“L’amico del popolo”, 5 gennaio 2019

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno III. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

THE TIGER'S COAT (Pelle di tigre, USA, 1920), regia di Roy Clements. Soggetto: dal romanzo di Elizabeth Dejeans. Sceneggiatura: Jack Cunningham, Paul Schofield. Fotografia: R.E. Irish. Scenografia: E.P. Hunziker. Con: Lawson Butt (Alexander MacAllistter), Tina Modotti (Jean Ogilvie / Maria de la Guarda), Myrtle Stedman (Mrs. Carl Mendall), Miles McCarthy (Andrew Hyde), Frank Weed (Frederick Bagsby), J. Jiquel Lanoe (Carl Mendall), Nola Luxford (Clare Bagsby).

“In una notte di bufera a La Classe, nella California del Sud, bussa alla porta del ricco scapolo Alexander Mac Allister una misteriosa fanciulla, latrice di una lettera di presentazione di un vecchio amico. Scambiandola per la figlia di costui, il giovane gentiluomo se ne prende cura, nonostante la sua carnagione sia la più scura che abbia visto in una ragazza scozzese. Tra i due nasce l’amore, ma un rivale in affari insospettito dalla provenienza messicana della giovane fa compiere delle indagini e la vigilia delle nozze rivela al promesso sposo l’inganno di cui è stato vittima.

Mac Allister si reca dalla fanciulla per avere spiegazioni ed ella confessa di essere la serva della figlia del suo amico, morta come il padre per un’epidemia di febbre gialla. Indirizzata in California dalla padrona in punto di morte, al suo arrivo non aveva avuto il coraggio di chiarire l’equivoco in cui si era trovata. Non avendo ottenuto il perdono dal suo amato che non può legarsi a una persona di umili origini, la ragazza abbandona la casa della famiglia che le faceva da chaperon. Quando nel promesso sposo l’amore vince l’orgoglio della razza (sic!) ella ha già intrapreso una carriera di danseuse, ma il destino vuole che il debutto dello spettacolo avvenga proprio a La Classe così i due giovani possono finalmente ricongiungersi.

THE TIGER'S COAT (Pelle di tigre, USA, 1920), regia di Roy Clements

Si tratta di un melodramma arzigogolato e senza nessun rilievo tecnico, se non quello di testimoniare una produzione medio-alta del tempo. Che fosse a disposizione un budget costoso lo testimoniano le didascalie che spesso ribadiscono i concetti delle scritte con disegni molto curati, come le molte scenografie utilizzate, sia d’interni che d‘esterni.

Colpisce la storia d’amore basata su una differenza razziale improponibile ai nostri giorni; interessante invece il fatto che il flash-back non sia introdotto da dissolvenze o tendini, quindi già nel 1920 era un linguaggio filmico perfettamente comprensibile agli spettatori.

La copia restaurata dalla Cineteca del Friuli, ha ricostruito perfettamente i viraggi che all’epoca sostituivano il colore che non era ancora stato inventato, a parte l’esperienza di Melies, che faceva dipingere a mano la pellicola. I bagni di colore in tinte calde, aranciate venivano scelte per gli interni, per restituire il calore delle pareti domestiche, mentre gli esterni venivano virati in toni freddi, azzurrati.

Per quanto riguarda la breve esperienza hollywoodiana della Modotti, che sui giornali dell’epoca veniva lanciata come una bellezza sensuale ed esotica (ed infatti nel film non le si risparmia una danza orientaleggiante su un palco adornato da tre buddha) bisogna dire che ha una recitazione più contenuta di quella delle divine del muto: meno esagitata e sbracciata, cerca una recitazione, per quanto possibile ai tempi, più incentrata sull’espressività del volto, confermando così la sua modernità artistica che si esprimerà definitivamente della fotografia.”

(In www.desordre.it)

Assunta Adelaide Luigia Modotti Mondini, abbreviata in Tina Modotti (Udine, 17 agosto 1896 - Città del Messico, 5 gennaio 1942)

