835-1907, poeta italiano

Carducci usò lo pseudonimo Enotrio Romano nelle sue opere giovanili. Fu il primo italiano a vincere il Premio Nobel per la letteratura era il 1906.

 

Un brano al giorno

Magnificat anima mea Dominum

Magnificat * anima mea Dominum. Et exsultavit spiritus meus * in Deo salutari meo. Quia respexit humilitatem ancillae suae: * ecce enim ex hoc beatam me dicent omnes generationes. Quia fecit mihi magna qui potens est: * et sanctum nomen eius. Et misericordia eius a progenie in progenies * timentibus eum. Fecit potentiam in brachio suo * dispersit superbos mente cordis sui. Deposuit potentes de sede, * et exaltavit humiles. Esurientes implevit bonis: * et divites dimisit inanes. Suscepit Israel puerum suum, * recordatus misericordiae suae. Sicut locutus est ad patres nostros * Abraham at semini eius in saecula. Gloria Patri, et Filio, * et Spiritui Sancto. Sicut erat in principio, et nunc, et semper, * et in saecula saeculorum. Amen.

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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