“La trama di The Tiger’s Coat è alquanto esile. La regia e il montaggio sembrano mancare di esperienza e alcune scene appaiono superflue. In particolare quella dell’abbraccio tra i due protagonisti, in cui sono inquadrate le braccia dell’uomo che cingono la vita dell’eroina e, senza un necessario legame, l’immagine proietta improvvisamente gli amanti in un’inquadratura che, seppur armoniosa, evita di mostrare per almeno una ventina di secondi una maggiore intimità. Le didascalie, in generale, sono composte in modo dilettantesco e in alcuni momenti hanno l’unica funzione di spiegare la presenza del personaggio invece di contribuire all’evolvere della trama. Un esempio: “sono arrivato questa sera dal Messico e mi hanno detto che eri qui”. La storia appare inconsistente per 5 rulli e solo a tratti si solleva dalla monotonia generale. Clemens riesce raramente a velocizzare il ritmo della vicenda come nella scena del ballo tra l’artista e l’eroina e nel finale sul palcoscenico di un teatro. Il film narra di un onest’uomo che accetta di sposare una mistificatrice, credendo trattarsi della figlia di un amico scomparso. La ragazza, messicana, era in realtà la serva della donna che il protagonista è convinto di sposare, anche lei defunta. Una didascalia spiega che l’eroe non le aveva consentito di ammettere la verità, sebbene lei avesse voluto confessare l’inganno sin dall’inizio. I protagonisti, Lawson Butt, Mytle Stedman e Tina Modotti, sono diretti in modo incompetente, sebbene la loro statura di attori sia indiscutibile. Nel cast figurano anche F. Weed e J. Lance; la loro recitazione, comunque, non si solleva dalla media. La fotografia è encomiabile solo a tratti, in genere però risulta anonima. La produzione non ha badato a spese [...]”.

(da Variety 3/12/1920, traduzione a cura di Jacopo Mazzoli, Simone Romano in www.comune.re.it)

 

 

Una poesia al giorno

Tina Modotti, sorella... di Pablo Neruda

«Tina Modotti, sorella, tu non dormi, no, non dormi: forse il tuo cuore sente crescere la rosa
di ieri, l'ultima rosa di ieri, la nuova rosa.
Riposa dolcemente, sorella.
La nuova rosa è tua, la nuova terra è tua:
ti sei messa una nuova veste di semente profonda
e il tuo soave silenzio si colma di radici.
Non dormirai invano, sorella.
Puro è il tuo dolce nome, pura la tua fragile vita:
di ape, ombra, fuoco, neve, silenzio, spuma,
d'acciaio, linea, polline, si è fatta la tua ferrea,
la tua delicata struttura.
Lo sciacallo sul gioiello del tuo corpo addormentato
ancora protende la penna e l'anima insanguinata
come se tu potessi, sorella, risollevarti
e sorridere sopra il fango.
Nella mia patria ti porto perché non ti tocchino,
nella mia patria di neve perché alla tua purezza
non arrivi l'assassino, né lo sciacallo, né il venduto:
laggiù starai in pace.
Lo senti quel passo, un passo pieno di passi, qualcosa
di grandioso che viene dalla steppa, dal Don, dal freddo?
Lo senti quel passo fiero di soldato sulla neve?
Sorella, sono i tuoi passi.
Verranno un giorno sulla tua piccola tomba
prima che le rose di ieri si disperdano,
verranno a vedere quelli d'una volta, domani,
là dove sta bruciando il tuo silenzio.
Un mondo marcia verso il luogo dove tu andavi, sorella.
Avanzano ogni giorni i canti della tua bocca
nella bocca del popolo glorioso che tu amavi.
Valoroso era il tuo cuore.
Nelle vecchie cucine della tua patria, nelle strade
polverose, qualcosa si mormora e passa,
qualcosa torna alla fiamma del tuo adorato popolo,
qualcosa si desta e canta.
Sono i tuoi, sorella: quelli che oggi pronunciano il tuo nome,
quelli che da tutte le parti, dall'acqua, dalla terra,
col tuo nome altri nomi tacciamo e diciamo.
Perché il fuoco non muore.»

(Pablo Neruda 5 gennaio 1942, epitaffio dedicato a Tina Modotti)

Assunta Adelaide Luigia Modotti Mondini, abbreviata in Tina Modotti (Udine, 17 agosto 1896 - Città del Messico, 5 gennaio 1942)

“Creatura nomade per antonomasia, Assunta Adelaide Luigia Modotti Mondini, abbreviata in Tina Modotti (Udine, 17 agosto 1896 - Città del Messico, 5 gennaio 1942), è stata una fotografa, attivista e attrice italiana. Figlia di una cucitrice e di un carpentiere, nasce in Italia sul finire del XIX secolo ed esprime nel suo breve e luminoso percorso biografico - costellato di viaggi, passioni pubbliche e private, separazioni laceranti - gran parte delle inquietudini culturali e politiche che marcano l’apertura del Novecento.

Già la prima infanzia viene segnata da un breve percorso migratorio, quando per il lavoro del padre a soli due anni viene portata temporaneamente nella vicina Austria, a Klagenfurt. Ben più consistente sarà poi il viaggio negli Stati Uniti, dove nel 1913 si ricongiunge ancora adolescente alla famiglia nel frattempo emigrata; si trasferisce in seguito da San Francisco a Los Angeles e, nel 1923, dalla California al Messico. Espulsa sei anni dopo con il pretesto ufficiale di aver partecipato a un attentato al presidente, Ortiz Rubio, viaggia su una nave diretta a Rotterdam ottenendo asilo politico a Berlino; vola a Mosca, dove la sua attività per il Comintern la porta a Parigi; poi tra il 1935 e il 1939, con Soccorso Rosso Internazionale, partecipa alle convulse vicende della guerra civile in Spagna. Dopo un breve rientro alla volta della Francia torna in Messico, sua patria d’adozione, e lì vi muore nel 1942, a soli quarantacinque anni.

Considerando i due soggiorni, «la permanenza quasi decennale in Messico [...] fu, nella sua esistenza adulta, il periodo più lungo trascorso in un solo paese». In questa terra, che attraverso giganti della pittura muraria come Diego Rivera e David Siqueiros rielabora nuove tendenze artistiche anche grazie al processo di rottura innescato dalla Revolución armada, Tina matura il suo impegno verso la fotografia, l’attività per la quale verrà in primo luogo ricordata, in una fusione costante tra tensione estetica e impegno politico. Vicina sin da bambina a questa forma di espressione artistica (lo zio Pietro Modotti aveva uno studio), in età adulta perfeziona le basi tecniche con Edward Weston, maestro e per alcuni anni compagno di vita, e radicalizza poi il suo stile di pari passo con la crescente militanza. Alle scelte già condivise con quest’ultimo, infatti, cioè l’abbandono della fotografia “pittorica”, dagli effetti sfumati e dai contorni imprecisi per prediligere invece i tratti ben marcati degli oggetti e dei luoghi della vita reale, aggiunge un decisivo allargamento della gamma dei possibili soggetti. Immortala non solo gli emblemi della Rivoluzione, ancora così profondamente incisi nella memoria collettiva messicana, come cartucciere, falci, chitarre, murales, sombreros; ma anche mani che lavorano, donne con bambini (celebri quelle di Tehuantepec), tessuti, fiori.

Arte e politica costituiscono per molti anni un binomio inscindibile. Figlia di un operaio con simpatie verso il socialismo, lavoratrice in filanda nella prima giovinezza in Italia e poi in una fabbrica di moda nel primo periodo californiano, si sensibilizza ancor più al conflitto sociale proprio in questi anni. Ricordata essenzialmente per la breve carriera da attrice nell’industria cinematografica di Hollywood - si ricordi ad esempio il film The Tiger’s Coat (1920) o I Can Explain (1922) -, a detta della biografia storica di Letizia Argenteri, una delle più recenti e documentate - la fase californiana non è stata infatti sufficientemente compresa nella sua valenza cruciale, cioè quella di formazione politica, nella quale Tina prende contatto con le organizzazioni operaie in seno alla comunità italiana e con l’attività dei patronati.

Iscritta nel 1927 al Partito Comunista messicano, partecipa con Frida Kahlo e Diego Rivera al Fronte Unico per Sacco e Vanzetti, alla campagna Manos fuera de Nicaragua contro l’occupazione statunitense e traduce per il giornale «El Machete», denunciando le violenze del fascismo italiano e attirandosi così la qualifica di “persona non grata” nel suo paese d’origine.

Recenti riletture del percorso biografico della Modotti tendono a decostruire il mito (riproposto anche da figure del calibro di Octavio Paz) della femme fatale che vive guidata dalla passione per i suoi amanti e che da questi viene condizionata anche nei comportamenti pubblici. Studiose come Argenteri ipotizzano anzi il contrario, cioè che a partire dal periodo messicano la scelta dei suoi compagni di vita fu sempre dettata dal suo orientamento politico e ideologico e a questo funzionale. Sotto questa luce dunque, alimentata dalla documentazione rigorosa piuttosto che dalla stampa scandalistica, sempre molto attenta, quando non esplicitamente incline al pettegolezzo, riguardo gli aspetti più avventurosi della sua vita, si potrebbe meglio comprendere la presenza di figure maschili - tutti leader politici - che la accompagneranno. Xavier Guerrero, quadro del partito comunista messicano; Julio Antonio Mella, esule cubano, tragicamente assassinato da sicari del governo Machado nel 1929, la cui morte, costellata di elementi oscuri, genera una pervasiva campagna diffamatoria rivolta alla Modotti e sfocia in seguito, assieme all’accusa infondata del coinvolgimento nell’attentato presidenziale, nel motivo ufficiale per la sua espulsione dal paese. Infine Vittorio Vidali, comunista italiano con il quale Tina condivide il soggiorno moscovita, l’attività per il Comintern, l’intensa esperienza delle Brigate Internazionali in Spagna e il rientro in Messico, fino a pochi mesi prima della morte; un episodio tragico quanto inatteso che fonti non confermate, anzi tendenzialmente confutate dalla storiografia attuale, vedrebbero attribuire a Vidali stesso; una morte che sotto forma di arresto cardiaco la coglie improvvisamente in un taxi, in una notte di gennaio, portandola via nel fiore degli anni e legando così ancor più la sua storia al mito.”

(Benedetta Calandra in www.enciclopediadelledonne.it)

Tina Modotti e Frida Kahlo

 

Un fatto al giorno

5 gennaio 1968: Alexander Dubček sale al potere; La "Primavera di Praga" inizia in Cecoslovacchia.

“La Primavera di Praga è stato un periodo storico di liberalizzazione politica avvenuto in Cecoslovacchia durante il periodo in cui questa era sottoposta al controllo dell'Unione Sovietica, dopo gli eventi successivi alla seconda guerra mondiale e nell'ambito della guerra fredda. Essa iniziò il 5 gennaio 1968, quando il riformista slovacco Alexander Dubček salì al potere, proseguendo fino al 20 agosto dello stesso anno, quando un corpo di spedizione dell'Unione Sovietica e degli alleati del Patto di Varsavia (ad eccezione della Romania) invase il paese.

Le riforme della Primavera di Praga furono un tentativo da parte di Dubček di concedere ulteriori diritti ai cittadini grazie ad un decentramento parziale dell'economia e alla democratizzazione. Le libertà concesse inclusero inoltre un allentamento delle restrizioni alla libertà di stampa e di movimento. Dopo una discussione nazionale sul dividere il paese in una federazione di tre repubbliche, Boemia, Moravia-Slesia e Slovacchia, Dubček sostenne la decisione per la divisione della Cecoslovacchia in due nazioni distinte: la Repubblica Ceca e la Repubblica Slovacca Questo è stato uno dei pochi cambiamenti - che sarebbe comunque divenuto operativo solo dopo la fine del blocco sovietico - che è sopravvissuto alla fine della Primavera di Praga.

Le riforme, in particolare il decentramento delle autorità amministrative, non furono assecondate dai sovietici che, dopo il fallimento dei negoziati, inviarono migliaia di soldati e carri armati del Patto di Varsavia ad occupare il paese. Si verificò una grande ondata di emigrazione, soprattutto verso i paesi dell'Europa occidentale mentre le proteste non violente furono all'ordine del giorno, tra cui le proteste-suicidio dello studente Jan Palach e di altre persone che lo emularono. La Cecoslovacchia rimase occupata fino al 1990.

Dopo l'invasione, la Cecoslovacchia entrò in un periodo di normalizzazione: i leader successivi tentarono di ripristinare i valori politici ed economici che avevano prevalso prima di Dubček grazie al controllo del Partito Comunista di Cecoslovacchia (KSČ). Gustáv Husák, che sostituì Dubček e divenne anche presidente, annullò quasi tutte le riforme di quest'ultimo...”

(Articolo completo in it.wikipedia.org)

Alexander Dubcek (Uhrovec, 27 novembre 1921 – Praga, 7 novembre 1992)

“Il 5 gennaio 1968 Alexander Dubcek veniva eletto segretario generale del Partito Comunista Cecoslovacco: si avviava così, senza che l’opinione pubblica mondiale e gli stessi dirigenti dei Partiti Comunisti a Oriente come a Occidente ne fossero pienamente consapevoli, la breve bruciante stagione della cosiddetta “Primavera di Praga” che sarà stroncata il successivo 21 agosto dall’invasione del Paese da parte dei carri armati del Patto di Varsavia.

Una vicenda che segnò nel profondo la Storia con la S maiuscola e le vicende dei comunisti: un vero e proprio punto di svolta.

Ancora una volta è importante ricordare Praga ’68, momento fondamentale di snodo nella storia europea e mondiale. Una vicenda molto diversa da quella di Budapest ’56. Da Praga sortì la lunga fase del “gelo brezneviano” e si posero le condizioni oggettive del crollo del sistema sovietico.

Emerse l’impossibilità di un’autoriforma che pure nel periodo ’56 - ’64 aveva animato il dibattito all’interno del movimento comunista internazionale.

Per ricordare proprio quell’emblematico punto di partenza rappresentato dall’elezione di Dubcek riproduciamo di seguito uno stralcio dell’intervento svolto da Jiri Pelikan nel corso del convegno “Potere e Opposizione nella società post-rivoluzionarie” organizzato a Venezia tra l’11 e il 13 novembre 1977 dal PdUP-Manifesto e al quale parteciparono un folto gruppo di dissidenti provenienti dai Paesi dell’Est, tra i quali l’ungherese Istvan Mestzaros, i rappresenti della Cecoslovacchia Zdnek Mlinar, Jiri Pelikan, il sovietico Leonid Pliusc, i polacchi Kristzof Pomian, Edmund Baluka, lo jugoslavo Dave Riesman. Inviarono interventi scritti dalla Jugoslavia Vlado Dedijer, Predag Vrnanicki e Dave Riesman, dalla Polonia Adam Michnik e Jacek Kuron.
Da ricordare ancora che il PCI non ritenne di aderire ufficialmente al convegno (aperto da Lidia Menapace con la relazione generale svolta da Rossana Rossanda che svolse alla fine anche l’intervento conclusivo).
A titolo personale intervennero Lucio Lombardo Radice, Beppe Vacca e Bruno Trentin, Rosario Villari oltre al padrone di casa Carlo Aymonino direttore dell’Istituto di Architettura a Ca’Foscari, sede dell’incontro.

Jiri Pelikan nel gennaio ’68 ricopriva dal 1963 l’incarico di direttore generale della televisione cecoslovacca ed era stato eletto deputato al Parlamento. Durante la “Primavera” viene eletto presidente della commissione affari esteri del Parlamento e delegato al XIV congresso del PCC, che si svolse il 22 agosto 1968 nella fabbrica di Ckd ed eletto nel Comitato Centrale. Dopo l’intervento armato è allontanato dalla TV, espulso dal partito, dal Parlamento e privato della cittadinanza. Ottiene nel 1969 asilo politico in Italia.
Ha militato nell’opposizione socialista cecoslovacca pubblicando una rivista bimestrale “Listy”.
Nel 1979 viene eletto al Parlamento Europeo nelle liste del Partito Socialista.
Muore a Roma nel giugno del 1999.

Di seguito uno stralcio particolarmente significativo del suo intervento in quell’occasione (alcune parti del testo assumono, a distanza di tanti anni, un valore quasi profetico):

“... Noi siamo degli alleati scomodi e non troviamo appoggi decisivi da nessuna parte, perché essendo socialisti e marxisti, da un lato siamo costretti a porre certi problemi, certi dubbi che ci vengono dalla nostra esperienza, dall’altro siamo preoccupati perché non vorremmo che la sinistra occidentale ripetesse gli errori che abbiamo commesso durante la costruzione del socialismo o della nuova società nei paesi dell’Est.

Capisco benissimo che la sinistra occidentale non può comprendere perché gli esuli che vengono dall’Unione Sovietica non sono come Trockij che dieci anni dopo la Rivoluzione d’Ottobre è giunto come primo esule politico, ma si riferiva agli ideali della Rivoluzione d’Ottobre.

Invece, quelli che arrivano oggi si riferiscono alle cosiddette libertà liberali, borghesi, perché sono della generazione che non ha conosciuto il socialismo se non nella versione staliniana.

Penso sia molto importante capire questo: il pericolo che una parte non piccola degli esuli e dell’opposizione interna, se non compresa dalla sinistra, possa essere spinta verso destra ed essere strumentalizzata è grande.

In Cecoslovacchia, a differenza che in Unione Sovietica e in altri paesi, abbiamo avuto un movimento di massa, la primavera di Praga, e a me pare che la sinistra occidentale non abbia capito bene finora il senso di questa esperienza, che a mio parere era una sorta di Comune di Parigi nel senso che era il primo caso in cui si facevano trasformazioni socialiste in un paese sviluppato, caratterizzato dalla stessa struttura economica e dalle stesse tradizioni politiche presenti nei paesi occidentali.

Certo anche i nostri errori hanno contribuito a farci ritrovare soli, ma di questi errori parleremo in un’altra occasione. Ma proprio perché le masse hanno vissuto per otto mesi questa esperienza, riesci oggi impossibile al regime di normalizzazione convincere la gente che si trattava di una controrivoluzione.

Noi abbiamo posto alla sinistra occidentale un problema che neanche Marx e Lenin potevano prevedere: come procedere con le trasformazioni socialiste dopo che la prima rivoluzione socialista è avvenuta nel paese più debole del sistema imperialistico, cioè in Russia, e questo paese nonostante ciò è divenuto economicamente e militarmente potente.

Un paese che può anche oggettivamente difendere certe rivoluzioni negli altri paesi, ma difendendole può nello stesso tempo inquinarle con la deformazione della propria esperienza.

Così come nel ’68 il potere sovietico non poteva tollerare il movimento popolare e socialista del nuovo corso, io sono convinto che nel futuro potrà tollerare un’altra esperienza di questo tipo, in Italia, in Francia, in Spagna, in Portogallo o in Occidente, per ragioni evidenti e per le conseguenze che avrebbero all’interno dei paesi dell’Europa dell’Est.

Questa è la grande debolezza di una parte della sinistra che sviluppa questo discorso diplomatico: “I compagni sovietici alla fine capiranno..”.

Anche Dubcek nel ’68 ha ripetuto che alla fine i compagni sovietici avrebbero capito che quello che facevamo era nell’interesse del socialismo.

E questo è stato un errore di Dubcek che, invece, fin dall’inizio avrebbe dovuto prepararsi alla necessità di uno scontro, sia pure temporaneo, con la burocrazia sovietica, uno scontro che era inevitabile se si voleva fare veramente un socialismo diverso, come quello che volevamo fare noi in Cecoslovacchia, come quello che si vuol fare in Italia, Francia, Spagna.”.

Parole e stile d’altri tempi si dirà: ma vale proprio la pena, in questo momento di buia difficoltà, rammentarle allo scopo di inviare un messaggio rivolto sia alla necessità di studiare il passato sia all’esigenza ineludibile di continuare a progettare il futuro”.

(Franco Astengo, 5 gennaio 2018. Il testo integrale dell’intervento di Jiri Pelikan è contenuto nel volume “ Potere e opposizione nelle società post-rivoluzionarie. Una discussione nella sinistra” . “Il manifesto, quaderno n.8”. Alfani editore gennaio 1978. In www.lasinistraquotidiana.it)

Jiri Pelikan (Olomouc, 7 febbraio 1923 – Roma, 26 giugno 1999)

Immagini:

Una canzone: Primavera di Praga - Francesco Guccini

 

Una frase al giorno

“Le lacrime del mondo sono immutabili. Non appena qualcuno si mette a piangere, un altro, chi sa dove, smette.”

(Da Aspettando Godot, di Samuel Beckett)

Aspettando Godot è senza dubbio la più celebre opera teatrale di Samuel Beckett nonché uno dei testi più noti del teatro del Novecento. Parlarne, dunque, è molto difficile. Pressoché impossibile dire qualcosa di nuovo, considerata la quantità di pagine critiche che sono già state prodotte intorno a questa opera. Non resta quindi che tracciare una sintesi critica, consapevoli che non si innoverà il corpus interpretativo già esistente, ma con la speranza, almeno, di mettere in guardia contro le più facili (e spesso erronee) chiavi di lettura.

Se chiedete ad una persona digiuna di teatro che cosa è Aspettando Godot è molto probabile che otteniate comunque una qualche risposta. Vi verrà detto che è la storia di qualcuno che alla fine non arriva. La prima trovata scandalosa del capolavoro beckettiano è questa: il protagonista è assente. Ma si tratta di una trovata, appunto (geniale, però, tanto che anche chi non ama il teatro ricorda questo particolare). Se l’idea fosse stata tutta qui, tuttavia, Aspettando Godot non avrebbe fatto molta strada. La seconda cosa che probabilmente vi dirà questa persona interrogata su Godot è che si tratta di un’opera che fa parte del teatro dell’assurdo. Vero. Ma cosa c’è di così assurdo in Aspettando Godot? Vediamone la trama. Nel primo atto due uomini vestiti come vagabondi, Estragone e Vladimiro, si trovano sotto un albero in una strada di campagna. Sono lì perché un certo Godot ha dato loro appuntamento. Il luogo e l’orario dell’appuntamento sono vaghi. I due non sanno neanche esattamente chi sia questo Godot, ma credono che quando arriverà li porterà a casa sua, gli darà qualcosa di caldo da mangiare e li farà dormire all’asciutto. Mentre attendono passa sulla stessa strada una strana coppia di personaggi: Pozzo, un proprietario terriero, e il suo servitore, Lucky, tenuto al guinzaglio dal primo. Pozzo si ferma a parlare con Vladimiro ed Estragone. I due sono ora incuriositi dall’istrionismo del padrone, ora spaventati dalla miseria della condizione del servo. Lucky si rivela tuttavia una sorpresa quando inizia un delirante monologo erudito che culmina in una rovinosa zuffa tra i personaggi. Pozzo e Lucky riprendono il loro cammino. Intanto è calata la sera. Godot non si è fatto vivo. Arriva però un ragazzo, un giovane messaggero di Godot, il quale dice a Vladimiro e a Estragone che il signor Godot si scusa, ma che questa sera non può proprio venire. Arriverà però sicuramente domani. I due prendono in considerazione l’idea di suicidarsi, ma rinunciano. Poi pensano di andarsene, ma restano. Il primo atto finisce qui. Nel secondo atto accadono esattamente le stesse cose. Vladimiro ed Estragone attendono sotto l’albero l’arrivo di Godot. Di nuovo vedono passare Pozzo e Lucky (Pozzo nel frattempo è diventato cieco, sull’albero sono spuntate due o tre foglie). Di nuovo si intrattengono con il padrone e il servo. Di nuovo Pozzo e Lucky se ne vanno. Di nuovo arriva il messaggero a dire che Godot stasera non può venire ma verrà sicuramente domani. Di nuovo prendono in considerazione l’idea di mollare tutto. Di nuovo rinunciano. Fine.”

(In www.samuelbeckett.it)

Aspettando Godot di Samuel Beckett

Dehon-Centro Culturale Teatroaperto Bologna. Teatro Stabile dell'Emilia-Romagna. Regia Di Piero Ferrarini. Interpreti: Vladimiro, Guido Ferrarini. Estragone, Aldo Sassi. Pozzo, Massimo Macchiavelli. Il Ragazzo, Tania Passarini.

5 gennaio 1953: la commedia Aspettando Godot di Samuel Beckett viene rappresentata per la prima volta

Aspettando Godot di Samuel Beckett

 

Un brano musicale al giorno

Paolo Lorenzani, Motet pour tous les temps, Giovan Battista Ruoppolo

Paolo Lorenzani (1640- 1713), mottetto per tutte le stagioni, 8 voci con simphonie, The Spiritual Concert, Hervé Niquet. Con un unico dipinto di Giovan Battista Ruoppolo (1629-1693), "Giardino monumentale con putti, fiori, alberi di agrumi e grotta con fontana".

Motet pour tous les temps

Dicite cantica, canite carmina!
Murmure bucinnœ reboent!

Suaves sonitus nunc excitate
et semper Dei laudes celebrate.
Per Astra cœlorum vagate canentes,
spirate plaudentes per fata camporum!

Et otiosas auras provocate,
et semper Dei laudes celebrate.
O lilium puritatis! O decus virtutum!
O flos sanctitatis! O germen salutis!
O lilium! O flos! Ah! protege nos!
Quam suaviter odores olent!
Humus dat amatos virescentes suos natos!

Rosa aperit nitores!
Huc, o zefiri, venite, levi pede volitate,
molles herbas ne caltate,
et languentes has fulcite.
Florum lusus comitantes, huc accedite,
mortales, Creatorem collaudantes!
Reverenter properate,
et ad plausus et choreas
corda vestra provocate.

Paolo Lorenzani (1640- 1713)

Paolo LORENZANI nacque a Roma il 5 gennaio 1640 da una famiglia di artisti (ottonai e medagliari). Il padre, Giovanni Antonio, era nativo di San Terenzo (Sarzana); la madre, Lorenza Baratta, apparteneva a una famiglia di scultori e pittori proveniente dalla vicina Monte Marcello. Mentre i fratelli Giovanni Andrea, Pietro e Giuliano proseguirono l'arte di ottonai nella bottega attiva in via dei Coronari, il L. si dedicò alla musica. Forse l'impulso venne da Pier Matteo Petrucci, che abitava nei pressi della loro casa ed era un apprezzato virtuoso di canto al servizio del duca di Bracciano Paolo Giordano Orsini. All'età di undici anni il L. fu assunto come puer cantus nella Cappella Giulia di S. Pietro in Vaticano, dove ebbe come maestro Orazio Benevoli (maggio 1651 - luglio 1655). L'amicizia del L. con Petrucci, rinsaldata dalle nozze del fratello maggiore Giovanni Andrea con Giovanna Petrucci (1659), mise in contatto i Lorenzani con gli Orsini (la bottega di famiglia fornì casa Orsini dal 1660 al 1668; cfr. i documenti citati in Bignami Odier), cioè con Flavio, nuovo duca dal 1660, e con Lelio Orsini, entrambi appassionati di musica e poesia. L'attività musicale del L. è documentata con continuità dal 1669. Dalla Congregazione dei musici di Roma, cui era ascritto, fu designato a comporre litanie, vespri e messe per varie chiese della città; dall'Arciconfraternita del Ss. Crocifisso fu incaricato di comporre un oratorio latino, eseguito in quella celebre sala il 27 febbr. 1671. Fino alla sua partenza da Roma abitò in via dei Coronari con i fratelli e nello Status animarum del 1670 è qualificato "musico". Nel 1672, succedendo a Vincenzo de Grandis, fu nominato maestro di cappella del Gesù e del Seminario romano; in quella veste compose intermedi per gli spettacoli del Seminario (resta il libretto di un intermedio, scritto da Mario Cevoli, letterato legato agli Orsini) e musiche a più cori per le feste religiose celebrate nel Gesù e nell'altra chiesa dei gesuiti, S. Ignazio. A quegli anni risale anche l'oratorio L'angelo custode, su poesia di Giovanni Filippo Apolloni. La sua affermazione è attestata dall'inserimento di suoi mottetti in importanti antologie pubblicate nel 1675 a Roma e a Bologna.

L'anno giubilare segnò una svolta nella sua vita: dopo mesi di intensa attività a Roma, con "musiche straordinarie" eseguite al Gesù (1° gennaio e 31 luglio) e a S. Ignazio (21 giugno e 4 agosto) e un oratorio latino sul Giudizio universale per il Ss. Crocifisso (15 marzo), partì in autunno per la Sicilia, dove era stato chiamato a dirigere la cappella della cattedrale di Messina da Louis-Victor de Rochechouart, duca di Vivonne, comandante delle milizie francesi che occupavano Messina per sostenerne la rivolta contro il dominio spagnolo.

Il rapporto con il duca di Vivonne era stato favorito dal suo patrono Flavio Orsini; questi aveva sposato nel febbraio 1675 Marie-Anne de La Trémoille dei marchesi di Noirmoutier, legandosi strettamente alla politica di Luigi XIV, che l'aveva nominato cavaliere dello Spirito Santo. Il duca di Vivonne, cui il L. rimarrà legato per anni, era fratello della celebre duchessa di Montespan Françoise-Athenaïs de Rochechouart, cui doveva, dopo una brillante carriera militare, la nomina regia a maresciallo di Francia. Intanto il duca teneva corte sontuosa a Messina, cosicché il L., oltre a messe e vespri per la cattedrale, compose intermedi, balletti, comédies-ballets e un'opera italiana (Il Coloandro), nonché solenni Te Deum quando gli avvenimenti militari erano fausti. Ma la reazione spagnola fu robusta e Vivonne fu richiamato in patria da Luigi XIV (1678), che inviò a Messina il generale F. d'Aubusson de La Feuillade per evacuare i Francesi dalla città. Anche il L. fu imbarcato e giunse a Tolone il 7 aprile di quell'anno. Nonostante il fallimento dell'impresa siciliana, Vivonne rimase a corte in stato di grazia e fu nominato primo gentiluomo di camera del re.

Corte di Luigi XIV

Con il suo appoggio, il L. fu introdotto alla presenza di Luigi XIV, che in agosto ebbe modo di apprezzare un suo mottetto tanto da farselo eseguire cinque volte e da donargli una cospicua somma di denaro (in Mercure galant: cfr. Nestola, p. 118). Il L. poté così acquistare per 9000 livres da J.-B. de Boësset la carica di "maître de musique de la reine" (contratto dell'8 giugno 1679) ed entrare al servizio della regina Maria Teresa d'Austria. Per i gusti della corte francese la presenza del L. era in aperta controtendenza rispetto alla linea imposta da G.-B. Lully fin dal 1666, quando, con l'appoggio di J.-B. Colbert, aveva persuaso Luigi XIV a bandire lo stile musicale italiano: il L. rappresentò l'ultimo serio ostacolo al trionfo del progetto lulliano. Sta di fatto che a Versailles ci fu un risveglio d'interesse per la musica italiana, testimoniato in modo eloquente dall'ampia presentazione della vita e delle qualità del L. ("grand musicien") che il Mercure galant di Jean Donneau de Visé rese note in un articolo del maggio 1679. In esso si parla di musiche composte dal L. in quei mesi: una "quantité d'airs qui ont extremement plu" e un "beau menuet" che fu danzato alla corte "pendant tout l'hyver" (in Nestola, p. 127). In giugno Luigi XIV inviò il L. in Italia per ingaggiare "les meilleurs musiciens qu'il pourra trouver", per la specifica ragione che "la langue italienne a une je ne sçay quelle délicatesse qui s'accommode admirablement à la musique" (ibid., p. 128). Il L. assunse cinque castrati, voci del tutto assenti nella musica francese.

Il Mercure galant parla pure delle onorevoli accoglienze fatte dappertutto al L. durante il suo viaggio di ritorno, soprattutto a Torino, dove la reggente Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours gli donò un diamante. Il resoconto del periodico suggerisce che il L. sia andato a Roma, dove certo conosceva molti virtuosi. Appare perciò probabile che abbia condotto con sé una gentildonna amante di poesia, rinomata cantante, la baronessa Anna Rosalia Carusi, ben affermata a Roma con il patrocinio del connestabile Lorenzo Onofrio Colonna e del duca Giovan Pietro Caffarelli (che come "guardiano" dell'Arciconfraternita del Ss. Crocifisso aveva forse favorito l'attività del L. in quella sala fino al 1675). Il nome della Carusi apparirà più volte nelle stesse cronache del Mercure galant in cui si parla del Lorenzani. Il soggiorno a Torino deve essere durato almeno un mese, giacché il periodico parla di musiche sacre e da camera del L. eseguite con successo in quella città.... »

(Articolo completo di Saverio Franchi - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 65 (2005) in www.treccani.it)


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

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Ugo Brusaporco

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UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k